Dialoghi d'amore/III De l'origine d'amore, Dialogo terzo
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | II De la comunità d'amore, Dialogo secondo | Appendice | ► |
FILONE e SOFIA
DE L’ORIGINE D’AMORE
DIALOGO TERZO
Filone. Chi mi chiama?
Sofia. Non passar cosí in fretta: ascolta un poco.
Filone. Tu sei qui, o Sofia? Non ti vedevo: inavvertentemente trapassavo.
Sofia. Dove vai con tanta attenzione, che non parli né odi né vedi i circunstanti amici?
Filone. Andavo per alcuni bisogni della parte che men vale.
Sofia. Men vale? non debbe in te valer poco quel che priva de’ tuoi occhi aperti il vedere e di tue orecchie non chiuse l’odire.
Filone. Giá in me quella parte non val piú che in un altro, né da me piú del dovere si stima, né i bisogni presenti son di tanta importanzia che possino talmente astraere l’animo mio: sí che di mia alienazione non son cause (come pensi) le cose per le quali andavo.
Sofia. Di’ dunque la causa di queste tue occupazioni.
Filone. La mente mia fastidita dai negozi mondani e necessitá di sí bassi esercizi, per refugio in se medesima si raccoglie.
Sofia. A che fare?
Filone. Il fine e oggetto de’ miei pensieri tu ’l sai.
Sofia. S’io ’l sapessi, non tel domandaria; poi ch’il domando, nol debbo sapere.
Filone. Se tu nol sai, sapere il doveresti.
Sofia. Perché?
Filone. Però che quello che conosce la causa conoscer deve l’effetto.
Sofia. E come sai ch’io conoschi la causa di tue meditazioni?
Filone. So che te stessa piú che altrui conosci.
Sofia. Se bene io mi conosco, ancorché non cosí perfettamente come vorrei, non però conosco ch’io sia causa de [le] tue astratte fantasie.
Filone. Usanza è di voi altre belle amate, conoscendo la passione degli amanti, mostrar di non conoscerla: ma cosí come sei più bella e generosa che l’altre, vorrei che fusse piú verace ancora, e poi che il proprio è d’esser senza macula, che la comune usanza in te non causasse difetto.
Sofia. Giá veggo, o Filone, che non trovi altro espediente per fuggire le mie accusazioni, se non recusandomi. Lassiamo stare s’io ho notizia de le tue passioni o no: dimmi pur chiaro, che ti faceva ora cosí cogitabundo?
Filone. Poi che ti piace ch’io esprima quel che tu sai, ti dico che la mente mia, ritirata a contemplar, come suole, quella formata in te bellezza, e in lei per immagine impressa e sempre desiderata, m’ha fatto lassare i sensi esteriori.
Sofia. Ah ah, rider mi fai! Come si può con tanta efficacia imprimere ne la mente quel che, stando presente, per gli occhi aperti non può intrare?
Filone. Tu dici il vero, o Sofia: ché, se la splendida bellezza tua non mi fusse intrata per gli occhi, non me ne arebbe possuto trapassar tanto, come fece, il senso e la fantasia, e penetrando sino al cuore non aría pigliata per eterna abitazione (come pigliò) la mente mia, impiendola di scultura di tua immagine; ché cosí presto non trapassano i raggi del sole i corpi celesti o gli elementi che son di sotto fino a la terra, quanto in me fece l’effigie di tua bellezza, fin a ponersi nel centro del cuore e nel cuore de la mente.
Sofia. Se fusse vero quel che tu dici, tanto sarebbe di maggior ammirazione che, essendo io stata sí intima del tuo animo e patrona del tutto, che ora a gran pena mi sieno aperte le porte tue del vedermi e udirmi.
Filone. E s’io dormissi, m’accusaresti tu?
Sofia. Non, perch’il sonno ti scusarebbe, che suole i sentimenti levare.
Filone. Non men mi scusa la causa che me gli ha tolti.
Sofia. Che cosa li potria levare, come’l sonno, che è mezza morte?
Filone. L’estasi, ovvero alienazione, causata da l’amorosa meditazione, che è piú di mezza morte.
Sofia. Come può la cogitazione astraere piú l’uomo de’ sensi che ’l sonno, che getta per terra come corpo senza vita?
Filone. Il sonno piú presto causa vita, che la toglia: qual non fa l’estasi amorosa.
Sofia. A che modo?
Filone. Il sonno in due modi ne ristora, e a due fini è da la natura produtto: l’uno per far quietar l’instrumento de’ sensi e movimenti esteriori e recreare i spiriti che esercitano loro operazioni, acciò che non si risolvino e consumino per le continue fatiche de la vigilia; e l’altro per potersi servire de la natura de’ lor spiriti e calor naturale ne la digestione del cibo, che per farla perfettamente induce il sonno per il desistere de’ sensi e movimenti esteriori, attraendo i spiriti a l’interior del corpo per occuparsi con tutti insieme ne la nutrizione e ristorazione de l’animale: e ch’el sia cosí vedi i cieli, perché non mangiano e non si affaticano de’ suoi continui movimenti, son sempre vigilanti né mai dormeno, sí che ’l sonno negli animali è piú presto causa di vita che simiglianza di morte. Ma l’alienazione fatta per la meditazione amorosa è con privazione di senso e movimento, non naturale ma violento; né in questa i sensi riposano né il corpo si ristora, anzi s’impedisce la digestione e la persona si consuma, sí che, se ’l sonno mi scusaria di non averti parlato e visto, molto piú mi debbe scusare l’alienazione ed estasi amorosa.
Sofia. Vuoi che ’l vigilante, che pensa, dorma piú che quel che dorme? Filone. Voglio che senta manco che quel che dorme: ché, non men che nel sonno, si ritirano ne l’estasi i spiriti dentro e lassano i sensi senza sentimento e i membri senza movimento, perché la mente si raccoglie in se stessa a contemplare in uno oggetto sí intimo e desiderato, che tutta l’occupa e aliena, come ora ha fatto in me la contemplazione di tua formosa immagine, dea del mio desiderio.
Sofia. Strano mi pare che facci il pensiero quella stupefazione, che suol fare il profondo sonno: ch’io veggo che noi pensando possiam parlare, odire e muoversi, anzi senza pensare non si posson fare quest’opere perfettamente e ordinatamente.
Filone. La mente è quella che governa i sentimenti e ordina i movimenti voluntari degli uomini: onde per far questo offizio bisogna che esca de l’interior del corpo a le parti esteriori, a trovare l’instrumenti per fare tali opere e per approssimarsi agli oggetti de’ sensi che stanno di fuora, e allor pensando si può vedere, odire e parlare senza impedimento. Ma quando la mente se raccoglie dentro se medesima per contemplare con somma efficacia e unione una cosa amata, fugge da le parti esteriori, e abbandonando i sensi e movimenti, si ritira con la maggior parte de le sue virtú e spiriti in quella meditazione, senza lassare nel corpo altra virtú che quella senza la quale non potrebbe sustentarsi la vita, cioè la vitale del continuo movimento del cuore e anelito degli spiriti per l’arterie, per attraere di fuore l’aere fresco e per scacciare el giá focato di dentro; questo solamente resta, con qualche poco de la virtú notritiva, perché la maggior parte di quella ne le profonda cogitazione è impedita, e perciò poco cibo longo tempo i contemplatori sostiene. E cosí come nel sonno, facendosi forte con virtú notritiva, arrobba, priva e occupa la retta cogitazione de la mente, perturbando la fantasia per l’ascensione de’ vapori al cerebro del cibo che si cuoce, quali causano le varie e inordinate sonniazioni, cosí l’intima ed efficace cogitazione arrobba e occupa il sonno, nutrimento e digestione del cibo.
Sofia. Da una parte mi fai simili il sonno e la contemplazione, però che l’uno e l’altro abbandonano i sensi e movimenti e attraeno dentro li spiriti; e da l’altra parte gli fai contrari, dicendo che l’uno priva e occupa l’altro.
Filone. Cosí è in effetto, perché in alcune cose son simili e in alcune altre dissimili. Son simili in quel che lassano, e dissimili in quel che acquistano.
Sofia. A che modo?
Filone. Perché egualmente il sonno e la contemplazione abbandonano e privano il senso e movimento; ma il sonno l’abbandona facendo forte la virtú notritiva, e la contemplazione l’abbandona facendo forte la virtú cogitativa. Ancora sono simili, perché tutti due ritirano lo spirito da l’esteriore a l’interiore del corpo; e son dissimili, perché il sonno gli ritira a la parte inferiore del corpo sotto il petto, cioè al ventre, dove sono i membri de la nutrizione (stomaco, fegato, intestini e altri), perché ivi attendano a la decozione del cibo per il nutrimento; e la contemplazione gli ritira a la parte piú alta del corpo, che è disopra al petto, cioè al cerebro, che è seggio de la virtú cogitativa e abitaculo de la mente, per far ivi la meditazione perfetta. Ancora, l’intenzione del bisogno del ritirar i spiriti è diversa in loro, perché il sonno gli ritira dentro, per ritirar con loro il calor naturale, de la copia del quale ha bisogno per la digestione che si fa nel sonno: ma la contemplazione gli ritira, non per ritirar il calore, ma per ritirar tutte le virtú de l’anima, e unirsi l’anima tutta e farsi forte per contemplar bene in quel desiderio. Essendo adunque tanta diversitá fra il sonno e la contemplazione, con ragione l’una arrobba e occupa l’altro. Ma nel perdimento de’ sensi e movimento la contemplazione è uguale al sonno, e forse che gli priva con maggior violenza e forza.
Sofia. Non mi par giá che ’l cogitabondo perda i sensi come quel che dorme; e tu non mi negherai che a l’amante ne l’estasi non resti la cogitazione e pensamento in gran forza, essendo annessi a’ sensi, e a quel che dorme non resti di questo cosa alcuna, ma solamente la nutrizione, che non ha che fare con li sensi, ché si truova ancor ne le piante.
Filone. Se ben considererai, troverai il contrario: ché nel sonno, benché si perdano i sensi del vedere, odire, gustare e odorare, non si perde però il senso del tatto; ché, dormendo, si sente freddo e caldo; ancor resta la fantasia in molte cose, e, se bene è inordenata in sue sonniazioni, il piú de le volte sono de le passioni presenti. Ma ne la trasportazione contemplativa si perde ancor, con gli altri sensi, il sentimento del freddo e del caldo; e cosí [si] perde la cogitazione e fantasia di ogni cosa, escetto di quella che si contempla. Ancor questa sola meditazione, che resta al contemplativo amante, non è di sé, ma della persona amata; né lui, esercitando tal meditazione, sta in sé, ma fuor di sé in quel che contempla e desidera. Ché, quando l’amante è in estasi, contemplando in quel che ama, nissuna cura o memoria ha di se stesso, né in suo benefizio fa alcuna opera naturale, sensitiva, motiva o ver razionale; anzi in tutto è di se stesso alieno e proprio di quel che ama e contempla, nel qual totalmente si converte. Ché l’essenzia de l’anima è suo proprio atto; e, se s’unisce per contemplare intimamente un oggetto, in quello sua essenzia si trasporta e quello è sua propria sustanzia, e non è piú anima ed essenzia di quel che ama, ma sol spezie attuale de la persona amata. Sí che molto maggiore astrazione è quella de l’alienazione amorosa che quella del sonno. Con qual ragione adunque mi puoi accusare, o Sofia, di non vederti o parlarti?
Sofia. Non si può negare che ognora non si vegga che l’efficace contemplazione de la mente suole occupare i sentimenti; ma io vorrei sapere la ragione piú chiaramente. Dimmi adunque: perché, pensando tanto intimamente quanto si voglia, non restano i sentimenti ne le sue operazioni? Ché la mente per contemplare non ha bisogno di servirsi de la retraizione de’ sensi, poi che non hanno che fare ne la sua opera; né manco gli bisogna la copia del calor naturale, come ne la decozione del cibo; né ha necessitá degli spiriti che serveno a’ sensi, però che la mente non opera mediante i spiriti corporali, per essere incorporea. Che bisogno ha adunque la meditazione del perdimento de’ sensi, e perché gli priva o gli ritira e raccoglie?
Filone. L’anima è in sé una e indivisibile; ma estendendosi virtualmente per tutto il corpo e dilatandosi per le sue parti esteriori fino a la superficie, si dirama per certe operazioni, pertinenti al senso e movimento e notrizione mediante diversi instrumenti, e in molte e diverse virtú si divide: come interviene al sole, il quale, essendo uno, si divide e multiplica per la dilatazione e multiplicazione de’ suoi raggi, secondo il numero e diversitá de’ luoghi [a] che s’applicano. Quando adunque la mente spirituale (che è cuore di nostro cuore e anima di nostra anima) per forza di desiderio si ritira in se stessa a contemplare in uno intimo e desiderato oggetto, raccoglie a sé tutta l’anima, tutta restringendosi in una indivisibile unitá; e con essa si ritirano i spiriti, sebbene non li opera, e si raccolgono in mezzo de la testa, ove è la cogitazione, o al centro del cuore, ove è il desiderio, lasciando gli occhi senza vista, l’orecchie senz’audito, e cosí gli altri instrumenti senza sentimento e movimento; e ancor i membri interiori de la notrizione s’allentano da la loro continua e necessaria opera de la digestione e distribuzione del cibo: sol comanda il corpo umano a la virtú vitale del cuore, la quale t’ho detto che è guardiano uniforme de la vita. La qual virtú è mezza, in luogo e dignitá, de le virtú del corpo umano e legatrice de la parte superiore con l’inferiore.
Sofia. A che modo è la virtú vitale legame, e secondo luogo e dignitá, de le parti superiori e inferiori de l’uomo?
Filone. Il luogo de la virtú vitale è nel cuore, che sta nel petto, che è mezzo fra la parte inferiore de l’uomo, che è il ventre, e la parte superiore, che è la testa; e cosí è mezzo tra la parte inferiore notritiva, che è nel ventre, e la superiore conoscitiva, che è ne la testa. Onde per mezzo suo queste due parti e virtú si collegano ne l’essere umano; sí che, se ’l vinculo di questa virtú non fusse nostra mente e anima, nelle affettuosissime contemplazioni dal nostro corpo si dilacceria e la mente volaria da noi talmente, che ’l corpo privo de l’anime resterebbe.
Sofia. Saria possibile ne le tali contemplazioni tanto elevar la mente, che retirasse seco ancora questo vincolo de la vita?
Filone. Cosí pungitivo potrebbe essere il desiderio e tanto intima la contemplazione, che del tutto discarcasse e retirasse l’anima dal corpo, resolvendosi i spiriti per la forte e ristretta loro unione in modo che, afferrandosi l’anima affettuosamente col desiderato e contemplato oggetto, potria prestamente lassare il corpo esanimato del tutto.
Sofia. Dolce sarebbe tal morte.
Filone. Tale è stata la morte de’ nostri beati, che, contemplando con sommo desiderio la bellezza divina, convertendo tutta l’anima in quella, abbandonorno il corpo; onde la sacra Scrittura, parlando della morte de’ dui santi pastori Moisé e Aron, disse che morirono per bocca di Dio, e li sapienti metaforicamente declarano che morirne baciando la divinitá, cioè rapiti da l’amorosa contemplazione e unione divina, secondo hai inteso.
Sofia. Gran cosa mi pare che l’anima nostra possa con tanta facilitá volare a le cose corporali, e ancora ritrarse tutta insieme a le cose spirituali, e che essendo una e indivisibile, come dici, che possa volare fra cose sommamente contrarie e distanti, come sono le corporali da le spirituali. Vorrei che mi spianassi, o Filone, qualche ragione con che meglio mia mente questo mirabil volteggiare de l’anima nostra potessi intendere. E dimmi con che artificio lassa e piglia i sensi, insiste e desiste dalla contemplazione sempre che li piace, come detto m’hai.
Filone. In questo l’anima è inferiore a l’intelletto astratto, perché l’intelletto è in tutto uniforme, senza movimento d’una cosa in altra né di sé a cose aliene; però l’anima, che è inferiore a lui (perché da lui dipende), non è uniforme, anzi per esser mezzo fra il mondo intellettuale e il corporeo (dico mezzo e vinculo, con quale l’uno con l’altro si collega), bisogna che abbi una natura mista d’intelligenzia spirituale e mutazion corporea, altramente non potrebbe animar i corpi. Però interviene che molte volte esce de la sua intelligenzia a le cose corporali, per occuparsi ne la sustentazione del corpo con le virtú notritive, e ancora per riconoscere le cose esteriori necessarie a la vita e a la cogitazione, mediante la virtú e opere sensitive; pur qualche volta si ritira in sé e torna ne la sua intelligenzia, e si collega e unisce con l’intelletto astratto suo antecessore, e di lí esce ancora al corporeo, e di poi ritorna a l’intellettuale, secondo sue occurrenti inclinazioni. E però diceva Platone che l’anima è composta di sé e d’altro, d’indivisibile e divisibile, e dice che è numero se medesimo movente: vuol dire che non è d’uniforme natura, com’è il puro intelletto, anzi di numero di nature: non è corporale né spirituale, e si muove d’una ne l’altra continuamente. E dice che ’l suo moto è circulare e continuo, non perché si muova di luogo a luogo corporalmente, anzi spiritualmente e operativamente si muove di sé in sé, cioè di sua natura spirituale in sua natura corporea, tornando di poi in quella sempre circularmente.
Sofia. Mi par quasi intendere questa differenzia che fai ne la natura de l’anima; ma, se trovassi qualche buono essemplo per meglio acquietarmi l’animo, sarebbemi grato.
Filone. Qual miglior essemplo che quel de’ dui principi celesti, che l’immenso creatore fece simulacro de l’intelletto e de l’anima?
Sofia. Quali sono?
Filone. I due luminari: il grande, che fa il giorno, e il piccolo, che deserve a la notte.
Sofia. Vòi dire il sole e la luna?
Filone. Quelli.
Sofia. Che hanno da fare con l’intelletto e l’anima?
Filone. Il sole è simulacro de l’intelletto divino, dal quale ogni intelletto depende; e la luna è simulacro de l’anima del mondo, da la quale ogni anima procede.
Sofia. A che modo?
Filone. Tu sai che ’l mondo creato si divide in corporale e spirituale, cioè incorporeo.
Sofia. Questo so.
Filone. E sai che ’l mondo corporeo è sensibile, e l’incorporeo intelligibile?
Sofia. Ancor questo so.
Filone. E dèi sapere che fra li cinque sensi solo il viso oculare è quello che fa tutto il mondo corporeo esser sensibile, sí come il vedere intellettuale fa essere l’incorporeo intelligibile.
Sofia. E gli altri quattro sensi, audito tatto sapore e odore, perché sono adunque?
Filone. Il viso è solo il conoscitivo di tutti i corpi; l’audito aiuta a la cognizione de le cose, non pigliandola de le medesime cose come l’occhio, ma pigliandola da altro conoscente mediante la lingua, la quale o l’ha conosciute per il viso ovvero intese da quel che ha veduto: in modo che l’antecessore de l’audito è il viso, e comunemente l’orecchia suppone l’occhio, come origine principale a l’intellettual cognizione. Gli altri tre sensi son tutti corporali, fatti piú presto per conoscimento e uso de le cose necessarie a la sostentazione de l’animale, che per la cognizione intellettuale.
Sofia. Ancora il viso e l’audito hanno gli animali, che non hanno intelletto.
Filone. Sí che l’hanno, perché ancora a loro gli bisognano per sostentazione del corpo; ma ne l’uomo, oltra a l’utilitá che fanno al suo sostenimento, son propriamente necessari a la cognizione de la mente: però che per le cose corporee si conoscono l’incorporee, le quali l’anima piglia da l’audito per informazione d’altrui e dal viso per propria cognizione de’ corpi.
Sofia. Questo ho bene inteso; di’ piú oltre.
Filone. Nissun di questi dui visi, corporale e intellettuale, può vedere senza luce che l’illumini; e il viso corporale e oculare non può vedere senza la luce del sole che illumina l’occhio e l’oggetto, sia d’aere o d’acqua o d’altro corpo transparente o diafano.
Sofia. Il fuoco e le cose lucenti ancora ne illuminano e fanno vedere?
Filone. Sí, ma imperfettamente tanto quanto esse participano de la luce del sole, che è il primo lucido, senza la quale da lui immediate avuta, ovvero in altra per abito e forma participata, l’occhio mai potria vedere. Cosí il viso intellettuale mai potrebbe vedere e intendere le cose e ragioni incorporee e universali, s’el non fusse illuminato da l’intelletto divino: e non solamente lui, ma ancora le spezie che son ne la fantasia (da le quali la virtú intellettiva piglia l’intellettuale cognizione), s’illuminano de le eterne spezie che son ne l’intelletto divino, quali sono esemplari di tutte le cose create, e preesisteno nell’intelletto divino al modo che preesisteno le spezie esemplari de le cose artificiate ne la mente de l’artefice, quali son la medesima arte (e queste spezie sole chiama Platone idee); talmente che il viso intellettuale e l’oggetto e ancora il mezzo de l’atto intelligibile tutto è illuminato da l’intelletto divino, sí come dal sole il corporeo viso con l’oggetto e mezzo. È manifesto adunque che ’l sole nel mondo corporeo visibile è simulacro de l’intelletto divino nel mondo intellettuale.
Sofia. Mi piace la simiglianza del sole al divino intelletto; e ben che la vera luce sia quella del sole, ancora l’influenzia de l’intelletto divino con buona similitudine si può chiamar luce, come tu chiami.
Filone. Anzi con piú ragione si chiama e piú veramente è luce questa de l’intelletto che quella del sole.
Sofia. Perché piú vera?
Filone. Cosí come la virtú intellettiva è piú eccellente e ha piú perfetta e vera cognizione che la visiva, cosí la luce che l’illumina è piú perfetta e verace luce che quella del sole, che illumina l’occhio; e piú ti dirò, che la luce del sole non è corpo né passione, qualitá o accidente di corpo, come alcuni bassi filosofanti credono, anzi non è altro che ombra de la luce intellettuale, ovvero splendore di quella nel corpo piú nobile. Onde il savio profeta Moisé del principio de la creazion del mondo disse che, essendo tutte le cose un caos tenebroso a modo d’uno abisso d’acqua oscuro, il spirito di Dio adspirando ne l’acque del caos produsse la luce: vuol dire che del lucido intelletto divino fu produtta la luce visiva nel primo giorno de la creazione, e nel quarto dí fu applicata al sole a la luna e a le stelle.
Sofia. Dimmi, pregoti, come può essere che la luce de’ corpi sia cosí incorporea e quasi intellettuale? e se è corporea, come potrai negare che non sia o corpo ovvero qualitá o accidente di corpo?
Filone. La luce nel sole non è accidente, ma forma spirituale sua, dependente e formata da luce intellettuale e divina; ne l’altre stelle è ancora formale, ma principiata dal sole e più infima; e corporalmente è participata, come forma, nel fuoco [e nei] corpi lucidi del mondo inferiore: ma ne’ corpi diafani transparenti, come è aere e acqua, si rappresenta la luce de l’illuminante come atto separabile spirituale, e non corporeo a modo di qualitá o passione, e il diafano è solamente veicolo de la luce ma non suggetto di quella.
Sofia. Perché no?
Filone. Però che, se la luce nel diafano fusse qualitá in suggetto, averebbe le condizioni di quella, che son sei: e prima perché si dilataria per tutto il suggetto, una parte dopo l’altra, ma la luce subitamente per tutto il diafano penetra. Seconda, che la qualitá adveniente muta la natural disposizione del suggetto, ma la luce nissuna mutazione fa nel diafano. La terza, perché la qualitá si stende al limitato spazio: ma la luce si stende per il diafano senza limite né misura. Quarta perché, remoto il formatore della qualitá, sempre resta per alcun tempo qualche impressione di quella nel suggetto, come il color de l’acqua di poi che è separata dal fuoco: ma, remoto l’illuminante, niente de la luce resta nel diafano. Quinta, perché la qualitá si muove col suo suggetto: ma [non] la luce, in quanto l’illuminante non si muove a lei per il movimento de l’aere o de l’acqua in che sta. Sesta, che le molte qualitá d’una spezie in un suggetto si confondano e mescolano ovvero si componeno in uno: ma molti lumi non si componeno in uno (vedrai che, se cammini a due lucerne, fanno due ombre, e se a piú, piú ombre fanno; ancora, se tre o ver piú lucerne si pongono ad uno pertuso piccolo da diverse parti, vedrai che metton per il pertuso tre luci opposite). Tutte queste cose ne mostrano che ’l lume nel diafano, ovvero nel corpo illuminante, non è qualitá o passion corporea, anzi un atto spirituale attuante il diafano per representazione de l’illuminante e separabile per la remozion di quello: e non altrimenti il lume assiste al diafano che l’intelletto ovvero l’anima intellettiva al corpo, che ha con lei colligazione esistente, ovvero essenziale, ma non mistibile; onde non si muta per la mutazione del corpo, né si corrompe per la corruzione di quello. Sí che la vera luce è l’intellettuale, la quale illumina essenzialmente il mondo corporeo e incorporeo, e ne l’uomo dá luce a l’anima, o visione intellettiva, da la quale luce deriva la luce del sole, che formalmente e attualmente illumina il mondo corporeo, e ne l’uomo dá luce a la visione oculare per poter comprendere tutti i corpi: non solamente quelli del mondo inferiore de la generazione (come fanno ancora gli altri sensi), ma ancora i corpi divini ed eterni del mondo celeste, il quale principalmente causa ne l’uomo la cognizione intellettiva de le cose incorporee; ché, per vedere le stelle e i cieli sempre in movimento, veniamo a conoscere i motori loro essere intellettuali e incorporei, e la sapienzia e potenzia de l’universal creatore e opifice loro, come dice David: «Quando vedo i cieli tuoi opera de le tue mani», et cetera.
Sofia. Molto piú eccellente fai il viso che tutti gli altri sensi insieme: nondimeno gli altri, massimamente il tatto e il gusto, veggo che son piú necessari a la vita de l’uomo.
Filone. Son piú necessari a la vita corporea, e il viso a la vita spirituale de l’intelligenzia, e però è piú eccellente ne l’instrumento, ne l’oggetto, nel mezzo e ne l’atto.
Sofia. Dichiarami queste quattro intelligenzie.
Filone. Il strumento tu il vedi quanto è piú chiaro, piú spirituale e artifiziato che l’istrumenti degli altri sensi: ché gli occhi non si simigliano a l’altre parti del corpo, non son carnali ma lucidi, diafani e spirituali, paiono stelle, e in bellezza tutte l’altre parti del corpo escedono. L’artificio loro conoscerai ne la composizione de le sue sette umiditá, ovvero tuniche, quale è mirabile piú che di nissuno altro membro, ovvero strumento. L’oggetto del viso è tutto il mondo corporeo, cosí celeste come inferiore: gli altri sensi solamente parte del mondo inferiore imperfettamente posson comprendere. Il mezzo degli altri sensi è o carne, come nel tatto, o vapore, come ne l’odore, o umiditá, come nel sapore, o aere che si move, come ne l’audito. Ma il mezzo del viso è il lucido spiritual diafano, cioè aere illuminato da la celestial luce, la qual escede in bellezza tutte l’altre parti del mondo, come l’occhio escede tutte l’altre parti del corpo animale. L’atto degli altri sensi s’estende in poche cose de’ corpi che comprendono: l’odore sente solamente i pungimenti de’ vapori, e il sapore i pungimenti de l’umiditá del cibo e poto; il tatto i pungimenti de le qualitá passive con qualche poco di sentimento comune materialmente e imperfettamente: in modo che le spezie di questi tre sensi son pur passioni e pungimenti propinqui. L’audito, se bene è piú spirituale e lontano, pur solamente sente i colpi gravi e acuti de l’aere, mosso per la percussione de l’un corpo ne l’altro, e questo in breve distanzia; e sue spezie son molto miste con la passione percussiva e con il moto corporeo. Ma l’occhio vede le cose che son ne l’ultima circunferenzia del mondo e ne’ primi cieli, e tutti i corpi lontani e prossimi mediante la luce comprende, e apprende tutte le lor spezie senza passione alcuna; conosce sue distanzie, suoi colori, sue situazioni, suoi movimenti, e ogni cosa di questo mondo con molte e particulari differenzie, come se l’occhio fusse un spione de l’intelletto e di tutte le cose intelligibili: onde Aristotile dice che noi amiamo piú il senso del viso che gli altri sensi, però che quel ne fa piú conoscitivi che tutti gli altri. Adunque cosí come ne l’uomo (che è piccol mondo) l’occhio, fra tutte le sue parti corporee, è come l’intelletto fra tutte le virtú de l’anima, simulacro e seguace di quella, cosí nel gran mondo il sole fra tutti i corporali è come l’intelletto divino fra tutti gli spirituali, suo simulacro e suo vero seguace. E cosí come la luce e visione de l’occhio de l’uomo è dependente e deserviente, con molte sue differenzie, de la luce intellettuale e sua visione, cosí la luce del sole depende e deserve a la prima e vera luce de l’intelletto divino: sí che ben puoi credere che ’l sole è vero simulacro de l’intelletto divino e sopra tutto gli assimiglia ne la bellezza. Cosí come la somma bellezza consiste ne l’intelletto divino, nel quale l’universo è bellissimamente figurato, cosí nel mondo corporeo quella del sole è la somma bellezza, che tutto l’universo fa bello e lucido.
Sofia. Vero simulacro è il sole de l’intelletto divino, e cosí l’occhio de l’intelletto umano, come hai detto. E veramente gran simiglianza hanno l’intelletto umano e l’occhio corporeo con l’intelletto divino e col sole. Ma una dissimiglianza mi pare fra il nostro occhio e il sole, che non è fra l’intelletto nostro e il divino: conciosiaché il nostro assimigli al divino in ciò che ognun di loro vede e illumina, che cosí come il divino non solamente intende tutte le spezie de le cose che sono in lui, ma ancora illumina tutti gli altri intelletti con le sue lucide ed eterne idee ovvero spezie, cosí il nostro intelletto non solamente intende le spezie di tutte le cose, ma ancora illumina tutte l’altre virtú conoscitive de l’uomo, accioché, se ben la lor cognizione è particulare e materiale, sia diretta da l’intelletto non bestiale, come negli altri animali; e però non sono cosí simili l’occhio e il sole, ché l’occhio vede e non illumina e il sole illumina e non vede.
Filone. Forse in questo non son dissimili, che ’l nostro occhio non solamente vede con la illuminazione universale del diafano, ma ancora con l’illuminazione particulare de’ raggi lucidi, che sagliono del medesimo occhio fino all’oggetto; quali soli non son sufficienti a illuminare il mezzo e l’oggetto, nondimeno senza quelli la luce universale non basterebbe a fare attuale la visione.
Sofia. Credi tu dunque che l’occhio veda mandando i raggi suoi ne l’oggetto?
Filone. Sí ch’io il credo.
Sofia. Giá in questo non sei tu peripatetico; ché Aristotile il reproba e tiene che quella visione si facci per representazione della spezie de l’oggetto ne la pupilla de l’occhio e non mandando i raggi, come dice Platone.
Filone. Aristotile non dimostrò contra Platone; perch’io tengo che ne l’atto visivo tutte due le cose sieno necessarie, cosí la missiva de’ raggi de l’occhio ad apprendere e illuminare l’oggetto, come la rappresentazione de le spezie de l’oggetto ne la visione. E ancora questi dui moti contrari non bastano a la visione, senza altro terzo e ultimo, che è [de] l’occhio mediante i raggi sopra l’oggetto, secondariamente a conformare la spezie de l’oggetto impressa con l’oggetto esteriore; e in questo terzo atto consiste la perfetta ragione de la visione.
Sofia. Nova mi pare questa tua oppinione.
Filone. Anzi antiqua quanto la propria veritá. E quel ch’io voglio mostrarti è che l’occhio non solamente vede, ma ancora prima illumina ciò che vede; sí che consequentemente non credere solo che il sole illumini senza che esso veda, che di tutti i sensi nel cielo solamente quello del viso si stima che vi sia, molto piú perfettamente che ne l’uomo né in altro animale.
Sofia. Come! i cieli veggono come noi?
Filone. Meglio di noi.
Sofia. Hanno occhi?
Filone. E quali miglior occhi che ’l sole e le stelle, che ne la sacra Scrittura si chiamano occhi di Dio per la loro visione? Dice il profeta per li sette pianeti: «Quelli sette occhi di Dio che si stendano per tutta la terra»; e un’altro profeta dice, per il cielo stellato, che è suo corpo e pieno d’occhi; il sole chiamano occhio, e dicono «occhio del sole». Questi occhi celesti tanto quanto illuminano tanto veggono, e mediante il viso comprendono e conoscono tutte le cose del mondo corporeo e le mutazioni loro.
Sofia. E se non hanno che ’l viso, come possono comprendere le cose degli altri sensi?
Filone. Quelle cose che consistono in pura passione non le comprendono in quel modo; onde non sentono i sapori per gusto né la qualitá per atto né per odore i vapori. Ma come che quelli celesti sieno cause de le nature e qualitá degli elementi (da’ quali tal cose derivano), preconosceno causalmente tutte quelle cose, e ancor per il viso comprendono le cose che fanno tal’ passioni ed effetti.
Sofia. E de l’audito che dirai? odeno?
Filone. Non per proprio istrumento, ché solamente hanno quel del viso, ma vedendo i movimenti de’ corpo e de’ labri, lingua ed altri istrumenti de le voci, comprendono loro significati; come vedrai che fanno molti uomini nel veder sagaci, che vedendo il movimento de’ labri e bocca, senz’udir le voci, comprendono quel che si parla. Quanto piú potrá fare la vista de le prandi stelle e chiare, e massimamente quella del sole? ché io stimo che con quella sola tutti i corpi del mondo e ancor l’opaca terra penetri, come si vede per il calor naturale che porge il sole fino al centro de la terra; e cosí tutte le cose qualitá passioni e arti del mondo corporeo sottilissimamente e perfettissimamente con la sola virtú visiva comprende. Sí che come nostro intelletto s’assomiglia a l’intelletto divino nel vedere e illuminare egualmente, e cosí come nostro occhio s’assomiglia al nostro intelletto in due cose, visione e lume, cosí il sole s’assomiglia a l’intelletto divino nel vedere e illuminare le cose.
Sofia. Assai m’hai detto de la somiglianza del sole a l’intelletto divino: dimmi qualche cosa de la somiglianza che dici che la luna ha a l’anima del mondo.
Filone. Cosí come l’anima è mezzo tra l’intelletto e il corpo, ed è fatta e composta de la stabilitá e unitá intellettuale e de la diversitá e mutazion corporea, cosí la luna è mezzo fra il sole (simulacro de l’intelletto) e la corporea terra, ed è cosí fatta composta de la unica stabile luce solare e de la diversa e mutabil tenebrositá terrestre.
Sofia. T’ho inteso.
Filone. Se m’hai inteso, dichiara quel che ho detto.
Sofia. Che la luna sia mezzo fra il sole e la terra è manifesto, perché la stanzia sua è di sotto al sole e si trova disopra la terra: è in mezzo di tutti due, massimamente secondo gli antichi, che hanno detto che il sole è immediate sopra la luna. Ancor, che la composizion de la luna sia di luce solare e di tenebrositá terrestre, si mostra per le oscure macule che paiono in mezzo de la luna quando è di luce piena, in modo che sua luce è mista di tenebrositá.
Filone. Hai inteso una parte di ciò che ho detto, e la piú piana: la principal ti manca.
Sofia. Dichiara adunque il resto.
Filone. Oltra quello che hai detto, la medesima luce de la luna, o lume, per esser lenta nel suo risplendere è mezza fra la chiara luce del sole e la tenebrositá terrestre; ancora, essa propria luna è composta sempre di luce e tenebre, perché sempre, escetto quando si trova eclissata, ha la metá di sé illuminata dal sole e l’altra metá tenebrosa. E giá ti potrei dire in questa composizione gran particularitá de la simiglianza de la luna a l’anima (come suo vero simulacro), se io non temessi d’essere prolisso.
Sofia. Dimmel, ti prego, in ogni modo, perché non mi resti questa cosa imperfetta, ché mi piace la materia e da altri non mi ricordo averla intesa. La giornata è ben grande tanto, che basterá per tutto.
Filone. La luna è tonda a modo d’una palla, e sempre, se non è eclissata, riceve la luce del sole ne la metá del suo globo; l’altra metá del globo suo di dietro, che non vede il sole, è sempre tenebrosa.
Sofia. Non par giá che sempre sia illuminata la mezza palla de la luna, anzi rare volte e solamente nel plenilunio; negli altri tempi la luna non comprende la mezza palla, ma una parte di quella, qualche volta grande e qualche volta piccola, secondo va crescendo e decrescendo la luna; e qualche volta pare che non abbi luce alcuna, cioè al far della luna e un giorno innanzi e un giorno di poi, che essa non pare in alcuna parte illuminata.
Filone. Tu dici il vero, quanto in l’apparenzia: ma in effetto ha sempre tutta la mezza palla illuminata dal sole.
Sofia. Come dunque non pare?
Filone. Perché, movendosi la luna, sempre (discostandosi o accostandosi al sole) si muta la luce che sempre illustra sua metá circularmente d’una nell’altra parte, cioè della parte sua superiore a l’inferiore o dell’inferiore alla superiore.
Sofia. Qual si chiama inferiore e qual superiore?
Filone. La parte de la luna inferiore è quella che è verso la terra e mira a noi, e noi vediamo lei quando è luminosa tutta ovvero parte di quella; e la superiore è quella ch’è verso il cielo del sole che è sopra essa, e non la vediamo, se ben è luminosa. Una volta adunque il mese è tutta la metá inferiore illuminata dal sole, e noi la vediamo piena di luce, e questo è ne la quintadecima de la luna, perché lei è in fronte al sole per opposito; un’altra volta è illuminata l’altra metá, cioè la superiore, e questo è quando si congiunge al sole, che è sopra di lei e illumina tutta la parte superiore, e l’inferiore verso di noi resta tutta tenebrosa. E allora per due dí la luna non pare a noi: negli altri dí del mese si ha diversamente l’illuminazione de la metá de la palla de la luna, perché da la coniunzione principia a mancar la luce da la parte superiore e a venire a l’inferiore verso di noi a poco a poco, secondo si va discostando dal sole. Ma sempre tutta la metá è lucida, perché ciò che manca di luce a la parte inferiore si trova ne la superiore, ché non vediamo sempre interamente tutta la metá de la palla. E cosí fa fino alla quintadecima, che allor tutta la parte inferiore verso di noi è lucida e la superiore tenebrosa; di poi principia la luce a trasportarsi a la parte superiore, decrescendo a poco a poco verso di noi fino a la parte superiore: allor manca tutta la nostra parte di luce, e la superiore, che non vediamo, è tutta lucida.
Sofia. Ho bene inteso il progresso de la luce de la metá de la luna e de la tenebrositá de l’altra, da la parte superiore verso il cielo a l’inferiore verso di noi, e il contra ancora. Dimmi come in quello è simulacro de l’anima.
Filone. La luce de l’intelletto è stabile: e, participata ne l’anima, si fa mutabile e mista con tenebrositá, perché l’anima è composta di luce intellettiva e di tenebrositá corporea, come la luna di luce solare e di oscura corporeitá. La mutazion de la luce de l’anima è come quella de la luna de la parte superiore a l’inferiore verso di noi, e al contrario: perché lei qualche volta si serve di tutta la luce conoscitiva, che ha l’intelletto, ne l’amministrazione de le cose corporee, restando tenebrosa totalmente da la parte superiore intellettiva, nuda di contemplazione, astratta di materia, spogliata di vera sapienzia, tutta piena di sagacitá e usi corporei. E cosí come, quando la luna è piena e in opposito al sole, e gli astrologi dicono che allora è in aspetto sommamente inimicabile col sole; cosí, quando l’anima piglia tutta la luce che ha dell’intelletto, ne la parte inferiore verso la corporeitá è in opposizione inimicabile con l’intelletto e totalmente da lui si discosta. Il contrario è quando l’anima riceve la luce da l’intelletto, de la parte superiore incorporea verso esso intelletto, e s’unisce con lui come fa la luna col sole ne la coniunzione. È ben vero che quella divina coppulazione gli fa abbandonare le cose corporali e le cure di quelle, e resta tenebrosa come la luna da la parte inferiore verso di noi; ed essendosi astratta la contemplazione e coppulazione de l’anima con l’intelletto, le cose corporali non sono provedute né amministrate convenientemente da lei. Ma perché non si ruini tutta la parte corporea, per necessitá si parte l’anima da quella coniunzione de l’intelletto, partecipando la luce a la parte inferiore a poco a poco, come fa la luna doppo la coniunzione, e quanto la parte inferiore riceve di luce da l’intelletto, tanto manca a la superiore: perché la perfetta coppulazione non può stare con providenzia di cose corporee. Séguita che l’anima va mettendo sua luce e cognizione nel corporeo, levandola dal divino a poco a poco, come la luna, finché abbi posto ogni sua providenzia in quello, lassando totalmente la vita contemplativa; e allora è come la luna ne la quintadecima, piena verso di noi di luce e verso il cielo di tenebre. Ancor séguita che l’anima, come la luna, sottrae sua luce dal mondo inferiore, ritornando nel superiore divino a poco a poco, fin che torni a quella total coppulazione e intellettuale, con integra tenebrositá corporea; e cosí successivamente si muta ne l’anima la luce intellettuale, d’una parte ne l’altra, e l’opposita tenebrositá (come ne la luna quella del sole) con mirabile similitudine.
Sofia. Mi dá ammirazione e allegra vedere quanto ottimamente quel perfetto fattore de l’universo abbi messo il ritratto de’ dui luminari spirituali celesti, sole e luna, accioché, vedendo noi questi, che non si possono occultare dagli occhi umani, possino i nostri occhi de la mente vedere quelli spirituali, quali a loro possono essere sol manifesti. Ma a maggiore sussistenzia vorrei che (sí come m’hai detto la similitudine de la coniunzione de la luna col sole e de l’opposizione loro) mi dicessi ancor qualche cosa de la similitudine de’ due aspetti quadrati, che si dicono quarti de la luna (l’uno sette dí poi la coniunzione e l’altro sette dí poi l’opposizione), se hanno forse qualche significazione ne la mutazione dell’anima.
Filone. Ancora l’hanno, perché quelli quadrati sono quando pontalmente la luna ha la sua mezza luce ne l’inferiore. Onde gli astrologi dicono che ’l quadrato è aspetto di mezza inimicizia e litigioso: ché essendo le due parti contrarie eguali fra loro e con egual parte ne la luce, litigano qual d’esse pigliará il resto; e cosí, quando la luce intellettuale de l’anima è egualmente partita ne la parte superiore de la ragione (o ver nella mente) e ne la parte inferiore de la sensualitá, litiga l’una con l’altra qual di loro abbi a dominare, o la ragione la sensualitá o la sensualitá la ragione.
Sofia. E che significa esser li due quarti?
Filone. L’uno è di poi [de] la coniunzione, e da lei principia a superare la parte inferiore la superiore ne la luce: e cosí è ne l’anima quando viene da la coppulazione a la opposizione, ché, dipoi che tutte due le parti sono eguali ne la luce, la superiore è superata da l’inferiore, perché la sensualitá vince la ragione. L’altro è di poi de l’opposizione, e da lei principia a superare la parte superiore ne la luce (che non vediamo) l’inferiore che vediamo: e cosí è ne l’anima quando viene da l’opposizione a la coppulazione intellettuale, perché, dipoi che tutte due parti sono ne la luce eguali, principia a superare la parte superiore intellettiva e vincere la ragione la sensualitá.
Sofia. Questa non mi par giá che fussi gionta da lassare. Dimmi ancor se hai pronta alcuna similitudine ai quattro aspetti amicabili de la luna al sole, cioè due sestili e due trini, ne la mutazion de l’anima.
Filone. Il primo sestile aspetto de la luna al sole è a cinque dí de la coniunzione, ed è amicabile perché la parte superiore participa senza litigio da la sua inferiore, però che la superiore ancor vince e l’inferiore gli è sottoposta: cosí è ne l’anima, [che] quando esce de la coppulazione participa un poco di sua luce alle cose corporee per il lor bisogno, superando nientedimeno la ragione il senso; e però le cose corporee allor son piú magre, e però dicono gli astrologi, giudicatori de l’abundanzie corporee, che è aspetto d’amicizia diminuita. Il primo aspetto trino de la luna al sole è a dieci dí de la coniunzione, e la maggior parte de la luce è giá verso di noi: pur la superiore non resta nuda di luce, ma è suggetta a l’inferiore. E cosí è nell’anima quando va dal primo quarto a l’opposizione, che, avengaché la ragione non resti senza luce, pur il piú de le volte s’opera ne le cose corporee senza litigio: e, perché allor le cose corporee sono abundanti, propriamente gli astrologi chiamano il trino aspetto «d’amicizia perfetta». Il secondo trino de la luna col sole è a vinti dí de la coniunzione, dipoi de l’opposizione, innanti del quadrato secondo; e giá la luce si va participando ne la parte superiore, che era tutta tenebrosa ne l’opposizione, ma senza litigio: la parte maggior de la luce è ancor ne la parte inferiore verso di noi. Cosí ne l’anima, quando che dal corporeo, al quale è tutta dedita, viene a dare una parte di lei a la ragione e a l’intelletto, talmente che, essendo ancora piú abundanti le cose corporee, si coniunge con loro il splendore intellettuale; e viene ad essere secondo aspetto d’intera amicizia appresso gli astrologi. Il secondo aspetto sestile de la luna col sole è a li venticinque dí ancora de la coniunzione, di poi del secondo quadrato anti de la coniunzione succedente; e in quella parte superiore giá avea recuperata la maggior parte de la luce, ancorché restassi a l’inferiore sufficiente parte di luce, ma in tal modo che senza contrasto è sottoposta al superiore. E cosí ne l’anima, quando dalle cose corporee è convertita non solamente a far la ragione equivalente al senso, ma [a] farla superiore senza litigio del senso, quantunque gli resti providenzia de le cose corporee, secondo il bisogno loro sottomesso a la retta mente. Ma, perché in tal caso le cose corporee son pur magre, gli astrologi, giudicando quelli, il chiamano «aspetto d’amicizia diminuita». Di poi da questo quarto e ultimo aspetto amicabile, se l’anima tende al spirituale, viene alla divina coppulazione, che è somma sua felicitá e diminuzione de le cose corporee. A questo modo, o Sofia, l’anima è numero che se stesso muove in moto circulare, e il numero de’ numeri è quanto il numero degli aspetti lunari col sole, che son sette, e la coniunzione è la decima unitá, principio e fine de li sette numeri, come quella è principio e fine de’ sette aspetti.
Sofia. Resto contenta del simulacro lunare a l’anima umana. Vorrei sapere se hai alcuna similitudine ne l’eclissi de la luna a le cose de l’anima.
Filone. Ancora in questo il pittor del mondo non fu negligente. L’eclissi de la luna è per interposizione fra lei e il sole, che gli dá la luce, per ombra de la quale la luna d’ogni parte resta tenebrosa, cosí da l’inferiore come da la superiore; e si dice «eclissata», però che totalmente perde la luce d’ogni sua metá. Cosí interviene a l’anima: quando s’interpone il corporeo e terrestre fra lei e l’intelletto, perde tutta la luce che da l’intelletto riceveva non solamente de la parte superiore, ma ancor de l’inferiore attiva e corporea.
Sofia. A che modo si può interporre il corporeo fra lei e l’intelletto?
Filone. Quando l’anima s’inclina oltre a misura a le cose materiali e corporee e s’infanga in quelle, perde la ragione e la luce intellettuale in tutto: però che non solamente perde la coppulazione divina e la contemplazione intellettuale, ma ancora la vita sua attiva si fa in tutto irrazionabile e pura bestiale, e la mente o ragione non ha luogo alcuno ancora ne l’uso de le sue lascivie; onde l’anima sí miserabile, eclissata dal lume intellettuale, è equiparata a l’anima degli animali bruti, ed è fatta de la natura loro (e di questi dice Pittagora che migrano in corpi di fiere e di bruti animali). È ben vero che, cosí come la luna qualche volta è tutta eclissata e qualche volta parte di lei, cosí l’anima qualche volta perde in tutti gli atti intellettuali luce e qualche volta non in tutti è fatta bestiale. Ma, sia come si voglia, la bestialitá, in tutto ovvero in parte, è somma destruzione e sommo difetto de l’anima; e per questo dice David a Dio, pregando: «Libera da destruzione l’anima mia, e di poter de’ cani la mia unica».
Sofia. Mi piace non poco questo residuo del simulacro de l’anima corrotta oscura e bestiale all’eclissata luna; solamente vorrei sapere se l’eclissi del sole ha ancora qualche simile significazione.
Filone. L’eclissi del sole non è difetto di luce nel corpo d’esso sole, come l’eclissi de la luna: però ch’il sole mai si truova senza luce, conciosiaché quella sia sua propria sustanzia, ma il difetto è in noi altri terreni, che, per l’interposizione de la luna in mezzo di lui e noi, siamo privi de la sua luce e rimaniamo oscurati.
Sofia. Questo intendo; ma dimmi, qual somiglianza ha con l’intelletto?
Filone. Cosí l’intelletto non è mai privo né difettuoso di luce sua intellettuale, come interviene a l’anima: però che la luce intellettiva è de l’essenzia de l’intelletto, senza il quale non arebbe essere, e ne l’anima è partecipata da esso intelletto. Onde, per l’interposizione de la terrestre sensualitá fra lei e l’intelletto, al modo de la luna s’eclissa e fa oscura e priva di luce intellettuale, come ti ho detto.
Sofia. Ben veggo che son simili il sole e l’intelletto ne la privazion del difetto in se medesimi; ma nel difetto di luce che causa l’eclissi solare in noi, per interposizione della luna fra noi ed esso, qual somiglianza ha con l’intelletto?
Filone. Cosí come interponendosi la luna fra il sole e noi altri terreni, ne fa mancare la luce del sole, ricevendola lei tutta ne la sua parte superiore [e] restando a noi l’altra inferiore oscura; cosí quando s’interpone l’anima fra l’intelletto e il corpo, cioè coppulandosi e unendosi con l’intelletto, riceve l’anima tutta la luce intellettuale ne la sua parte superiore e da la parte inferiore corporea resta oscura, e il corpo da lei non illuminato perde l’essere, e lei si dissolve da lui. E questa è la felice morte che causa la coppulazione de l’anima con l’intelletto, la quale hanno gustata i nostri antichi beati Moisé e Aron, e gli altri de’ quali parla la sacra Scrittura, che morirono per bocca di Dio baciando la divinitá (come t’ho detto).
Sofia. Mi piace la similitudine; e bene è giusto che, unendosi cosí perfettamente l’anima col divino intelletto, si venga a dissolvere da la colligazione che ha col corpo: in modo che questo eclissi è solamente del corpo, e non de l’intelletto che è sempre immutabile, né ancor de l’anima che si fa in quello felice; cosí come l’eclissi del sole è solamente a noi e non al sole, che mai s’oscura, né a la luna, che allora piú presto riceve e contiene ne la sua parte superiore tutto il lume del sole. Dio facci adunque nostre anime degne di cosí felice fine. Ma dimmi, ti prego: essendo essa anima spirituale, che difetto o ver passione ha in sé, che facci farli tante mutazioni, un’ora verso il corpo un’altra verso l’intelletto? ché de la luna il moto locale discosto dal sole è cagione manifesta di sue mutazioni verso il sole e verso la terra, qual cagione non si truova nell’anima spirituale.
Filone. La cagione di tante mutazioni ne l’anima è il gemino amore che in lei si truova.
Sofia. Che amore è quel che ha l’anima, e come è gemino?
Filone. Essendo ne l’intelletto divino la somma e perfetta bellezza, l’anima, che è un splendore procedente da quello, s’innamora di quella somma bellezza intellettuale sua superiore origine, come s’innamora la femmina imperfetta del maschio suo perficiente, e desidera farsi felice ne la sua perpetua unione. Con questo si giunta un altro amore gemino de l’anima al mondo corporeo a lei inferiore, come del maschio a la femmina, per farlo perfetto imprimendo in lui la bellezza che piglia da l’intelletto mediante il primo amore: come che l’anima, ingravidata de la bellezza de l’intelletto, la desidera parturire nel mondo corporeo, o veramente piglia la semenza di essa bellezza per farla germinare nel corpo, ovvero come artifice piglia l’esempli de la bellezza intellettuale per sculpirli al proprio ne’ corpi; che non solamente accade ne l’anima del mondo, ma quel medesimo interviene a l’anima de l’uomo col suo intelletto nel picciol mondo. Essendo adunque l’amor de l’anima umana gemino, non solamente inclinato a la bellezza de l’intelletto ma ancora a la bellezza ritratta nel corpo, succede qualche volta che, essendo grandemente tirata da l’amore de la bellezza de l’intelletto, lassa del tutto l’amorosa inclinazione del corpo, tanto che si dissolve totalmente da quello e ne segue a l’uomo la morte felice coppulativa (come t’ho detto ne l’eclissi del sole); e qualche volta gl’interviene il contrario, ché, tirata piú del dovere da l’amor de la bellezza corporea, lassa del tutto l’inclinazione e amore de la bellezza intellettuale, e in tal modo s’asconde da l’intelletto suo superiore, che si fa in tutto corporea e oscura di luce e bellezza intellettiva (come t’ho detto ne l’eclissi lunare). Qualche altra volta l’anima opera per tutti due gli amori intellettuale e corporeo, ovvero con temperamento ed equalitá, e allor la ragione litiga con la sensualitá (come t’ho detto ne’ due aspetti quadrati de la luna al sole); ovvero declina a uno degli amori (come t’ho detto ne’ quattro aspetti amicabili, due trini e due sestili): e quando la declinazione è a l’amore intellettuale, se è poca la declinazione e ancora con stimulo de la sensualitá, l’uomo si chiama continente; e se declina molto a l’intellettuale amore e non resti stimulo del sensuale, l’uomo se chiama temperato; ma se declina piú a l’amor corporale è il contrario, ché declinando poco, e che ancor resti qualche resistenzia de l’intellettuale, l’uomo si chiama incontinente, e se declina molto, in modo che l’intelletto non facci resistenzia alcuna, l’uomo si chiama intemperato.
Sofia. Non poco mi satisfá questa cagione de le mutazioni de l’anima, cioè l’amore de la bellezza intellettuale e quel de la bellezza corporea: e di qui viene che, cosí come ne l’uomo si truovano due amori diversi, cosí si truovano due diverse bellezze, intellettuali e corporali; e conosco quanto la bellezza intellettuale è piú eccellente che la corporale, e quanto è meglio l’ornamento de la bellezza intellettiva che quel de la corporea. Ma sol mi resta saper da te, se forse la luna (come l’anima) ha queste amorose inclinazioni verso il sole e verso la terra, se forse ancora in questo la luna è de l’anima simulacro.
Filone. Senza dubbio è simulacro, ché l’amor che la luna ha al sole (da cui sua luce vita e perfezion dipende) è come di femmina al maschio, e quello amore la fa essere sollicita a l’unione del sole. Ha ancora la luna amore al mondo terreno come maschio a femmina, per farlo perfetto con la luce e influenzia che riceve dal sole, e però fa sue mutazioni simili a quelle de l’anima, le quali non dichiaro per esempli per non essere piú longo in questa materia. Solamente ti dico che, come trasporta l’anima con sue mutazioni la luce de l’intelletto nel mondo corporeo per l’amore che ha a tutti due, cosí la luna transferisce la luce del sole nel mondo terreno per l’amor che ha a tutti due.
Sofia. Questo resto di conformitá mi piace, e certo di questa materia assai m’hai acquietata la mente.
Filone. Ti pare, o Sofia, per questa longa interposizione di consentire che l’anima nostra, quando contempla con intentissimo amore e desiderio in un oggetto, possi e soglia abbandonare i sensi con altre virtú corporee?
Sofia. Si può senza dubbio.
Filone. Non è dunque giusta la tua querela contra di me, ché quando tu, o Sofia, m’hai veduto rapito dal pensiero senza sentimenti, era allor mia mente con tutta l’anima sí ritirata a contemplare l’immagine di tua bellezza, che, abbandonati il vedere e l’udire insieme col movimento, solamente quello che hanno ancor gli animali bruti mi portava per quella via, la quale prima da me fu desiderata; sí che se lamentar ti vuoi, lamentati pur di te, che a te stessa hai serrate le porte.
Sofia. Pur mi lamento che possi e vagli in te, piú che mia persona, l’immagine di quella.
Filone. Può piú, perché giá la rappresentazione di dentro a l’animo precede a quella di fuore, però che quella, per essere interiore, se ha giá possessionato di tutti gl’interiori. Ma puoi giudicare, o Sofia, che se tua immagine riceverti seco non vuole, che sarebbe impossibile che l’altrui in sua compagnia ricevessi.
Sofia. Aspera mi pingi, o Filone.
Filone. Anzi ambiziosissima, che robbi me, te e ogni altra cosa.
Sofia. Almanco ti sono utile e salutifera, ch’io ti levo molte cogitazioni fastidiose e malenconiche.
Filone. Anzi velenosa.
Sofia. Come velenosa?
Filone. Velenosa di tal veleno, che manco se li truova remedio che a niuno de’ corporali toschi: ché, cosí come il veleno va dritto al cuore e di lí non si parte fin che abbi consumati tutti i spiriti, quali gli vanno dietro, e levando i polsi e infrigidando gli estremi leva totalmente la vita, se qualche remedio esteriore non se gli approssima, cosí l’immagine tua è dentro de la mia mente e di lí mai si parte, attraendo a sé tutte le virtú e spiriti, e con quelli insieme la vita totalmente leverebbe, se non che tua persona esistente di fuora mi recupera gli spiriti e sentimenti, levandoli di mano la preda per intertenermi la vita.
Sofia. Ben dunque ho detto, dicendo ch’io ti son salutifera: ché, se mia assente immagine t’è veleno, io presente ti son triaca.
Filone. Tu hai levata la preda a tua immagine, perché lei ti leva e proibisce l’intrata: e in veritá non l’hai fatto per beneficarmi, anzi per paura che, se finisse mia vita, finiria ancor con lei il tuo veleno; e perché vuoi che mia pena sia durabile, però non vuoi consentire ch’il veleno di tua immagine mi doni la morte, ché quel tanto è maggior quanto è piú diuturno.
Sofia. Non so concordare tuoi detti, o Filone: una volta mi fai divina e da te molto desiderata, e una altra volta mi truovi velenosa.
Filone. L’uno e l’altro è vero, e tutti due possono stare insieme, però che in te la velenositá da la divinitá è causata.
Sofia. Come è possibile che di bene venga male?
Filone. Può intervenire, ma indirettamente, perché se l’interpone il desiderio insaziabile.
Sofia. A che modo?
Filone. La tua bellezza in forma piú divina che umana a me si rappresenta; ma per essere sempre accompagnata d’un pongitivo e insaziabile desiderio, si converte di dentro in uno pernizioso e molto furioso veleno, sí che quanto tua bellezza è piú eccessiva, tanto produce in me piú rabbioso e velenoso disio. La presenzia tua m’è triaca solamente perché mi ritiene la vita, ma non per levar la velenositá e la pena, anzi la prolonga e fa piú durabile: però che vederti mi proibisce il fine, qual sarebbe termine al mio ardente desiderio e riposo a mia affannosa vita.
Sofia. Di questa alienazione assai buon conto hai dato; né io voglio piú esaminarla, ché per altro t’ho chiamato e altro da te voglio.
Filone. Che altro?
Sofia. Ricordati de la promessa, che giá due volte m’hai fatto, di darmi notizia del nascimento de l’amore e di sua divina progenie, e ancor significasti volermi mostrare suoi effetti negli amanti. Il tempo mi pare opportuno, e tu dici che non sei inviato per cose che importino: dunque dá opera di satisfare a la promissione.
Filone. In termine mi truovo che ho piú bisogno di cercare credenzia, che di pagare ciò che ho a dare. Se mi vuoi far bene, aiutami a far debiti nuovi, e non mi costringere a pagar i vecchi.
Sofia. Che bisogno è il tuo?
Filone. Grande.
Sofia. Di che?
Filone. Qual maggior che di trovar remedio a mia crudelissima pena?
Sofia. Vuoi ch’io ti consigli?
Filone. Da te sempre vorrei consigli e aita.
Sofia. Se del poco ti fai buon pagatore, sempre che vorrai assai, ti sará fidato a credenzia: ché il buon pagatore è possessore de l’altrui.
Filone. In poco dunque stimi quel che domandi.
Sofia. In poco, a rispetto di quel che domandi tu.
Filone. Perché?
Sofia. Però che è manco a te dare quel che puoi dare, che avere ciò che non puoi avere.
Filone. Questa medesima ragione costringerebbe te a darmi prima remedio, tanto piú ch’il beneficio sarebbe mutuo: ciascuno debbe dare ciò che ha, e ricevere di quel che gli manca e che ha bisogno.
Sofia. A questo modo né il tuo sarebbe pagare né far grazia, però che io veggo che giá di nuovo vuoi vendere quel che giá hai promesso. Paga una volta il debito, e di poi parlarai a che modo si debbono contribuire i mutui benefizi.
Filone. Son pur molti debiti, non però promissi.
Sofia. Dimmi alcuno.
Filone. Remediar gli amici del possibile non ti par debito?
Sofia. Grazia sarebbe, non debito.
Filone. Grazia sarebbe remediare i forestieri, che non sono amici, ma agli amici è debito: e non farlo sarebbe vizio d’infedeltá, crudeltá e avarizia.
Sofia. Ancor che questo fusse debito, non mi negarai giá che fra i debiti il promesso si debba pagar prima ch’il non promesso.
Filone. Ancor questo non ti voglio consentire: però che di ragione prima si debbe pagare quel che in sé è debito e non promesso, che quel che solamente la promissione il fa debito, perché in effetto il debito senza promessa precede a la promessa senza debito. Mira che dar tu remedio a la terribil pena mia è vero debito (poi che noi siamo veri amici), ben che non l’abbi promesso; ma la promission mia non fu per debito, anzi di grazia, né a te è molto necessaria, ché giá non è per remediarti di pericolo o danno, ma solamente per darti qualche diletto e satisfazione di mente: debbe dunque precedere il tuo debito non promesso quel di mia libera promissione.
Sofia. La promessa solamente è quella che fa il debito, senza aver bisogno d’altro obbligo.
Filone. Piú giusto è ch’il debito solamente facci promissione, senza esser bisogno il promettere.
Sofia. Quando ben fussi cosí come dici, non vedi tu [che] ciò ch’io voglio da te è la teorica de l’amore, e quel che tu vuoi da me è la pratica di quello? Non puoi negare che sempre debbe precedere la cognizione de la teorica all’uso de la pratica, ché negl’uomini la ragione è quella che indrizza l’opera; e avendomi giá dato qualche notizia de l’amore, cosí di sua essenzia come di sua comunitá, parrebbe che mancasse il principale se ne mancasse la cognizione di sua origine ed effetti: sí che senza ponervi intervallo déi dar perfezione al giá cominciato da te e porger satisfazione a questo residuo del mio desiderio. Ché tu, se (come dici) rettamente m’ami, piú l’anima ch’il corpo amar déi; dunque non mi lassar imperfetta di sí alta e degna cognizione: e se vuoi dire il vero, concederai che in questo sta il debito tuo insieme con la promissione, sí che a te tocca prima il pagamento; e se ’l mio non succederá, allor con maggior ragione ti potrai lamentare.
Filone. Non ti si può resistere, o Sofia: quando penso averti levato tutte le vie del fuggire, tu ne fuggi per nuova strada; sí che bisogna far quel che ti piace, e la principal ragione è ch’io so’ amante e tu sei l’amata, e a te tocca darmi la legge e a me con esecuzione osservarla. E giá io in questo ti volevo servire, e dirti (poi che ’l ti piace) qualche cosa de l’origine ed effetti de l’amore; ma non mi so risolvere a che modo abbi a parlar di lui, o laudandolo o ver vituperandolo; de la laude è degna sua grandezza, e del biasimo sua feroce operazione, verso di me massimamente.
Sofia. Di’ pur il vero, sia in laude o in vituperio, ché non puoi errare.
Filone. Lodare chi mal fa non è giusto, vituperare chi molto può è pericoloso; son ambiguo, né mi so determinare. Dimmi tu, o Sofia, quale è il men male.
Sofia. Manco male è sempre il vero che il falso.
Filone. Men male è sempre il securo che il pericoloso.
Sofia. Sei filosofo, e hai paura di dir la veritá.
Filone. Se ben non è d’uomo virtuoso dire la bugia (quando ben fusse utile), non però è d’uomo prudente dir la veritá qual ne porga danno e pericolo: ché il vero, il cui dirlo è nocivo, prudenzia è tacerlo e temeritá parlarne.
Sofia. Non mi par giá onesto timore quel di dire il vero.
Filone. Non ho paura di dir la veritá, ma del danno che di dirla mi potrebbe intervenire.
Sofia. Essendo tu cosí saettato da l’amore come dici, che paura hai piú di lui? che mal ti può far, che giá non t’abbi fatto? e in che ti può offendere, che giá non t’abbi offeso?
Filone. Nuova punizione temo.
Sofia. Che temi, che ti possa esser nuovo?
Filone. Temo che non m’intervenga quel che giá intervenne a Omero, il quale per cantare in disfavore de l’amore perse la vista.
Sofia. Oramai non bisogna che tu temi di perderla, che giá l’amor (senza aver tu detto mal di lui) te l’ha levata: che poco innanzi passasti di qui con gli occhi aperti e non mi vedesti.
Filone. Se solamente per condolermi con me stesso del torto che mi fa l’amore e del tormento che mi dá, mi minaccia (come tu vedi) di levarmi la vista, che fará se pubblicamente il biasmerò e sue opere vitupererò?
Sofia. Omero con ragion fu punito, però che lui diceva male iniustamente di chi non gli aveva fatto alcun male: ma se tu dirai male de l’amore, il dirai con iustizia, però che ti tratta peggio che può.
Filone. I possenti che non son benigni, piú con furia che con ragione dánno le pene; e di me giustamente piglieria maggior vendetta che d’Omero, però che io son de’ suoi sudditi e Omero non era, e se puní lui solamente per avere usato discortesia, molto piú gravemente punirebbe me e per discortesia e per inobedienzia.
Sofia. Di’ pur, e se vedrai che si sdegni contra di te, disdirai ciò che hai detto e gli domandarai perdono.
Filone. Tu vorresti ch’io facessi esperienzia de la sanitá, come fece Stesicoro.
Sofia. Che fece Stesicoro?
Filone. Cantò contro l’amore d’Elena e Paris vituperandolo, e avuta la medesima pena d’Omero, che perse la vista, ma lui conoscendo la cagione di sua cecitá (qual non conobbe Omero) si remediò incontinente, facendo versi contrari a’ primi in laude e favor d’Elena e del suo amore, onde subitamente amor gli restituí la vista.
Sofia. Oramai puoi dire ciò che ti piace: ché, secondo mi pare, giá sai, come Stesicoro, il modo di remediarti.
Filone. Non lo sperimenterò giá io, che so che verso me sarebbe l’amor piú rigoroso che non fu verso lui, che l’errore de’ propri servi maggior furia mena e piú crudeltá provoca a’ signori: ma in questo voglio essere piú savio che non furono tutti due loro. Al presente parlaremo con ogni reverenzia di sua origine e di sua antiqua geneologia; ma degli effetti suoi buoni e cattivi per adesso non ti dirò cosa alcuna, in modo che non averò occasione di laudarli per paura né di vituperarli con audacia.
Sofia. Non vorrei giá che lassasse questa nostra narrazione imperfetta: ché, cosí come il principio de l’amore consiste nel suo origine, cosí il fine suo consiste ne’ suoi effetti; e se la paura non ti lascia dire suoi difetti, di’ almanco le lode: forse per questa via potrai impetrar grazia di reconciliarti seco e fartelo benivolo, chè coloro che in dar le pene sono intemperanti, in far le grazie sogliono essere liberali.
Filone. Sí, se fussero vere lodi: ma non essendo, sarebbe adulazione.
Sofia. Ad ogni modo bisogna lusengar chi può piú.
Filone. Se adulare i benefattori è cosa brutta, quanto piú i malfattori!
Sofia. Lasciando a parte tua passione e il conto che è fra te e l’amore, fammi intendere, ti prego veramente, quali degli effetti d’amore credi sien piú, o [i] buoni degni di laude ovvero i vituperabili.
Filone. Se in quel ch’io dirò ne amministrará piú la veritá che la passione, trovarò in lui molte piú lode che biasmi, e non solamente nel numero, ma ancora di piú eccellenzia.
Sofia. Adunque, se in qualitá e quantitá i buoni effetti d’amore escedeno i cattivi, di’ pure ogni cosa: ché piú presto impetrarai grazia da lui per far palese i suoi gran benefizi, che non pena per dir con veritá suoi pochi malefizi; e se l’amore è del numero degli dèi celesti spirituali (come si dice), non gli debbe dispiacere il vero, ché la veritá è sempre annessa e congiunta a la divinitá e sorella di tutti gli dèi.
Filone. Per la giornata d’oggi basta assai parlare del nascimento dell’amore, restará per un’altra il dire de’ suoi effetti, cosí buoni quanto cattivi; forse allor deliberarò compiacerti e dire ogni cosa, e se l’amore contro di me s’infuriará, gl’interponerò la veritá per placarlo, che gli è sorella, e tu che gli sei figlia e somigli a sua madre.
Sofia. Ti ringrazio dell’offerta, l’intercessione t’offero: e perché il giorno non se ne vada in parole, di’ se nacque, quando nacque, dove nacque, di chi nacque e perché nacque questo strenuo, antico e famosissimo signore.
Filone. Non manco savia che breve ed elegante mi pare, o Sofia, questa tua dimanda del nascimento de l’amore ne’ cinque membri che hai divisi: gli spianarò per vedere se t’ho inteso.
Sofia. So ben che m’intendi: ma piacere mi farai se gli spiani.
Filone. Tu prima domandi se l’amore è generato e d’altrui proceduto, o veramente se è ingenito senza mai avere avuto dependenzia d’alcuno antecessore. Domandi secondo, quando nacque, posto che sia generato, e se forse sua successione o dependenzia fu ab eterno ovvero temporale; e se temporale, in qual tempo nacque, se forse nacque al tempo de la creazione del mondo e produzione di tutte le cose, o ver di poi in qualche altro tempo. Il terzo che dimandi è del luogo nel quale nacque e in qual de’ tre mondi ha avuto origine, se nel mondo basso e terrestre, o ver nel mondo celeste, o forse nel mondo spirituale, cioè l’angelico e divino. Per quarto domandi quali furono i suoi parenti, cioè se ha avuto solamente padre o solamente madre, o veramente di tutti dui nacque; e chi furono, se divini o umani o ver d’altra natura, e di loro ancora quale è stata sua geneologia. E ultimamente per quinto vuoi sapere il fine per il quale nacque nel mondo, e qual bisogno il fece nascere: però che la causa finale è quella per la quale ogni cosa prodotta fu prodotta, e il fine del prodotto è il primo ne l’intenzione del producente, se bene è ultimo in sua esecuzione. Son questi, o Sofia, i cinque tuoi quesiti circa il nascimento d’amore.
Sofia. Questi sono certamente. Io ho fatta la dimanda, ma tu l’hai in tal modo ampliata, che mi dai buona speranza de la desiderata risposta: ché, come le piaghe ben aperte e ben vedute si curano meglio, cosí i dubi, quando son ben divisi e smembrati, piú perfettamente si solveno. Vegniamo dunque a la conclusione, ché con desiderio l’aspetto.
Filone. Tu sai che, avendo a determinare cose pertinenti al nascimento de l’amore, bisogna presupporre che lui sia e saper qual sia sua essenzia.
Sofia. Che l’amor sia è manifesto, e ciascuno di noi può far testimonio del suo essere, e non è alcuno che in se stesso noi senta e noi veda; e qual sia l’essenzia sua mi pare che assai m’abbi detto quel giorno quando parlammo d’amore e desiderio.
Filone. Non mi par giá poco che tu confessi sentire in te stessa che amor sia: ch’io timido stava che tu (per mancamento d’esperienzia) non mi domandasse del suo essere dimostrazione, la quale a persona che noi sente (come di te presumessi) non sarebbe facile di fare.
Sofia. Giá in questa parte t’ho levato l’affanno.
Filone. Presupposto che amor sia, hai tu ben a mente le cose pertinenti a la cognizione di sua essenzia, secondo che l’altro giorno parlammo?
Sofia. Credo ben ricordarmi: niente di meno, s’el non t’è grave, vorrei ch’in breve mi replicasse quel di che mi bisogna aver memoria pertinente a l’essenzia de l’amore, perché meglio intenda ciò che dirai del suo nascimento.
Filone. Ancor volentieri di questo ti compiaceria, ma non ben mi ricordo di quelle cose.
Sofia. Buona fama ti dái d’aver buona memoria: se de le cose tue non ti ricordi, come ti ricorderai de l’altrui?
Filone. S’altri mia memoria possiede, come mi può ella servire ne le cose mie? e se di me non mi ricordo, come vuoi ch’io mi ricordi de’ passati ragionamenti?
Sofia. Mi par strano che i detti, che hai saputo formare, non te li possi ricordare.
Filone. Quando teco allor parlava, la mente formava le ragioni e la lingua le parole che fuor mandava: ma gli occhi e l’orecchie, al contrario operando, tiravano dentro de l’anima tua immagine, tuoi gesti, insieme con tue parole e accenti, quali solamente ne la memoria mi restorono impressi. Sol questi son miei, e li miei sono alieni: se alcuno volessi di questi che da te vengono, mi ricordo; di quelli da me mandati per la bocca fuor de la mente e de la memoria, ricordisene chi gli piace.
Sofia. Sia come si voglia, la veritá è sempre una medesima: se questo, ch’in questo caso l’altro giorno mi hai detto, è stato il vero, quando ben la memoria non ti servisse in replicarlo, ti servirá la mente in porgere di nuovo un’altra volta quelle medesime veritá.
Filone. Questo credo ben che si potrá fare, ma non giá in quel modo forma e ordine del passato, né conterrá quelle particularitá, ch’in effetto non me le ricordo.
Sofia. Dille pure al modo che ti piace, ché la diversitá de la forma non c’è, poi che una medesima è la sustanzia: e io che delle cose tue piú che te mi ricordo, t’appuntarò in quelle parti che ti vedrò lassare o mutare.
Filone. Poi che vuoi ch’io ti dica qual sia amore, tel dirò pianamente e universalmente. Amore, in comune, vuol dire desiderio d’alcuna cosa.
Sofia. Questo è un diffinir ben piano; e dire il potresti piú brevemente, dicendo solamente ch’amore è desiderio: ché, essendo desiderio, bisogna che sia di qualche cosa desiderata, cosí come l’amore è di qualche cosa amata.
Filone. Tu dici il vero, ma pure la dichiarazione non è difetto.
Sofia. Sí: ma se tu diffinisci amore in comune esser desiderio, ti bisogna concedere ch’ogni amor sia desiderio e ogni desiderio sia amore.
Filone. Cosí è, però che la diffinizion si converte col diffinito, e tanto comprende l’un quanto l’altro.
Sofia. Altrimenti mi ricordo che m’hai l’altro giorno argumentato, cioè che l’amore non è sempre desiderio, però che molte volte è de le cose che si hanno e sono, come amare padre, figliuoli e la sanitá che si ha e le ricchezze, chi le possiede: ma il desiderio è sempre di cose che non sono, e se sono non l’abbiamo, ché quel che manca si desidera che sia, se non è, e che si abbi, se non si ha; ma le cose o persone che amiamo molte volte sono e le possediamo, e quelle che non sono mai amiamo: dunque come dici ch’ogni amore è desiderio?
Filone. Ancor mi viene in memoria che abbiamo prima diffinito altrimenti l’amore ch’il desiderio: perché dicono il desiderio essere effetto volontario d’essere o avere la cosa stimata buona, che manca, e l’amore essere affetto volontario di fruire con unione la cosa stimata buona che manchi. Nondimeno abbiamo poi dichiarato che, ben ch’il desiderio sia de la cosa che manchi, in ogni modo presuppone (cosí come l’amore) qualche essere: ché, avvenga che manchi in noi, ha essere appresso gli altri ovvero in se stessa, se non in atto, in potenzia; e se non ha essere reale, l’ha almanco immaginario e mentale. E aviamo mostrato che l’amore, non ostante che qualche volta sia di cosa posseduta, nondimeno presuppone sempre qualche mancamento di quella, come fa il desiderio: e questo è o perché l’amante non ha ancor perfetta unione con la cosa amata, onde ama e desidera perfetta unione con quella, o veramente però che, ben che la posseghi e fruisca di presente, gli manca la futura fruizione di quella, e però la disia. Sí che in effetto, ben speculato, il desiderio e l’amore è una medesima cosa, non ostante che nel modo del parlare del vulgo ciascuno abbi qualche proprietá, come hai detto: e però in fin di quel nostro parlamento abbiamo diffinito l’amore essere desiderio d’unione con la cosa amata, e abbiamo dichiarato a che modo ogni desiderio è amore e ogni amore è desiderio; e secondo quello al presente t’ho diffinito in comune l’amore, che è desiderio di cosa alcuna.
Sofia. Essendo l’amore e desiderio due vocabuli che molte volte significano diverse cose, non so come li possi fare un medesmo ne la significazione: ché, ancor che si possi dire una medesima cosa amare e desiare, par che significhino due diversi affetti de l’anima in quella cosa; perchè un pare che sia d’amar la cosa, l’altro di desiarla.
Filone. Il modo di parlare ti fa parere questo; e giá sono alcuni moderni teologi che fanno qualche essenzial differenzia fra l’uno e l’altro, dicendo che l’amor è principio di desiderio, perché, amandosi prima la cosa, viensi a disiare.
Sofia. Con qual ragione fanno l’amor principio di desiderio?
Filone. Prima diffiniscono l’amore essere complacenzia ne l’animo de la cosa che par buona, e che da quella complacenzia procede il desiderio de la cosa che compiace, qual desiderio è moto in fine, o cosa amata, sí che l’amore è principio del moto desiderativo.
Sofia. Questo amore sará de le cose che mancano e non si posseggono, al qual séguita poi il moto del desiderio; ma l’amor de le cose giá possedute (che non può essere principio di moto desiderativo) che cosa dicono questi che sia?
Filone. Dicono che, cosí come l’amore de la cosa che manca è complacenzia di quella provenzione ne l’anima de l’amante e principio del moto del desiderio, cosí l’amore ne la cosa posseduta non è altro che il gaudio e dilettazione che si ha per la fruizione de la cosa amata, e che è fine e termine del moto del desiderio e sua ultima quiete.
Sofia. Dunque costoro fanno due spezie d’amore: l’uno principio del moto desiderativo, quale è de le cose non possedute; l’altro fine e termine del gaudio e dilettazione, quale è de le cose possedute. E questo ultimo bene par che sia altro ch’il desiderio, però che gli succede: pur il primo non pare cosí diverso dal desio, però che l’uno e l’altro è de le cose che mancano. Hanno loro forse altra evidenzia a la differenzia di queste due passioni, amore e desio?
Filone. Fanno un’altra ragione, che fondano ne’ contrari di questi due, quali sono differenti, perché il contrario de l’amore è odio e il contrario del desiderio dicono che è fuga de la cosa odiata: onde dicono che, sí come l’amore è principio di desiderio, cosí l’odio è principio de la fuga, e cosí come odio e fuga sono due passioni [per fuggir la cosa cattiva, cosí amore e desiderio sono] per acquistar la cosa buona; e dicono che sí come il gaudio, o ver dilettazione, è fine e causa de l’amore e desiderio, cosí la tristizia, o ver dolore, è causa de l’odio e de la fuga; e cosí come la speranza è mezzo tra l’amore e desiderio e il gaudio (però che la speranza è di ben futuro e discosto, e il gaudio, o ver diletto, è di ben presente o ver congiunto), cosí il timore è mezzo fra la tristizia, o ver doglia, e fra la fuga e l’odio: però che il timor è del mal futuro o ver discosto, e la tristizia, o ver doglia, è del mal presente e congiunto. Sí che questi teologi fanno in tutto differente il desiderio da l’amore, tanto da quel che gli è principio, che chiamano complacenzia, come da quel gli è fin e termine, qual chiamano gaudio e dilettazione.
Sofia. Ben fatta mi par questa differenzia: e tu, Filone, perché non la consenti, ma metti che l’amor e il desiderio sieno una medesima cosa?
Filone. Ancor questi teologi, ingannati da la diversitá de’ vocabuli, cercano appresso il vulgo mettere diversitá di passioni ne l’animo, quale in effetto non è.
Sofia. A che modo?
Filone. Pongono differenzia essenziale fra l’amore e il desiderio, li quali in sostanzia sono una cosa medesima; e fanno differenzia fra l’amor della cosa che manca e fra quel de la posseduta, essendo l’amor un medesimo.
Sofia. Se tu non nieghi che l’amore sia complacenzia de la cosa amata, qual causa il desiderio, non puoi negare che amore non sia altro che desiderio, cioè principio di quello come principio di moto.
Filone. La complacenzia de la cosa amata non è amore, ma è causa d’amore, cosí come è causa del disio: ché amor non è altro che desio de la cosa che compiace, onde la complacenzia col desio è amore, e non senza. Sí che amore e desio sono un medesimo in effetto, e tutti due presuppongono complacenzia; e il desio, se è moto, è moto de l’anima ne la cosa desiata, e cosí è amore moto de l’anima ne la cosa amata; e la complacenzia è principio di questo moto, chiamato amore e desiderio.
Sofia. Se l’amor e il desiderio fussero un medesimo, non sarebbeno i lor contrari diversi: ché il contrario de l’amore è odio e il contrario del desio è fuga.
Filone. Ancora in questo la veritá s’ha altrimenti: perché la fuga è moto corporeo, contrario non del desio ma del séguito che è di poi del desio: ché del desio il contrario è l’aborrizione, che è un medesimo con l’odio, quale è contrario de l’amore: sí che, come loro sono un medesimo, li suoi contrari sono ancor una medesima cosa.
Sofia. Veggo ben che l’amore e il desio sono uno in sustanzia, e cosí li suoi contrari: ma l’amore del non posseduto e del posseduto par (come costoro dicono) ben diverso.
Filone. Pare, ma non son diversi: ché l’amor de la cosa posseduta non è il diletto e il gaudio de la fruizione (come dicono); de la possessione dilettasi e gode il possidente de la cosa amata, ma godere e dilettarsi non è amore, perché non può essere una medesima cosa l’amore, che è moto o principio di moto, col gaudio o diletto, che sono quiete e fine e termine di moto. Tanto piú contrari progressi dico che hanno, che l’amore viene da l’amante ne la cosa amata, ma il gaudio deriva da la cosa amata ne l'amante; massimamente ch’il gaudio è di quel che possiede, e l’amore è sempre di quel che manca, e sempre è un medesimo col disio.
Sofia. S’ama pur la cosa posseduta, e quella non manca giá.
Filone. Non manca la presente possessione, ma manca la continuazione di quella e sua perseveranzia in futuro, la qual desia e ama quel che possiede di presente; e la presente possessione è quella che diletta, e la futura è quella che si desia e ama. Sí che tanto l’amore de la cosa posseduta quanto quel de la non posseduta è un medesimo col desiderio, ma è altro che la dilettazione: cosí come la doglia e la tristizia è altro che l’odio e aborrizione, ché la doglia è de la possessione del mal presente, e l’odio è per non averlo nel futuro.
Sofia. A che modo poni tu dunque l’ordine di queste passioni de l’anima?
Filone. La prima è l’amore e desiderio de la cosa buona, e il suo contrario è l’odio e aborrizione de la cosa cattiva. La speranza viene di poi de l’amore e desiderio, quale è di cosa buona futura e separata, e il timore è il suo contrario, quale è di cosa cattiva futura o separata: e quando con l’amor o desiderio si giunta speranza, succede il séguito de la cosa buona amata, cosí come quando con l’odio e aborrizione si giunta il timore, succede la fuga de la cosa cattiva odiata. Il fine è gaudio e diletto di cosa buona presente e congiunta, e il contrario suo è doglia e tristizia di cosa cattiva presente e congiunta. Questa passione, quale è ultima in esequirsi, cioè il gaudio e diletto di cosa buona, è prima nell’intenzione: ché per conseguire gaudio e diletto s’ama e desidera, spera e séguita; e però in quella s’acquista e riposa l’animo, e avendosi per il presente, s’ama e desidera per il futuro. Sí che, rettamente filosofando in qual si voglia modo, amore e desiderio sono una medesima cosa essenzialmente, se ben nel modo di parlare qualche spezie d’amore si chiama piú propriamente desiderio e l’altra piú propriamente amore: e non solamente questi due vocabuli, ma altri con questi dicono una medesima cosa, ché in effetto quel che s’ama qualche volta s’affetta, si dilige, s’opta, s’appetisce e si vuole, e ancor cosí si desidera. E tutti questi vocabuli e altri tali, ben che s’appropri ciascuno a una spezie d’amore piú che a una altra, niente di manco in sustanzia tutti significano una medesima cosa, quale è desiderare le cose che mancano: però che quel che si possiede, quando si possiede, non s’appetisce né ama, ma sempre s’ama e appetisce per esser nella mente sotto spezie di cosa buona; onde si desidera e ama, se non è, che sia realmente, e come è ne la mente, che sia in atto come in potenzia, e s’è in atto e non l’abbiamo, che l’abbiamo, e se l'aviamo di presente, ch’il fruiamo sempre, la qual futura fruizione ancor non è e manca; di questa sorte s’amano fra loro padre e figliuolo, quali si desiano fruire sempre in futuro come in presente, e cosí ama la sanitá il sano e le ricchezze il ricco, che non solamente desidera che creschino, ma ancora che le possi fruire nel futuro come di presente. Dunque l’amore, cosí come il desiderio, bisogna che sia de le cose che in qualche modo mancano: onde Platone diffinisce l’amore appetito di cosa buona per possederla e sempre, però che nel sempre s’include il mancamento continuo.
Sofia. A ben che con l’amore si giunti qualche mancamento continuo; pure presuppone l’essere de la cosa, perché l’amor è sempre de le cose che sono, ma il desiderio è veramente de le cose che mancano, e molte volte di quelle che non sono.
Filone. In quel che dici, che amore è de le cose che sono, dici ben il vero, perché quel che non è non si può conoscere, e quel che non si può conoscere non si può amare; ma quel che dici, ch’il desiderio è qualche volta de le cose che non sono, perchè siano, non ha in sé assoluta veritá, però che quel che in nissuno modo ha essere non si può conoscere, e quel che non si può conoscere manco si può desiderare. Dunque ciò che si desidera bisogna che abbia essere ne la mente; e se è ne la mente, bisogna che sia ancor di fuori realmente, se non in atto, in potenzia, almanco ne le sue cause: altramente la cognizione sarebbe mendace; sí che nel tutto l’amore non è altro che desiderio.
Sofia. Ben m’hai dichiarato che ogni amore sia desiderio, e sempre di cose che, se ben hanno alcuno modo d’essere, mancano pur di presente, o ver di futuro. Ma mi resta un dubio, che, avvenga che ogni amore sia desiderio, non però direi ch’ogni desio fusse amore: ché l’amor non par che si stenda se non in persona vivente ovvero in cose che causino qualche spezie di perfezione (come son sanitá, virtú, richezze, sapienzia, onore e gloria); ché tal cose si sogliono amare e desiderare, ma son molte altre cose, accidenti e azioni, che, mancando, mai diremo amarle, ma desiarle.
Filone. Non t’inganni l’uso de’ vocabuli del vulgo, ché molte volte un nome, che ha general significazione, suole applicarsi a una de le sue spezie solamente: e cosí interviene a l’amore.
Sofia. Dammi qualche esemplo.
Filone. Il nome di cavaliere è di ciascun cavalcante bestia di quattro piedi, ma s’appropria solamente a quelli che son destri ed esperti per far guerra a cavallo; e il nome di mercatante è di ciascuno che qualche cosa compri, ma l’appropriamo solamente a quelli che hanno per propria arte il comprare e il vendere mercanzie per guadagnare di quelle. Cosí l’amore essendo universal nome d’ogni cosa disiata, s’appropria a persone, o a cose principali, che abbino in sé essere piú fermo; e l’altre si dice disiarle, e non amarle, perché l’essere loro è piú debole: ma in effetto tutte s’amano, ché, se ben non dirò che amo quella cosa che ancor non è, dirò che amo che sia, e se non l’ho, che amo d’averla; ché questa è ancor la propria intenzione del desiderante quando desidera, cioè, se non è, desiar che sia, e se non l’aviamo, desiar d’averla. Niente di manco l’amor, come piú eccellente vocabulo, si applica primamente a persone che sono e a cose eccellenti perfettive, ovvero possedute; e a l’altre diremo piú presto appetere, optare e desiare che amare, né affettare, né diligere, perché questi ne soglion mostrare piú nobile e fermo oggetto; e comunemente l’amor s’applica a le cose e il desio a l’azioni del loro essere, o ver di averle, non ostante che in sustanzia la significazione sia una medesima.
Sofia. Ancor di questo mi chiamo satisfatta, e concedo che appresso i mortali ogni amore è desiderio e ogni desiderio è amore. Ma appresso gli animali irragionevoli che dirai? ché noi vediamo che desiderano ciò che gli manca per mangiare o bere o per loro dilettazione, ovvero la loro libertá quando gli manca, ma non amano se non quel che hanno presente, come i lor figliuoli le madri e femmine e quelli che gli porgeno il cibo e il poto.
Filone. Ancor gli animali quel che desiderano amano avere, e quel che amano desiderano di non perdere, sí che in tutti si scontra l’amore con l’appetito e desiderio.
Sofia. Ti dirò bene, o Filone, qualch’amore, che non si può chiamare desiderio.
Filone. Quale è questo?
Sofia. L’amor divino.
Filone. Anzi quello è piú veramente desiderio, però che la divinitá piú che alcuna altra cosa è desiderata da chi l’ama.
Sofia. Non m’intendi: non parlo del nostro amore verso Iddio, ma de l’amore d’Iddio verso di noi e di tutte le cose che ha create, ché mi ricordo tu mi dicesti, nel secondo nostro parlamento, che Iddio ama molto tutte le cose che ha prodotte. Questo amore non potrai giá dire che presupponga mancamento, però che Iddio è sommamente perfetto e niente gli manca; e se non lo presuppone, non può essere desiderio, ché ’l desiderio (come hai detto) sempre è di cosa che manca.
Filone. In gran pelago vuoi notare! Sappi che alcuna cosa che si dica e applichi a noi e a Dio, non è manco distante e difforme in significazione di quanto è lontana sua altezza da nostra bassezza.
Sofia. Dichiara meglio ciò che vuoi dire.
Filone. D’un uomo si può dire che è uno buono e sapiente, le qual cose si dicono ancor d’Iddio: ma tanto è differente in esaltazione l’unitá, bontá, e sapienzia divina da la umana, quanto Iddio è piú eccellente che l’uomo. Cosí l’amore che ha Iddio a la creatura non è de la sorte del nostro, né ancor il desiderio, però che in noi l’uno e l’altro è passione e presuppone mancamento di qualche cosa, e in lui è perfezione d’ogni cosa.
Sofia. Credo ben quel che dici, ma non mi dá giá la propria satisfazione al dubio mio: però che, se Dio ha amore, bisogna che ami, e se ha desiderio, che desideri, e se desidera, desidera quel che in qualche modo manca.
Filone. È ben vero che Iddio ama e desidera, non quel che manca a lui (perché niente gli manca), ma desidera quel che manca a quel che ama; ed esso desia che tutte le cose da lui prodotte venghino ad essere perfette, massimamente di quella perfezione che loro possono conseguire mediante suoi propri atti e opere, come sarebbe negli uomini per loro opere virtuose e per loro sapienzia: sí che il desiderio divino non è in lui passione, né presuppone in lui mancamento alcuno, anzi, per la sua immensa perfezione, ama e desidera che le sue creature arrivino al maggior grado de la loro perfezione, se gli manca, e se l’hanno, che sempre la fruischino felicemente, e sempre per quello gli dá ogni aiuto e inviamento. Ti satisfá questo, o Sofia?
Sofia. Mi piace, ma non mi satisfá del tutto.
Filone. Che altro vuoi?
Sofia. Dimmi che cosa ne costringe ad applicare a Iddio amore e desiderio per li mancamenti d’altri, poiché a lui niente manca; e questo non par giá ben giusto.
Filone. Sappi che questa ragione ha fatto affermare a Platone che gli dèi non abbino amore, e che l’amore non sia dio né idea del sommo intelletto, però che essendo l’amore (come lui diffinisce) desiderio di cosa bella che manchi, gli dèi, che son bellissimi e senza mancamento, non è possibile che abbino amore. Onde lui tenne che l’amore sia un gran demonio, mezzo fra gli dèi e gli uomini, il quale levi l’opere buone e i netti spiriti degli uomini agli dèi, e che porti i doni e grazie degli dèi agli uomini, perché tutto si fa mediante l’amore; e l’intenzione sua è che l’amore non sia bello in atto, ché, se fusse, non amarebbe il bello né lo desideraria (ché quel che si possiede non si desia), ma che sia bello in potenzia e che ami e desii la bellezza in atto: sí che o è mezzo fra il bello e il brutto, o ver composto di tutti due, cosí come la potenzia è composta fra l’essere e la privazione.
Sofia. E tu perché non approvi questa sentenzia e ragione del tuo Platone, del quale suoli essere tanto amico?
Filone. Non l’approvo nel nostro discorso, però che (come dice di lui Aristotile suo discepulo), se ben di Platone siamo amici, piú amici siamo de la veritá.
Sofia. E perché non hai tu questa sua oppinione per vera?
Filone. Perché lui medesimo in altra parte gli contradice, affermando che coloro che contemplano intimamente la divina bellezza si fanno amici d’Iddio: vedesti mai, o Sofia, amico che non sia amato dal suo amico? Ancora Aristotile nell’Etica dice ch’il virtuoso è sapiente e felice e si fa amico d’Iddio, e Iddio l’ama come suo simile; e la sacra Scrittura dice che Iddio è giusto e ama i giusti, e dice che Iddio ama i suoi amici, e dice che i buoni uomini sono d’Iddio figliuoli e Iddio gli ama come padre: come vuoi dunque tu ch’io nieghi che in Dio non sia amore?
Sofia. Le tue autoritá son buone, ma non saziano senza ragione; e io non t’ho domandato chi pone in Dio amore, ma qual ragione ne costringe a ponercelo: parendo piú ragionevole ch’in lui (come dice Platone) non ne sia.
Filone. Giá si truova ragione che ne costringe a porre in Dio amore.
Sofia. Dimmela, ti prego.
Filone. Dio ha produtto tutte le cose.
Sofia. Questo è vero.
Filone. E continuo le sostiene nel loro essere; che se lui un momento l’abbandonasse, tutte in niente si convertirebbeno.
Sofia. Ancor questo è vero.
Filone. Dunque lui è un vero padre, che genera i suoi figliuoli, e dipoi che gli ha generati con ogni diligenzia gli mantiene.
Sofia. Propriamente padre.
Filone. Di’ adunque: se ’l padre non appetisse, generaria mai? e se non amasse i generati figliuoli, gli manterria sempre con somma diligenzia?
Sofia. Ragion hai, o Filone: veggo che piú eccellente è l’amor d’Iddio alle creature che quel delle creature l’una a l’altra e a Dio, cosí come l’amor del padre e de l’un fratello a l’altro. Ma quel che mi resta difficile è che l’amore e desiderio, qual’ sempre presuppongono mancamento, non si truovi alcuno ch’il presupponga nel medesimo amante, ma solamente ne la cosa amata (come tu dici de l’amore divino). Troveresti tu appresso di noi qualche amore, che presupponesse cosí il mancamento ne la cosa amata, e non ne l’amante?
Filone. Il simulacro de l’amore d’Iddio agl’inferiori è l’amore del padre al figliuolo carnale, ovvero del maestro al discepolo, che è suo figlio spirituale; e ancor il simiglia l’amor d’un virtuoso amico a l’altro.
Sofia. In che modo? Non l’assimiglia giá nel desiderio che ha il padre di fruire sempre il suo figliuolo, e l’amico il suo amico, ché questo presuppone ne l’amante mancamento di perpetua fruizione, il quale in Dio non cade.
Filone. Benché in questo amore e desiderio non l’assimigli, l’assimiglia pur in ciò, che l’amore del padre consiste assai nel desiare al figliuolo ogni bene che gli manchi, il qual presuppone mancamento nel figlio amato, non giá nel padre amante; cosí il maestro desia la virtú e sapienzia del discepolo, che mancano al discepolo e non al maestro, e l’uno amico appetisce che la felicitá, che manca a l’altro amico, che l’abbi e sempre la fruisca. È ben vero che questi amanti (per essere mortali), quando viene a effetto il suo desiderio del ben de’ loro amanti, guadagnano una allegrezza delettabile, che prima non aveano; qual non interviene in Dio, perché niente di nuova letizia, diletto o altra passione o nova mutazione gli può sopravenire de la nuova perfezione de le sue amate creature: però che lui, d’ogni passione libero, è sempre immutabile e pieno di dolce letizia, suave gaudio ed eterna allegrezza; solo è differente che l’allegrezza sua reluce ne’ suoi figliuoli e amici perfetti, ma non negl’imperfetti.
Sofia. Molto mi piace questo discorso: ma come mi consolerai di Platone che, essendo quel che è, nieghi che in Dio sia amore?
Filone. Di quella spezie d’amore, del quale nel suo Convivio disputa Platone (che è sol de l’amore participato agli uomini), dice il vero, che non ne può essere in Dio: ma de l’amore universale, del quale noi parliamo, sarebbe falso negare che in Dio non ne fusse.
Sofia. Dichiarami questa differenzia.
Filone. Platone in quel suo Simposio disputa solamente de la sorte de l’amore che negli uomini si truova, terminato ne l’amante ma non ne l’amato: però che questo principalmente si chiama amore, ché quel che si termina ne l’amato si chiama amicizia e benivolenzia. Questo rettamente lui diffinisce che è desiderio di bellezza. Tale amore dice che non si truova in Dio, però che quel che desia bellezza non l’ha né è bello, e a Dio, che è sommo bello, non gli manca bellezza né la può desiare, onde non può avere amore, cioè di tal sorte. Ma [a] noi, che parliamo de l’amore in comune, è bisogno comprendere egualmente quel che si termina ne l’amante, che presuppone mancamento nell’amante e quel che si termina nell’amato, che presuppone mancamento ne l’amato e non ne l’amante: e perciò noi non l’abbiamo diffinito desiderio di cosa bella (come Platone), ma sol desiderio d’alcuna cosa, o ver desiderio di cosa buona; la quale può essere che manchi a l’amante, e può essere che non manchi se non a l’amato, come è parte de l’amor del padre al figlio, del maestro al discepolo, de l’amico a l’amico, e tale è quel d’iddio a sue creature: desiderio del ben loro, ma non del suo. E di questa seconda sorte d’amore concede e dice Platone e Aristotile, che gli ottimi e sapienti uomini sono amici d’Iddio e da lui molto amati, però che Iddio ama e desidera eternalmente e impassibilmente la loro perfezione e felicitá; e giá Platone dichiarò ch’il nome d’amore è universale a ogni desiderio di qual si voglia cosa e di qual si voglia desiderante, ma ch’in specialitá si dice solamente desiderio di cosa bella: sí che lui non escluse ogni amore d’Iddio, ma sol questo speciale, che è desiderio di bellezza.
Sofia. Mi piace che Platone resti verace, che non si contradica; ma non pare giá che la diffinizione, che lui pone all’amore, escluda l’amor d’Iddio (come lui vuole): inferire anzi mi par che non meno il comprenda che la diffinizione che tu gli hai assignata.
Filone. In che modo?
Sofia. Che cosí come tu (dicendo che l’amore è di cosa buona) intendi o per l’amato, che gli manca, o ver per altra persona da lui amata, a la qual manchi; cosí dicendo io che amore è desiderio di cosa bella (come vuol Platone), intenderò per esso amante, al qual manca tal bellezza, o ver per altra persona da lui amata, a la qual manchi tal bellezza, ma non a l’amante: e in questa sorte s’include l’amor d’Iddio.
Filone. Tu t’inganni, che credi ch’il bello e il buono siano una medesima cosa in tutto.
Sofia. E tu fai forse fra il buono e il bello questa differenzia?
Filone. Sí, che io la faccio.
Sofia. A che modo?
Filone. Che il buono possi il desiderante desiare per sé, o per altri che lui ama, ma il bello propriamente sol per se medesimo il desii.
Sofia. Per che ragione?
Filone. La ragione è che il bello è appropriato a chi l’ama, ché quel che a un par bello non pare a un altro. Onde il bello, che è bello appresso uno, non è bello apresso di un altro: ma il buono è comune in se stesso, onde il piú delle volte quel che è buono è [buono] appresso di molti. Sí che chi disidera bello, sempre il desidera per sé, che gli manca: ma chi desidera buono, il può desiderare per se medesimo o per altro suo amico, a chi manchi.
Sofia. Non sento giá questa differenzia, che tu poni fra il bello e il buono: però che, cosí come dici del bello, o ver buono, che pare a uno e non a un altro, cosí dirò io (e con veritá) del buono, che a uno una cosa par buona e a un altro non buona; e tu vedi che l’uomo vizioso il cattivo il reputa buono e però il segue, e il buono il reputa cattivo e però il fugge, [come] contrario del virtuoso: sí che questo, ch’interviene al bello, interviene ancor al buono.
Filone. Tutti gl’uomini di sano iudizio e di retta e temperata volontá reputano il buono per buono e il cattivo per cattivo, cosí come tutti li sani di gusto il cibo dolce gli addolcisce, l’amaro gli amareggia: ma a quelli d’infermo e corrotto ingegno e di stemperata volontá il buono gli par cattivo e il cattivo buono, cosí come gl’infermi, ch’il dolce gli amareggia e l’amaro qualche volta gli addolcisce; e cosí come il dolce, quantunque amareggi l’infermo, non lassa d’essere veramente dolce, cosí il buono, non ostante che da l’infermo d’ingegno sia reputato cattivo, non però lassa d’essere veramente e comunemente buono.
Sofia. E non è cosí il bello?
Filone. Non certamente, che il bello non è un medesimo a tutti gli uomini di sano ingegno e virtuosi, perché, ancor che il bello sia buono appresso tutti, appresso d’uno de’ virtuosi è talmente bello che si muove ad amarlo, e appresso de l’altro virtuoso è buono ma non bello, né si muove a amarlo; e cosí come il buono e il cattivo somigliano ne l’animo al dolce e amaro nel gusto, cosí il bello e non bello (ne l’animo) somigliano al saporito, cioè delettabile, nel gusto e al non saporito, e il brutto e deforme somigliano a l’orribile e abbominevole nel gusto. Onde, cosí come si truova una cosa che appresso tutti i sani è dolce, ma ad uno è saporita e delettabile, e non ad un altro; cosí si truova una cosa o persona appresso ogni virtuoso buona, ma ad un altro bella, tanto che sua bellezza l’incita a amarla, e ad un altro non. Però vedrai che l’amore passionabile, che punge l’amante, è sempre di cosa bella; del qual solamente Platone parla, e diffinisce che è desiderio di bello, cioè desio d’unirsi con una persona bella, o ver con una cosa bella, per possederla: come sarebbe una bella cittá, un bel giardino, o un bel cavallo, un bel falcone, una bella robba, una bella gioia, le qual cose o che se desiderano avere ovvero, avute, di continuo fruirsele, e presuppongono sempre mancamento in presente o in futuro ne la persona amante. E di tale amore dice Platone che in Dio non è, e non che in Dio non sia amore: però che tale amore non è senza potenzia, passione e mancamento, quali in Dio non si truovano; e dice che è magno demone, però che ’l demone (secondo lui) è mezzo fra il puro spirituale e perfetto e il puro corporale imperfetto, che cosí le potenzie e passioni de l’anima nostra son mezzo fra gli atti corporei puri e fra gli atti intellettuali divini, e mezzi fra la bellezza e bruttezza, però che la potenzia è mezzo fra la privazione e l’essere attuale: e perché fra le passioni de l’anima l’amore è la maggiore, però Platone la chiama magno demone. Ma come sia che l’amore in tutta sua comunitá non solamente è circa le cose buone che son belle, ma ancor circa le buone se ben non son belle, e consegue il buono in tutta sua universalitá, sia bello sia utile sia onesto sia delettabile o di qual altra spezie di buono si trovasse: però accade che qualche volta è delle cose buone che mancano a esso amante, e qualche volta di cose buone che mancano a la cosa amata, ovvero a l’amico de l’amante, e di questa seconda sorte ama Iddio sue creature per farle perfette d’ogni cosa buona che gli manchi.
Sofia. È stato alcuno degli antichi, che abbi diffinito l’amore in sua comunitá conseguente al buono ne la sua universalitá?
Filone. Qual meglio che Aristotile ne la sua Politica? che dice che amore non è altro che voler bene per alcuno, cioè o per se stesso o ver per altro. Mira come, per farlo comune a ogni spezie d’amore non il diffiní [per] bello, ma per buono, e con galantaria e brevitá incluse tutte due le sorte d’amore in questa sua diffinizione, ché se l’amante vuole il bene per se stesso, manca ad esso amante, e se ’l vuol per altrui quale ami, ad esso amato o amico solamente manca, non giá a l’amante, come è l’amor d’Iddio. Sí che Aristotile, che ha diffinito l’amore universalmente per buono, ha incluso l’amore divino; Platone, che l’ha diffinito spezialmente per bello, l’ha escluso, però che il bello non assegna mancamento se non ne l’amante, a chi par bello.
Sofia. Non satisfá tanto a me questa diffinizione d’Aristotile, quanto a te.
Filone. Perché?
Sofia. Perché il proprio amore mi pare che sia sempre di voler bene per sé, non per altro, come lui significa: però che ’l proprio e ultimo fine ne l’opere de l’uomo, e di ciascuno altro, è di conseguire suo proprio bene, piacere e perfezione; e per questo ciascuno fa quel che fa, e se vuol ben per altrui, è per il piacer che lui ha del ben di quello. Sí che il suo piacere è l’intento suo in amare, non giá il bene d’altri, come dice Aristotile.
Filone. Non men vero che sottile è questo tuo detto, che il proprio e ultimo fine ne l’opere d’ogni agente sia sua perfezione, suo piacer, suo bene e finalmente sua felicitá; e non solamente il bene, che vuole l’amante per il suo amico o amato, è per il piacer che lui riceve in quello, ma ancor perché lui riceve quel medesimo bene che l’amico e l’amato riceve, come sia che lui [non] solamente è amico del suo amico, ma un altro lui stesso: onde i beni di quello sono propri suoi, sí che, desiando il ben de l’amico, il suo proprio desia. E tu sai che l’amante si converte e trasforma ne la persona amata: onde dirotti che i beni di quella son piú veramente suoi che li propri suoi, e piú veramente suoi che di quella, se la persona amata ama reciprocamente l’amante, perché allora il ben d’ognun di loro è proprio de l’altro e alieno da se stesso; onde li due che mutuamente s’amano non son veri due.
Sofia. Ma quanti?
Filone. O solamente uno, o ver quattro.
Sofia. Che li due siano uno intendo, perché l’amore unisce tutti due gli amanti e gli fa uno; ma quattro a che modo?
Filone. Trasformandosi ognuno di loro nell’altro, ciascuno di loro si fa due, cioè amato e amante insieme: e due volte due fa quattro; sí che ciascuno di loro è due, e tutti due sono uno e quattro.
Sofia. Mi piace l’unione e multiplicazione de li due amanti; ma tanto piú mi par strano che Aristotile dica che una delle sorti d’amore sia voler bene per altrui.
Filone. Giá presuppone Aristotile ch’il fine de l’amore sempre sia il bene de l’amante: ma questo o è ben suo immediate ovvero ben suo mediante altrui, amico o amante; e lui dichiarò che l’amico è un altro se stesso.
Sofia. Questa glosa de la diffinizione d’Aristotile te la consentirò: ma quando cosí sará intesa, non includerá giá l’amor d’Iddio, come dicevi.
Filone. Perché?
Sofia. Però che se Iddio ama il ben de le sue creature (come dici), amando quello amaria il ben suo, e non solamente presupponeria mancamento di quel bene desiderato ne le creature, ma ancora in se stesso; che è absurdo.
Filone. Giá per il passato t’ho significato che il difetto de la cosa operata induce ombra di difetto ne l’artifice, ma solo ne la relazione operativa che ha con la cosa operata: in questo modo si può dire che Iddio, amando la perfezione di sue creature, ama la perfezione relativa di sua operazione, ne la quale il difetto de la cosa operata indurria ombra di difetto, e la perfezione di quella ratificaria la perfezione relativa di sua divina operazione. Onde gli antichi dicono che l’uomo giusto fa perfetto il splendore de la divinitá e l’iniquo il macula; sí che ti concederò che, amando Iddio la perfezione [di sue creature], ama la perfezione di sua divina azione: e il mancamento che gli presupponi non è ne la sua essenzia, ma ne l’ombra de la relazione del creatore a le creature, che, possendo essere maculato per difetto di sue creature desidera sua immaculata perfezione mediante la desiderata perfezione di sue creature.
Sofia. Mi piace questa sottilitá; ma tu m’hai detto, nel primo nostro parlamento, che l’amore è desiderio d’unione: questa diffinizione [non] comprenderia l’amor d’Iddio, che è del bene di sue creature ma non d’unirsi con quelle, perché nissun desidera unirsi se non con quello che lui reputa piú perfetto di lui.
Filone. Nissuno desidera unirsi se non con quello, col quale essendo unito, lui sarebbe piú perfetto che non essendo; e giá t’ho detto che la divina operazione relativa è piú perfetta quando le creature per sua perfezione sono unite col creatore, che quando non sono. Ma Dio non desidera sua unione con le creature, come fanno gli altri amanti con le persone amate, ma desidera l’unione de le creature con sua divinitá, acciò [che] pur la loro perfezione con tale unione sia sempre perfetta, e immaculata l’operazione di esso creatore relata alle sue creature.
Sofia. Satisfatta son di questo: ma quello in che mi truovo inquieta è che tu fai gran differenzia dal bello (per il quale Platone ha diffinito l’amore) al buono (per il quale il diffiní Aristotile), e a me in effetto il bello e il buono pare una medesima cosa.
Filone. Tu sei in errore.
Sofia. Come mi negherai che ogni bello non sia buono?
Filone. Io non il niego, ma vulgarmente si suol negare.
Sofia. A che modo?
Filone. Dicono che non ogni bello è buono, perché qualche cosa che par bella è gattiva in effetto, [e] cosí qualche cosa che par brutta è buona.
Sofia. Questo non ha luogo: però che, a chi la cosa par bella, ancor par buona da quella parte che è bella, e se in effetto è buona, in effetto è bella; e quella che par brutta, pare ancor gattiva da la parte che è brutta, e se in effetto è buona, in effetto non è brutta.
Filone. Ben le repruovi, non ostante che (come t’ho detto) ne l’apparenzia piú luogo ha il bello che ’l buono, e ne l’esistenzia piú il buono che il bello; ma respondendo a te, dico che, se bene ogni bello è buono (come dici), sia in essere sia in apparenzia, non però ogni buono è bello.
Sofia. Qual buono non è bello?
Filone. Il cibo, il poto dolce e sano, il soave odore, il temperato aere non negarai che non sieno buoni, ma non gli chiamarai giá belli.
Sofia. Queste cose, se ben non le chiamerò belle, mi credo che sieno: però che, se queste cose buone non fussero belle, bisogneria che fussino brutte; ed esser buono e brutto mi par contrarietá.
Filone. Piú corretto vorrei che parlassi, o Sofia. Buono e brutto d’una medesima parte è ben vero che non possono star insieme, ma non è vero che ogni cosa che non è bella sia brutta.
Sofia. Che è adunque?
Filone. È né bella né brutta, come son molte cose del numero de le buone, che ben vedi che nelle persone umane, ne le quali cade bello e brutto, si truovano alcune che non sono belle né brutte: tanto piú in molte spezie di cose buone, ne le quali non cade né bellezza né bruttezza, come quelle che ho detto, che veramente non sono belle né brutte; pure è questa differenzia fra le persone e le cose, che ne le persone diciamo che non son belle né brutte, quando son belle in una parte e brutta in un’altra; onde non sono interamente belle né brutte. Ma le cose buone che t’ho nominato non sono belle né brutte in tutto né in parte.
Sofia. Quella composizione di bellezza e bruttezza ne le persone venerali non si può negare; ma di questa neutralitá di quelle cose buone che non son belle né brutte, vorrei qualche esemplo o evidenzia piú.
Filone. Non vedi tu molti che non son né sani né ignoranti?
Sofia. Che sono adunque?
Filone. Son credenti veritá, ovvero rettamente opinanti: ché quelli che credono il vero non son savi, ché non sanno per ragione o scienzia, nè sono ignoranti, perché credono il vero o hanno di quello retta oppinione; cosí si truovano molte cose buone, le quali non sono né belle né brutte.
Sofia. Dunque il bello non è solamente buono, ma buono con qualche addizione ovvero giunta?
Filone. Con giunta veramente.
Sofia. Quale è la giunta?
Filone. La bellezza, perché il bello è un buono che ha bellezza, e il buono senza quella non è bello.
Sofia. Che cosa è bellezza? dá ella gionta al buono oltra che la bontá di quello?
Filone. Largo discorso saria bisogno per dichiarare o diffinire che cosa sia bellezza, perché molti la veggono e la nominano, e non la conoscono.
Sofia. Chi non conosce il bello dal brutto?
Filone. Ciascuno conosce il bello, ma pochi conoscono qual sia quella cosa, per la qual tutti i belli son belli, qual chiamano bellezza.
Sofia. Dimmi quale è, ti prego.
Filone. Diversamente è stata diffinita la bellezza, che non mi par necessario al presente dichiararti e discernere la vera da la falsa, che non è troppo del proposito, massimamente che piú innanti credo che sará bisogno parlare de la bellezza piú largamente; per ora ti dirò solamente, in somma, sua vera e universale diffinizione. La bellezza è grazia, che, dilettando l’animo col suo conoscimento, il muove ad amare; e quella cosa buona, o persona, nella quale tal grazia si truova, è bella, ma quella buona ne la qual non si truova questa grazia, non è bella né brutta: non è bella perché non ha grazia, non è brutta perché non gli manca bontá. Ma quello al quale tutte due queste mancano, cioè grazia e bontá, non solamente non è bello, ma è gattivo e brutto, ché fra bello e brutto è mezzo, ma fra buono e gattivo non è ver mezzo, perché il buono è essere e il gattivo privazione.
Sofia. La potenzia non m’hai detto che è mezzo fra l’essere e la privazione?
Filone. È mezzo fra l’essere in atto e perfetto e fra la total privazione; ma la potenzia è essere appresso la privazione, ed è privazione appresso l’essere attuale, onde è mezzo proporzionale compositivo de la privazione e de l’essere attuale, cosí come l’amore è mezzo fra il bello e brutto. E non però fra l’essere e la privazione di quello può cader mezzo, perché fra l’abito e la privazione di quello non può esser mezzo, che son contradditòri; ché la potenzia è abito in respetto della pura privazione (e fra loro non cade mezzo), ed è privazione respetto de l’abito attuale, e cosí fra loro non è mezzo: il quale è fra il bello e il brutto, ma fra il buono e il gattivo assoluto non cade mezzo.
Sofia. Mi piace questa diffinizione, ma vorrei sapere perché ogni cosa buona non ha questa grazia.
Filone. Negli oggetti di tutti i sensi esteriori si truovano cose buone, utili, temperate e delettabili; ma grazia che diletti e muova l’anima a proprio amore (qual si chiama bellezza), non si truova negli oggetti de li tre sensi materiali, che sono il gusto l’odore e il tatto, ma solamente negli oggetti de’ due sensi spirituali, viso e audito. Onde il dolce e sano cibo e poto e il soave odore e salutifero aere e il temperato e dolcissimo atto venereo, con tutta la loro bontá, dolcezza, suavitá e utilitá necessaria a la vita de l’uomo e de l’animale, non son però belli: però che in quelli materiali oggetti non si truova grazia o bellezza, né per questi tre sensi grossi e materiali può passar la grazia e bellezza a l’anima nostra per delettarla o muoverla ad amare [il] bello. Ma solamente si truova negli oggetti del viso, come son belle forme e figure e belle pitture, e bell’ordine delle parti fra se stesse al tutto, e belli e proporzionati stormenti e belli colori e bella e chiara luce e bel sole e bella luna, belle stelle e bel cielo: però che ne l’oggetto del viso per sua spiritualitá si trova grazia, quale per li chiari e spirituali occhi suole entrare a delettare e muovere nostra anima ad amare quello oggetto, qual chiamano bellezza. E si truova negli oggetti de l’audito, come bella orazione, bella voce, bel parlare, bel canto, bella musica, bella consonanzia, bella proporzione e armonia; ne la spiritualitá de’ quali si truova grazia, qual muove l’anima a delettazione e amore mediante il spiritual senso de l’audito. Sí che ne le cose belle c’hanno del spirituale, e sono oggetti de’ sensi spirituali, e negli oggetti de’ sensi materiali non si truova grazia di bellezza: e però, se ben son buone, non son belle.
Sofia. È forse ne l’uomo altra virtú che comprenda il bello, oltre il viso e l’audito?
Filone. Quelle virtú conoscitive che son piú spirituali, ché quelle conoscono piú il bello che queste.
Sofia. Quali sono?
Filone. L’immaginazione e fantasia, che compone discerne e pensa le cose de’ sensi, conosce molti altri offizi e casi particulari graziosi e belli, che muovono l’anima a dilettazione amorosa; e giá si dice una bella fantasia e un bel pensiero, una bella invenzione. Molto piú conosce del bello la ragione intellettiva, la qual comprende grazie e bellezze universali, incorporee e incorruttibili, ne’ corpi particulari e corruttibili, le quali molto piú muoveno l’anima alla dilettazione e amore: come son gli studi, le leggi, virtú e scienzie umane, quali tutte si chiamano belle; bel studio, bella legge, bella scienzia. Ma la suprema cognizione de l’uomo consiste ne la mente astratta, qual, contemplando ne la scienzia di Dio e de le cose astratte da materia, si diletta e innamora de la somma grazia e bellezza che è nel creatore e fattore di tutte le cose, per la quale arriva a sua ultima felicitá. Sí che l’anima nostra si muove de la grazia e bellezza, che entra spiritualmente per il viso, per l’audito, per la cogitazione, per la ragione e per la mente; però che negli oggetti di questi, per la lor spiritualitá, si truova grazia che diletta e muove l’anima ad amare, e non negli oggetti de l’altre virtú de l’anima, per la loro materialitá. Sí che il buono per essere bello (se bene è corporeo) bisogna che abbi con bontá qualche maniera di spiritualitá graziosa, tal che, passando per le vie spirituali ne l’anima nostra, la possi dilettare e muovere a quella cosa bella: sí che l’amor umano (del quale principalmente parliamo) propriamente è desiderio di cosa bella, come dice Platone, e comunemente è desiderio di cosa buona, come dice Aristotile.
Sofia. Mi basta questa relazione de l’essenzia de l’amore per introduzione a parlare del suo nascimento. Vegniamo a quel ch’io desidero, e solvimi le cinque domande che t’ho fatto de l’origine de l’amore.
Filone. La prima tua dimanda è se l’amore nacque, cioè se ha avuto origine da altri, che gli sia causa producente, o ver se è primo eterno da niun altro prodotto: a la qual rispondo che è necessario che l’amor sia proceduto da altri e che in nissun modo possi essere primo in eternitá; anzi bisogna concedere che siano altri primi a lui in ordine di causa.
Sofia. Dimmi la ragione.
Filone. Sono assai le ragioni: prima, perché l’amante precede a l’amore come l’agente a l’atto, e cosí il primo amante bisogna che preceda e causi il primo amore.
Sofia. Par buona ragione che l’amante debba precedere a l’amore, ché amando il produce: onde la persona può stare senz’amore, e non può l’amore senza persona. Dimmi l’altra ragione.
Filone. Cosí come l’amante precede a l’amore, cosí il precede l’amato, ché se non fusse persona o cosa amabile prima, non si potrebbe amare né sarebbe amore.
Sofia. Ancora in questo hai ragione, ché come de l’amante cosí de l’amato è che l’amore non può essere senza cosa o persona amabile, ma la cosa amabile potrebbe essere senza amore, cioè senza essere amata; e ben pare che l’amante e l’amato siano princípi e cause de l’amore.
Filone. Che differenzia di causalitá ti pare, o Sofia, che sia fra l’amante e la cosa amata, e qual di lor due ti par che sia prima causa de l’amore?
Sofia. L’amante mi par che sia l’agente, come padre, e la persona o cosa amata par che sia il recipiente, come quasi madre: ché, secondo i vocabuli, l’amante è operante e la cosa amata operata. È adunque l’amante de l’amor la prima causa, e l’amato la seconda.
Filone. Meglio sai domandare che solvere, o Sofia: perché è il contrario, che l’amato è causa agente, generante l’amore ne l’animo de l’amante, e l’amante è recipiente de l’amore de l’amato; di modo che l’amato è il vero padre d’amore, che genera ne l’amante, che è la madre che parturisce l’amore, del qual fu ingravidata da l’amato, e il partorisce a simiglianza del padre; però che l’amore si termina ne l’amato, qual fu suo principio generativo. Sí che l’amato è prima causa agente formale e finale de l’amore, come intero padre, e l’amante è solamente causa materiale, come gravida e parturiente madre; e questo intende Platone, quando dice che l’amore è parto in bello: tu sai che ’l bello è l’amato, del qual la persona amante prima ingravidata, parturisce l’amore a similitudine del padre bello e amato, e in quello come in ultimo fine il dirizza.
Sofia. Io era in errore, e piacemi saper il vero: ma che mi dirai de la significazione de’ vocabuli, qual mi ha ingannato, che amante vuol dire agente, e amato paziente?
Filone. Cosí è il vero: perché l’amante è l’agente de la servitú de l’amore, ma non de la generazion sua, e l’amato è recipiente del servizio de l’amante, ma non de la causalitá de l’amore; e [se] io ti dimandarò qual è piú degno, o il servitore o il servito, l’obediente o l’obedito, l’osservante o l’osservato, certo dirai che questi agenti sono inferiori a questi suoi recipienti. Cosí è l’amante verso l’amato, però che l’amante serve, obedisce e osserva l’amato.
Sofia. Questo ha luogo negli amanti men degni che gli amati: ma quando l’amante in effetto è piú degno che l’amato, la sentenzia debbe esser contraria, ché l’amante debbe esser come padre e superiore de l’amore, e la cosa amata come madre [e] inferiore.
Filone. Ben che sieno degli amanti che secondo la natura loro son piú eccellenti che gli amati (come è il marito de la donna quale ama, e il padre del figliuolo, e il maestro del discipulo, e il benefattore del beneficiato, e, piú in comune, il mondo celeste del terreno, qual ama, e il spirituale del corporeo, e finalmente Iddio de le sue creature, quali da lui sono amate), nondimanco ogni amante (in quanto amante) s’inclina all’amato e se gli aderisce, come accessorio al suo principale; però che l’amato genera e muove l’amore, e l’amante è mosso da lui.
Sofia. E come può stare che ’l superiore sia inclinato e accessorio a l’inferiore?
Filone. Giá ti ho detto che quanto ognuno ama e fa è per sua propria perfezione, gaudio o diletto; e ben che la cosa amata in sé non sia cosí perfetta come l’amante, esso amante resta piú perfetto quando unisce seco la cosa amata, o almanco resta con piú gaudio e diletto. Questa nuova perfezione, gaudio o diletto, che acquista l’amante per unione de la cosa amata (sia in se stessa piú degna o manco degna), il fa inclinato ad esso amato, ma non perciò lui resta difettuoso e di manco dignitá o perfezione, anzi resta di piú con l’unione e perfezione de la cosa amata: in modo che non solamente chi ama persona è inclinato a quella per la perfezione o gaudio che acquista ne la sua unione, ma ancora chi non persona, ma alcuna cosa ama per possederla, s’inclina a quella per quello che avanza in sé quando l’acquista.
Sofia. Intendo questo: ma che dirai quando due hanno amore reciproco, e ognuno è amante e amato egualmente? bisogna che conceda che ciascuno di loro è inferiore e superiore a l’altro, che sarebbe contrarietá.
Filone. Contrarietá non è anzi, è veritá che ciascuno di loro, in quanto ama, è inferiore a l’altro, e in quanto è amato gli è superiore.
Sofia. Sarebbe dunque ciascuno superiore a se stesso.
Filone. Ancor questo è vero, che ciascuno amante è superiore a se stesso amato, e se forse un se stesso amasse, saria superiore se stesso amato a se stesso amante. E giá t’ho detto, quando parlammo de la comunitá de l’amore, che Aristotile (secondo vede Averrois) tiene ch’Iddio sia motore de la prima sfera diurna, qual muove per amor di cosa piú eccellente, come ciascuno degli altri intelletti moventi l’altre sfere; e che, come sia ch’alcuno altro non è piú eccellente che Iddio, anzi inferiore a lui, bisogna dire che Iddio muova quella somma sfera per amor di se stesso, e che in Dio è piú sublime l’essere amato da se stesso che amare se stesso, ben che sua divina essenzia consista in purissima unitá, secondo piú largamente allor da me hai inteso. Adunque, se Iddio con sua simplicissima unitá ha piú del sommo e supremo in quanto è amato da se stesso, che in quanto ama se stesso, tanto piú in altri due amanti reciprocamente, che ognuno può essere piú eccellente ne l’essere amato che ne l’amare, non pur in altri, ma in se stesso.
Sofia. Giá mi satisfariano le tue ragioni, se io non vedessi Platone dir chiaramente il contrario?
Filone. Che dice che sia il contrario?
Sofia. Nel suo libro del Convito mi ricordo che dice che l’amante è piú divino che l’amato, però che l’amante è rapito dal divino furore amando. Onde dice che gli dèi son piú grati e propizi agli amati che fanno cose grandi per li amatori, che agli amatori per far cose estreme per l’amati; e dá essemplo di Alceste, il quale perché volse morire per il suo amato, gli dèi lo resuscitorno e onororno, ma non il trasmigrorno nelle beate insule, come Achille, perché volse morire per il suo amatore.
Filone. Queste parole, che Platone riferisce in quel suo Simposio, son di Fedro giovene galante, discipulo di Socrate, qual dice l’amore essere gran dio e sommamente bello e, per essere bellissimo, che ama le cose belle; ed essendo l’amore ne l’amante come in proprio suggetto, abitante dentro del suo cuore come il figliuolo nel ventre de la madre, diceva Fedro che l’amante, per il divino amore che ha, è fatto divino piú che l’amato, qual non ha in sé amore ma solamente il causa ne l’amante: onde il dio d’amore dá all’amante furor divino, che non il dona a l’amato, e perciò gli dèi son piú favorevoli a gli amati che servono suoi amanti (come si mostra d’Achille), che agli amanti che servono suoi amati (come par d’Alceste).
Sofia. E questa ragione non ti par sufficiente, o Filone?
Filone. Non mi par retta, né ancor parse giusta a Socrate.
Sofia. Sí? e perché?
Filone. Socrate, disputante contra Agatone oratore (il quale ancora teneva amore essere un gran dio e bellissimo), dimostra che amore non è dio, però che non è bello, conciosiaché tutti gli dèi sian belli; e dimostra che lui non è bello, però che amore è desiderio di bello, e quel che si desidera al desiderante sempre manca, ché quel che si possiede non si desidera. Onde Socrate dice che l’amor non è dio, ma è un gran demone, mezzo fra gli dèi superiori e gli umani inferiori, e se ben non è bello come Iddio, non è ancora brutto come gl’inferiori, ma mezzo fra la bellezza e la bruttezza: però che ’l desiderante, se bene in atto non è quel che desidera, è pur quello in potenzia, e cosí se l’amore è desiderio di bello, è bello in potenzia e non in atto, come son gli dèi.
Sofia. Che vuoi inferire per questo, o Filone?
Filone. Ti mostro la divinitá consistere ne l’amato e non ne l’amante: però che l’amato è bello in atto come Dio, e l’amante che ’l desia è bello solamente in potenzia, per il qual desiderio, se ben si fa divino, non però è dio come l’amato; e però vedrai che l’amato in mente de l'amante è onorato cuntemplato adorato come proprio dio, e sua bellezza ne l’amante è reputata divina, che nissuna altra se li può equiparare. Non ti par dunque, o Sofia, che l’amato preceda, in eccellenzia e causalitá de l’amore, de l’amante e sia piú degno?
Sofia. Sí certamente, ma che dirai tu a l’esemplo d’Achille e d’Alceste?
Filone. Alceste, che morí per l’amato, non fu onorato come Achille, che morí per l’amante: però che l’amante è in obbligo di necessitá a servire il suo amato, come suo dio, ed è costretto a morir per lui; e non potria fare altrimente, se ama bene, perché giá nell’amato è trasformato, e in quel consiste sua felicitá, e tutto il ben suo ormai non è in se stesso. Ma l’amato non è in obbligo alcuno a l’amante, né è costretto da l’amore a morir per lui; e se pur il vuol fare, come Achille, è atto libero e pura liberalitá, onde da Iddio debbe essere piú remunerato, come fu Achille.
Sofia. Mi piace questo che dici: ma non mi par da credere che, se Achille, come era amato, non fusse stato ancora amante del suo amante, che avesse voluto morir per lui.
Filone. Non negherei giá che Achille non amasse il suo amante, poi che per lui volse morire: ma quello era amor reciproco, causato da l’amor che il suo amante avea verso di lui; onde rettamente diremo che mori per l’amore che ’l suo amante gli portava, che fu la causa prima, e non per quello amore che lui reciprocamente portava a l’amante, che fu causato del primo.
Sofia. Mi piace la ragione che fece meritar piú premio dagli dèi Achille che Alceste; ma come può stare che l’amato sia sempre dio de l’amante? ché seguirebbe che la creatura amata da Dio sarebbe dio a Dio, che è absurdo, non solamente di Dio a sue creature, ma ancor del spirituale al corporale e del superiore a l’inferiore e del nobile a l’ignobile.
Filone. L’amore, quale è fra le creature de l’una a l’altra, presuppone mancamento, e non solamente l’amor degli inferiori a’ superiori, ma ancor quello de’ superiori agl’inferiori dice mancamento, però che nessuna creatura è sommamente perfetta, anzi, amando non solamente i superiori loro ma ancora gl’inferiori, crescono di perfezione e s’approssimano alla somma perfezione di Iddio: perché il superiore non solamente in sé cresce di perfezione in bonificar l’inferiore, ma ancor cresce ne la perfezione de l’universo, che è il maggior fine (secondo t’ho detto). Per questo crescimento di perfezione in lui e ne l’universo, l’amato inferiore ancor si fa divino ne l’amante superiore, però che in essere amato participa la divinitá del sommo creatore, quale è primo e sommamente amato e per sua participazione ogni amato è divino, perché, essendo lui sommo bello, d’ogni bello è participato e ogni amante s’approssima a lui amando qualsivoglia bello, se bene è inferiore di lui amante: e con questo esso amante cresce di bellezza e divinitá, e cosí fa crescere l’universo, e però si fa piú vero amante e piú prossimo al sommo bello.
Sofia. M’hai resposto de l’amor che ’l superiore ha a l’inferiore fra le creature, ma non de l’amore d’Iddio a esse creature, nel qual consiste la maggior forza del mio argumento.
Filone. Giá ero per dirtelo. Sappi che l’amore, cosí come molti altri atti e attribuzioni che di Dio e delle creature si sogliono dire, non si dicono giá di lui come de le creature; e giá t’ho dato esemplo d’alcuni attributi, e tu sai che l’amore in tutte le creature dice mancamento, ancor ne’ celesti e spirituali, però che tutti mancano de la somma perfezione divina, e tutti suoi atti, desidéri, e amori son per approssimarsi a quella quanto possono. È ben vero che negl’inferiori l’amore non solamente dice mancamento, ma in alcuni di loro dice ed è passione, come negli uomini e animali; e negli altri, come negli elementi e misti sensibili, dice inclinazione naturale: ma in Dio l’amore né passione né inclinazione naturale né mancamento alcuno dice, come che esso sia libero, impassibile e sommamente perfetto, al quale nissuna cosa mancar puote.
Sofia. Che dice adunque in Dio questo vocabulo, amore?
Filone. Dice volontá di bonificar le sue creature e tutto l’universo, e di crescere la lor perfezione quanto la lor natura sará capace; e come giá t’ho detto, l’amore che è in Dio presuppone mancamento negli amati, ma non ne l’amante, e l’amor de le creature al contrario: ben che de la tal perfezione, de la qual crescono le creature per l’amor di Dio a loro, ne gode e se n’allegra (se allegrar si può dire) la divinitá, e in questo la somma sua perfezione piú riluce (come giá t’ho detto); e però dice il psalmo: «Iddio s’allegra con le cose che fece». E questo augumento di perfezione e gaudio ne la divinitá non è in esso Dio assolutamente, ma solamente per relazione a sue creature: onde (come t’ho dichiarato) non mostra in lui assolutamente alcuna natura di mancamento, ma solamente il mostra nel suo essere relativo, respetto di sue creature. Questa perfezione relativa in Dio è il fine del suo amore ne l’universo e in ciascuna de le sue parti, ed è quella con la quale la somma perfezione d’Iddio è sommamente piena: e questo è il fine de l’amor divino e l’amato da Dio, per il quale ogni cosa produce, ogni cosa sostiene, ogni cosa governa e ogni cosa muove; ed essendo in essa semplicissima divinitá necessariamente principio e fine, amante e amato, questo è piú divino de la divinitá, come ogni amato del suo amante esser suole.
Sofia. Questo mi piace, e ben son satisfatta de la precedenzia de l’amante a l’amato ne la produzione de l’amore, e questo mi basta per la prima dimanda che t’ho fatta, se l’amor nacque, cioè se è genito d’altrui o ingenito: ch’io veggo oramai manifestamente che l’amore è prodotto e genito de l’amato e de l’amante, come di padre e madre. Vorrei che mi satisfacessi cosí de la seconda dimanda mia, cioè quando prima nacque l’amore: se forse è ab eterno prodotto, ovvero genito d’amati e amanti eterni, ovvero fu in qualche tempo prodotto, e se questo fu in principio de la creazione, o ver di poi, e in qual tempo.
Filone. Questa tua seconda dimanda non è poco difficile e dubiosa.
Sofia. Che ti fa porre in questa piú dubio che ne la prima?
Filone. Però che il primo amore agli uomini manifesto è quel divino, per il quale il mondo fu da Dio produtto; e quel pare che sia l’amor che prima nacque. Essendo adunque dubioso appresso gli uomini di molti migliara d’anni in qua il quando fussi prodotto il mondo, resta dubioso il quando nacque esso amore.
Sofia. Di’ una volta il dubio che è stato fra gli uomini nel quando il mondo è stato prodotto (e intenderemo il dubio che cade nel quando l’amor nacque): e poi d’essere conosciuta la dubitazione, a la soluzione troverai piú presto via.
Filone. Tel dirò: concedendo tutti gli uomini che ’l sommo Dio, genitore e opifice del mondo, sia eterno senza alcun principio temporale, son divisi ne la produzion del mondo, se è ab eterno o da qualche tempo in qua. Molti de’ filosofi tengono essere prodotto ab eterno da Dio e non aver mai avuto principio temporale, cosí come esso Dio non l’ha mai avuto; e di questa oppinione è il grande Aristotile e tutti i peripatetici.
Sofia. E che differenzia sarebbe dunque fra Dio e ’l mondo, se ambidui fussero ab eterno?
Filone. La differenzia fra loro restarebbe pur grande, perché ab eterno Dio sarebbe stato produttore e ab eterno il mondo sarebbe stato prodotto, l’uno causa eterna e l’altro effetto eterno. Ma li fideli, e tutti quelli che credono la sacra legge di Moises, tengono che ’l mondo fusse, non ab eterno prodotto, anzi di nulla creato in principio temporale; e ancora alcuni filosofi par che sentino questo, de’ quali è il divino Platone, che nel Timeo pone il mondo essere fatto e genito da Dio, prodotto del caos, che è la materia confusa, del quale le cose son generate. E benché Plotino suo seguace il voglia rivolgere a l’oppinione de l’eternitá del mondo, dicendo che quella platonica genitura e fazione del mondo s’intende essere stata ab eterno, pur le parole di Platone par che ponghino temporal principio, e cosí fu inteso da altri chiari platonici. È ben vero che lui fa il caos (di che le cose son fatte) eterno, cioè eternalmente prodotto da Dio; la qual cosa non tengono li fideli; perché loro tengono che fino a l’ora de la creazione solo Dio fosse in essere, senza mondo e senza caos, e che l’onnipotenzia di Dio di nulla tutte le cose in principio di tempo abbi produtto, ché in effetto non par giá chiaramente in Moises ch’el ponga materia coeterna a Dio.
Sofia. Sono adunque tre oppinioni ne la produzion del mondo da Dio: la prima d’Aristotile, che tutto il mondo fu produtto ab eterno; la seconda di Platone, che solamente la materia o caos fu produtto ab eterno, ma [il mondo] in principio di tempo; e la terza de li fideli, che tutto sia produtto di nulla in principio di tempo. Mi potrai forse dire, o Filone, la ragione di ciascuno di loro.
Filone. Ti dirò qualche cosa in breve, ché la sufficienzia saria molto longa. El peripatetico li pare che le cose create nel mondo sieno di sorte che a la natura loro repugni aver avuto principio e l’aver fine: come è la materia prima, la continua generazione e corruzione de le cose, la natura celeste, il moto, massimamente circolare, e il tempo.
Sofia. A che modo a la natura di queste cinque cose repugna l’aver avuto principio? perché essa materia prima con la generazione e corruzione non potria essere stata di nuovo? e perché il cielo e ’l moto suo circulare, e il tempo che da quel procede, non potria aver avuto principio temporale?
Filone. Poi che vuoi riconoscere la ragion di questo, sará bisogno dirtela, se bene qualche cosa divertiremo dal proposito. La materia prima, dice Aristotile, non potria essere di nuovo fatta, però che tutto quel che si fa, di qualche cosa bisogna che si facci, ché tutti concedono che di niente nissuna cosa far si possa; e se la materia prima fusse stata fatta, di qualche altra cosa sarebbe fatta, e quella sarebbe materia prima e non questa; e non possendo andare questo processo in infinito, bisogna andare a una materia veramente prima e non mai fatta. Dunque la materia prima è eterna, e cosí la generazione e corruzione che di lei si fa, però che, essendo la materia prima d’imperfetto essere, bisogna che sempre esisti sotto qualche forma sustanziale e la generazione del nuovo e [la] corruzione del preesistente: onde bisogna che ad ogni generazione preceda corruzione e ad ogni corruzione generazione, perché la generazione del pollo è per corruzione de l’uovo; è dunque la generazione e corruzione de la cosa eterna, senza principio di sorte, ché ogni uovo nacque di gallina e ogni gallina d’uovo, e niuno di loro fu assolutamente primo. Il cielo da sé pare eterno: perché, se fusse generato, saria ancora corruttibile, e corruttibile non può essere però che non ha contrario, come gli elementi e li composti da quelli, e la corruzione viene da la superazione del contrario, e la generazione ancora è movimento d’un contrario in altro; e mostrasi che ’l cielo non ha contrario, perché è impassibile, immutabile in sustanzia e qualitá, e sua tonda figura fra tutte l’altre figure sola è priva di contrarietá. Per conseguente, al moto circulare repugna l’avere principio, perché come la figura circulare, quale è la celeste, non ha principio e ogni punto in lei è principio e fine, cosí il moto circulare è senza principio e ogni sua parte è principio e fine, ancora nel primo moto; perché, se si generasse, la generazione sua, che è moto, saria prima del primo, quale è impossibile; e non possendo dare processo in infinito ne’ moti generati, bisogna venire a un primo moto eterno. Ancora il tempo, qual segue il primo moto, però che è numerazione del antecedente e succedente del moto, bisogna che sia eterno come lui, perché in effetto è fine del tempo passato e principio [del] venturo, onde non si può assegnar istante che sia primo principio: è dunque il tempo eterno senza aver mai principio.
Sofia. Intendo le ragioni che mossero Aristotile a far eterna la materia prima [e] il cielo in loro stessi, e la generazione de le cose e il moto circulare [e] il tempo in modo successivo, una parte doppo l’altra. Ha lui forse altre ragioni, senza queste, a provare l’eternitá del mondo?
Filone. Queste, che t’ho dette, sono le ragioni sue naturali; fanno ancora li peripatetici due altre ragioni teologali a provar che ’l mondo sia eterno, una pigliata da la natura de l’opifice e l’altra dal fin de l’opera sua.
Sofia. Fa ancora ch’intenda questo.
Filone. Dicono che, essendo l’opifice Dio eterno e immutabile, l’opera, che è il mondo, debbe essere ab eterno fatta ad un modo, perché la cosa fatta debbe corrispondere a la natura di chi la fa; e oltra che il fine del creatore ne la creazione del mondo non fu altro che voler far bene, perché dunque questo bene non si debbe aver fatto sempre? ché giá impedimento alcuno non posseva intervenire ne l’onnipotente Dio, che è sommo perfetto.
Sofia. Non senza forza par che sieno queste ragioni del peripatetico, massimamente teologali, de la natura eterna de l’opifice divino e del fine di sua volontaria produzione. Che diranno i platonici, e noi tutti che crediamo la sacra legge mosaica? che pone la creazione di tutte le cose di nulla in principio di tempo.
Filone. Noi altri diciamo molte cose in nostra difensione: consentiamo che naturalmente di niente alcuna cosa non si può fare, ma miracolosamente per onnipotenzia divina teniamo potersi fare le cose di niente: non che niente sia materia de le cose, come il legno di che si fan le statue, ma che possi Dio fare le cose di nuovo senza precedenzia di materia alcuna. E diciamo che, se ben il cielo e la materia prima sono naturalmente ingenerabili e incorruttibili, niente di meno miracolosamente, per onnipotenzia divina, ne l’assoluta creazione furno in principio creati di nulla; e se bene la reciproca generazione de le cose e il moto circulare e il tempo naturalmente repugnino l’aver principio, l’hanno pur avuto ne la mirabile creazione; però che son conseguenti de la materia prima e del cielo, li quali di nuovo furono creati. E quanto a la natura de l’opifice diciamo che l’eterno Dio opera, non per necessitá, ma per libera volontá e onnipotente; la qual cosí come fu libera ne la costituzion del mondo, nel numero degli orbi e de le stelle, ne la grandezza de le sfere celesti ed elementari, e nel numero misura e qualitá di tutte le cose, cosí fu libera in volere dar principio temporale a la creazione, ben che la potessi fare come lui eterna. E quanto al fin de l’opera sua, diciamo che, se ben il fin suo ne la creazione fu far bene, e appresso di noi il bene è eterno e piú degno che ’l temporale, noi, cosí come non arriviamo a conoscere sua propria sapienza, non possiamo arrivare a conoscere il proprio fine di quella ne le sue opere; e forse che appresso di lui il ben temporale ne la creazione del mondo precede il ben eterno, però che si conosce piú l’onnipotenzia di Dio e sua libera volontá in creare ogni cosa di nulla, che in averle prodotte ab eterno: perché parrebbe una dependenzia necessaria, come la continua dependenzia de la luce del sole, e non dimostraria il mondo essere fatto per libera grazia e splendido beneficio, come dice David: «Dissi che ’l mondo per grazia e misericordia di Dio è fabbricato».
Sofia. Parrebbe pur maggior possanza far una cosa buona eterna, che farla temporale.
Filone. È maggior forza farla temporale ed eterna tutto insieme.
Sofia. A che modo il mondo può essere temporale ed eterno insieme?
Filone. È temporale per aver avuto principio di tempo, ed è eterno però che non è per aver fine, secondo molti de’ nostri teologi; e cosí come riluce la somma potenzia nel principio temporale, cosí riluce l’immenso beneficio ne l’eterna conservazione del mondo; e universalmente dirò al peripatetico de la somma sapienzia di Dio, de la quale lui cosí poco può conoscere: come potrá dimostrare sua intenzione, fine e proposito di quella? In modo che si può concludere necessariamente (come dice il profeta in nome di Dio): «Piú di quanto sono alti i cieli sopra la terra, sono alte le vie mie da le vostre e i pensieri miei da’ pensieri vostri».
Sofia. Mi bastano le tue ragioni per difendermi dal peripatetico, se bene non per offenderlo; e queste medesime pigliará Platone per sua difensione: ma che li mette il porre il caos eterno, poi che l’onnipotenzia di Dio il può far di nulla, e di lui tutto il mondo, come noi diciamo?
Filone. Sí, che ne basta che la fede non sia offesa da la ragione, ché non aviamo bisogno di mostrarla, perché allor scienzia sarebbe e non fé, e basta credere fermamente quel che la ragion non reprova. La materia prima, che fece Platone eterna, fu per porre la creazione mosaica non nuda di ragione filosofica, perché lui volse essere e par piú presto filosofo che credulo de la legge.
Sofia. E con qual ragione può Platone accompagnare la creazione del mondo in principio di tempo, ponendo la materia, o ver caos eternalmente prodotto da Dio? e che guadagna in porre il caos eterno, se mette che ’l mondo sia fatto di nuovo?
Filone. A l’ultimo ti risponderò prima: guadagna non contradir quel detto degli antichi longamente affermato, che di niente nissuna cosa si può fare; e se bene lui pone il mondo essere fatto di nuovo, noi pone essere fatto di niente, ma de l’antico ed eterno caos, materia e madre di tutte le cose fatte e formate: e tu sai che li primi, che degli dèi fabulosamente teologhizorono, pongono che innanzi al mondo fusse solamente il gran dio Demogorgone col caos e l’eternitá, quali gli erano compagni.
Sofia. Ha questo detto antico, che di niente nulla si fa, altra forza di ragione ch’essere approvato e concesso dagli antichi?
Filone. Se altra forza di ragion non avesse, non sarebbe cosí concesso e approvato da tanti eccellenti antichi.
Sofia. Di’ quella, e lassiamo l’autoritá de’ vecchi.
Filone. Io tel dirò, e ti servirá non solamente per risposta del secondo membro di tua dimanda, ma al primo ancor insieme con il secondo; e vedrai una ragione, qual costrinse Platone a porre non solamente il mondo di nuovo fatto, ma ancora il caos, e materia del mondo, ab eterno prodotto dal sommo creatore.
Sofia. Fammela intendere, ch’io il desidero.
Filone. Vedendo Platone il mondo essere una comune sustanzia formata, e ciascuna de le parti sue cosí essere parte di quella comune sustanzia formata di propria forma, cognobbe rettamente che tanto il tutto come ciascuna de le parti era composto di una cosa o sustanzia informe, e a tutti comune, e d’una propria forma che l’informa.
Sofia. Ragione hai; di’ piú oltra.
Filone. Giudicò che questa formazione de le cose, cosí del tutto come d’ognuna de le parti, fusse nuova di necessitá, e non ab eterno.
Sofia. Perché?
Filone. Però che è necessario che l’informe sia stato innanti che ’l formato: se tu, o Sofia, vedi una statua di legno, non giudicarai che prima il legno si trovasse informe di forma di statua, che formato di quella?
Sofia. Sí, certamente.
Filone. E cosí il caos bisogna che sia trovato informe, anzi che formato in mondo: sí che la formazione del mondo mostra sua novitá e l’esser fatto di nuovo, e l’informe, che è in quello del qual si fece, mostra non novitá anzi antiquitá eterna. Séguita adunque che ne bisogna concedere che, cosí come il mondo formato è stato fatto di nuovo, cosí ne bisogna concedere che ’l caos informe non sia mai stato di nuovo, anzi abbi avuto essere ab eterno. Conoscerai adunque la ragion di quel detto degli antichi, che niente fa niente, perché il fare dice formazione nuova e la forma è relativa a l’informe di che si fa, ché di nullo informe nullo formato si può fare; è adunque necessario che, cosí come il formato mondo è fatto di nuovo, cosí l’informe caos sia ab eterno prodotto da Dio.
Sofia. Se ben ti concederò ch’il caos sia stato fatto ab eterno, non però ti concederò che sia prodotto da Dio.
Filone. Bisogna che ’l conceda: però che il caos è informe e imperfetto, e bisogna assegnarli causa produttiva che sia universalissima forma e perfezione, cosí come lui è universalissimo informe e imperfetto; quale è Dio.
Sofia. Come, Dio ha forma? saria adunque formato e fatto di nuovo? che è absurdo.
Filone. Dio non è formato né ha forma, ma è somma forma in se stessa; dal quale il caos e ogni parte sua participa forma: e d’ambi si fece il mondo formato e ogni parte sua formata, il padre de’ quali è quella divina formalitá e la madre è il caos, ambo ab eterno. Ma il perfetto padre produsse da sé la sola sustanzia, imperfetta madre, e d’ambi son fatti e formati di nuovo tutti li mondani figliuoli, quali hanno con la materia la formalitá paterna: sí che per questa ragion non vana afferma Platone che ’l caos è prodotto da Dio ab eterno e ch’il mondo con sue parti è fatto e formato da lui di novo ne la creazione.
Sofia. Non poco mi piace intendere questa ragione di Platone: ma mi resta contra che lui si fonda che l’informe si debbe trovar prima e senza il formato; la qual prioritá se bene è da concedere naturalmente, non si debbe concedere in successione temporale, però che puro informe non può stare né trovarsi senza forma, e la forma è quella per la quale l’informe si truova. Onde bisogna che o ambi sieno ab eterno, cioè la forma e la materia e tutt’il mondo (come dice Aristotile), o veramente ambi e tutti sieno di nuovo creati, come tengano i fedeli, e cosí a uno modo e a l’altro la materia è prima ne l’origine naturale, ma non in anticipazione naturale, come si fonda Platone.
Filone. Che la materia tenga prioritá naturale a la forma, come il suggetto a la cosa di chi è suggetto, questo è manifesto. Ma oltra bisogna concedere che ancora sia prima la materia, in tempo, ad ogni atto e formazione di quella, qual mostra Aristotile: perché la materia bisogna che prima in tempo sia, in potenzia, a qualsivoglia forma coeterna in materia; e [porre] atto in potenzia non è altro (come Aristotile dice) che levar totalmente la natura de la materia e de la potenzia.
Sofia. Come adunque pone Aristotile il mondo formato [ab] eterno?
Filone. Però che lui non pone la materia prima comune a tutto il mondo, ma solamente nel mondo inferiore de la generazione e corruzione: nel qual pone la materia prima eterna, e nulla forma a lei coeterna, ma ciascuna nuova in lei per generazione e l’altra ruinata per corruzione; e pone la successione di molte e diverse forme, eterna con eterna generazione e corruzione, ma ciascuna di loro è nuovo generabile e corruttibile.
Sofia. Ne’ cieli dunque, ove non è generazione, non ponerá Aristotile materia?
Filone. A nissuno modo vuol che cieli e stelle abbino materia sustanziale, però che se l’avessero sariano generabili e corruttibili come li corpi inferiori: ma solamente sono corpo eterno, qual è materia di movimento ma non di generazione.
Sofia. E Platone, perché pone la materia eterna, informata eternamente e successivamente di successive forme?
Filone. A Platone pare impossibile che corpo formato non sia fatto di materia informe: onde il cielo il sole e le stelle, che son bellamente formati, afferma esser fatti di materia informe come tutti li corpi inferiori.
Sofia. E la materia de’ celesti è forse quella medesima degl’inferiori, o ver altra?
Filone. Altro non può essere che la materia prima ad ogni modo informe, però che non ha perché si possi multiplicare e diversificare d’altra, e bisogna che sia una medesima in tutte le cose composte di materia; e li par giusto che ’l mondo tutto, cosí come ha un padre comune, qual è Dio, che abbi ancora una madre comune a tutte sue parti, qual’è il caos: e il mondo è figliuol di tutti due.
Sofia. Dunque gli angeli e intelletti puri è bisogno che sieno composti di materia?
Filone. Giá fu alcuno de li platonici, che disseno che ’l caos ha la parte sua negli angeli e altri spirituali, però che dá in loro la sustanzia, qual si forma da Dio intellettualmente senza corporeitá, in modo che gli angeli han materia incorporea e intellettuale, e li cieli han materia corporea incorruttibile successivamente, e gl’inferiori han materia generabile e corruttibile; ma quelli che tengano che l’intelletti sieno anime e forme del corpo celeste, gli basta la materia in composizione de li corpi celesti, e non de l’intelletti che sono loro anime.
Sofia. Dunque li cieli secondo Platone son fatti de la materia che siamo noi?
Filone. Di quella propria.
Sofia. Come possono adunque essere eterni?
Filone. Però Platone afferma che li cieli ancor son fatti di nuovo di materia informe, coeterna a Dio.
Sofia. Sta bene: ma ancor bisogna che dica che son corruttibili come gl’inferiori, che la materia successivamente bisogna che molte volte s’informi.
Filone. Ancor tiene che li cieli da sé sieno dissolubili, però che ogni cosa fatta di materia e forma se dissolve: si non fusse l’onnipotenza divina che gli fa indissolubili, se ben da sé son solubili.
Sofia. E tu credi che Dio, che ha fatto la lor natura solubile, che contradicendo sua natural opera li facci indissolubili, che pare una reprovazione di se stesso?
Filone. La tua obbiezione è efficace. Pure Platone dice nel Timeo che ’l sommo Dio, parlando con gli celesti, gli dice: «Voi siete fattura mia, e da voi dissolubili; ma perché è brutta cosa lassar che il bello si dissolva, per mia comunicazione séte indissolubili, perché maggior son mie forze che vostra fragilitá». Ma io credo che per queste parole Platone non ponga li cieli in eterno indissolubili, ma è per mostrare la causa perché non son successivamente generabili e corruttibili e poco diuturni come gl’inferiori, essendo tutti fatti d’una medesima materia che causa la novitá e dissoluzione; e dice che, quantunque per la loro natura materiale deverebbero essere cosí, niente di manco per la lor maggior bellezza formale, participata grandemente da Dio, son molto diuturni.
Sofia. Dunque son li cieli per dissolversi, secondo Platone?
Filone. Sono.
Sofia. E tu mi saprai dire il quando lui si crede.
Filone. Quando finiranno sua natural etate, la quale han limitata come ciascuno degl’inferiori corpi, ma molto piú diuturna.
Sofia. È alcuno che gli abbi assegnato termine di tempo?
Filone. Giá li teologi piú antichi di Platone, de’ quali lui fu discepolo, dicono che ’l mondo inferiore si corrompe e rinnuova di sette [in sette] milia anni.
Sofia. E quanto tempo dura corrotto?
Filone. De li sette milia anni li sei milia sempre il caos degl’inferiori corpi germina; e finiti questi, dicono che raccogliendo in sé ogni cosa si riposa nel sette millesimo anno, e in quello intervallo s’ingravida a nuova germinazione per altri sei milia anni.
Sofia. E quanti aviamo noi di questi sette milia anni?
Filone. Siamo, secondo la veritá ebraica, a cinque milia ducento sessanta due del principio de la creazione; e quando saran finiti li sei milia anni si corromperá il mondo inferiore.
Sofia. E chi il fará corrompere?
Filone. La corruzione sará per la superazione di uno de’ quattro elementi, massimamente del fuoco o forse de l’acqua.
Sofia. Li cieli quando si corromperanno?
Filone. Dicono che, corrotto il mondo inferiore sette volte di sette milia in sette milia anni, si viene a dissolvere il cielo con tutto il pieno, e torna ogni cosa al caos e alla materia; e questo viene a essere una volta di poi passati quaranta e nove milia anni.
Sofia. E di poi come si crede succedino le cose?
Filone. Ancora che sia audacia parlare di cose tanto alte e ignote, tel dirò. Si tiene che, dipoi che è stato ocioso il caos per alcuno spazio, torna ad ingravidarsi de la divinitá e a germinare il mondo e formarsi un’altra volta.
Sofia. E questo mondo è stato fatto altre volte?
Filone. Forsi che sí.
Sofia. E questa cosa ha avuto principio mai?
Filone. Essendo il caos eterna madre, la germinazion sua de l’eterno e onnipotente padre Iddio poniamo eterna, cioè infinite volte successivamente l’inferiore di sette in sette milia anni, e il celeste con tutto che si rinnovi di cinquanta in cinquanta milia anni.
Sofia. L’anime intellettuali e gli angeli e gl’intelletti puri come si truovano in quella corruzione mondana?
Filone. Se non sono composti di materia e forma, né hanno parte nel caos, si truovano separati da’ corpi ne le loro proprie essenzie, contemplando la divinitá; e se ancora sono composti di materia e forma, cosí come participano le sue forme nel sommo Dio, padre comune, cosí ancora participano sustanzia e materia incorporea dal caos, madre comune, come pone il nostro Albenzubron nel suo libro De fonte vitae. Ché ancora loro renderanno la sua parte a ciascuno de li due parenti nel quinquagesimo millesimo anno, cioè la sustanzia e materia al caos, il quale allora di tutti li figliuoli le sue porzioni in sé raccoglie, e l’intellettuali formalitá al sommo Dio, padre e datore di quella; le quali lucidissimamente sono conservate ne le altissime idee del divino intelletto fino al nuovo ritorno loro ne la universal creazione e generazione de l’universo: ché allora giá il caos ingravidato de la divinitá germina sustanzie materiali informate di tutte le idee, cioè nel mondo inferiore corporeo e successivamente generabile e corruttibile, nel mondo celeste corporeo e mobile circularmente senza generazione e corruzione successiva, nel mondo intellettuale materie sustanziali incorporee immobili e ingenerabili e incorruttibili; avvenga che nel fin del secolo tutti si dissolvino, ritornando a’ primi parenti, come t’ho detto.
Sofia. Se ’l cielo con tutto il pieno si dissolve, passati li quarantanove milia anni, come costoro dicono, dunque quella ottava sfera, dove è la multitudine delle stelle fisse, secondo la tarditá del suo moto poche circulazioni potrá fare in tutto il tempo della vita del mondo e sua, però che, secondo ho giá da te inteso, gli astrologi in non meno di trentasei milia anni dicono che fa una circulazione (alcuni dicono in piú di quaranta milia): [e] se la vita sua non è piú di quaranta milia, poco piú d’una circulazione potrá fare in tutto il tempo della vita; che pare strano.
Filone. Secondo loro mente, piú del tempo d’una sola revoluzione de l’ottava sfera dura tutta la vita sua e del resto de l’universo: però che in effetto, ben che li primi astrologi la ponghino in trentasei milia anni e altri piú antichi in manco, la verificazione degli ultimi, alla quale doniamo piú fede, pone una circulazione sua in quaranta milia anni precessi. Dicono adunque i teologi che tanto è la vita del mondo quanto sta l’ottava sfera a far una circulazione: e fatta essa, con tutto il resto si dissolve, ritornando le forme ne la divinitá e le materie ne la madre caos; il quale, riposando mille anni, se ringravida de l’intelletto divino, [e] informato di tutte le idee sue, un’altra volta di poi di cinquanta milia anni, ritorna a germinare il cielo e la terra e altre cose de l’universo. E giá gli astrologi, signando questo, dicono che, girando l’ottava sfera una volta, ritornan tutte le cose come ne la prima.
Sofia. Consuona adunque l’astrologia al detto di questi teologi. Ma dimmi se, cosí come la durazione e dissoluzione del tutto consegue a la circulazione de l’ottava sfera come quasi causata da quella, se la durazione e corruzione del mondo inferiore, che è di sette milia in sette milia anni, è forse causata da qualche corso celeste.
Filone. Sí, che è causata da li corsi de la medesima ottava sfera del suo moto di cesso e recesso, il quale fa di sette milia in sette milia anni sette volte in tutta la sua circulazione, ciascuno de’ quali fa dissolvere e rinnovare il mondo inferiore: e quando viene al settimo, si dissolve il celeste di poi di quarantanove milia anni, che è sette volte sette, come t’ho detto.
Sofia. Non è poca dimostrazione questa concordanza d’astrologia. Ma dimmi, questi astrologi hanno avuto questo per ragione solamente o per disciplina autentica?
Filone. Giá t’ho detto che a porre il mondo corruttibile credeno essere accompagnati da ragione; ma ne la limitazione de’ tempi oltra l’astrologica evidenzia difficile saria trovar ragione filosofica. Ma l’uno e l’altra dicono avere per divina disciplina, non solamente da Moises datore de la legge divina, ma fin dal primo Adam: dal quale per tradizione a bocca, la quale non si scrivea, chiamata in lingua ebraica caballá (che vuol dire recezione), venne al sapiente Enoc, e da Enoc al famoso Noè; il quale di poi del diluvio per sua invenzione del vino fu chiamato Iano, perché Iano in ebraico vuol dire vino, e il dipingono con due faccie riverse, perché ebbe vista innanzi il diluvio e di poi. Costui lassò questa con molte altre notizie divine e umane al piú sapiente de’ figliuoli Sem e al suo pronepote Eber, li quali furono maestri di Abraam, chiamato ebreo da Eber suo proavo e maestro; e ancora egli vidde Noè, il qual morí essendo Abraam di cinquantanove anni. Da Abraam per successione de Isac e di Iacob e di Levi venne la tradizion, secondo dicono, a li sapienti degli ebrei chiamati cabalisti: li quali da Moisé dicono per revelazione divina [queste cose] esser confirmate non solamente a bocca, ma nelle sacre scritture in diversi luoghi significate con proprie e verisimili verificazioni.
Sofia. Se ne le sacre lettere di Moise [sono] con qualche color d’unitá queste cose che hanno significato e sono di maggiore efficacia, a me piaceria che le dichiarasse.
Filone. Ti dirò ciò che dicono, il che non ti persuado che tenghi, però che l’evidenzia loro ne li testi non è chiara, ma figurativa; e io in questo sarò solamente per compiacerti narratore, ben che dal proposito ci allarghiamo alquanto. Moises (come sai) dice che Iddio creò il mondo in sei giorni e nel settimo si riposò da ogni opera: in memoria del quale comandò agli ebrei che in sei dí facessero opera e nel settimo riposassero da ogni lavoro. Questi teologi dicono che questi dí divini de la creazione del mondo inferiore s’intendono per ciascuno de mille anni (come dice David, che mille anni nel cospetto di Dio sono un dí); adunque li sei dí naturali de l’opera de la creazione di Dio hanno virtú di sei milia anni di durazione germinativa nel mondo inferiore, e il settimo dí di quiete ha dato al caos senza opera germinativa nel mondo inferiore. Ancora ne li riti degli ebrei debbeno connumerare da il dí che uscirono di Egitto sette settimane, che sono quarantanove dí, e il quinquagesimo dí fanno la festa de la data de la legge, che la divinitá si volse comunicare a tutti in comune: dicono che significa le sette revoluzioni del mondo inferiore in quarantanove milia anni, ne la nuova comunicazione di tutto l’universo. Dicono non solamente significare questo Moises nel numero de’ servi, ma ancora averlo significato in numero di anni, uno anno per mille, perché il grande anno celeste appresso gli astrologi è mille anni; onde Moises comanda in le sue leggi che sei anni si debbi lavorare la terra e il settimo lassarla oziosa senza lavoro e proprietá alcuna. Dicono significare la terra il caos, il quale gli ebrei sogliono chiamare terra e ancora li caldei e altri gentili; e significa che ’l caos debbe essere in germinazione de le cose generabili sei milia anni e il settimo riposare con tutte le cose confuse comunemente senza proprietá alcuna: e cosí comanda Moises in questo settimo anno che si debbano relassare li debiti e gli oblighi de le possessioni e tornare ogni cosa al suo primo; onde chiamano questo settimo anno «scemita», che vuol dire relassazione, che significa la relassazione de le proprietá de le cose nel settimo migliaro d’anni e la sua redizione nel caos primo, e questa «scemita» è come il sabbato ne’ giorni de la settimana. Dice ancora Moises che quando saranno passate sette «scemita», che sono quarantanove milia anni, si debba fare il quinquagesimo anno «iobel», che in latino vuol dire iubileo, e redizione ancora: però che in quello anno aveva a essere la perfetta quiete di tutte le cose cosí terrestre come negoziative, e ogni servo tornava in libertá, ogni sorte d’obligo era soluto, la terra non era lavorata, li frutti erano comuni e ogni possessione, non ostante qualsivoglia vinculo, tornava al suo primo padrone; chiamavasi anno di libertá. Il testo dice: «Ne l’anno del iubileo ciascun tornará al suo origine e radice, la libertá si bandirá ne la terra»: di sorte che in quell’anno le cose passate erano estinte, e principiava mondo nuovo per cinquanta anni, come il passato; il qual iubileo dicono che significa il quinquagesimo migliaro d’anno, nel quale tutto il mondo si rinnuova, cosí il celeste come l’inferiore. Molte altre cose ti potrei dire in ciò; ma questo ti debbe bastare per darti qualche notizia de la posizione di questi teologi e occasione de la loro audacia ne la limitazione de’ tempi e vita del mondo.
Sofia. Come possono tirare Moises a la sua oppinione, il quale chiaro dice che in principio creò Dio il cielo e la terra, che pare porre insieme la creazione del caos con tutto il resto?
Filone. Leggiamo nel testo altrimenti. Questo vocabulo «in principio» in ebraico può significare «innanzi che Dio creasse e separasse dal caos il cielo e la terra», cioè il mondo terrestre e celeste; la terra, cioè il caos, era inane e vacua: e piú propriamente dice perché, dice, era confusa e rozza, cioè occulta; ed era come un abisso di molte acque tenebrose, sopra il quale soffiando il spirito divino, come fa un vento grande sopra un pelago, che illucida le tenebrose intime e occulte acque cavandole fuore con successiva inundazione, cosí fece il spirito divino, che è il sommo intelletto pieno de idee. Il quale, comunicato al tenebroso caos, creò in lui la luce per estrazione de le sustanzie occulte illuminate da la formalitá ideale, e nel secondo dí pose il firmamento, ch’è il cielo, fra l’acque superiori, che sono l’essenzie intellettuali, le quali sono le supreme acque de l’abissato caos, e fra le acque inferiori, cioè essenzie del mondo inferiore generabile e corruttibile; e cosí divise il caos in tre mondi: intellettuale, celeste e corruttibile. Di poi divise l’inferiore degli elementi de l’acqua e de la terra, e, discoperta la terra, la fece germinare erbe arbori e animali terrestri, volanti e natanti; e di poi nel sesto dí, nel fin di tutto, creò l’uomo. In questo modo, sommariamente detto, intendono il testo questi de la creazione mosaica, e credono denotare che ’l caos fusse innanzi la creazione confuso e per la creazione diviso in tutto l’universo.
Sofia. Mi piace vederti fare Platone mosaico e del numero de’ cabalisti; bastami questo per notizia, come dici: poi che né assoluta ragione né terminata fede mi costringe a queste tali credulitá. Ma dimmi, con queste loro posizioni possono forse piú ragionevolmente solvere li sopra detti argumenti d’Aristotile che li fideli, li quali credeno la creazione del mondo una volta sola?
Filone. Aristotile medesimo confessa che la posizione, che pone innanzi di questo mondo esservi stato un altro e di poi di questo averne ad essere un altro e cosí sempre in continua successione, fatti tutti di mano eterna, è piú ragionevole che l’oppinione che pone questo mondo aver avuto principio e innanzi di esso non essere alcuna cosa: però che quella pone ordine successivo eterno ne la generazione del mondo e concede che di nulla non si fa cosa alcuna, e questa altra non il significò: [sí] che contra quella oppinione non hanno luogo li piú forti de li suoi argumenti, come quel che di nulla niente si fa, e che la materia prima non può essere di nuovo fatta o generata; però che quelle proposizioni concede e presuppone esso Platone, come ancora quelli due argumenti teologali de l’opera divina, che debbe essere eterna come lui opifice, e cosí che’l fin de l’opera sua, il quale è buono, debbe essere eterno; le quali ambo proposizioni Platone concede, quanto è per parte de l’agente divino. Ma dice Dio largire la sua eternitá a quello che è capace di fruirla, come è l’intelletto, nel quale sono le idee e la materia prima, la qual’è il caos: però che l’uno è puro atto e forma e l’altro è pura potenzia e materia al tutto informe, l’uno è padre universale di tutte le cose e l’altro madre comune a tutti. Questi solamente hanno possuto participare l’eternitá divina, essendo da lui stati ab eterno prodotti; ma li figliuoli loro, li quali mediante questi due parenti sono da Dio fatti e formati, come è tutto l’universo e ognuna de le sue parti, non sono capaci di eternitá, però che ogni fatto è formato, cioè composto, di materia del caos e di forma de la idea intellettuale, e bisogna che abbino principio e fine temporale, secondo di sopra t’ho detto: sí che l’opera e il fine ne la produzione divina furono eterni ne li primi parenti del mondo, ma non in esso mondo formato singulare, e furono eterni ne la successione eterna di molti mondi, cosí come esso Aristotile pone nel mondo inferiore, che nissuno de li suoi individui è eterno e che la generazione e la prima loro materia è eterna.
Sofia. Veggo bene la soluzione de le ragioni teologali d’Aristotile e de la prima de le naturali: ma come solverá Platone l’altre quattro naturali?
Filone. Platone non concede ad Aristotile che ’l caos si possi trovare senza forma; anzi dice che, avendo longo tempo germinato, raccoglie in sé tutte le cose e s’acqueta con quelle per certo intervallo di tempo, ingravidandosi de le idee tanto, fin che poi ritorna a figliare e germinare di nuovo l’universo; e concede che la generazione è eterna in molti modi successivi, ma non in uno del cielo, ché la contrarietá per la qual si dissolve è l’essere formato, fatto e composto di materia e forma, perché ogni tale bisogna che si dissolva, e cosí cessa il suo circulare moto, benché il moto in universale sia eterno per eterna germinazione successiva del caos; e quanto al tempo dice che è eterno, non per il moto del cielo ma per il moto eterno germinativo del caos successivamente.
Sofia. Mi piace non poco la soluzione degli argumenti d’Aristotile per parte di Platone; e assai m’hai mostrato la produzione del mondo secondo tutte tre l’oppinioni: d’Aristotile l’eternitá di un sol mondo, di Platone l’eternitá successiva di molti mondi l’uno di poi l’altro, de’ fideli la creazione d’uno sol mondo e d’ogni cosa. Mi parrebbe giá tempo di tornare al nostro proposito de l’amore, e [che] mi respondessi alla seconda dimanda, del quando l’amor nacque e qual fu il primo amore.
Filone. Il primo amor è quello del primo amante nel primo amato. Ma come sia che nissuno di questi mai non nascessi, anzi ambi sieno eterni, bisogna dire ancora che l’amore loro, che è il primo amore, mai non nascessi, anzi [sia] come quelli eterno e da tutti due ab eterno prodotto.
Sofia. Dimmi quali sono il primo amato e il primo amante, ché conoscendo il loro amore, saprò qual è primo amore.
Filone. Il primo amante si è Dio conoscente e volente, il primo amato è esso Dio sommo bello.
Sofia. Adunque il primo amore si è di Dio a se stesso.
Filone. Sí, certamente.
Sofia. Molte cose ne seguitariano da queste, assurde e contrarie: prima, che la simplicissima essenzia divina fusse partita in parte amata e non amante e in parte amante e non amata. Seconda, che Dio amante sarebbe inferiore a se stesso amato: ché, secondo m’hai mostrato, ogni amante in quanto amante è inferiore al suo amato, perciò che, se l’amore è desiderio d’unione (come hai detto), Dio amando desideraria unirsi con se stesso, essendo sempre una cosa con se stesso; e sarebbe porre che Dio mancasse di se stesso, il quale amore presuppone mancamento. E molti altri inconvenienti simili ne seguirebbono, li quali non mi allargo a dirti, perché a te, e [ad] ognuno che ha inteso le condizioni che hai poste ne l’amore, saranno manifesti.
Filone. Non è lecito, o Sofia, parlare de l’amore intrinseco di Dio, amante e amato, con quella lingua e quelli labbri con li quali soliamo parlare degli amori mondani. Non fa diversitá alcuna in lui l’essere amato e amante; ma piú presto fa questa intrinseca relazione la sua unitá piú perfetta e simplice, perché la sua divina essenzia non sarebbe di somma vita, se non reverberasse in se stessa de la bellezza o sapienzia amata il sapiente amante, e d’ambidue l’ottimo amore. E cosí come in lui il conoscente e la cosa conosciuta e la medesima cognizione sono tutti una medesima cosa (ben che diciamo che ’l conoscente si fa piú perfetto con la cosa cognita, e che la cognizione derivi da tutti due), cosí in lui l’amante e l’amato e il medesimo amore è tutto una cosa; e benché li numeriamo tre e diciamo che de l’amato s’informa l’amante e d’ambidue (come di padre e madre) deriva l’amore, tutto è una simplicissima unitá ed essenzia, ovvero natura, per nissun modo divisibile né multiplicabile.
Sofia. Se in lui non è altro che pura unitá, donde viene questa trina reverberazione de la quale ragioniamo?
Filone. Quando la sua pura chiarezza s’imprime in uno specchio intellettuale, fa quella trina reverberazione che hai inteso.
Sofia. Adunque sarebbe falsa e mendace questa nostra cognizione di lui, poi che il puro uno fa tre.
Filone. Falsa non è, però che il nostro intelletto non può comprendere la divinitá che in infinito l’escede ne la sua propria natura intellettuale; e tu non chiamerai giá mendace l’occhio o lo specchio, se non comprende il sole con tutta la sua chiarezza e grandezza e il fuoco con la sua grandezza e ardente natura, però che gli basta riceverle secondo la capacitá de la natura de l’occhio o del specchio: e questo il fa ricettore fedele, se bene non può conseguire tutta la natura de la cosa ricevuta; cosí al nostro specchio intellettuale gli basta ricevere e figurare l’immensa essenzia divina secondo la capacitá de la sua intellettual natura, se bene in infinito se gli equipera ed è deficiente de la natura de l’oggetto.
Sofia. Sí, per non poter pigliare tanto quanto è l’oggetto; ma non per fare, del puro uno, tre.
Filone. Anzi, non possendo comprendere la pura unitá del divino oggetto, la multiplica relativamente e reflessivamente in tre; ché una cosa chiara e simplice non si può imprimere in altra men chiara di lei, se non multiplicando la sua eminente luciditá in diverse men chiare luci. Mira il sole quando s’imprime ne le nubi e fa l’arco, con quanti colori si transfigura ne le recipienti nubi o in acque ovvero in specchio, ed essendo egli una simplice chiarezza senza colore proprio, anzi escedente e continente tutti li colori, cosí la formalitá divina, una e simplicissima, non si può transfigurare se non con reverberante luce e multiplicata formalitá.
Sofia. E perché il nostro intelletto fa di uno tre, e non altro numero?
Filone. Però che uno è principio de’ numeri, perché uno dice prima forma e due prima materia e il tre il primo ente composto di tutti due; e come che nostro intelletto sia in sé trino e primo composto, non può comprendere l’unitá senza trina relazione: non che facci de l’uno tre, ma comprende l’uno sotto forma trina e giudica che in l’oggetto divino l’unitá sia purissima, la quale in somma simplicitá contiene la natura de l’amato, de l’amante e de l’amore senza multiplicazione e divisione alcuna, cosí come la luce del sole contiene l’essenzie de le luci e colori particulari con una simplice ed eminente chiarezza; ma che in lui riceva quella amorosa unitá sotto forma trina d’amato, amante e d’amore, tutti tre in uno, è questo solo per la bassezza e incapacitá di esso intelletto recipiente. E con questo, o Sofia, saldarai tutti gli tuoi dubi e ogni altro che occorrere ti potesse ne l’amore intrinseco de Dio amante in Dio amato.
Sofia. Mi pare intenderti: ma se puoi alquanto dichiararmi piú come in Dio sia una medesima cosa l’amato, l’amante e l’amore, mi sarebbe piú satisfazione.
Filone. Cosí come l’intelligente e la cosa intesa e l’intelligenzia tanto son divisi quanto sono in potenzia, e tanto sono uniti quanto sono in atto, cosí l’amato, l’amante e l’amore tanto sono tre e divisi quanto sono in potenzia, e tanto sono una medesima cosa e indivisa quanto sono in atto. Se l’essere in atto li fa uno e indivisibili, adunque essendo nel sommo e purissimo atto divino sono uno in simplicissima e purissima unitá, e in ogni altro atto inferiore l’unitá loro non è cosí pura e nuda de la trina natura amorosa e intellettuale.
Sofia. Mi piace grandemente questa astrazione: ma mi resta incontra questo, che se bene ti consentirò che ’l nostro intelletto pigli l’unitá divina, la qual simplicissimamente escede e contiene tutte tre le nature amatorie, amato amante e amore, sotto forma trina relativa, non ti consentirò però che pigli che l’una di queste tre nature dependa da l’altre, cioè l’amante da l’amato, e che la terza, che è l’amore, nasca da queste due prime come di padre e madre, secondo hai detto, però che ogni produzione e nascimento è alienissimo e contrario alla simplicissima unitá divina.
Filone. Ancor sotto questa forma produttiva non solamente è lecito, ma bisogna che l’unitá divina in noi s’imprima: però che, cosí come bisogna che nel nostro intelletto si multiplichi uno in tre, cosí bisogna che in lui abbi successione quella trina natura, ché altrimenti restarebbero tre nature divise e non una sola, e ancora sarebbe il nostro intelletto mendace. Non può figurarsi l’unitá con multiplicazione, se quella multiplicazione non ritiene l’unitá con la produzione unitiva: onde io t’ho detto che ne la divinitá la mente, o ver sapienzia amante, ab eterno nacque del bello amato come di padre e del sapiente, ovvero amante, come di madre. E dico che l’amante fu prodotto, non che nascesse: però che non ebbe ambi li parenti necessari per il nascimento, ma un solo antecessore, come Eva madre fu prodotta dal padre Adam e il caos e materia, madre comune, da l’intelletto divino, che è padre universale; ma l’amore dico che nacque, però che fu prodotto da padre amato e da madre amante, come tutti uomini di Adam ed Eva e tutto il mondo de l’intelletto e de la materia. Da questo che t’ho detto, se vuoi alquanto, o Sofia, sollevare la tua mente, vedrai donde viene la tua produzione e multiplicazione de le cose.
Sofia. Dichiarami ancora questo, che da me non l’intendo.
Filone. Del risplendere de l’amata bellezza divina l’intelletto primo universale con tutte le idee fu prodotto, il quale è de l’universo il padre e la forma, e il marito e amato dal caos; e de la chiara e sapiente mente divina amante fu prodotto il caos, madre del mondo, amatrice e moglie del primo intelletto; e de l’illustre amore divino, che nacque d’ambidue, fu prodotto l’amoroso universo, il quale a questo modo nacque del padre intelletto e de la madre caos. Quanto di questo ti potrei dire che sollevaria l’animo! ma sarebbe troppo discosto da la nostra intenzione; e per il presente basta il detto.
Sofia. Ancor questo vorria che spianasse meglio.
Filone. L’uomo è intelligente, e la natura del fuoco è cosa intesa da lui: se sono in potenzia, sono due cose divise, uomo e fuoco, e l’intelligenzia, cosí in potenzia, è una altra terza cosa; ma quando l’intelletto umano intende il fuoco in atto, si unisce con l’essenzia del fuoco ed è una medesima cosa con quel fuoco intellettuale, e cosí la medesima intelligenzia in atto è la medesima cosa con l’intelletto e col fuoco intellettuale, senza alcuna divisione. Cosí l’amante in potenzia è altro che l’amato in potenzia, e son due persone; l’amore in potenzia è un’altra cosa terza, che non è l’amato né l’amante: ma quando è amante in atto, si fa una cosa medesima con l’amato e con l’amore; poi che tu vedi come de le tre diverse nature mediante l’atto si fanno una medesima, tanto piú quando sono nel sommo atto divino, che sono una purissima e simplicissima natura senza alcuna divisione.
Sofia. Ho inteso da te de l’amore intrinseco di Dio: se bene noi li applichiamo nascimento e consentiamo che nacque di esso Dio amante e amato, niente di manco quell’amor nacque ab eterno da Dio ed è uno in sua unitá, eterno in sua eternitá. Di questo amor non bisogna adunque domandare quando nacque, però che esso medesimo Dio è eterno, che mai non nacque: ma te domando del primo amor del mondo, da poi di questo intrinseco, quando nacque.
Filone. Il primo amore, di poi di quello intrinseco uno con Dio, fu quello per il quale il mondo fu fatto, o ver prodotto: il qual nacque quando il mondo, però che, essendo egli causa del nascimento del mondo, bisogna che la causa propria e immediata si truovi quando l’effetto, e l’effetto quando la causa.
Sofia. A che modo l’amore è del nascimento del mondo causa?
Filone. Il mondo, come ogni altra cosa fatta e generata, è generato da due genitori, padre e madre, de li quali non potria generarsi se non mediante l’amore de l’uno ne l’altro, il quale gli unisce ne l’atto generativo.
Sofia. Quali sono questi due parenti ovvero genitori?
Filone. Li primi parenti sono uno Dio, come giá t’ho detto: e sono il sommo bello ovvero sommo buono (come il chiama Platone), il quale è vero padre, primo amato, e l’amante, [che] è uno con la divinitá ovvero sapienzia o sia divisione, quale conoscendo la sua divisione ama e produce l’intrinseco amore; la prima madre con il padre è una medesima in essa divinitá. Amando adunque la divinitá la sua propria bellezza, desiderò produrre figliuolo a similitudine sua, il qual desiderio fu il primo amore estrinseco, cioè di Dio al mondo prodotto; il qual quando nacque causò la prima produzione de’ primi parenti mondani e d’esso mondo.
Sofia. Quali chiami tu altri parenti del mondo?
Filone. Li due primi generati da Dio ne la creazione del mondo, cioè l’intelletto primo, nel qual tutte le idee del sommo artifice risplendano, il quale è padre formatore e generatore del mondo; e il caos ombroso de l’ombra di tutte le idee, che contiene tutte l’essenzie di quelle, il quale è madre del mondo: mediante li quali due, come primi istrumenti genitori, tutto il mondo a similitudine de la bellezza o sapienzia ovvero essenzia divina Dio, come amor desiderativo, creò formò e dipinse. Fu ancora messo in quella creazione uno altro secondo amore, oltra il divino estrinseco, cioè del caos a l’intelletto come da la moglie al suo marito, e reciproco da l’intelletto a lei come del marito a la moglie, mediante il quale il mondo fu generato. Fu ancor uno altro terzo amore necessario ne la creazione ed essere del mondo, cioè l’amore il quale hanno tutte le sue parti l’una con l’altra e con il tutto, secondo largamente t’ho detto quando parlammo de l’unitá de l’amore. Tutti questi tre amori nacquero quando il mondo nacque, ovvero quando nacquero li due primi parenti: adunque, se’l mondo è eterno, come vuol Aristotile, questi primi amori nacquero ab eterno tutti con l’intrinseco divino, che è uno con Dio, del quale non bisogna dire; e se ’l mondo e ambi li suoi parenti son creati in principio temporale, come noi fedeli crediamo, questi tre primi amori nacquero adunque nel principio de la creazione successivamente: però che nel primo principio nacque quell’amor desiderativo di Dio a la creazione del mondo a l’immagine de la sua bellezza e sapienzia, e secondariamente, fatti li due primi parenti, nacque il loro reciproco amore, che è il secondo, e di poi di tutto il mondo formato con le sue parti nacque il terzo amore del mondo unitivo. E se forse il mondo fusse fatto nel tempo da due eterni parenti (come pone Platone), quel primo amor di Dio, il qual produsse i primi strumenti o parenti del mondo (cioè l’intelletto e il caos), nacque ab eterno con quelli parenti; gli altri due, accompagnati dal divino, nacquero in principio di tempo, quando il mondo fu fatto: l’uno, cioè quello de’ due parenti, nacque in principio de la fazione del mondo, l’altro unitivo in fine de la formazione di quello: e quante volte il mondo fu fatto, tante volte questi due amori allora nacquero. Sí che secondo l’oppinione de la generazione del mondo bisogna che sieno l’oppinioni del quando l’amore nacque: tu, o Sofia, che sei de’ fideli, bisogna che credi che l’amor divino estrinseco e il mondano intrinseco, che sono li primi amori dipoi Iddio, nascessero quando il mondo fu da lui di niente creato.
Sofia. Del quando l’amor nacque mi piace aver inteso da te non solamente le diverse oppinioni de’ savi, ma ancora la sentenzia fedele a la quale debbiamo appoggiarsi; e basta assai per questa seconda dimanda. Veniamo oramai alla terza, e dichiarami, se bisogna, ove amore nacque: se forse nel mondo inferiore de la generazione e corruzione, o nel celestiale del continuo moto, o nel spirituale de la pura intellettual visione.
Filone. Poiché tu m’hai inteso nel passato che ’l primo amor che nacque fu l’amor estrinseco divino, col quale il mondo da Dio creatore fu creato, manifesto ti potrá essere che appresso di Dio fusse el dove l’amore nacque.
Sofia. Questo aviamo bene in mente: ma io non ti domando de l’amor divino intrinseco né estrinseco, per essere piú alto di quello che la mia niente può arrivare; ti domando de l’amor mondano.
Filone. E de l’amor mondano t’ho detto che ’l primo fu quel reciproco amore che nacque fra il primo intelletto e il caos: sí che appresso loro prima l’amor nacque.
Sofia. Ancora di questo mi ricordo: ma questo amore è piú presto de li due progenitori del mondo, padre e madre (secondo hai detto), che d’alcuna de le sue parti. Io voglio saper de l’amor che si truova nel mondo creato, in qual de le sue parti prima nacque, se ne la corruttibile, se ne la celeste o se ne l’angelica, e in qual parte di ciascuna de le parti.
Filone. Quando più distintamente si esprime la dimanda, la soluzione viene manco litigiosa. Ti rispondo che l’amor prima nacque nel mondo angelico, e che di quello nel celestiale e corruttibile fu participato.
Sofia. Che ragione ti muove a dare questa sentenzia?
Filone. Procedendo l’amore (come t’ho detto) da la bellezza, ove la bellezza è piú immensa, piú antica e coeterna, ivi l’amore prima debbe essere nato.
Sofia. Par che mi voglia ingannare.
Filone. A che modo?
Sofia. Perché mi dici che ove è la bellezza ivi è l’amore, e giá tu m’hai mostrato che l’amore è dove la bellezza manca.
Filone. Io non t’inganno: tu sei quella che te stessa inganni. Io non t’ho detto che l’amore consista ne la bellezza, ma che procede da quella, e che l’amore si truova ove è la bellezza che il causa; non che sia in essa bellezza, ma in quello a chi manca e [che] la desidera.
Sofia. Adunque ove la bellezza piú manca, ivi piú debbe essere amore e ivi prima nato: e come sia che ’l mondo inferiore è piú privo di bellezza che ’l celeste e angelico, ivi debbe essere piú copia d’amore e ivi prima si debbe tenere che nascessi.
Filone. Ancora ti truovo, o Sofía, piú sottile che saggia: cosí come la memoria de le cose dette ti serve a contradire al vero, vorria che ti servisse piú presto a trovarlo. Non vedi tu che non solamente mancare di bellezza causa amore e desiderio di quella, ma principalmente quando è preconosciuta da l’amante a chi manca, e giudicata buona ottima desiderabile e bella, allora [la] desidera per fruirla, e quanto la cognizione di quella è piú chiara ne l’amante, tanto il desiderio è piú intenso e l’amor piú perfetto? Dimmi adunque, o Sofia, in che si truova questa cognizione piú perfetta, nel mondo angelico o nel corruttibile?
Sofia. Ne l’angelico, certamente.
Filone. Adunque ne l’angelico l’amore è piú perfetto, e ivi prima ebbe origine?
Sofia. Sí secondo il conoscimento è l’amor ne l’amante, ragione hai di porre il suo principio nel mondo intellettuale. Ma io veggo che non manco presuppone l’amore mancamento di bellezza che conoscimento di quella, e non manco procede da l’un che da l’altro; anzi pare che ’l mancamento sia la prima condizione ne l’amore, e dipoi quella la seconda è il conoscimento de la bellezza che manca e sotto spezie di bello è desiderabile. Ragion vorria adunque che ove il mancamento è maggiore, ivi l’amore nascessi, cioè nel mondo inferiore: ché, se bene ivi il conoscimento non è tanto come ne l’angelico, pur il mancamento è maggiore, quale è il primo ne la produzione de l’amore.
Filone. Se bene il mancamento e la cognizione del bello son cause producenti de l’amore, non solamente il mancamento non precede, in l’esserne causa, la cognizione, ma ancora non è eguale a lei.
Sofia. Come no? anzi il mancamento bisogna che preceda la cognizione, come la cosa ne l’essere a la notizia di quella: ché prima bisogna che manchi la cosa, che si conosca il suo mancamento.
Filone. È ben prima il mancamento che il conoscimento in successione temporale ovvero originale, però che bisogna che manchi (come dici) la cosa, prima che si conosca mancare: ma non è prima in principalitá de l’essere causa de l’amore, perché il mancamento senza cognizione nissuno amore o desiderio induce di cosa buona e bella (vedrai gli uomini che son nudi d’ingegno e cognizione esser privi de l’amore de la sapienzia e del desiderio de la dottrina); ma quando sopraviene al mancamento conoscimento del bello o buono che manca, quel conoscimento è quello che principalmente induce l’amore e il desiderio de la cosa bella. Adunque ove questo conoscimento si truova accompagnato di mancamento di qualche grado di bellezza (come nel mondo angelico), ivi l’amore nacque e non ne l’inferiore, ove il mancamento abbonda e il conoscimento manca.
Sofia. Ancora non mi chiamo vinta, né ti voglio concedere che ’l conoscimento esceda cosí il mancamento ne l’essere causa d’amore: però che il conoscimento può stare insieme con la bellezza, anzi ne l’universo coloro che hanno piú bellezza hanno piú cognizione (qual’è piú eccellente bellezza che la medesima cognizione?); sí che il conoscimento sta piú presto con la bellezza che col mancamento di quella, e quanto è maggiore tanto meno sta con mancamento di bello. Adunque ove il conoscimento è grande (come nel mondo angelico), poco mancamento gli può essere, e per conseguente poco desiderio e amore, ché poco desia chi poco mancamento ha; nel mondo inferiore, ove il mancamento è grande e la cognizione e bellezza è poca, ivi il desiderio e amore deve essere piú intenso e prima nato.
Filone. Ben mi piace che l’animo tuo, o Sofia, non si voglia acquietare fin che la speculata veritá non gli consuoni d’ogni banda. In questo tuo dubio tu usi alcune equivocazioni, che tel fanno parere efficace: dici che ’l conoscimento sta insieme con la bellezza, e che è quella medesima, e non col mancamento di quella; e dici il vero del conoscimento che è in abito, che è il piú perfetto, ma non del conoscimento che è in potenzia di quel che manca.
Sofia. Dichiarami questa differenzia meglio, che non mi pare intenderla bene.
Filone. Quella è eccellente bellezza che se stessa conosce e quello è alto conoscimento che è di propria bellezza: e questo conoscimento non presuppone mancamento, anzi abito di cosa bella, che è oggetto del conoscimento; e ne l’universo quanto la bellezza è piú eccellente, tanto è piú conoscitiva da se stessa, e questa non induce desiderio né amore, salvo forse per reflessione relativa in se stessa. È un altro conoscimento, che l’oggetto suo non è la bellezza che ha il conoscente, ma quella che gli manca; e questo è quello che genera il desiderio e l’amore in tutte le cose che sono dipoi del sommo bello.
Sofia. E questo secondo conoscimento, poi che presuppone mancamento ed è di bellezza che manca, nel mondo inferiore, ove la bellezza manca, debbe causare piú amore che nel mondo angelico, ove il mancamento è poco: ché questa cognizione debbe essere proporzionata a la bellezza che manca, la quale è il suo oggetto.
Filone. Questo è il tuo secondo inganno: sappi che, come il primo conoscimento abituale è piú eccellente nel piú bello, e nel mondo angelico piú che ne l’inferiore, cosí questo secondo conoscimento privativo è maggiore in quelli superiori che negl’inferiori: escetto nel sommo Dio, nel quale non è cognizione alcuna privativa, però che la sua cognizione è di sua somma bellezza, a la quale niun grado di perfezione manca.
Sofia. Pur non mi negarai che a quelli superiori celesti angelici non manchi men bellezza che agl’inferiori corruttibili: onde il desiderio di quella bellezza che manca debbe essere piú ne poveri inferiori che ne’ ricchi angelici.
Filone. Tu rettamente non concludi: perché non quello a chi piú manca di buono piú desidera quel buono che gli manca, ma quello che più conosce quel buono che gli manca. Mira ne la diversitá de le cose inferiori, che le parti degli elementi e le pietre e metalli, a chi molti gradi di bellezza manca, poco o niente la desiano, perché gli manca conoscimento del ben che gli manca.
Sofia. Pur mi hai mostrato che ancor loro hanno amore e desiderio naturale.
Filone. Sí, ma solamente a quel grado di perfezione a loro connaturale, come il grave al centro e il lieve a la circunferenzia e il ferro a la propinquata calamita.
Sofia. E niente di manco non hanno cognizione.
Filone. Giá t’ho detto che la cognizione de la natura generante gli serve a dirizzarli ne le sue perfezioni naturali senza altra propria cognizione: onde l’amore e desiderio loro non è intellettivo né sensitivo, ma solamente naturale, cioè drizzato da la natura, non da se stesso. E cosí le piante, che sono le manco perfette de li vivi, mancando de la bellezza grandemente, perché non la conoscono non desideran di quella se non quel poco che appartiene a la sua perfezione naturale; e gli animali sensitivi, a chi molto piú de la bellezza e perfezione manca che agli uomini razionali, non hanno una minima parte di desiderio e amore del bene, che a loro manca, di quella che ha l’uomo: però che la loro cognizione di quella bellezza mancante è poca e solamente si stende a le loro comoditá sensitive, e l’amor loro per esser sensitivo non può desiare le bellezze intellettuali che a loro mancano, che son le piú eccellenti. Ancora ne li medesimi uomini (come t’ho detto) quelli che son d’ingegno piú debile, e manco conoscimento hanno, son quelli a chi piú de la bellezza e perfezione manca, e meno la desiano; e quanto piú ingegnosi e savi sono, e a chi meno gli manchi de la bella perfezione intellettuale, e piú intensamente l’amano e piú intensamente la desiano. E però Pittagora li sapienti chiamava filosofi, cioè amatori o desideratori de la sapienzia, però che quel che ha piú sapienzia, conosce piú quello che gli manca de la perfezione di quella, e tanto piú la desidera che, essendo la sapienzia molto piú ampia e profonda che l’intelletto umano, chi piú nata nel suo divino pelago conosce piú la sua larghezza e profonditá, e tanto piú desia arrivare a li suoi perfetti termini a lui possibili; e l’acqua sua è come la salata, che a chi piú di quella beve, piú sete pone: però che le dilettazioni de la sapienzia non son saziabili come ogni altra dilettazione, anzi ognora piú desiderabili e insaziabili; e però Salomone ne li suoi Proverbi, comparando la sapienzia, dice: «Cerva d’amore e capriola di grazia, l’affezioni sue in abundanzia li dilettaranno d’ogn’ora e ne l’amor suo crescerai sempre». Quando, Sofia, salirai per questa scala al mondo celeste e angelico, troverai che quelli che participano piú bellezza intellettuale del sommo bello, piú conoscono quanto manca al piú perfetto de’ creati de la bellezza del suo creatore, e tanto piú l’amano e desiano eternalmente fruire nel maggior grado di participazione e unione a loro possibile, ne la quale consiste la loro ultima felicitá. Sí che l’amore principalmente è in quella prima e piú perfetta intelligenzia creata, per il quale fruisce unitivamente la somma bellezza del suo creatore, dal quale egli dipende; e da lui successivamente derivano l’altre intelligenzie e creature celesti, discendendo di grado in grado fino al mondo inferiore, del quale solo l’uomo è quello che gli può simigliare ne l’amore de la divina bellezza, per l’immortale intelletto che ’l creatore in corpo corruttibile volse largire. E solamente mediante l’amore de l’uomo a la bellezza divina s’unisce il mondo inferiore, il quale è tutto per l’uomo, con la divinitá, causa prima e fine ultimo de l’universo e somma bellezza amata e desiata in tutto, ché altrimenti il mondo inferiore saria da Dio totalmente diviso. Sí che nel mondo creato ne la parte angelica l’amore nacque e di li negli altri fu participato.
Sofia. Giá in questo s’acquietaria la mente, e concederia che l’amor nascesse prima nel mondo angelico e in quello principalmente avesse piú forza. Se non che mi pare strano porre col minor mancamento di bellezza maggior conoscimento e desiderio di ciò che manca, come affermi nel mondo intellettuale: però che (come giá t’ho detto) queste cose ragionevolmente deverebbono essere proporzionate, e secondo il mancamento deveria essere il conoscimento e il desiderio de la bellezza che manca. E se ben tu, o Filone, con le tue sottilitá le tiri al contrario, e le tue ragioni non si possino contradire, niente di manco la conclusione tua, disproporzionante il mancamento dal conoscimento e desiderio di quel che manca, par contraria.
Filone. Ancora che abbiamo detto che nel mondo angelico, per esser piú bello del corruttibile, sia minore il mancamento de la bellezza che negl’inferiori, perché ove la perfezione è maggiore bisogna che la privazione e mancamento di bellezza sia minore: niente di manco, quando considerarai i termini de’ mancamenti de la bellezza rispetto de l’amore e desiderio del quale è causa, truoverai che non solamente il mondo angelico è uguale nel mancamento di quella agl’inferiori, ma ancora escede ed è maggiore il mancamento suo, per indurre maggiore desiderio e amore del corruttibile.
Sofia. Questo mi parrebbe piú strano ancora. Dimmi la ragione de la egualitá de’ mancamenti d’ambi mondi, e ancora, s’el si può, de l’escesso del mancamento de l’angelico sopra quello del corruttibile.
Filone. Essendo la bellezza del creatore eccellente sopra ogni altra bellezza creata, e quella sola perfetta bellezza, bisogna adunque che tu conceda che ella sia la misura di tutte l’altre bellezze, e che per lei si computino tutti i mancamenti de le perfezioni de l’altre.
Sofia. Questo ti concederò bene, perché cosí è in effetto, che la bellezza divina è causa, fine e misura di tutte le bellezze create. Ma di’ oltra.
Filone. Concederai ancora che la bellezza divina è immensa e infinita, onde niuna proporzione commensurativa ha con la piú eccellente de le bellezze create.
Sofia. Ancora questo mi par necessario, che ’l creatore non abbi proporzione in bellezza ad alcuna cosa creata, però [che] a la sua bellezza, sapienzia e ogni altra perfezione è incomparabile quella che si truova in ogni creato. Ma questo titolo d’infinito che dái a la bellezza, io non l’intendo, però clic l’infinitá dice dimensione interminata e imperfetta, che la quantitá perfetta ha li suoi termini che la fanno perfetta: e se la bellezza divina è perfettissima, debbe essere intera con li suoi termini, e non infinita (come dici); tanto piú che finito e infinito sono condizioni di quantitá estensa o numerata, la qual non si truova se non ne’ corpi, e come sia che la bellezza divina sia incorporea e astratta d’ogni passione corporea, non so come si possa dire infinita.
Filone. Non t’inganni la proprietá del vocabulo «infinito», che significa quantitá interminata e imperfetta, de la quale è molto remota la bellezza divina; però che noi non possiamo parlare di Dio e de le cose incorporee se non in vocabuli alquanto corporei, perché la medesima lingua e prolazione nostra è in sé corporea. Ancora dire «perfetto» è vocabulo incompetente a la divinitá, perché vuol dire interamente fatto e ne la divinitá non è fazione alcuna: ma vogliam dire per perfetto che è privato a ogni difetto e che contiene ogni perfezione, e vogliamo dire per infinito che la perfezione sapienzia e bellezza del creatore Iddio è improporzionabile e incomparabile a nissuna perfezione creata; però che quel che di niente ogni cosa creò, bisogna che esceda in perfezione le sue creature, che di sé son niente, quanto escede il sommo essere al puro niente, che è escesso incommensurabile senza proporzione o comparazione alcuna, il quale noi chiamiamo infinito benché in sé sia integrissimo e perfettissimo. Ancora la bellezza, sapienzia, essere e ogni virtú divina si chiamano infinite, però che non son contratte ad alcuna essenzia propria né ad alcuno suggetto terminato: anzi tutte le perfezioni in lui sono astrattissime, trascendenti e infinite, però che non si finiscono per suggetto ed essenzia propria, come si finiscono l’essere e la bellezza d’ogni cosa creata per la sua propria essenzia.
Sofia. Mi piace intendere a che modo poniamo infinitá ne le perfezioni divine: di’ oltre adunque, come il manco de la bellezza nel mondo angelico sia eguale a quel del corruttibile.
Filone. L’infinito egualmente è lontano da ogni finito, o sia grande o sia piccolo: però [che] cosí è incommensurabile per multiplicazione del grande finito come del piccolo.
Sofia. Questa cosa par ragionevole: pur alla fantasia è strano che un grande non abbi piú proporzione e approssimazione con l’infinito che uno piccolo, e che noi possa meglio commensurare. Dichiarami, ti prego, questa sentenzia meglio.
Filone. La fantasia non bisogna che impedisca la ragione ne le tali come te, o Sofia. Ben vedi che l’infinito è immensurabile d’ogni spezie di misura grande o piccola, ché, se d’alcuna si misurasse, per quella si finiria e non sarebbe infinito: onde a l’infinito né mezzo né terzo né quarto né altra parte mai si può assegnare, perché per quella si misuraria; è adunque imparabile indivisibile e immensurabile senza termine e senza fine, e nissuna cosa finita: per grande ed eccellente che sia, gli è proporzionabile in alcuna specie di proporzione.
Sofia. Dammi qualche esemplo, perché meglio la fantasia s’acquieti.
Filone. Il tempo secondo i filosofi è infinito, né ebbe principio né avrá mai fine; ben che noi fideli teniamo il contrario: ma secondo loro il tempo, per essere infinito, è incommensurabile di nissuna quantitá di tempo finito, grande o piccola, onde cosí è improporzionato e incommensurabile da un migliaro di anni come d’un’ora: sí che nel tempo infinito non meri numero di migliara di anni si contiene ed escede che d’ore, però che né l’un né l’altro può commensurare la sua infinitá. Non negherai adunque, o Sofia, che l’infinito tempo non meno esceda e trapassi d’un migliaro d’anni che d’una ora.
Sofia. Non si può negare che l’escesso de l’infinito non sia ad un medesimo modo escesso infinito, tanto del grande quanto del piccolo.
Filone. Adunque la bellezza divina, che è infinita, non meno escede la piú bella de l’intelligenzie separate da materia che il men bello de’ corpi corruttibili, essendo ella di tutti misura e nissuno misura di lei: tanto adunque manca al primo angelo di quella somma bellezza quanto manca al piú vil verme de la terra. Sono adunque i mancamenti eguali, cioè che ’l mancamento de la bellezza d’ogni creatura respetto quella del creatore è infinito, e l’infinito è eguale a l’infinito, a modo di dire, ben che l’egualitá sia condizione del finito: essendo la bellezza divina perfettamente astratta d’ogni suggetto e propria terminazione, nissuna comparazione tiene con qualsivoglia bellezza creata e terminata, come infinito a finito.
Sofia. Mi par necessario che li mancamenti siano eguali ad un modo: ma mi restano due dubi in questo. Il primo è che, se ugualmente è lontano il mondo angelico e il corruttibile da l’immensa bellezza divina, non deveria essere l’uno piú perfetto de l’altro: ché la perfezione de le creature par che consista ne l’approssimazione del creatore, piú o manco. Il secondo è che dici che nissuna creatura ha proporzioni col creatore: e come può stare questo con ciò che dice la Scrittura, che l’uomo sia fatto a l’immagine e similitudine di Dio? E giá da te ho inteso che il mondo è immagine e similitudine di Dio; e non è dubio che ’l mondo angelico è molto piú simile a la divinitá che tutto il resto, poi [che] l’immagine debbe essere proporzionata a la figura di che è immagine, e il simulacro a quello di che è similitudine: hanno adunque proporzione le cose create col creatore, però che sono sua immagine.
Filone. Li tuoi dubi mostrano ingegno; la soluzione loro non è difficile. Se bene la bellezza divina in sé è immensa e infinita, quella porzione che volse participare a l’universo creato è finita; la qual si participò in diversi gradi finiti, a chi piú a chi manco, però che ogni bellezza creata è concreata a propria essenzia e terminata [in] subietto e finita per quello: il mondo angelico pigliò la maggior parte, di poi il celeste, di poi il corruttibile. Queste parti son proporzionate in sé, e chi piú ne ha si dice piú participativo de la divinitá e piú approssimato a quella; non perché sia piú proporzionato a l’infinitá divina, però che tra finito e infinito non è proporzione, ma perché ha sortito piú di grado de la bellezza participata dal creatore al mondo creato, e restò men terminata raen concreata e men finita in sua propria essenzia: sí che quando si dice approssimarsi una creatura al suo creatore piú de l’altra, non è perché piú proporzionato gli sia, come tu nel tuo primo dubio intendi, ma perché piú participa liberalitá de’ doni divini. E con questo solverai il tuo secondo dubio, ché ne le creature è l’immagine e similitudine di Dio per quella bellezza finita participata da l’immenso bello: ché l’immagine del finito bisogna che sia finita, altrimenti non sarebbe immagine ma quello di che è immagine. Si depinge e immagina la bellezza infinita del creatore ne la bellezza finita creata come una bella figura in uno specchio: non però commisura l’immagine il divino immaginato, ma bene gli sará simulacro similitudine e immagine. Può adunque l’uomo e il mondo creato e prima l’angelico essere immagine e simulacro di Dio senza avere proporzione misurabile a sua immensa bellezza (come t’ho detto); onde il profeta dice: «A chi somigliate Dio e qual simulacro comparate ad esso»; e in altro luogo dice: «A chi m’assomigliate proporzionalmente? — dice il santo; — alzate al cielo gli occhi vostri e vedete chi creò questi, chi produsse e innumerò l’esercito loro e tutti chiama per nome, [e] per la [sua] somma virtú e immensa potenzia nissun luogo non è privato». Mira, o Sofia, quanto chiaro questo savio profeta ne mostrò l’infinita eccellenzia e improporzione che ha il creatore con le creature, ancora con le celesti e angeliche: a le quali dice aver prodotti tutti innumeratamente e ciascuno con propria essenzia e nome, e per la sua omnipotenzia e immensa virtú loro hanno l’essere e non son privati; ché, disse, «loro son niente», poiché che comparazione o proporzione può avere il niente con quella fontana d’essere, che ’l niente da sé produce in essere ed in eccellenti gradi di perfezione? E però Anna ne la sua orazione dice: «Non è alcuno santo come tu, Dio, perché nissuno non è senza te»; vuol dire che non si può comparare quello che riceve l’essere con quello da chi il riceve.
Sofia. Tu m’hai mostrato l’egualitá del mancamento de la bellezza nel mondo angelico e corruttibile; ti resta a mostrarmi come ancora sia maggior quello de l’angelico: il quale (oltre che è strano) pare che implichi contradizione, ché, se sono uguali, l’uno non debbe essere maggior de l’altro.
Filone. La ragion de l’egualitá tu l’hai intesa; t’ho detto che è ancora maggiore il mancamento di bellezza nel mondo angelico, però che piú il conosce: ché, essendo un mancamento medesimo in due persone, in quella si fa maggiore che piú il conosce, e in quella induce maggior desio di ciò che gli manca. Quando i civili e signorili ornamenti egualmente mancano a un nobile e un villano, in qual di loro fanno maggior mancamento? nel nobile, che conosce il mancamento che gli causano, o nel villano, che non sa che sieno? e qual piú gli desia?
Sofia. Nel nobile, certamente, ché quel che non sente non ha mancamento né desio di quel che gli manca.
Filone. Cosí ancora, che quello che manca de l’infinita bellezza al mondo celeste e corruttibile sia egualmente infinito, pur ne l’angelico, ove piú si conosce l’immensa bellezza che gli manca, il mancamento si fa maggiore, per incitare maggior desiderio e produrre piú intenso amore che nel mondo inferiore: onde, se ben il mancamento respetto de la divina bellezza è eguale, pure per il difetto del conoscimento il mancamento è minore, e il desiderio e amor di quello è piú remisso; si che l’egualitá del mancamento ne li due mondi è per rispetto de la cosa che manca, che è egualmente infinita, e il piú e il manco è rispetto di quelli a chi manca, secondo piú il conoscono e piú il desiano e amano.
Sofia. Assai chiaro intendo come il mancamento de la bellezza nel mondo angelico non solamente è eguale a quello del mondo inferiore, ma ancora maggiore: onde con ragione il desiderio e l’amore è molto piú ardente intenso ed eccellente, e con ragione si può affermare che ivi prima nascessi. Ma mi resta l’animo inquieto de la dignitá del mondo angelico, però che essendo il mancamento de la bellezza imperfezione, ove il mancamento è maggiore debbe essere l’imperfezione maggiore: seguitaria che ’l mondo angelico, a chi piú manca de la bellezza (secondo te), fusse piú defettuoso e manco perfetto del corruttibile, che è absurdo.
Filone. Seguitaria l’inconveniente che dici, se ’l mancamento di bellezza, il quale t’ho detto essere maggiore nel mondo angelico che nel corruttibile, fusse mancamento assolutamente privativo, perché questo veramente induce difetto in quello in chi è, quanto è maggiore. Ma io non ho detto che simil mancamento sia maggiore nel mondo angelico, ma solamente il mancamento incitativo e produttivo d’amore e desiderio, il quale non è difetto ne le cose create, anzi piú presto perfezione: onde ragionevolmente debbe essere maggiore nel mondo angelico che nel corruttibile.
Sofia. La diversitá de’ vocabuli non mi sazia. Dichiarami queste due maniere di mancamento, cioè privativo e produttivo d’amore, e la differenzia che è fra l’uno e l’altro.
Filone. Il mancamento d’ogni perfezione può essere in atto solamente, essendo pur la potenzia di quella, la quale propriamente si chiama mancamento; o veramente che manchi atto e potenzia insieme, e chiamano questa privazione assoluta.
Sofia. Dimmi l’esemplo di tutti due.
Filone. Ne le cose artificiali vedrai [che] un legno rozzo, a chi manca la forma e bellezza d’una statua d’Apolline, niente di manco è in potenzia a quella; però una porzione d’acqua, cosí come è privata in atto di forma di statua, cosí ancora è privata in potenzia, perché d’acqua non si può fare statua, come di legno. Quel primo mancamento, che non è spogliato di potenzia, si chiama mancamento; questo altro, a chi ancora manca con l’atto la potenzia, si chiama assoluta privazione: e ne le cose naturali la materia prima, che è nel fuoco o ne l’acqua, se ben gli manca la forma ed essenzia d’aere in atto, non però gli manca in potenzia, ché del fuoco si può fare aere e cosí de l’acqua; niente di manco gli manca forma di stella, di sole, di luna, ovvero celeste, non solamente in atto ma ancora in potenzia, però che la materia prima non ha potenzia né possibilitá a farsi cielo né stella. Questa differenzia è nel mancamento de la bellezza del mondo angelico al corruttibile, ché ne l’angelico il mancamento suo è mancamento in atto solamente, ma non manca in conoscimento e inclinazione, che è come la potenzia ne la materia prima; e cosí come in quella il mancamento de l’atto gli dá inclinazione e desiderio a ogni forma di che ella è in potenzia, cosí la cognizione e inclinazione angelica a la somma bellezza (qual gli manca) gli dá intensissimo amore e ardentissimo desiderio. Questo mancamento non è privazione assoluta, ché chi conosce e desia ciò che gli manca, non è del tutto privato di quella, però che il conoscimento è un essere potenziale di quello che manca, e cosí è l’amore e desiderio; ma nel mondo inferiore, ove non è tal conoscimento e desiderio di questa somma bellezza, con l’atto manca la potenzia di quella, e tal mancamento è privazione assoluta e vero difetto, non giá conoscitivo incitativo e produttivo d’amore: ché quello è perfezione ne le cose create, e ne le piú eccellenti questo mancamento si truova maggiore, cioè piú conoscitivo e incitativo d’amore, che nel corruttibile, e il privativo minore; e nel corruttibile è il contrario, ché ’l mancamento incitativo è minore e il privativo maggiore, onde egli è manco perfetto e piú defettuoso.
Sofia. Veggo ben la differenzia che è fra il mancamento di bellezza conoscitivo e produttivo d’amore, del quale piú si truova nel mondo intellettuale, al privativo nudo di cognizione e amore, del quale piú si truova nel mondo corruttibile; e conosco come l’uno importa perfezione e l’altro difetto. Ma mi restano tre cose dubiose: prima, che ’l mancamento del mondo inferiore non si può chiamare assolutamente privativo, però che ancora in quello si conosce la somma bellezza ed è desiata dagli uomini, che son parte di quello. La seconda, che quel mancamento conoscitivo e desiderativo de la somma bellezza non par che possi stare con l’essere in potenzia della cosa che manca in atto (come hai detto), però che la potenzia si può ridurre ad atto e nissun bello finito può avere bellezza infinita, la quale è quella che dici che conosce e desia. La terza, che mi par strano, è che Dio in alcuna cosa creata metta conoscimento e desiderio di cosa che gli manchi, e impossibile a loro d’acquistare, come sarebbe quello che dici del mondo angelico. Solvemi, o Filone, questi dubi, perché meglio m’acquieti l’animo in questa materia del dove l’amor nacque.
Filone. Simili dubitazioni da te aspettavo: sono a proposito, perché con la soluzione di quelli piú interamente conoscerai che l’amore nacque nel mondo angelico (come t’ho detto). A la prima ti dico che nel mondo corruttibile non è lucida cognizione de la somma bellezza divina, però che questa non si può avere se non per intelletto in atto separato da materia, che è specchio capace de la transfigurazione de la divina bellezza. Tale intelletto non si truova nel mondo inferiore, perché gli elementi misti inanimati, piante e animali mancano d’intelletto, e l’uomo, che l’ha, l’ha potenziale, che intende l’essenzie corporee pigliate da’ sensi, e quel che piú si può sollevare, quando è nutrito da vera sapienzia, è venire in cognizione de l’essenzie incorporee mediante le corporee, come per il movimento de’ cieli si viene a conoscimento de’ motori loro, che sono virtú incorporee e intellettuali, e per successione venire in cognizione de la prima causa, come de’ primi motori. Ma questo è come vedere il lucido corpo del sole in acqua o in altro diafano, perché la debil vista nol può vedere de diretto in se stesso: ché cosí il nostro intelletto umano ne le corporee vede l’incorporee, e se ben conosce che la prima causa è immensa e infinita, la conosce per l’effetto suo, che è l’universo corporeo, e per l’opra conosce il maestro; non che ’l conosca direttamente per se stesso vedendo la sua propria mente e arte, come fa il mondo angelico, che per essere intelletti separati da materia son capaci a vedere, ovvero imprimersi in loro, direttamente e immediatamente la chiara bellezza divina (come l’occhio de l’aquila che è capace di vedere direttamente il lucido sole), e non in enigmate.
Sofia. E tu non m’hai mostrato che l’intelletto umano qualche volta viene in tanta perfezione, che si può sollevare a coppularsi con l’intelletto divino, o ver angelico, separato da materia, e fruirlo in atto, vedendolo direttamente e non per discorso potenziale né mezzo corporeo?
Filone. Questo è vero; e li filosofi tengono che l’intelletto nostro si possa coppulare con l’intelletto agente separato da materia, che è del mondo angelico: ma quando viene in questo grado non è piú intelletto umano potenziale né corporeo, né è del mondo corruttibile, ma o egli è giá fatto del mondo angelico o [è] mezzo fra l’umano e l’angelico.
Sofia. Perché mezzo, e non del tutto angelico?
Filone. Però che coppulandosi con l’angelico bisogna che sia inferiore a lui, ché quel che si coppula è inferiore a quello col quale si coppula, cosí come l’angelo è inferiore a la divina bellezza, con la coppulazione della quale si felicita. Sí che l’intelletto coppulato è a l’angelico quasi come l’angelico al divino, ed è mezzo fra l’intelletto umano e l’angelico come l’angelico è mezzo fra lui e ’l divino: se bene il divino, per essere infinito, esceda molto piú del mezzo e sia ultimo grado di bellezza, improporzionabile a l’altro. Sono adunque quattro gradi d’intelletto, cioè: umano, coppulativo, angelico e divino; e l’umano si divide in due, cioè in potenzia (come quel de l’ignorante) e in abito (come quel del sapiente): e cosí son cinque. Onde conoscerai che l’intelletto umano, ancora il coppulativo, non può comprendere (secondo il filosofo) la bellezza divina de diretto, né avere la visione e cognizione di quella: e però il desiderio e amore non può de diretto drizzarsi in quella non conosciuta bellezza, se non fusse confusamente, per la cognizione avuta de la prima causa e primo motore mediante li corpi. La quale non è perfetta né retta cognizione, né può indurre puro amore né intenso desiderio, che a quella somma bellezza si richiede: può niente di manco conoscere ne la coppulazione l’essenzia de l’intelletto agente, la bellezza del quale è finita; verso la quale dirizza il suo amore e desiderio, e mediante quella, ovvero in quella, vede e desia la bellezza divina come in uno mezzo cristallino, o sia chiaro specchio, ma non in se stessa immediate, come fa l’intelletto angelico.
Sofia. Pur mi ricordo che hai detto che l’anime de’ santi padri profeti furono coppulate con la medesima divinitá.
Filone. Quel che ora ti ho detto è secondo il filosofo, che investiga la maggior perfezione in che l’uomo naturalmente può arrivare; ma la sacra scrittura ne mostrò quanto piú alto può volare l’intelletto umano, quando è fatto, per grazia di Dio, profetico ed eletto da la divinitá, perché allora può avere la coppulazione con la bellezza divina immediatamente come qualsivoglia degli angeli.
Sofia. E ogni profeta è forse pervenuto a tal grado di visione divina?
Filone. No, escetto Moise, che fu principe de’ profeti: però che tutti gli altri hanno avuto la profezia mediante angelo, e la fantasia loro participava con l’intelletto in sua coppulazione, onde la profezia loro veniva la maggior parte in sogni e addormimenti, con figure ed esempli fantastichi; però Moise profetizava in vigilia con l’intelletto chiaro e mondo di fantasia, coppulato con essa divinitá senza mezzo d’angeli e senza figura né fantastichi alcuni, escetto la prima volta per esser nuovo. Onde mormorando Aron e Maria (fratello e sorella di Moises) di lui, dicendo che ancora loro erano profeti come lui, Dio gli disse che non eran pari, dicendo: «Se Dio profetizza a voi, è in specchio e in sogno», cioè mediante il specchio de l’angelo e con compagnia de la fantasia sonnifera; — e segue: «non è cosí mio servo Moises, che in tutta casa mia è fedele; parlo con lui bocca a bocca in visione, e non in enigmate, e la figura di Dio vede»: cioè che è conoscitore fedele di tutte le idee che sono ne la mente divina, e che profetizzava bocca a bocca, non per intercessione angelica ma con chiara intellettuale visione senza sogno ed enigmate, e finalmente come il primo degli angeli la bellissima figura di Dio vede. Sí che di questo solo aviamo notizia che abbi avuta la visione divina come angelico, e non alcuno altro profeta: e però la sacra Scrittura dice di lui che Moise parlava a Dio faccia a faccia come parla un uomo al suo compagno, cioè che de diretto profetizzando vedeva la visione divina.
Sofia. Chi in vita possé venire a tanta sollevazione, che debbe essere stato poi de la morte, essendo l’anima giá dislacerata da l’impedimenti corporei?
Filone. Credi che con maggior facilitá la sua coppulazione fu allora piú intima con la divinitá, e con maggior unione, e sempre continua senza interposizione, quel che vivendo non poteva essere: ché non solamente Moises teniamo in morte essersi coppulato immediate con la divinitá, ma ancora molti degli altri profeti santi padri l’han conseguito in morte, se ben ne la vita altri che Moises non l’ha conseguito.
Sofia. Ho inteso a sufficienzia la soluzione del mio primo dubio. Vorrei che mi solvessi il secondo, come può essere che l’angelo sia in potenzia per conoscimento desiderativo a l’infinita bellezza, la quale è impossibile che acquisti in atto.
Filone. Impossibile è che ’l finito venga ad essere infinito, come è impossibile che la creatura sia fatta creatore: e per tale acquisto non si truova potenzia ne l’anime de’ beati, ma sono in potenzia a coppularsi e unirsi con l’infinita bellezza di Dio, se bene lor son finiti; e in questo serve la cognizione che hanno di sua immensa bellezza, e l’amore e inclinazione gl’indirizza in quello.
Sofia. Come l’infinito può essere conosciuto dal finito? e l’infinita bellezza come si può imprimere in mente finita?
Filone. Questo non è strano, perché la cosa conosciuta sta e s’imprime nel conoscente secondo il modo e natura di esso conoscente, e non del conosciuto. Mira che tutto l’emisperio è visto da l’occhio ed è impresso ne la minima pupilla, non giá secondo la grandezza e natura celeste ma secondo è capace la quantitá e virtú de la pupilla: cosí l’infinita bellezza s’imprime ne la finita mente angelica o beata, non secondo il modo de la sua infinitá, ma secondo la finita capacitá de la mente che la conosce; ché l’occhio de l’aquila vede, e si transfigura in quello il lucido e gran sole dirittamente, non come egli è in sé ma come l’occhio de l’aquila è capace di riceverlo. Uno altro conoscimento è de l’immensa bellezza divina, che s’agguaglia a quella, il quale è quello che ’l sommo Dio ha di sua propria bellezza, ed è come se ’l sole con la sua luciditá (che è visibile) vedessi se stesso, ché quella saria visione perfetta, però che la cognizione s’agguaglia al conosciuto. Sono dunque tre visioni di Dio, come del sole: l’infima de l’intelletto umano, che vede la bellezza divina in enigmate de l’universo corporeo, che è simulacro di quella, sí come l’occhio umano che vede il lucido corpo del sole transfigurato in acqua o in altro diafano impresso, però che de diretto non è capace di vederlo; la seconda è de l’intelletto angelico, che vede l’immensa bellezza divina de diretto, non agguagliandosi con suggetto ma ricevendolo secondo la sua finita capacitá, cosí come l’occhio de l’aquila vede il chiaro sole; la terza è la visione de l’intelletto divino de la sua immensa bellezza, la quale s’agguaglia con l’oggetto, come se ’l lucido sole se stesso vedessi.
Sofia. Mi piaceno le tue soluzioni di questo secondo dubio: ma mi resta pur difficile che, essendo gli angeli immutabili e sempre in un grado di felicitá, come può essere che sieno in potenzia a qualche perfezione d’essere in atto (come hai detto) de la loro coppulazione divina? e se loro sono sempre coppulati con la divinitá, non bisogna desio né amore per quello che sempre hanno, ché (come dici) si disia ciò che manca e non quello che sempre si possiede.
Filone. Essendo tanto più eccellente oggetto del conoscente, non è strano che sempre possa crescere la cognizione e unione coppulativa de la mente finita con l’infinita bellezza, mediante il desiderio e amore che si causa nel gran mancamento de la somma bellezza conosciuta, per sempre fruire piú la contemplazione unitiva di quella. E se ben gli angeli non son temporali, l’eternitá loro non è infinita né tutta insieme senza successione, come l’eternitá divina: onde essi, se ben sono incorporei e non hanno moto corporale, hanno moto intellettuale ne la sua prima causa e ultimo fine, con contemplazione e coppulazione successiva; la quale successione i filosofi chiamano evo angelico, che è mezzo fra il tempo del mondo corporeo e l’eternitá divina: e in tal successione può stare potenzia, amore e desiderio intellettuali, e aderenzia successiva e unitiva (secondo t’ho detto). E quando ben ti concedessi che essi son sempre in un grado di coppulazione, non però mancaria l’amore e desio de la continuazione di quella in eterno, ché (come t’ho detto) le cose buone possedute s’amano desiderando sempre fruirle con perpetua dilettazione: sí che l’amore angelico si dirizza sempre ne la divina bellezza, intensivamente ed estensivamente.
Sofia. Ho satisfazione del secondo dubio: di’ qualche cosa del terzo.
Filone. Con il giá detto ne la soluzione del secondo è manifesta la soluzione del terzo. Ti concedo che né Dio né la natura non pongano in alcuna creatura intero amore né desiderio, ovvero inclinazione o inerenzia, se non a conseguire o a essere cosa possibile, e non al mero e manifesto impossibile. E però vedrai che uno uomo non desia andare con li piedi in cielo o volare con le ali o essere una stella o averla in mano, né cose simili, che se ben sono degne e mancano e che sia conosciuta la sua dignitá, non però son desiderate, perché l’impossibilitá loro è manifesta: onde mancando la speranza di conseguirle, manca il desiderio; però che la speranza d’acquistare la cosa che diletta, quando è conosciuta e manca, incita l’amore e desio per acquistarla, e quando la speranza è lenta l’amor non è mai intenso né il desiderio ardente, e quando è priva, per essere l’acquisto impossibile, si priva ancora l’amore e il desio del conoscente. Ma l’amore e il desiderio angelico di fruire l’immensa bellezza divina non è di cosa a loro impossibile disperato, ché (come t’ho detto) loro possono e sperano conseguire e fruire quella come propria felicitá, e in quella sempre si dirizzano e convertono come proprio fine, non ostante ch’ella sia infinita e gli angeli finiti.
Sofia. Ho ben inteso la soluzione del terzo dubio: e veggio che tu ne l’amor accresci una quarta condizione, che, oltra che bisogna che sia di cosa bella e conosciuta da l’amante e che in qualche modo gli manchi o gli possi mancare, bisogna ancora (secondo te) che sia possibile conseguirla e che abbi speranza d’acquistarsi; il che par ragionevole. Ma troviamo esperienzia in contrario: vediamo che gli uomini naturalmente desiano di mai non morire, la qual cosa è impossibile manifesta e senza speranza.
Filone. Coloro che ’l desiano non credeno interamente che sia impossibile: hanno inteso per le istorie legali che Enoc ed Elia1 sono immortali in corpo ed anima, se ben veggono essere stato per miracolo; onde ciascuno pensa che a loro Dio potria fare simil miracolo, e però con questa possibilitá si gionta qualche remota speranza, la quale incita un lento desiderio, massimamente per essere la morte orribile e la corruzione propria odiosa a chi vuole. E il desiderio non è d’acquistare cosa nuova, ma di non perdere la vita, che si truova; la quale avendosi di presente, è facil cosa ingannarsi l’uomo a desiare che non si perda, se ben naturalmente è impossibile: ché ’l desiderio di ciò è talmente lento, che può essere di cosa impossibile e [solo] immaginabile, essendo di tanta importanzia al desiderante. E ancora ti dirò che ’l fondamento di questo desiderio non è vano in sé, se ben è alquanto ingannoso: però che ’l desiderio de l’uomo d’essere immortale è veramente possibile, ché l’essenzia de l’uomo (come rettamente Platon vuole) non è altro che la sua anima intellettiva, la quale per la virtú, sapienzia, cognizione e amore divino si fa gloriosa e immortale; ché quelli che sono in pene non li chiamo interamente immortali, ché la pena e privazione de la visione divina, che ha l’aninia, si può reputare mortalitá, se ben del tutto non è annichilata. Gli uomini, ingannati in che l’essere corporeo sia la sua propria essenzia, si credono che ’l natural desio de l’immortalitá sia ne l’essere corporeo, il quale in effetto non è se non ne li spirituali (come t’ho detto). Da questo intenderai, o Sofia, la certezza de l’anima intellettiva umana; che se l’uomo non fusse veramente immortale secondo l’anima intellettiva, che è il vero uomo, non desiderariano tutti gli uomini l’immortalitá come desiano: ché gli altri animali, cosí come sono interamente mortali, cosí puoi pensare che non pensano non conoscono non desiano e non sperano l’immortalitá, né forse ancora conoscono che sia la mortalitá, se bene friggono dal danno e doglia. Perché la cognizione de’ contrari è una medesima, l’uomo, che conosce la morte, conosce e procura l’immortalitá sua, cioè de la sua anima: e questo nol faria se non fusse possibile conseguirlo (al modo che t’ho detto); da questo vero desiderio deriva il desiderio fallace che non mora il corpo, accompagnato da l’altre cagioni che t’ho detto.
Sofia. Mi chiamo contenta de le soluzioni de li miei dubi; e conosco che l’amor de l’universo creato veramente nacque nel mondo angelico. Ma solamente m’è contra quel che m’hai detto di Platone, che dice l’amore non essere dio ma un gran demone: giá ho inteso che l’ordine de’ demoni Platone il fa inferiore a quello degli dèi, cioè degli angeli; adunque non principia (secondo lui) l’amor nel mondo angelico ma nel demonico, e per questa ragione gli angeli debbono essere totalmente privi d’amore, però che non è giusto che ’l demone, che è inferiore, influisca amore ne’ suoi superiori, cioè negli angeli, come influisce agli uomini, a’ quali è superiore.
Filone. Noi abbiamo confabulato de l’amore de l’universo piú universalmente di quello che fece Platone nel suo Convivio, però che noi qui trattiamo del principio de l’amore in tutto il mondo creato, ed egli solamente del principio de l’amore umano. Il quale tenendo alcuni che fussi un dio, ovvero dea, che continuamente influisca questo amore agli uomini, Platone contro quelli dice che non può essere dio, perché gli dèi infondano perfezione e bellezza in abito come loro, che sono veramente perfetti e belli; ma l’amor ne li umani non è possessione né perfezione di bellezza, ma desiderio di quella, che manca, onde la sua bellezza è solamente in potenzia, e non in atto né abito, come in effetto è negli angeli: ché veramente amore è la prima passione de l’anima, ché l’essere suo consiste in inerenzia potenziale a la bellezza amata. E però Platone pone il suo principio inferiore degli dèi, cioè demone, la bellezza del quale è in potenzia, a rispetto de l’angelica che è in atto; e cosí come Platone pone a le perfezioni attuali, scienzie e sapienzie umane in atto, le idee per princípi, cosí alle potenzie, virtú e passioni de l’anima pone gli démoni, inferiori degli dèi, per princípi: essendo l’amore (come t’ho detto) la prima passione de l’anima, pone un grande e primo demone per suo principio. Ma l’amore di che parliamo negli angeli non è passione corporea, ma inerenzia intellettuale ne la somma bellezza: onde questo escede i démoni e uomini insieme, ed è principio de l’amore nel mondo creato, il che non niega Platone, che esso medesimo pone amore nel sommo Dio, participato agli altri dèi cosí come quello del démone agli umani, ma, per essere piú alto di quello, non ne fa uno comune parlare d’ambidue, come abbiamo fatto noi.
Sofia. Ancora di questo ultimo dubio son satisfatta. Solamente vorrei sapere da te in questa parte, come l’amore, il qual nacque nel mondo angelico, di li proceda e si participi a tutto l’universo creato; e se gli angeli participano tutti ne l’amore de la divina bellezza immediatamente, ovvero l’uno mediante l’altro superiore a lui.
Filone. Gli angeli participano ne l’amore divino al modo che fruiscano la sua unione: e in questo li filosofi, teologi e arabi son discrepanti. La scuola d’Avicenna e Algazeli e il nostro rabi Moise e altri tengono che la prima causa sia, sopra tutte l’intelligenzie movitrici de’ cieli, causa e fine amato da tutti; la quale essendo simplicissima unitá, con l’amore de la sua immensa bellezza immediate da sé sola la prima intelligenzia movitrice del primo cielo produce: e quella sola fruisce la visione e unione divina immediatamente, però che l’amor suo tende immediate ne la divinitá, sua propria causa e dilettissimo fine. Questa intelligenzia ha due contemplazioni: l’una de la bellezza de la sua causa, e per virtú e amore di quella produce ancor ella la seconda intelligenzia; la seconda è la contemplazione de la sua propria bellezza, e per virtú e amore de la quale produce il primo orbe, composto di corpo incorruttibile circulare e d’anima intellettiva amatrice de la sua intelligenzia; del quale è perpetua movitrice, come suo proprio fine amato. La seconda intelligenzia contempla la bellezza divina non immediate ma mediante quella, come chi vedessi la luce del sole mediante un vetro cristallino; ed ella ancora ha due contemplazioni, quella de la bellezza de la causa, per virtú e amor de la quale produce la terza intelligenzia, e quella de la bellezza di se stessa, per la quale produce il secondo orbe, a sé appropriato in continuo movimento. A questo modo pongono la produzione e contemplazione di tutte l’intelligenzie e orbi celesti successivamente e incatenatamente: sieno otto li orbi (come tenevono li greci) o nove (come gli arabi) o dieci (come gli antichi ebrei e alcuni moderni). Il numero de l’intelligenzie movitrici è, per virtú de le loro anime, come il numero de li cieli; li quali si muoveno continuo di sé in sé circularmente, per la cognizione e amore che ha l’anima loro alla sua intelligenzia e a la somma bellezza relucente in quella, la quale tutti segueno per coppularsi e felicitarsi con lei, come in ultimo e felicissimo fine. E il piú inferiore de’ motori, cioè quello de l’orbe de la luna, per la contemplazione e amore de la bellezza di sé stesso produce l’orbe de la luna, che egli sempre muove, e per la contemplazione de la bellezza de la sua causa dicono che produce l’intelletto agente, che è l’intelligenzia del mondo inferiore, che è quasi l’anima del mondo. Ché (come pone Platone) dicono che questa ultima intelligenzia è datrice di tutte le forme in diversi gradi e spezie del mondo inferiore ne la materia prima, per la contemplazione e amore de la sua propria bellezza; la quale sempre muove di forma in forma per la generazione e successione continua, e per la contemplazione e amore de la bellezza de la sua causa produce l’intelletto umano, ultimo degl’intelletti, primo in potenzia: e di poi illuminandolo il riduce in atto e abito sapiente, di maniera che si può sollevare per forza d’amore e desio a coppularsi col medesimo intelletto agente, e vedere in quello, come in ultimo mezzo o specchio cristallino, l’immensa bellezza divina, e felicitarsi in quella con eterna dilettazione, come in ultimo fine di tutto l’universo creato. In modo che avendo declinato l’essenzie create di grado in grado, non solamente fino a l’ultimo orbe de la luna ma ancora fino a l’infima materia prima, di lí si torna a sollevare essa materia prima con inclinazione amore e desio d’approssimarsi a la perfezione divina, da la quale è la piú lontana, ascendendo di grado in grado ne le forme e perfezioni formali: prima ne le forme degli elementi, secondo ne le forme de li misti inanimati, terzio in quelle de le piante, quarto ne le spezie degli animali, quinto nella forma razionale umana in potenzia, sesto a l’intelletto in atto ovvero in abito, settimo a l’intelletto coppulativo con la somma bellezza mediante l’intelletto agente. Di questa maniera gli arabi fanno una linea circulare de l’universo, il principio de la quale è la divinitá, e da lei succedendo incatenatamente d’uno in uno viene a la materia prima, che è la piú distante da quella, e da lei va ascendendo e approssimandosi di grado in grado, fin che si torna a finire in quel punto del quale è principio, cioè ne la bellezza divina per la coppulazione de l’intelletto umano con quella.
Sofia. Ho inteso come questi arabi intendono che l’amore discenda dal capo del mondo angelico fin a l’ultimo del mondo inferiore, e che di li ascenda fino al suo primo principio, tutto successivamente di grado in grado con ordine mirabile, in forma circulare con signalato principio. Io non vaglio per giudicare quanto questa oppinione abbi del vero, ma ha de l’ingegnoso ed [è] apparente e molto ornata: dimmi la discrepanzia degli altri arabi in questo.
Filone. Giá credo averti detto un’altra volta che Averrois, come puro aristotelico, le cose che non trovò in Aristotile (o perché a le sue mani non pervenissero tutti li suoi libri, massime quelli de la metafisica e teologia, o per non essere de la sua oppinione e sentenzia) s’affatigò contradirle e annullarle. E come questo incatenamento de l’universo nol trovasse in lui, ha contradetto in quello agli arabi suoi antecessori, dicendo che non è de la filosofia di mente d’Aristotile, però che egli non ha per inconveniente che de l’uno e simplicissimo Dio dependa immediate la multitudine coordinata de l’essenzie de l’universo: attento che tutto s’unisce come membra d’uno individuo uomo, e per quella totale unitá tutte le sue parti possono dependere insieme de la simplicissima unitá divina, ne la cui mente tutto l’universo è esemplato e figurato come la forma de l’artificiato ne la mente de l’artifice; la qual forma in Dio non implica multiplicazione d’essenzia, anzi da la banda sua è una, e ne l’artificiato si multiplica per il mancamento che ha de la perfezione de l’artifice: sí che le idee divine per la comparazione che hanno a l’essenzie create son molte, ma per essere in mente divina sono una con quella. Dice adunque Averrois che la divina bellezza s’imprime in tutte l’intelligenzie movitrici de’ cieli immediatamente, e tutte da lui con li suoi orbi hanno derivazione immediata, e cosí la materia prima e tutte le spezie e intelletto umano, che son soli li eterni nel mondo inferiore. Ma dice che questa impressione, se bene è immediata in tutto, che niente di manco per ordine è graduata secondo piú o manco: però che ne la prima intelligenzia la bellezza divina s’imprime piú degna spirituale e perfettamente con maggiore conformitá di simulacro che ne la seconda, e ne la seconda piú che ne la terza, e cosí successivamente fino a l’intelletto umano, che è ultimo de l’intelligenzie. Ne li corpi s’imprime in modo piú basso, però che ivi è fatta dimensionabile e divisibile: niente di manco s’imprime nel primo orbe piú perfettamente che nel secondo, e cosí successivamente fino a passare a l’orbe de la luna e venire a la materia prima; ne la quale ancora s’imprimeno tutte le idee de la bellezza divina come in ciascuna de l’intelligenzie movitrici e anime de li cieli e come ne l’intelletto agente umano e sapiente, ma non in quella chiarezza e luciditá, ma in modo ombroso, cioè in potenzia corporea. Ed è simile l’impressione de la materia prima respetto de li corpi celesti a l’impressione de l’intelletto possibile umano rispetto di tutti gli altri intelletti attuali, e non è altra differenzia in queste due impressioni, se non che ne la materia prima sono impresse tutte le idee formali in potenzia corporalmente, per essere il piú infimo de li corporei, e ne l’intelletto possibile sono cosí tutte impresse in potenzia, non corporea ma spirituale, cioè intellettuale. Secondo questa graduazione successiva de l’impressione de la bellezza divina succede l’amore e desio di quella nel mondo intellettuale di grado in grado, da la prima intelligenzia fino a l’intelletto possibile umano, che è il piú basso e infimo de l’intelletti umani; e nel mondo corporeo (nel quale l’amore depende da l’intellettuale) succede cosí dal primo e supremo cielo gradualmente fino alla materia prima; la quale, cosí come ognuno degli orbi celesti, per quello amore insaziabile che hanno a la bellezza divina, per piú participarla e fruirla si muove circularmente di continuo senza riposo, cosí la materia prima, con desiderio insaziabile di participare la bellezza divina con la recezione de le forme, si muove di continuo di forma in forma in moto di generazione e corruzione circulare senza mai cessare. Piú particularitá ti potrei dire di ciascuna di queste due oppinioni nel modo de la successione de l’essenzie e amori ne l’universo, ne le sue differenzie e ragioni che ognuno in favore de la sua oppinione e in disfavore de l’altra adduce: ma le lasso per non essere prolisso in cosa non necessaria al proposito; bastiti che ciascuna di queste due oppinioni ti mostrará la risposta di quello che dimandi, cioè a che modo l’amore depende dal mondo angelico, del quale nacque, nel mondo celeste e inferiore, che si fa comune a tutto l’universo creato.
Sofia. Ho inteso la differenzia de la successione de l’impressione de la bellezza divina e de l’amor di quella ne’ gradi intellettuali de l’universo, fra queste due oppinioni d’arabi: e mi par comprendere che la prima sia come l’impressione del sole in un chiaro cristallino, e mediante quello in uno altro men chiaro, e cosí successivamente fino a l’intelletto umano, che è l’ultimo e men chiaro di tutti; e la seconda come l’impressione pur del sole immediatamente in molti specchi, l’uno men chiaro de l’altro gradualmente da la prima intelligenzia fino a l’intelletto umano: e a l’uno modo e a l’altro veggo che l’amor depende dal mondo angelico in tutto l’universo creato. Son interamente satisfatta di questa mia terza dimanda del dove l’amor nacque: e veramente conosco che ’l suo primo nascimento e principio nel mondo creato fu ne la prima intelligenzia, capo del mondo angelico (come hai detto). Parriame oramai tempo che dessi risposta a la quarta dimanda mia; che è, di chi l’amore nacque, e quali e quanti furono li suoi progenitori.
Filone. I poeti greci e latini che fra li dèi numerano l’amore, diversi di loro diversi progenitori gli attribuiscono: alcuni il chiamano Cupido, altri Amore; e de Cupidini ne pongono piú d’uno, ma il principale è quel fanciullo cieco, nudo, con ali, che porta arco e saette, [e che] dicono essere figlio di Marte e Venere, e altri il pongono nato di Venere senza padre.
Sofia. Che vogliono mostrare in questo?
Filone. Cupido dio d’amore è l’amor voluttuoso, delettabile e proprio libidinoso; e però fingono che la voluttá sia sua figlia: il quale si truova escessivo e ardente in quelli uomini, ne la nativitá de’ quali Marte e Venere son piú potenti e fra sé comunicanti d’aspetto benivolo e coniunzione; però che Venere dá abundanzia d’umiditá naturale digesta e disposta a libidine, e Marte dá il caldo e ardente desiderio e incitazione, di sorte che l’uno dá il potere e l’altro il volere escessivi. Li poeti a Marte (datore del caldo) chiamano padre, perché è attivo, e a Venere dicono madre, perché l’umido è materiale e passivo. Quelli che dicono che è senza padre vogliono inferire che l’ardentissima libidine non ha ragione intellettuale, che è il padre e direttore de le volontarie passioni; ha solamente madre Venere, pianeta e dea de le dilettazioni libidinose. Altro Cupido dicono essere stato figliuolo di Mercurio e Diana, il quale dicono essere pennato, cioè alato, e per questo intendono la cupiditá de le ricchezze e possessioni: ed è l’amor de l’utile, che fa gli uomini veloci e quasi volanti per l’acquisizione di quello; il quale è escessivo in quelli uomini, ne la nativitá de’ quali Mercurio e la luna sono li piú possenti significatori, coniunti con buoni aspetti e in luoghi forti, però che Mercurio li fa solliciti e sottili negociatori e Diana, cioè la luna, gli abbonda de l’acquisizioni mondane: però li poeti a Mercurio, come attivo, chiamano padre de l’utile, e a Diana, per materiale e passiva, dicono madre.
Sofia. De le tre spezie d’amore, delettabile utile e onesto, li poeti ne hanno finto due cupidini per dèi, l’uno per il delettabile l’altro per l’utile: ne hanno forse finto alcuno altro per dio de l’onesto?
Filone. Non giá, ché Cupido vuol dire amore e desio acceso e inordinato senza moderazione; li quali escessi si truovano nel delettabile e utile ma non ne l’onesto, ché l’onesto dice moderazione e temperato ordine, perché l’onestá, sia quanto si voglia, non può essere stemperata né escessiva: ma parlando li poeti de la progenie de l’amore, qualche volta depinsero l’onesto e qualche volta tutti insieme.
Sofia. Dimmi adunque quel che dicono de’ progenitori de l’amore, come hai detto di Cupidine.
Filone. Giá ero in via per dirtelo. Alcuni pongono l’amore figlio di Erebo e de la notte, anzi di molti suoi figliuoli (secondo giá ti ho detto parlando de la comunitá de l’amore) dicono che è suo primo genito.
Sofia. Di qual parlano, e che ne significano per questi due parenti?
Filone. Parlan de l’amore in comune, che è la prima fra tutte le passioni de l’anima, ed Erebo (come giá t’ho detto) fingono dio di tutte le passioni de l’anima e cosí de le potenzie de la materia; e per Erebo intendeno la inerenzia e potenzia de l’anima e de la materia a le cose buone e gattive. E perché la prima de le passioni de l’anima è l’amore, però lo fingono primogenito di Erebo e gli attribuiscono altri uniti figliuoli, che son tutte passioni conseguenti a l’amore (come t’ho giá distesamente dechiarato); e pongono la notte per madre de l’amore, per mostrare come l’amore si genera di privazione e mancamento di bellezza con inerenzia a quella, ché la notte è privazione de la bella luce del dí: in questa tutte tre spezie d’amore concorrono in comune senza differenzia. Fingono un altro dio d’amore, figliuolo di Giove e di Venere magna, il quale dicono essere stato gemino.
Sofia. Qual de le spezie d’amore è questo, e che dimostrano li parenti?
Filone. In questo intendono de l’amor onesto e temperato circa ogni natura d’acquisto, sia di cosa corporea utile ovvero delettabile, ne li quali la moderazione e temperamento fa onesto l’amore, ovvero di cosa incorporea virtuosa e intellettuale, l’onestá de’ quali consiste in che l’amore sia piú intenso e ardente che essere possa, e il stemperamento suo e disonestá non è altro che essere troppo remisso o lento. Gli dánno per padre Giove, il quale appresso i poeti è sommo Dio, però che ’l tale amore onesto è divino e il fine del suo desiderio è contemplare la bellezza del gran Giove; e giá t’ho detto che l’amato è padre de l’amore, e l’amante madre. Gli dánno per madre la magna Venere, che non è quella che dá i desidéri libidinosi, ma l’intelligenzia di quella la quale dá i desidéri onesti intellettuali e virtuosi, come madre desiderante la bellezza di Giove suo marito, padre de l’onesto amore. E (secondo gli astrologi) quando Giove e Venere con soave aspetto e coniunzione sono forti e significatori ne la nativitá d’alcuno, per essere pianeti benevoli e tutti due fortune, il fan benigno, fortunato e amatore d’ogni bene e virtú, e il dotano d’amore onesto e spirituale (secondo t’ho detto): però che ne le cose corporali Venere dá il desiderio e Giove il fa onesto, negl’intellettuali Giove dá il desiato e Venere il desiderio, l’uno come padre e l’altro come madre de l’amor onesto, che cosí come Venere con la coniunzione e virtú di Marte fa desidéri umani escessivi e libidinosi, cosí con la coniunzione e matrimonio di Giove il fa onesto e virtuoso.
Sofia. Intendo a che modo l’amore onesto è figlio di Giove e Venere; dimmi perché il pongono gemino.
Filone. Platone referisce un detto di Pausania nel Convivio, dicendo che l’amore è gemino perché in effetto sono dui l’amori, cosí come sono due le Veneri: però che ogni Venere è madre d’amore, onde essendo le Veneri due, bisogna che siano gli amori ancora due; e perché la prima è Venere magna, celeste e divina, il figlio suo è l’amore onesto, de l’altra, che è Venere inferiore libidinosa, è figlio l’amore brutto: e però l’amore è gemino, onesto e brutto.
Sofia. Non è adunque questo amore gemino solamente onesto (come hai detto)?
Filone. Questo ha gionto ne l’amore gemino Cupidine, figlio di Venere inferiore e di Marte, con l’amor figlio de la magna Venere e di Giove; ma noi seguitiamo coloro che pongono l’amore gemino altro che Cupidine, cioè quello figlio di Giove e de la magna Venere: e questo è l’onesto.
Sofia. Come adunque l’onesto solamente è gemino?
Filone. Fingono essere questo amor gemino, però che (come hai inteso) l’amore onesto è ne le cose corporali e ne le spirituali, ne l’uno per la moderazione del poco, ne l’altro per tutto il possibile accrescimento, e chi è onesto ne l’uno, è onesto ne l’altro, ché (come dice Aristotile) ogni sapiente è buono e ogni buono è sapiente: di maniera che è gemino insieme nel corporale e nel spirituale. Ancora, la geminazione conviene a l’amore amicabile e a l’amicizia onesta, perché sempre è reciproco: ché (come dice Tullio) l’amicizia è fra li virtuosi e per le cose virtuose, onde mutualmente gli amici s’amano per le virtú d’ognuno di loro: è gemino ancor in ciascuno degli amici e amanti, però che ognuno è se stesso e quello che ama, ché l’anima de l’anima de l’amante è il suo proprio amato.
Sofia. Ho inteso li progenitori, che li poeti fingono d’Amore; vorria sapere quelli dei filosofi.
Filone. Troviamo Platone, ancor lui favoleggiando, assegnare altri principi a l’origine de l’amore. Dice nel Convivio, in nome d’Aristofane, che l’origine de l’amore fu in questo modo: che essendo nel principio degli uomini un altro terzo genere di uomini, cioè non solamente uomini e non solamente donne, ma quello che chiamavano androgeno, il quale era maschio e femmina insieme, e cosí come l’uomo depende dal sole e la donna da la terra, cosí quello depende da la luna participante di sole e di terra, — era dunque quello androgeno grande forte e terribile, però che avea due corpi umani legati ne la parte del petto e due teste colligate nel collo, un viso a una parte de le spalle e l’altro a l’altra, quattro occhi e quattro orecchie e due lingue, e cosí i genitali doppi; avea quattro braccia con le mani e quattro gambe con li piedi, di maniera che veniva quasi a essere in forma circulare; si moveva velocissimamente, non solo a l’una e l’altra parte, ma ancora in moto circulare con quattro piedi e quattro mani con gran celeritá e veemenzia. Insuperbito de le forze sue, prese audacia di contendere con gli dèi e d’esserli contrario e molesto: onde Giove consigliandosi sopra ciò con gli altri dèi, poi diverse sentenzie, gli parve non doverli ruinare, perché mancando il genere umano non saria chi onorasse gli dèi, né manco gli parve di lasciarli in la sua arroganzia, perché tollerarla sarebbe vituperio a li divini; onde determinò che si dividessero, e mandò Apolline che gli dividesse per mezzo a lungo e ne facesse di uno due, perché potessino solamente andare dritti per una banda sopra due piedi, e saria doppio il numero de li divini cultori: ammonendoli che se piú peccassero contra gli dèi, che tornaria a dividere ogni mezzo in due, e restariano con uno occhio e una orecchia, mezza testa e viso, con una mano e un piè col quale camminariano saltando come li zoppi, e restarebbeno come gli uomini dipinti ne le colonne a mezzo viso. Il quale Apolline in questo modo li divise da la parte del petto e del ventre, e voltògli il viso a la parte tagliata, acciò che vedendo l’incisione si ricordassero del suo errore e ancora perché potessero meglio guardare la parte tagliata e offesa; sopra l’osso del petto misse cuoio, e pigliò tutte le bande tagliate del ventre e le raccolse insieme, [e] legolle in mezzo di quello, il quale ligame si chiama ombelico, circa del quale lasciò alcune rughe fatte da le cicatrici de l’incisione, acciò che vedendole l’uomo si ricordasse del peccato e de la pena. Vedendo ciascuno de li mezzi mancare del suo resto, desiderando reintegrarse s’approssimava a l’altro suo mezzo, e abbracciandosi s’univano strettamente, e senza mangiare né bere si stavano cosí fin che perivano. Erano i genitali loro a la parte posteriore de le spalle, che prima era anteriore, onde gittando il sperma fuora cadeva in terra e generava mandragore. Vedendo adunque Giove che il genere umano totalmente periva, mandò Apolline che gli tornasse genitali a la parte anteriore del ventre, mediante li quali uniendosi generavano suo simile, [e] restando satisfatti cercavano le cose necessarie a la conservazione de la vita. Da questo tempo in qua fu generato l’amor fra gli uomini, reconciliatore e reintegratore de l’antica natura, e quello che torna a fare di due uno, remedio del peccato che fece quando de l’uno fu fatto due; è adunque l’amor in ciascuno degli uomini, maschio e femmina, però che ognuno di loro è mezzo uomo e non uomo intero, onde ogni mezzo desia la reintegrazione sua con l’altro mezzo. Nacque adunque, secondo questa favola, l’amore umano de la divisione de l’uomo, e li suoi progenitori furono li dui sui mezzi, il maschio e la femmina, a fine di loro reintegrazione.
Sofia. La favola è bella e ornata; e non è da credere che non significhi qualche bella filosofia, massimamente essendo composta da Platone nel suo Simposio a nome di Aristofane. Dimmi adunque, o Filone, qualche cosa del significato.
Filone. La favola è tradutta da autore piú antico de li greci, cioè da la sacra istoria di Moise de la creazione de li primi parenti umani Adam ed Èva.
Sofia. Non ho mai inteso che Moises abbi favoleggiato questa cosa.
Filone. Non l’ha giá favoleggiata con questa particularitá e chiarezza, ma ha posta la sustanzia de la favola sotto brevitá; e Platone la prese da lui e l’ampliò e ornò secondo l’oratoria grecale, facendo in questo una mescolanza inordinata de le cose ebraiche.
Sofia. A che modo?
Filone. Nel dí sesto de la creazione de l’universo fu la creazione de l’uomo, l’ultima di tutte le sue parti, de la quale dice queste parole: «Creò Dio Adam (cioè l’uomo) in sua forma; in forma di Dio creò esso, maschio e femmina creò essi. E benedisse essi Dio, e gli disse: — Fruttificate, multiplicate, ed empite la terra e dominatela». — E di poi narra la finizione de l’universo in fine del sesto dí e la quiete nel sabbato, settimo dí, e la benedizione di quello. E di poi dice a che modo il mondo principiò a germinare le sue piante, per l’ascensione de li vapori de la terra e la generazione de le pioggie. E dice come «Dio creò l’uomo de la polvere de la terra, e aspirò ne le sue nari spirito di vita, e fu uomo per anima vivente». E che, piantando Dio uno orto di delizie di tutti li belli arbori e gustevoli con l’arbore de la vita e l’arbore di conoscere bene e male, misse l’uomo in quello orto per lavorarlo e guardarlo, comàndogli che mangiasse d’ogni arbore, escetto che de l’arbor di conoscere bene e male non ne mangiasse, perché nel dí che ne mangiasse morrebbe. Continua il testo: «Dice Dio: — Non è buono essere l’uomo solo; facciamoli aiutorio di fronte di lui. — E avendo Dio creato ogni animale del campo e ogni uccello del cielo, gli portò a l’uomo per vedere quale chiamaria per sé; il quale a ciascuno chiamò il suo nome, e per sé l’uomo non trovò aita in fronte di lui. Onde Dio il fece dormire: e pigliò una de le sue parti, e in luogo di quella gli supplí carne, e fabbricò, di quella parte che pigliò de l’uomo, la donna; e presentolla a l’uomo. E disse l’uomo: — Questa in questa volta è osso di mie ossa e carne di mia carne; questa si chiamerá [virago], ché per mogliera da l’uomo fu pigliata. — Pertanto lascia l’uomo padre e madre, e si congiunge con sua mogliere, e sono per carne una». Continua narrando l’inganno del serpente, e il peccato di Adam ed Eva per mangiare de l’arbore proibito di conoscere bene e male, e le pene; e di poi dice che Adam conobbe Eva sua moglie, e generò Caim e poi Abel; e narra come Caim ammazzò Abel e fu maledetto in esilio per lui, e numera la generazione di Caim; e poi dice queste parole: «Questo è il libro de la generazione di Adam; nel dí che Dio creò l’uomo, in somiglianza di Dio fece esso; maschio e femmina gli creò, e gli benedisse, e chiamò il nome loro Adam (cioè uomo) nel dí che furono creati».
Sofia. Che vuoi inferire per questa sacra narrazione de la creazione de l’uomo?
Filone. Ti déi accorgere che questa sacra istoria si contradice, che prima dice che Dio creò Adam nel dí sesto, maschio e femmina, di poi dice Dio che Adam non stava bene solo, e «facciàngli adiutorio in fronte di lui»; cioè creare la femmina sua, la quale dice che fece, dormendo lui, d’uno de’ suoi lati: non era adunque fatta nel principio, come avea detto. Ancora nel fine, volendo narrare la progenie di Adam, dice (come hai veduto) che Dio gli creò in somiglianza di Dio, maschio e femmina creò quegli, e chiamò il nome loro Adam nel dí che furono creati: adunque pare che nel principio de la creazione sua di continente fussero maschio e femmina, e non di poi per sottrazione del lato o costa, come ha detto. Ancora, in ciascuno di questi testi pare contradizione manifesta di sé a se stesso: prima dice che Dio creò Adam in sua immagine, maschio e femmina creò essi, e gli benedisse, et cetera; Adam è nome del primo uomo maschio, e la femmina si chiamava Eva, poi che fu fatta; di poi creando Dio Adam, e non Eva, solamente maschio creò, e non femmina e maschio, come dice. E ancora è piú strano ciò che dice ne l’ultimo: «Queste sono le generazioni di Adam: nel dí che Dio gli creò, maschio e femmina creò essi, e chiamò il nome loro Adam nel dí che furono creati»; mira che dice che, creando Dio Adam, fece maschio e femmina, e dice che chiamò il nome di tutti due Adam, nel dí che furono creati, e di Eva non fa menzione, che è il nome de la femmina di Adam: avendo narrato giá innanzi che, di poi essendo solo Adam senza femmina, Dio la creò del suo lato e costa, e chiamolla Eva. Non ti paiano, o Sofia, queste grandi contradizioni ne li sacri testi mosaici?
Sofia. Grandi veramente mi paiano; e non è da credere che ’l santo Moise si contradica cosí manifestamente che par che egli procuri contradirsi. Onde è da credere che vogli inferire qualche occulto misterio sotto la manifesta contradizione.
Filone. Bene giudichi: e in effetto egli vuole che sentiamo che si contradice, e che cerchiamo la cagione intenta.
Sofia. Che vuole significare?
Filone. I comentari ordinari litteralmente s’affaticano in concordare questo testo, dicendo che prima parlò de la creazione di tutti due in somma, di poi dice il modo per estenso, come la donna fu fatta dal lato de l’uomo: ma veramente questo non satisfá, però che da principio vuole inferire contradizione in quello universale, ché non dice che prima creò Adam ed Eva, ma Adam solo maschio e femmina (e cosí il conferma ne l’ultimo: «e chiamò il nome di tutti due Adam, nel primo di che gli creò»), e non fa memoria di Eva in questa universalitá, escetto poi ne la divisione de le costelle; onde la contradizione resta in tutta la sua difficultá.
Sofia. Che intendi adunque significare per questa opposizione de vocabuli?
Filone. Vuol dire che Adam, cioè l’uomo primo, il qual Dio creò nel dí sesto de la creazione, essendo un supposto umano conteneva in sé maschio e femmina senza divisione; e però dice che «Dio creò Adam ad immagine di Dio, maschio e femmina creò quelli»: una volta il chiama in singulare (Adam, uno uomo), l’altra volta il chiama in plurale («maschio e femmina creò quelli»), per denotare che, sendo un supposto, conteneva maschio e femmina insieme. Però comentano qui li comentari ebraici antichi in lingua caldea, dicendo: «Adam di due persone fu creato, d’una parte maschio, da l’altra femmina»; e questo dichiara ne l’ultimo il testo, dicendo che Dio creò Adam maschio e femmina, e chiamò il nome loro Adam, che dichiarò solo Adam contenere tutti due, e che prima un supposto fatto d’ambidue si chiamava Adam, però che non si chiamò mai la femmina Eva, fin che non fu divisa dal suo maschio Adam; dal quale pigliarono Platone e li greci quello androgeno antico, mezzo maschio e mezzo femmina. Di poi dice Dio: «Non è buono che l’uomo sia solo; facciànli aiutorio in fronte di lui»; cioè che non pareva che stessi bene Adam maschio e femmina in un corpo solo, colligato di spalle con contra viso, ché era meglio che la femmina fusse divisa, e che venisse in fronte a lui viso a viso, per poterli essere aiutorio. E per fare esperimento di lui, gli portò gli animali terrestri, per vedere se si contentaria con alcuna de le femmine degli animali per sua compagnia; ed egli pose il nome a ciascuno degli animali secondo le sue proprie nature, e non trovò alcuno suffiziente per esserli aiutorio e consorte. Onde [Dio] l’addormentò, e pigliò uno de li suoi lati (il quale in ebraico è vocabulo equivoco a ‘costella’, ma qui e in altre parti ancora sta per ‘lato’), cioè il lato o persona femminile, che era dietro a le spalle di Adam, e la divise da esso Adam, e supplí di carne la vacuitá del luogo diviso, e quel lato fece donna separata; la quale si chiama Eva poi che fu divisa, e non prima, ché allora era lato e parte di Adam. E fatta lei, Dio la presentò ad esso Adam risvegliato dal sonno, ed egli disse: «Questa in questa volta è osso di mie ossa e carne de mia carne; questa si chiamerá virago, perché da l’uomo fu pigliata». E continua dicendo: «però lascerá l’uomo il padre e [la] madre, e si colligará con sua mogliera, e sará per carne una: cioè che, per essere divisi da un medesimo individuo, l’uomo e la donna si tornano a reintegrare nel matrimonio e coito in uno medesimo supposto carnale e individuale. Di qui pigliò Platone la divisione de l’androgeno in dui mezzi separati, maschio e femmina, e il nascimento de l’amore, che è l’inclinazione che resta a ciascuno de li due mezzi a reintegrarsi col suo resto ed essere per carne una. Questa differenzia troverai fra l’uno e l’altro, che Moise pone la divisione per meglio (però che dice: «Non è buono che l’uomo sia solo; facciànli aiutorio in fronte di lui»), e di poi de la divisione narra il primo peccato di Adam ed Eva per mangiare de l’arbore proibito di saper bene e male, per il quale a ciascuno fu data pena propria; ma Platone dice che prima l’uomo peccò, essendo congiunto di maschio e femmina, e in pena del peccato fu diviso in dui mezzi (secondo hai inteso).
Sofia. Mi piace vedere che Platone abbi bevuto de l’acqua del sacro fonte. Ma onde viene questa diversitá, che egli pone l’incisione de l’uomo per il peccato precedente a quella, contra l’istoria sacra che pone l’incisione per bene e aiutorio de l’uomo, e il peccato succedente?
Filone. Non è tanta la differenzia come pare, se bene considerarai; e Platone in questo piú presto vuole essere dichiaratore de la sacra istoria, che contradittore.
Sofia. A che modo?
Filone. In effetto il peccato è quello che incide l’uomo e causa in lui divisione, cosí come la giusta drittezza il fa uno e conserva la sua unione; e ancora possiamo dire con veritá che essere l’uomo diviso il fa peccare, ché in quanto è unito non ha inclinazione a peccare, né a divertirsi da la sua unione; di modo che, per essere il peccato e la divisione de l’uomo quasi una medesima cosa (o due inseparabili e convertibili), si può dire che da la divisione viene il peccato (come dice la sacra Scrittura) e dal peccato la divisione (come dice Platone).
Sofia. Vorrei che mi spianassi piú la ragione di questa conformitá.
Filone. Dirotti prima come s’intende l’istoria ebrea, e di poi la fabula platonica. Prima, essendo creato l’uomo maschio congiunto con femmina (come t’ho detto), non era modo di peccare, però che ’l serpente non poteva ingannare la donna essendo congiunta con l’uomo, come fece poi separata da lui, e per ingannare tutti due congiunti insieme le sue forze e la sagacitá non erano sufficienti. Ma essendo giá divisi l’uomo e la donna per l’incisione divina a fine di bene, cioè perché potessero aiutarsi l’uno nel fronte de l’altro nel coito per la generazione, primo intento del creatore, — da questa divisione seguitò l’abilitá del peccare, perché il serpente ha possuto ingannare la donna divisa da l’uomo nel mangiare de l’arbore proibito del conoscere bene e male; e la donna ne fece anco mangiare a l’uomo insieme, e cosí furono compresi nel peccato e ne la pena. Però vedrai che prima narra la creazione del paradiso terrestre, e che Adam, cosí unito di maschio e femmina, fu posto in quello per lavorarlo e guardarlo, e il comandamento fatto al medesimo Adam congiunto, di non mangiare de l’arbore del conoscere bene e male; e incontinente narra l’incisione di Adam in maschio e femmina divisi, e, fatta la divisione, pone di subito l’inganno del serpente e il peccato di Adam ed Eva e loro pena: sí che per il modo de l’istoria ebraica era bisogno la divisione precedesse al peccato. Ma la favola platonica, se bene è pigliata da l’ebraica e una con quella, è d’altra foggia: però che ella fa il peccato ne l’uomo congiunto, per voler combattere con gli Dei, onde per pena de la sua arroganzia fu inciso e diviso in due, maschio e femmina; e l’accomodazione de’ genitali pone per remedio del lor perire (come hai inteso). E quando conoscessi, o Sofia, il significato allegorico de l’una e l’altra narrazione, vedresti che, se bene li modi son diversi, l’intenzione è una medesima.
Sofia. Non solamente la favola platonica mostra essere fatta per qualche sapiente significazione, ma ancora l’istoria ebraica in questa prima unione e poi divisione de l’uomo denota voler significare de la natura de l’uomo altro che il litterale de l’istoria: ché non credo giá che l’uomo e la donna in alcun tempo fussero altrimenti che in due corpi divisi, come sono al presente. Pregoti, Filone che mi dica il significato de l’una e de l’altra.
Filone. Il primo intento de l’istoria ebraica è mostrare che, quando l’uomo fu creato nel stato de la beatitudine e posto nel paradiso terrestre, se bene era maschio e femmina (però che la spezie umana si salva non in un supposto ma in due, cioè maschio e femmina; ambidue insieme fanno un uomo individuale, con la spezie ed essenzia umana intera), niente di manco questi due suppositi e parti di uomo in quello stato beato erano colligati in le spalle per contra viso: cioè che la conferenzia loro non era inclinata a coito né a generazione, né il viso de l’uno si drizzava in fronte a l’altro viso, come suole per tale effetto; anzi, come alienati da tale inclinazione, dice l’unione loro essere per contra viso, non che fussero uniti corporalmente, ma uniti in essenzia umana e inclinazione mentale, cioè tutti due a la beata contemplazione divina, e non l’uno a l’altro per diletto e coito carnale, ma perché meglio l’uno a l’altro si potessi aiutare. La donna, ingannata dal serpente, causò il peccato del marito e suo, e mangiorono de l’arbore proibito del conoscere bene e male, che è la dilettazione carnale, che è buona in apparenzia nel principio e ne l’esistenzia in fine è gattiva, però che diverte l’uomo da la vita eterna e lo fa mortale: e però dice il testo che, come peccorono, conobbero che erano nudi, e cercorono coprire le membra de la generazione con le foglie, parendogli vergognose, perché quelle li devertivano da la spirituale inclinazione ne la quale prima si felicitavano. In pena del peccato furono gittati del paradiso terrestre, nel quale consisteva la dilettazione spirituale, e furono eletti a lavorar la terra con affanni, perché tutte le corporali dilettazioni sono affannose, dandogli cura de la generazione e procreazione de’ figli, remedio de la sua mortalitá; onde non si scrisse mai la generazione di Adam ed Eva fin che non furono fuora del paradiso, ché incontinente dice: «Conobbe Adam sua mogliere, e concepé Caim suo figlio», et cetera. Questo è il primo intento mosaico ne l’unione e separazione umana nel lor peccato originale, avendo Dio dato la potenzia de la divisione per potersi inclinare viso a viso a la coppula carnale facilmente, divertendosi l’inclinazione de le cose spirituali a le corporali.
Sofia. Questa allegoria mi consonaria: se non che, mi pare strano che Dio facesse l’uomo e la donna non per generare, e che ’l peccato sia causa de la generazione, la qual è cosí necessaria per la conservazione perpetua de la spezie umana.
Filone. Dio fece l’uomo e la donna in forma che possevano generare: ma il proprio fine de l’uomo non è il generare, ma felicitarsi ne la contemplazione divina e nel paradiso di Dio, il che facendo restavano immortali e non bisognavano di generazione, perché in loro si salvava l’essenzia e spezie umana perpetuamente, e a l’immortali non bisogna generazione di figliuoli di sua spezie (vedi gli angeli, li pianeti, stelle e cieli che non generano figliuoli di loro spezie). La generazione (come dice Aristotile) fu per remedio de la mortalitá: e però l’uomo, in quanto fu immortale, non generò; quando giá per il peccato fu fatto mortale, si soccorse con la generazione del simile, a la quale Dio li diede potenzia, accioché a un modo o a un altro non perisca l’umana spezie.
Sofia. Questo primo significato allegorico mi piace, e m’incita a desiare il secondo, che giá segnasti; dimmelo adunque.
Filone. Il primo uomo, e ogni altro uomo di quanti ne vedi, è fatto, come dice la Scrittura, a immagine e similitudine di Dio, maschio e femmina.
Sofia. Come ogni uomo? ogni maschio, ovvero ogni femmina?
Filone. Ogni maschio ovvero ogni femmina.
Sofia. Come può stare che sola la femmina sia maschio e femmina insieme?
Filone. Ciascuno di loro ha parte masculina perfetta e attiva, cioè l’intelletto, e parte femminina imperfetta e passiva, cioè il corpo e la materia: onde è immagine divina impressa in materia, però che la forma, che è il maschio, è l’intelletto, e il formato, che è la femmina, è il corpo. Erano adunque in principio queste due parti, masculina e femminina, ne l’uomo perfetto; le quali Dio fece unite con perfetta unione, talmente che ’l corporeo sensuale femminino era obediente e seguace de l’intelletto e ragione masculina: onde ne l’uomo non era diversitá alcuna, e la vita del tutto era intellettuale. Fu posto nel paradiso terrestre, nel quale erano tutti li belli arbori e saporiti, e quello de la vita piú eccellente fra loro: come nel sapiente intelletto, il quale era quello di Adam, e in ogni altro sí perfetto sono tutte le eterne cognizioni, e la divina sopra tutte, in la sua pura vita. Comandò Dio a Adam che mangiasse di tutti questi arbori del paradiso e di quello de la vita, però che gli causaria vita eterna, ché l’intelletto per cognizioni eterne, massimamente divine, si fa immortale ed eterno e riesce in la sua propria felicitá; ma che de l’arbore di conoscere bene e male non mangiasse, perché il farebbe mortale: cioè che non divertisse l’intelletto agli atti de la sensualitá a esercizio corporeo, come sono le dilettazioni sensuali e acquisto di cose utili, le quali sono buone in apparenzia e gattive in esistenzia, e ancora si chiamano arbori di conoscere bene e male perché nel conoscimento loro non cade dire vero o falso, come nelle cose intellettuali ed eterne, ma solamente cade dire buono o gattivo e secondo s’accomodano a l’appetito de l’uomo; ché, dire che ’l sole è maggiore de la terra, non si responderá che gli è buono o gattivo, ma che gli è vero o falso: ma acquistare le ricchezze non dirai vero o falso, ma dirai buono o gattivo. E seguire queste cognizioni corporee, che diverteno l’intelletto da quelle ne [le] quali consiste la sua propria felicitá, è l’arbore di conoscere bene e male, che fu proibito a Adam, però che questo solo il posseva far mortale: ché, si come le cose divine vere ed eterne fanno l’intelletto divino vero ed eterno come loro, cosí le cose sensuali corporali e corruttibili il fanno materiale e corruttibile come loro. Pur, preconoscendo la divinitá che questa via d’unione de le due parti de l’uomo, e de l’obedienzia de la corporea femminina a l’intellettuale masculina, se bene felicitava l’uomo e faceva immortale l’essenzia sua, che è sua anima intellettiva, faceva piú presto corrompere la parte sua corporea e femminina, cosí ne l’individuo (però che quando l’intelletto s’infiamma ne la cognizione e amore de le cose eterne e divine, abbandona la cura del corpo e lasciala anzi tempo perire) come ancora ne la successione de la spezie umana (perché quelli che sono ardenti a le contemplazioni intellettuali sprezzano gli amori corporei e fuggono il lascivo atto de la generazione, onde questa intellettual perfezione causaria perdizione de la spezie umana); — pertanto Dio deliberò porre qualche divisione temperata fra la parte femminina sensuale e la parte masculina intellettuale, tirando la sensualitá l’intelletto ad alcuni desidéri e atti corporei necessari per la sostentazione corporea individuale e per la successione de la spezie. Questo è ciò che significa il testo quando dice: «Non è buono essere l’uomo solo; facciàngli aiutorio in fronte (o ver contra) di lui»; cioè che la parte sensuale femminina non sia talmente seguace de l’intellettuale, che non gli facci qualche resistenzia, attraendolo a le cose corporee alquanto per l’aita de l’essere individuale de la spezie. Onde mostrandoli tutti gli animali, e conoscendo in tutti come ognuno s’inclinava a la sostentazione corporea e a la generazione del simile, l’uomo principiò a trovarsi defettuoso per non aver ancor lui simil causa e inclinazione a la parte femminina corporale, e desiderò in questo imitar quelli. Allora (secondo dice il testo), permettendo Dio che sonno pigliassi Adam dormendo, lui divise la parte femminina da la masculina, la quale egli di lí innanzi riconobbe per mogliere separata da lui stesso: cioè che, venendoli sonno non solito, che è privazione e ozio di quella vigilia intellettuale prima e di quella ardente contemplazione, l’intelletto principiò inclinarsi alla parte corporea, come marito a mogliere, e aver cura temperata de la sostentazione di quella, come di parte sua propria, e de la successione del simile per sostentazione de la spezie. Tanto che la divisione fra il mezzo masculino e femminino per buon fine e necessario fu fatta, e ne seguí la resistenzia de la materia femminina e l’inclinazione de l’intelletto masculino a quella, con temperata sufficienzia de la necessitá corporea; né piú fu moderata per la ragione, come era giusto e intenzione del creatore: anzi, escedendo la divisione de l’intelletto a la materia e la sommersione sua ne la sensualitá, successe il peccato umano. Questo è quello che denota l’istoria, quando dice che ’l serpente ingannò la donna dicendoli che mangiasse de l’arbore proibito di conoscere bene e male, perché quando ne mangiassero s’apririano gli occhi loro e sarebbero come dèi, che conoscono bene e male; la qual donna vedendo l’arbore buono per mangiare, bello e dilettevole e di desiderabile intelligenzia, mangiò del frutto e fecene seco al marito mangiare: «e s’aprirono gli occhi loro, e conobbero che erano nudi, e cucirono insieme de le foglie del fico e ne fecero cinture». Il serpente è l’appetito carnale, che incita e inganna prima la parte corporea femminina, quando la truova alquanto divisa da l’intelletto suo marito e resistente a le strette leggi di quello, perché s’infanghi ne le dilettazioni carnali e offuschi con l’acquisto de le superchie ricchezze, che è l’arbore di conoscere bene e male, per le due ragioni ch’io ti ho detto: mostrandoli che per questo se gli aprivano gli occhi, cioè che conosceranno molte cose di simil natura, che innanzi non conoscevano, cioè molte astuzie e cognizioni pertinenti a la lascivia o avarizia, di che innanzi erano privati; e dice che saranno simili in questo a li dèi, cioè ne l’opulenta generazione, ché cosí come Dio, l’intelligenzie e li cieli son cause produttive de le creature inferiori loro, cosí l’uomo mediante le meditazioni continue carnali verria a generare molta prole. La parte corporea femminina non solamente in questo non si lasciò regulare, come era giusto, dal suo intellettuale marito, anzi il retirò a la summersione de le cose corporee, mangiando seco del frutto de l’arbore proibito: e di continente se gli aprirono gli occhi, non l’intellettuali, ché quelli piú presto si chiusero, ma quelli de la fantasia corporale circa degli atti carnali lascivi: onde conobbero essere nudi, cioè la inobedienzia degli atti carnali a l’intelletto, e però procurarono coprire gl’instrumenti genitali, come vergognosi e ribelli de la ragione e sapienzia. Dice che incontinente odirono la voce di Dio e s’ascosero: cioè che, riconoscendo le cose divine che avevano lasciate, si vergognorono. Dietro al peccato succede la pena: e la sacra istoria narra separatamente la punizione del serpente, quella de la donna e quella de l’uomo. Maladice il serpente piú che ogn’altro animale, e il fa andare sopra il petto e mangiare polvere in tutta la vita sua, mettendo odio fra la donna e sua progenie e fra il serpente e sua progenie, talmente che l’uomo al serpente fracassasse la testa ed egli a l’uomo il calcagno: cioè che l’appetito carnale de l’uomo è piú sfrenato che d’alcun altro animale; e va col petto per terra, cioè che fa inchinar il cuore a le cose terrestri e fuggire da le celesti; e tutta sua vita mangia de la polvere, però che si nutrisce de le cose piú basse e vili che sieno; e l’odio è perché l’appetito carnale macula la parte corporea e la guasta con li escessi, donde derivano molti defetti corporei e malattie e ancor morti; ancora, da questo resta disfatto l’appetito carnale, il quale s’addebilisce e perde per istemperamento de la complessione e malattia del corpo. La donna puní con moltitudine di doglie e concezione, e nel parturire con doglia i figli e avere desio al marito, avendo lui possanza sopra di lei: cioè che la vita lasciva causa al corpo doglie, e ogni diletto suo è doloroso, e tutte le sue progenie e successi sono fatigosi e fastidiosi; niente di manco, amando lei la parte intellettuale come marito, gli resta possanza sopra di lei per ordinarla e temperarla negli atti corporei. A l’uomo (perché udí le parole de la donna e mangiò de l’arbore proibitivo) disse che maladetta saria la terra per lui, e con tristizia e affanno la maneggiaria tutta la vita sua, e spine germinaria per lui, e mangiarla de l’erba del campo, e con sudore de le nari sue mangiaria pane, fin che tornasse a la terra di che fu pigliato, perché lui era polvere e in polvere tornarebbe: cioè che le cose terrestre sariano maledette e nocive a l’intelletto, e li sarebbero dolorosi cibi e tristi, come quelli che participano mortalitá a l’immortale; e il successo de li suoi atti terrestri saria affannoso e pongitivo come le spine; il cibo suo saria erba del campo, che è cibo degli animali irrazionali, però che egli come loro aveva posta la sua vita ne la sensualitá sola; e se volesse mangiar pane, che saria con sudore de le nari, zappando e faticando: cioè che, se volesse mangiare cibo umano, non bestiale, e fare atti umani, gli sarebbero difficili per l’abito contrario che aveva giá pigliato ne la bestiale sensualitá. Diceli che tutti questi danni li succederiano del peccato, fin che torni a la terra de la quale fu cavato: di tutte le [cose] terrestri mortali essendo fra tutti loro per grazia di Dio fatto immortale, egli volse in ogni modo essere polvere terrestre, infangandosi ne li peccati corporei; questa fu causa d’avere a ritornare in polvere come era nel principio, eguale ne la mortalitá a li terrestri animali. Di continente il testo dice che Adam chiamò sua mogliere Eva, cioè animale loquace e femmina, perché fu madre d’ogni animale: cioè che chiamò a la parte corporea nome eguale agli altri bruti animali, perché lei fu causa di produrre ogni bruttezza bestiale ne l’uomo; e denota che Dio, mediante l’intelletto loro (che di contemplativo era venuto attivo e basso ad intendere circa il corpo), gli principiò a mostrare l’arti, facendo vestimenti di cuoio per coprirsi, e mandollo fuori del paradiso per servire la terra, cioè levato da la contemplazione per attendere al terrestre, lasciandoli pure possibilitá di possere tornare a mangiare de l’arbore de la vita e vivere in eterno. Per il quale effetto dice che «Dio collocò ne l’oriente del paradiso li cherubini e il lampo de la spada revolgente, per potere guardare la via de l’arbore de la vita»: li cherubini significano li due intelletti angelici depositati negli uomini, cioè possibile e agente, e la spada revolgente, che dá il lampo, è la fantasia umana che si rivolge dal corporale a cercare il lampeggiare spirituale; acciò che per quella via potessi, uscendo del fango, guardare e seguitare la via de l’arbore de la vita e vivere eterno intellettualmente. Pure Adam, bandeggiato del paradiso con la sentenzia de la mortalitá, procurò la successione e conservazione de la spezie ne la generazione del simile: ma trovandosi lui allora peccatore, il primo figlio suo fu Caino peccatore ammazzatore del fratello, e il secondo Abel, che vuol dire niente, ché cosí lui resto per niente, perché morí per successione. Ma di poi che si raffreddò giá del peccato essendo d’anni cento trenta, ritornando alquanto ne l’umano intellettuale simile a la divinitá, generò il terzo figlio a sua simiglianza intellettuale, il quale si chiamò Seth, che vuol dire posizione; dicendo: «Perché Dio m’ha posto altra generazione, in luogo di Abel morto per Caim». Da questo Seth successe generazione umana e virtuosa, secondo narrano le scritture, e da lui si principiò a convocare il nome di Dio: cioè che l’uomo peccatore fa le generazioni e atti suoi primi gattivi, come Caim, che significa abito gattivo; e quando s’allenta piú dal peccato, li fa inutili come Abel, che vuol dire nulla; ma quando giá ritorna in vita intellettuale e in conoscere il nome di Dio, le successioni sue sono virtuose e perpetue come quella di Seth. Questa, o Sofia, è la sapienzia allegorica che significa la vera istoria mosaica de l’unione de l’uomo maschio e femmina, la sua collocazione nel paradiso, il suo comandamento, la sua divisione in due, il loro peccato per l’inganno del serpente, le pene di tutti tre, la possibilitá del remedio, le generazioni gattive imperfette e perfette che da loro due successero: le quali cose, intervenute in effetto corporalmente al primo uomo, denotano (secondo l’allegorico) le vite e successi di ciascuno degli uomini, qual sia il fine loro beato, ciò che richiede la necessitá de l’umanitá, e il successo de l’escessivo peccato, e la pena de l’accidente di quello, con l’ultima possibilitá del remedio; se ben l’intenderai, in uno specchio vedrai la vita di tutti gli uomini, il loro bene e male, conoscerai la via che si debbe fuggire, e quella che si debbe seguire per venire a eterna beatitudine senza mai morire.
Sofia. Ti ringrazio, e ben mi vorrei far cauta e saggia in questa dichiarazione de la sacra istoria; ma non per questo voglio che venga in oblivione l’allegoria proporzionata a la favola de l’androgeno di Platone, nata da questa.
Filone. Intesa l’intenzione allegorica de la mosaica narrazione de la prima generazione de l’uomo, facil cosa sará vedere l’intento de la favola platonica. Dice che gli uomini prima erano doppi, mezzi maschi e mezzi femmine, uniti in uno corpo: cioè la parte intellettuale e corporea sensualitá erano unite ne l’uomo secondo la prima intenzione di sua creazione, talmente che la parte corporea femmina s’acquetava in tutto a l’intellettuale masculina, senza divisione o resistenzia alcuna. E dice che la natura masculina viene dal sole e la femminina da la terra e l’intero androgeno, composto d’ambodue, da la luna: però che (come t’ho detto) il sole è simulacro de l’intelletto e la terra de la parte corporea e la luna è simulacro de l’anima, che contiene l’intellettuale e corporale insieme, che è tutta l’essenzia umana, cosí come la luna contiene la luce participata dal sole e materia grossa simile a la terrestre, secondo tiene Aristotile. Dice [che], essendo le forze de l’androgeno escessive, venne a combattere contra gli dèi: cioè che, essendo tutto ritratto a la parte intellettuale e a la vita contemplativa senza resistenzia né impedimento alcuno de la parte corporea, veniva quasi a essere eguale agli angeli e ad equipararsi a l’intelligenzie separate (come dice David de la creazione de l’uomo: «Diminuisti lui poco manco dagli angeli»; Moises, in nome di Dio, dice: «L’uomo era come uno di noi», cioè innanti che peccasse). Per il che Iuppiter consultando del remedio, il fece dividere in due mezzi, maschio e femmina; e non sono li due mezzi intelletto infuso e ingegno (come alcuni immaginano), ma la parte intellettuale masculina e la corporea femminina, che fanno intero uomo: però che, essendo l’uomo tutto speculativo, veniva ad essere del genere degli angeli e spirituali, fuore de l’intenzione del creatore, che era che fusse uomo con alternato intelletto e corpo; il quale convertendosi tutto in angelico corrompeva la composizione umana e la conservazione individuale e la successione specifica; e questa è la sua pugna contra gli dèi, che dice Platone. Onde li fece dividere, cioè fece che ’l corpo fece resistenza alquanto a l’intelletto, e che l’intelletto s’inclinò a le cure necessarie del corpo e sue naturalitá, perché la vita fusse piú presto umana che angelica. Dice che da questa divisione nacque l’amore, però che ogni mezzo desia e ama la reintegrazione del suo mezzo restante: cioè che in effetto l’intelletto non averia mai cura del corpo, se non fusse per l’amore che ha al suo consorte [e] mezzo corporeo femminino, né il corpo si governaria per l’intelletto, se non per l’amore e affezione che ha al suo consorte e mezzo masculino. E in quello che dice, — [che], uniendosi l’un mezzo con l’altro, per l’amore non cercavano le cose necessarie per il sostenimento loro e perivano, onde per remedio Iuppiter li fece tornare li genitali de l’uno verso de l’altro, e, satisfatti per il coito e generazione del simile, si reintegrò la loro divisione, — significa che il fine de la loro divisione de la parte intellettiva e corporea fu perché, pigliando satisfazione de li diletti corporei, si sostentassero ne l’individuo e generassero il simile per la perpetua conservazione de la spezie. Admonisce poi che non si debba peccare, perché ogni mezzo de l’uomo verria a dividersi e restaria ciascuno quarto de l’uomo: intende che, se la parte dell’intelletto non è unita ma divisa con imperfette cognizioni e consigli, resta imperfetta e debile di natura, peró che l’unitá è quella che la fa vigorosa e perfetta e la divisione gli beva la perfezione e il vigore; e cosí la corporea quando è unita in cercare il necessario è perfetta, e quando è divisa in acquisizione de le cose superflue e insaziabili, di quelle resta imperfetta e fragile: in modo che con la tale divisione di ciascuna de le parti l’uomo viene a mancare, non solamente di quella prima unione e intellettuale de l’androgeno, ma ancora di quello essere mezzo, secondo si richiede ne la vita umana; ma resta mezzo di mezzo, seguendo la vita lasciva e peccatoria. Questo è quello che significa la favola platonica allegoricamente: e l’altre particularitá, che scrive nel modo del dividere e del consultare e simili, sono ornamenti de la favola per farla piú bella e verisimile.
Sofia. Mi piace ancora questa allegoria accomodata a la favola platonica de l’androgeno: ma vorria che, trovando alcuno proposito, mi dicessi, o Filone, il construtto di quella nel nostro proposito del nascimento de l’amore.
Filone. Quel construtto che caviamo di questa allegoria, per il nostro proposito del nascimento de l’amore, è che tutti gli amori e desidéri umani nascono da la coalternata divisione de l’intelletto e corpo umano: però che l’intelletto inclinato al corpo suo (come il maschio a la femmina) desia e ama le cose pertinenti a quello, e se sono necessarie e moderate sono desidéri e amori onesti per la loro moderazione e temperamento, e se sono superflui sono lascivi e disoneste inclinazioni e atti peccatori; ancora il corpo amando l’intelletto (come donna il marito maschio) si solleva in desiare le perfezioni di quello, sollecitando con li sentimenti, con gli occhi, con le orecchie e col senso, fantasia e memoria, d’acquistare il necessario per le rette cognizioni ed eterni abiti intellettuali, con che si felicita l’intelletto umano: e questi sono desidéri e amori assolutamente onesti, e quanto piú ardenti tanto piú laudabili e perfetti. Sí che in ciò ne ha mostrato Platone il nascimento de l’amore e di tutti gli amori umani, solamente de li quali fa progenitori la parte intellettuale come padre e la parte corporea come madre: e il primo amore de l’uomo è questo mutuo individuale fra l’una parte e l’altra, come l’amore che è fra [il] maschio e la femmina. Di poi questo primogenito amore, nascono da questi due parenti tutti i desidéri e amori umani a tutte le cose, li quali s’includeno in tre spezie: cioè o intellettuali, che sono assolutamente onesti (come erano quelli de l’uomo congionto e intero ne la prima vita felice nel paradiso), o sono atti corporali necessari e moderati, che ’l temperamento li fa fra li corporei onesti (come era la vita de l’uomo quando fu divisa per il necessario adiutorio prima che peccassi), ovvero sono atti corporali inordinati superflui ed escessivi, che sono brutti, peccatòri e disonesti (come fu la vita de l’uomo poi che fu infangata ne la cognizione del bene e male, sommersi ne la lascivia e abituati nel peccato); i quali tutti dal mutuo amore che è fra la parte intellettuale e corporea dependono, come t’ho detto.
Sofia. Conosco quali sono secondo Platone li progenitori de l’amore de l’uomo, che è picciolo mondo. Vorria ancor saper da te se ancor si truova che lui abbi assegnato primi parenti a l’amore universale di tutto il gran mondo corporeo creato.
Filone. Dipoi che Platone assegnò li progenitori de l’amore umano nel libro del Convivio in nome di Aristofane (come hai inteso), si sforzò ancora assegnare li primi parenti de l’amore universale di tutto il mondo corporeo in nome de la fata Diotima, che fu la maestra di Socrate ne le cognizioni amatorie. Quella gli narrò il nascimento de l’amore essere stato in quel modo, che quando nacque Venere tutti li dèi furono in convito, e con loro Metides, cioè Poro, figliuolo del consiglio, che vuol dire dio de l’infiuenzia; a li quali, avendo [essi] cenato, venne Penia (cioè la povertá) come una poveretta per aver qualche cosa per mangiare de l’abundanzia de le vivande del convito de li dèi. Stava come li poveretti mendicanti, domandando fuor de le porte: Poro, inebriato del nettare (che allor ancor non si trovava vino), andò a dormire nel giardin di Giove; la detta Penia, constretta da la necessitá, pensò a che modo si potrebbe ingravidare con qualche astuzia d’un figlio di Poro: onde andò a colearsi appresso di lui e concepé d’esso l’amore. Da li quali parenti nacque l’amore, settatore e osservatore di Venere perché nacque ne li suoi natali, il quale sempre ha desio di cosa bella, perché essa Venere è bella; e per essere figlio del dio Poro e de la poveretta Penia, participò la natura di tutt’e due, però che al principio è arido e squallido, con li piedi scalzi, sempre volando per terra, senza casa né ridutto, senza letto né coperta alcuna, dorme per le strade al discoperto, servante la natura de la madre sempre bisognante; secondo la stirpe del padre procura le cose belle e buone, animoso e audace, veemente e sagace cacciatore, va sempre macchinando nuove trame, studioso di prudenzia, facundo e in tutta la vita filosofante, mancatore, fascinatore, venefico e sofista; e secondo sua mista natura non è del tutto immortale né mortale, ma in breve in un medesimo giorno muore e vive, e si resuscita una volta, manca un’altra, e cosí fa molte volte per la mescolanza de la natura del padre e de la madre: ciò che acquista perde e quel che perde ricovera, per la qual cosa mai non è mendico né mai è ricco. Il quale ancora fra sapienzia e ignoranzia è constituito, però che nissuno degli dèi filosofa né desia farsi sapiente, perché gli è, né in effetto alcun sapiente filosofa, né ancora quelli che son del tutto ignoranti, ché questi non desiano mai d’essere sapienti: ché veramente questo è il peggio de l’ignorante, che non è, né desia essere, savio, perché non desia mai le cose che non conosce che li mancano. È adunque il filosofo mezzo fra l’ignorante e ’l sapiente, però che non è bello come il sapiente (e però desia la sapienzia che manca), né brutto come l’ignorante, al quale non solamente manca la bellezza, ma ancora il desiderio di quella: è adunque l’amore mezzo fra il brutto e ’l bello veramente.
Sofia. La favola è ben composta; e assai si mostra ne le condizioni e forme de l’amore la natura del ricco padre e de la povera madre mescolata insieme. Ma vorria sapere il significato di Poro padre e di Penia madre e del tempo, luogo e modo del nascimento de l’amore loro figlio.
Filone. Ingegnosamente la savia Diotima in questa favola ne mostra quali sono li progenitori de l’amore, e come di loro nacque, e qual natura de li parenti ha sortito. Dice prima che nacque essendo gli dèi insieme nel convito de la nativitá di Venere. Sono alcuni che dicono intendersi per la nativitá di Venere l’influenzia de l’intelligenzia de l’angelo prima, e poi de l’anima del mondo, avendo giá participato la vita di Giove l’essenzia di Saturno e il primo essere di Celio, che erano li tre dèi del convito precedente a la nativitá di Venere magna, ne l’angelo e ne la mondana e ne l’anima del mondo: ma noi non curaremo d’allegorie sí astratte e interminate e improporzionate al litterale fabuloso. Essa medesima Diotima (come hai inteso) dichiarò che intendeva per Venere la bellezza: onde dice che l’amore sempre ama il bello, perché nacque quando nacque la bella Venere. Significa adunque che amore nacque quando nacque la bellezza, però che ogni amore è di cosa amata e ogni cosa amata è bella, e per essere bella o parere s’ama, perché l’amore è desiderio di bello. Dice che, essendo gli dèi nel convito quando nacque Venere, Penia bisognosa era di fuore per avere qualche reliquia de le vivande degli dèi; e il suo dio Poro, figliuolo del consiglio, imbriacato del nettare uscí di casa, dove era con gl’altri in convito, e andò ne l’orto a dormire: onde Penia, desiderosa di avere figliuolo di lui, se gli coricò appresso e concepé l’amore. Vuol dire che, producendo gli dèi (cioè Dio col mondo angelico) bellezza a loro simile nel mondo corporeo creato, nel quale concorrivano insieme con liberale largizione e letizia come in convito de’ natali di quella, il mancamento de la materia potenziale intervenne lí, desiderosa di participare le forme belle e perfezioni divine e angeliche. Poro, figlio del consiglio (cioè l’influente intelletto), imbriacato del nettare (cioè pieno de le idee e forme divine), desiderò participare al mondo inferiore per bonificarlo, se bene l’inclinarsi al basso fusse a lui mancamento: e questo è che dice che andò a dormire ne l’orto di Giove, cioè che addormentò la vigilante cognizione sua, applicandola al mondo corporeo del moto e generazione, che è l’orto di Giove, però che l’intelletto celeste è casa e palazzo di Giove, ove si fa il convito e si beve il nettare divino, che è l’eterna contemplazione e desio de la divina e bellissima maestá. Quando l’intelletto, figliuolo del consiglio (che è il sommo Dio), volse participarsi al mondo inferiore, la poveretta bisognante Penia se gli accostò appresso: cioè la potenzia de la materia, desiderosa di perfezione, s’ingravidò di lui, imbriacato del desio de la perfezione corporea, mezzo dormiente de la sua eterna contemplazione divina, e divertito alquanto da quella per participare perfezione a la bisognante materia. E d’ambidue nacque l’amore però che l’amore dice perfezione, non in atto ma in potenzia, e cosí l’intelletto nel corpo generabile, che è forma potenziale e intelletto possibile e per essere intelletto conosce le cose belle, e per essere in potenzia gli manca la possessione di quelle e desia la bellezza attuale: e questo è quel che dice che è mezzo fra il bello e il brutto, perché l’intelletto possibile e le forme materiali sono mezzo fra la pura materia totalmente informe e fra le forme separate e intelligenzie attuali angeliche che sono vere belle. Però assegna Diotima equalmente a l’amore le condizioni e machinazioni de la materia corporea, bisognante e mortale, variabile e imperfetta, madre sua, e le condizioni intellettuali e perfette de lo affluente intelletto Poro, padre suo; e lui pone filosofante e non sapiente, però che l’intelletto possibile desia la sapienzia ed è in potenzia di quella, perché non è in atto sapiente come l’intelletto angelico. Ne mostrò adunque Diotima in questa sua favola che l’intelletto possibile è participato de l’intelletto, agente o in atto, angelico o ver divino, e che la possibilitá non gli viene da la sua propria natura intellettuale (come alcuni credono), ma solamente da la compagnia de la bisognante materia privata d’ogni atto e pura potenzia. Ne insegnò che ’l primo produttore de l’amore genito è la generata bellezza, e li propri parenti suoi sono il conoscimento de la bellezza, il quale gli è padre, e il mancamento di quella, che è la madre: però che ciò che si ama e desia bisogna che sia preconosciuto per bello, e che manchi o che possa mancare, e si desideri conservare sempre; sí che tu, o Sofia, conosci che ’l padre de l’amore universale nel mondo inferiore è il conoscimento de la bellezza, e la madre è il mancamento di quella.
Sofia. Questo intendo: ma questi parenti mi pare che s’applichino solamente al mondo corporeo, e ancora nel generabile inferiore solo; e giá ho inteso da te che nel mondo angelico si truova prima e principalmente l’amore, al quale assegnasti queste due proprie cause, cioè conoscimento e mancamento di bellezza.
Filone. Egli è vero che l’amore non solamente ne l’inferiori, ma principalmente ne l’angelico è per conoscimento di bellezza che manca: ma questa è la bellezza immensa e divina, de la quale tutti gl’intelletti creati mancano e quella conoscono amano e desiano; e questa tal bellezza chiama Platone magna Venere, cioè la bellezza del mondo intellettuale. E questa non nacque in tempo, però che è eterna e immutabile; né manco l’amor suo ha nuovi nascimenti, ma, se nacque, ab eterno in quel divino mondo nacque; né il mancamento di questa viene per ragione de la compagnia [de la] bisognante Penia, ovvero materia, con l’intelletto, ché in quel mondo non si truova materia, ma viene per il mancamento che è ne la creatura per essere creatura de la perfezione somma del suo creatore, ovvero de l’eccellenzia de la sua bellezza sopra quella de la creatura: sí che questi parenti sono propri de l’amor genito nel mondo inferiore, nel nascimento di Venere inferiore, (cioè la bellezza participata a li corpi generali e non a l’amor del mondo angelico); il quale è superiore a Poro imbracato ne l’orto di Giove, e alieno da Penia bisognante.
Sofia. Ho inteso da te quello che li poeti e filosofi han favoleggiato del nascimento de l’amore e de’ suoi progenitori, e quello che le loro favole sapientemente significano. Desidero ormai sapere da te pianamente e chiaramente quali sono li primi parenti de l’amore, sí de l’umano come ancora de l’universal amore de l’universo.
Filone. Io dirò prima, o Sofia, quelli ch’io credo essere in comune padre e madre d’ogni amore; e di poi, se vorrai, li appropriarò a l’amore umano e al mondano ancora.
Sofia. Mi piace l’ordine, perché la cognizione comune si debbe anteporre a la piú particulare: dimmi adunque quale è in comune padre d’ogni amore, e quale è sua madre.
Filone. Io non fo giá la madre la pura carenzia (come Diotima) né il padre l’affluente cognizione (come ella vuole), né pongo la bellezza venerea connessa a la sua generazione, ovvero lucina o parca in quella (come in altra parte Platone pone), non essendo padre né madre: però che l’amore, a detto di tutti, è figlio di Venere, e secondo alcuni senza altro padre. Ma lasciando li figmenti e opinioni d’altri, ti dico che ’l comune padre d’ogni amore è il bello, e la madre comune è la cognizione del bello, mista di carenzia: da questi due, come da veri padre e madre, si genera l’amore e desiderio, però che ’l bello, conosciuto da quello a chi manca, è incontinente amato e disiato dal conoscitore, amante e desiderante quel bello. E cosí nasce l’amore, concetto dal bello ne la mente del suo conoscente, a chi manca e [che] il desidera: è adunque il bello amato padre e generante de l’amore, e la madre è la mente de l’amante ingravidata del seme di esso bello, che è la sua esemplare bellezza in essa mente del conoscente, de la quale ingravidata desia l’unione con esso bello, ovvero generazione del simile; e giá di sopra hai inteso come l’amato ha natura paterna generante e l’amante ha natura materna concipiente de l’amato e desiderante il parto in bello (come dice Platone).
Sofia. Mi piace questa assoluzione e chiara sentenzia del padre e madre de l’amore in comune: ma innanzi ch’io ti domandi piú dichiarazioni, bisogna che m’assolvi una contradizione che appare in due parole. Dici che la madre de l’amore è la cognizione del bello che manca; e da l’altra parte dici ch’ella prima è gravida de la forma del bello, e perciò la desia e ama. La contradizione è che, se la mente del conoscente è gravida del bello, non gli manca giá, anzi l’ha; ché la gravida ha in sé il figlio, e non gli manca.
Filone. Se la forma del bello non fusse ne la mente de l’amante sotto spezie di bello, buono e giocondo, non saria esso bello mai amato da lui, ché i privi interamente di bellezza non hanno né desiano il bello, ma quello che ’l desia non è del tutto privato di lui, però che ha la cognizione sua e la sua mente è ingravidata de la forma de la sua bellezza. Ma perché gli manca il principale, che è la perfetta unione con esso bello, gli viene il desiderio del principale effetto, che manca, e desia fruire con unione il bello, la forma del quale impressa in la sua mente l’incita, come desia la gravida di figliare e porre in luce l’occulto dentro di lei: sí che la madre de l’amore (cioè l’amante), se bene è privata de l’unione perfetta con l’amata, non è però privata de la forma esemplare de la sua bellezza la quale la fa essere amante o desiderante l’unione di quel bello che gli manca.
Sofia. Mi piace ciò che dici: ma mi resta contra che parrebbe che la madre amante, gravida del bello padre, parturisse ovvero generasse per figlio il medesimo padre; però che tu dici che la generazione e filiazione non è altro che l’unione e fruizione del medesimo padre in atto.
Filone. Sottilmente arguisci, o Sofia ma se fussi piú sottile, vedresti per soluzione che l’atto di fruire il bello con unione non è propriamente né totalmente esso medesimo; avvenga che sia simillimo a quello come proprio figlio al padre, pur con quella similitudine paterna si gionta qualche impressione materna de la cognizione amante, che non saria atto di fruizione se non pervenisse dal conoscente amante nel bello cognito amato. Sí che egli è vero figlio de li due: ha la parte materiale de la cognizione materna e la formale de la bellezza paterna; e come Platone dimostra, l’amore è desiderio di gravida per parturire bello simile al padre, e questo non solamente è l’amore intellettuale ma ancora il sensuale.
Sofia. Dichiarami come in ciascuno di questi amori consiste la gravidanza col desio di parturire il bello, e perché tanto si desiano le tali generazioni.
Filone. Tu vedi quanto, non solamente ne l’uomo, ma ancora in ogni animale è il desiderio de la cognizione del simile, e quanti affanni e travagli e pericoli li parenti, massimamente madri, pigliano per la generazione e educazione degli suoi figli, fino a esponersi a la morte per ben loro. Il fine primo è la produzione del bello, simile a quello di che la madre è ingravidata, e l’ultimo fine è la desiata immortalitá: ché non possendo essere perpetui (come dice Aristotile), gli individui animali desiano e procurano perpetuarsi ne la generazione del simile; la vita ed essere del quale molte volte procurano piú che la propria, perché gli pare che la sua giá passi, e quella è la parte sua che è per essere e per fare immortale la sua vita con la continua e simile successione. Ancora questi fini accadono ne l’anima umana, che, essendo gravida de la bellezza de la virtú e sapienzia intellettuale, desia sempre generare simili belli in atti virtuosi e abiti sapienti, perché con la vera generazione di quelli s’acquista la vera immortalitá, cosí e meglio di quello che li corpi animali l’acquistano ne la generazione de’ simili animali; e cosí come le reliquie de’ padri, mancando loro, consistono e si perpetuano per li figliuoli, cosí si perpetuano le virtú de l’anima (se ben mancano) per li atti virtuosi e abiti intellettuali che gli causano eternitá. Hai adunque inteso come il padre de l’amore è il bello amato, e la madre è il conoscente amante di quello, la quale ingravidata da lui ama e desia parturire simile bello, mediante il quale s’unisce e fruisce con perpetuitá la bellezza virile.
Sofia. Mi pare avere assai ben compreso a che modo il bello, ovvero bellezza, sia il padre de l’amore, e il conoscente e desiderante quello la madre, la quale ingravidata da lui desia il parto del simile, che è l’unione e fruizione di esso bello. Ma veggo, essendo questo, che ogni cosa consiste ne la bellezza, però che il padre è il bello e la gravida madre è la forma esemplare conoscitiva di quello e il desiderato figlio è il tornare per fruizione unitiva in esso bello: e mi meraviglio che facci tanto caso de la bellezza, però che, precedendo a ogni amore, saria bisogno che precedessi non solamente al mondo inferiore e a la mente astratta degli uomini, ma ancora al mondo celeste e a tutto l’angelico: come sia che in ciascuno (come giá dicesti) ritruovi amore, e tutti sieno veramente amanti. Ancora, se ne la somma divinitá è (come qualche volta hai detto) amore a le sue creature, ed ella sia amante di quella (come ne li sacri libri si narra), come si può immaginare precedenzia di bellezza a quella che a tutte sommamente precede?
Filone. Non ti maravigliare, o Sofia, che la bellezza sia quella che facci ogni amato amato e ogni amante amante, e che sia d’ogni amore principio mezzo e fine, cioè principio in esso amato e mezzo ne la reverberazione sua ne l’amante e fine ne la fruizione e unione di esso amante nel suo principio amato: però che, essendo il primo bello il sommo opifice de l’universo, la bellezza di ogni cosa creata è la perfezione de l’opera fatta in lei dal sommo artefice, ed è quella cosa in che l’operato comunica e somiglia piú a l’operante e la creatura al creatore. Essendo questa la divinitá participata da tutte le parti de l’universo, non è strano (ma giusto) che preceda ad ogni altra cosa di quello, e sia quella che facci le cose in che si truova amabili e l’altre, conoscitive di quelle, amanti e desiderose de la participazione di quelle e loro, mediante la divina bellezza di tutte opifice. La quale non solamente precede a l’amore che si truova ne le cose create, sieno corporee corruttibili e celesti ovvero incorporee spirituali e angeliche, ma ancora precede a l’amore che proviene da Dio ne le creature, però che quello non è altro che volere che la bellezza de le creature cresca e s’assomigli alla somma bellezza del loro creatore, a l’immagine del quale loro furon create: sí che prima in Dio [è] la bellezza che l’amore, ed essere bello e amabile precede a l’essere amatore.
Sofia. Veggo quello che rispondi alla mia dimanda, e ancora che paia che satisfacci, a me non fa: però che la dignitá e tanta escellenzia di questa bellezza io bene non la comprendo, né veggo come sia di tanta importanzia che abbi a essere principio di tutte le cose degne e perfette (come la fai). Vorrei che de l’essenzia di questa bellezza meglio mi saziasti: mi ricordo bene che una volta me l’hai diffinita dicendo che la bellezza è grazia, la quale dilettando l’animo col conoscimento di quella il muove ad amare; ma de l’essenzia di questa grazia, e del troppo che importa nel creatore e in tutto l’universo, mi resta la medesima sete di conoscere che ne la medesima bellezza diffinita.
Filone. Ancora mi ricordo averti mostrato parte de la spirituale essenzia de la bellezza, però ch’io ti feci conoscere che, de li cinque sensi esteriori, la bellezza non entra ne l’animo umano per li tre loro materiali (cioè né per il tatto né per il gusto né per l’odorato, ché le temperate qualitá né li dilettevoli tatti venerei non si chiamano belli, né manco li dolci sapori né li soavi odori si dicono belli), ma solamente per li due spirituali: cioè parte per l’audito, per li belli parlamenti orazioni ragioni versi, belle musiche e belle e concordanti armonie, e la maggior parte per l’occhi, ne le belle figure e belli colori e proporzionate composizioni e bella luce e simili, li quali ti denotano quanto sia la bellezza cosa spirituale e astratta dal corpo. Ancora ti ho mostrato che le maggiori bellezze consisteno ne le parti de l’anima che sono piú elevate dal corpo, come prima ne l’immaginativa con le belle fantasie pensieri e invenzioni, e piú ne la ragione intellettiva separata da materia, con li belli studi arti atti e abiti virtuosi e scienzie, e piú perfettamente ne la mente astratta con la prima sapienzia umana, la quale è vera immagine de la somma bellezza. Sì che per questo principiami a conoscere quanto la bellezza da sé è aliena da la materia e corporeitá, e come a quella spiritualmente è comunicata.
Sofia. Pur comunemente il vulgo ne li corpi principalmente pone la bellezza come propria di quelli, e ben pare che a loro piú convenga; e se le cose che non sono corpo si chiamano belle, par che sia a similitudine de la bellezza corporea, come si chiamano ancora grandi (come grand’animo grande ingegno gran memoria grand’arte) a similitudine de li corpi, però che ne l’incorporei, non avendo in sé quantitá né dimensione, non possono essere né grandi né piccoli propriamente, se non a somiglianza de’ mensionati corpi: non meno par che sia la bellezza propria de li corpi, e impropria e per similitudine de l’incorporei.
Filone. Se ben nel grande accade questo, per essere la grandezza propria de la quantitá e la quantitá del corpo, che ragione hai che cosí sia la bellezza?
Sofia. Oltra l’uso del vocabulo, che s’appropria a li corpi, quella dal vulgo si reputa essere piú vera bellezza: è ancora qualche ragione che la bellezza pare che sia la proporzione de le parti al tutto e la commensurazione del tutto in quelle, e cosí molti de li filosofanti l’hanno diffinita. Adunque è propria del commensurabile corpo e del tutto composto de le sue parti, e presuppone quantitá in corpo propriamente; e se de le cose incorporee si dice, è perché a similitudine del corpo hanno parti de le quali sono composte proporzionalmente per ordine, come è l’armonia, concordanza e l’ordinata orazione: però si chiamano belli a similitudine del composto e proporzionato corpo; e cosí ne le considerazioni immaginative razionali e mentali è l’ordine de le parti al tutto, e a similitudine del corpo, che propriamente è composto di parti commensurate, si chiamano belle. Sí che il proprio de la bellezza come de la grandezza pareria che fussi nel corpo, che è proprio suggetto de la quantitá e composizione de le parti.
Filone. L’uso di questo vocabulo bello appresso il vulgo è secondo la cognizione che li vulgari hanno de la bellezza, che, come sia che loro non possono comprendere altra bellezza che quella che gli occhi corporei comprendeno ovvero l’orecchie, si credeno oltra quella non essere bellezza se non qualche cosa fida, sognata o immaginata. Ma quelli, gli occhi de la cui mente son chiari e veggono molto piú oltre de li corporei, conoscono molto piú de l’incorporea bellezza di quello che conoscono li carnali de la corporea, e conoscono che quella bellezza che si truova ne’ corpi è bassa, piccola e superficiale a rispetto di quella che si truova ne l’incorporei; anzi conoscono che la bellezza corporea è ombra e immagine de la spirituale, e participata da quella, e non è altro che il risplender che il mondo spirituale dá al mondo corporeo; e veggono che la bellezza de li corpi non procede da la corporeitá o materia loro: che se cosí fusse, ogni corpo e cosa materiale saria bella a uno medesimo modo, però che la materia e corporenzia è una in tutti i corpi (o veramente de li corpi il maggiore saria il piú bello, il quale molte volte non è, però che la bellezza richiede mediocritá nel corpo, il maggior del quale, come il minore, è deforme); ma conoscono che ne li corpi viene da la participazione de l’incorporei loro superiori, e tanto quanto de la participazione loro mancano, tanto sono deformi: in modo che la deformitá è il proprio del corpo e la bellezza è adventizia in lui dal suo bonificante spirituale. A te dunque, o Sofia, non bastino gli occhi corporei per vedere le cose belle: mirale con l’incorporei e conoscerai le vere bellezze che ’l vulgo non può conoscere; che, cosí come li ciechi degli occhi corporei non possono comprendere le belle figure e colori, cosí li ciechi degli occhi intellettuali non possono comprendere le chiarissime bellezze spirituali né dilettarsi in quelle, però che non diletta la bellezza se non chi conosce lei, e chi non gusta quella è privo di suavissima dilettazione. Che se la bellezza corporea, che è ombra de la spirituale, diletta tanto chi la vede, che se l’usurpa e converte in sé e gli leva la libertá e la voglia di quella: che fará quella bellezza intellettuale lucidissima, de la quale la corporea è solamente ombra e immagine, a quelli che son degni di vederla? Sia adunque, o Sofia, di quelle che l’ombrosa bellezza non li rubba, ma quella che è patrona di quella, suprema in bellezza e dilettazione.
Sofia. Mi basta questo perché il vulgo non m’inganni in quello che dice bellezza: ma vorria che mi solvessi la ragione de la proporzione de le parti al tutto; che fa per loro, e mostra che la bellezza sia propria de li corpi e impropria, e per similitudine di quella, de l’incorporei.
Filone. Questa diffinizione di bellezza, detta per alcuni de li moderni filosofanti, non è giá propria né perfetta: che se cosí fusse, nissun corpo simplice non composto di diverse e proporzionate parti non si chiameria bello; non saria adunque il sole, la luna e le stelle belle, la risplendente Venere, né l’illustro Giove.
Sofia. Hanno ancora questi la bellezza de la figura circolare, che è la piú bella de le figure, la quale è in sé tutta e contiene parti.
Filone. La figura circulare è bene in sé bella, ma la belleza sua non è la proporzione de le parti l’una a l’altra né al tutto, però che le parti sue sono eguali e omogenie, ne le quali non cade proporzione alcuna. Né ancor la bellezza de la figura circulare è quella che fa il sole la luna e le stelle belle: che se cosí fusse, ogni corpo orbiculare averia la bellezza del sole; ma la bellezza loro è la luciditá, la quale in sé non è figura né ha parti proporzionate: e cosí il fiammeggiante fuoco e il fulgente oro e le lucide e preziose gemme non sariano belle, però che tutte queste sono simplici e d’una natura le parti e il tutto senza diversitá proporzionata. Ancora, secondo loro, solamente il tutto saria il bello, e nissuna de le parti saria bella se non in comparazione al tutto; ancora, tu vedrai un viso qualche volta essere bello, qualche volta no, essendo pur sempre la proporzione de le parti al tutto una medesima: pare adunque che la bellezza [non sia ne la proporzione de le parti]. E oltre a quella è piú che (secondo loro) li vaghi colori non sariano belli, né la luce, che è il piú bello del mondo corporeo e quella che gli dá la bellezza, si potria chiamar bella; e cosí ne l’audito la suave voce non si diria, come si dice, bella. E se la bellezza de la musica vogliono che sia la concordanzia de le parti, la bellezza intellettuale qual sará? e se diranno che è l’ordine de la ragione, che diranno ne l’intelligenzia de le cose simplici e de la purissima divinitá, che è somma bellezza? Sí che, se bene consideri, trovarai che, quantunque ne le cose proporzionate e concordanti si truova bellezza, la bellezza è oltre la loro proporzione: onde non solamente ne li composti proporzionati si truova, ma ancor piú ne’ simplici.
Sofia. Adunque l’improporzionati potriano essere belli.
Filone. Non giá, ché l’improporzionati sono defettuosi e gattivi, e nissuno gattivo è bello. Ma non però la proporzione è essa bellezza, ché di quelli che non sono né proporzionati né improporzionati, perché non sono composti, si truovano bellissimi; e piú che ne li proporzionati e concordati sono alcuni non belli, però che ogni bello è buono; e ne le cose gattive si truova ancor proporzione e concordanzia: si dice appresso li mercatanti che ’l codicioso e il trappolatore s’accordano presto, e il timore s’accompagna con la crudelitá, e la prodigalitá con la rubbaria. Non è adunque ogni bello proporzionato, né ogni proporzionato bello (come costoro hanno pensato).
Sofia. Che è adunque la bellezza de le cose corporee, chi fa che le figure e li corpi bene proporzionati sieno belli, se la bellezza non è la proporzione?
Filone. Sappi che la materia, fondamento di tutti li corpi inferiori, è da sé deforme e madre d’ogni deformitá in quelli; ma informata in tutte sue parti per participazione del mondo spirituale, si rende bella, sí che le forme radiate in lei da l’intelletto divino e da l’anima del mondo, ovvero dal mondo spirituale e dal celeste, sono quelle che gli levan la deformitá e porgeno la bellezza: sí che la bellezza in questo mondo inferiore viene dal mondo spirituale e celeste, cosí come la bruttezza e deformitá è propria in lui da la sua deforme e imperfetta materia, di che tutti suoi li corpi son fatti.
Sofia. Adunque ogni corpo saria egualmente bello, perché sono dal mondo superiore essenzialmente informati.
Filone. Ti concedo che ogni corpo ha qualche bellezza, la qual gli vien da la forma che informa la sua materia deforme; ma non son belli egualmente, però che le forme non in un modo perfettamente [informano] tutti l’inferiori corpi, né d’una maniera in tutti levan la deformitá de la materia, anzi in alcuni levan poca parte di questa deformitá, e in altri piú e più gradualmente, e tanto quanto piú de la deformitá materiale basta a levar la forma, tanto rende il corpo piú bello, e quanto meno, men bello e piú deforme. E questa differenzia non è solamente ne la diversa spezie de li corpi del mondo inferiore, ma ancora ne li diversi individui d’una spezie, che uno uomo è piú bello de l’altro e uno cavallo piú bello de l’altro, perché la forma essenziale sua meglio ha dominato la materia, onde piú ha possuto levare de la deformitá di quella e renderlo bello.
Sofia. E donde viene che li proporzionati corpi ne paiano belli?
Filone. Però che la forma che meglio informa la materia, fa le parti del corpo fra se stesse col tutto proporzionate e ordinate intellettualmente e ben disposte a le sue proprie operazioni e fini, unificando il tutto e le parti, sieno diverse o simili, cioè omogenie o eterogenie, ne la meglio forma che è possibile, perché il tutto sia perfettamente informato e uno: e cosí si fa bello; e quando la materia è inobbediente, non può cosí unire e ordinare le parti intellettualmente nel tutto, e resta men bello e deforme, per la disobbedienza de la deforme materia a la informante e belleggiante forma.
Sofia. Mi piace conoscere qual sia la bellezza ne’ corpi inferiori, e chi la fa, e donde viene: ma mi resta un dubio, parte de li dubi tuoi, contra quelli che dicono la bellezza essere proporzione; però che i vaghi colori sono belli e non sono uniti di forma, e cosí la luce è bellissima e non ha parti informate e unite nel tutto; e ancora il sole la luna e le stelle, se ben sono corpi, non hanno materia di forme né forma che l’informi: perché adunque son belli? E oltre la musica armonia, la soave voce e l'eleganti orazioni, li resonanti versi non hanno giá materia di forme né forma che l’informi, e pur son belli; e finalmente le cose belle de l’immaginazione e [de] la ragione e de la mente umana (che hai detto) non hanno giá composizione di materia né forma, e pur son li piú belli del mondo inferiore.
Filone. Bene hai domandato: e giá io ero per dichiararti la bellezza di questi, se bene tu non me avessi assalito. Nel mondo inferiore tutte le bellezze sono de le forme (come ti ho detto), le quali, quando ben convinceno la materia deforme e dominati la rozza corporenzia, fanno li corpi belli: e loro in sé è giusto che sian piú belli, ovvero bellezza, poi che bastano a far del brutto bello; che se non fussero belli, o sariano brutti o neutrali, cioè né belli né brutti; e se brutti, come fan belli per sua essenzia, che un contrario essenzialmente non può operare contrario di lui, ma piú presto simile? se neutrali, perché fanno piú presto belli che brutti? (e ciò in tutte loro segue sempre). Necessario è adunque concedere che le forme sien piú belle che l’informati da quelle. Li colori adunque sono belli perché son forme; e se per loro li corpi ben coloriti si fanno belli, tanto piú essi medesimi debbeno essere belli, o bellezza; e molto piú la propria luce, che ogni colore e colorato fa belli, ed è propriamente forma ne li corpi astratti e immista con la corporenzia (come giá hai inteso), e si legge madre de le vaghe bellezze del mondo inferiore, è giusto che sia bellissima. Il sole, la luna, le stelle per la luce loro sono belli, la quale in tutte ha ragione di forma; e loro stessi (secondo dice Temistio) si possono chiamare forme piú presto che corpi informati. Essendo il sole padre de la bella luce, è giusto che sia capo de la bellezza corporea, e di poi gli altri corpi celesti lucidi, che prima da lui participan sempre la luce; e di poi fa ancora belli tutti li corpi inferiori lucidi e coloriti: e massimamente il fuoco fiammeggiante, per essere piú formale e manco corporeo per la sua sottilitá e leggereza, e perché piú partecipa la luce solare; e pare la formalitá sua in ciò che da nissuno altro elemento contrario si lascia violare né alterare se del tutto non si corrompe, però che nissun altro elemento il può infrigidare né umettare né indurre in lui qualitá contraria a la sua propria natura mentre che è fuoco, come fa egli negli altri elementi, che esso scalda l’acqua e la terra e disecca l’aere contra loro proprie nature. E universalmente la luce in tutto il mondo inferiore è forma la quale leva la bruttezza de la tenebrositá de la materia deforme, e perciò quelli corpi che piú la participano rende piú belli: onde ella è giusto che sia bellezza vera, e il sole dal quale depende è fontana de la bellezza, e le stelle e la luna sono suoi primi condotti e li piú degni participi. L’armonia è bella, però che è forma spirituale, ordinativa e unitiva de le molte e diverse voci in unica e perfetta consonanza per modo intellettuale; e le soavi voci son belle perché son parte de l’armonia, e participando la forma del tutto, participan la sua bellezza. La bellezza de l’orazione viene da la bellezza spirituale, ordinativa e unitiva di molte e diverse parole materiali in unione perfetta intellettuale in qualche parte di armonica bellezza, sí che con ragione si può dire piú bella che le altre cose corporee; e cosí li versi, ne li quali è la bellezza intellettuale, hanno piú de la bellezza armonica resonante. Le bellezze de la cognizione e de la ragione e de la mente umana manifestamente precedeno ogni bellezza corporea: però che queste sono vere formali e spirituali, e ordinano e uniscano li molti e diversi concetti de l’anima, sensibili e razionali, e ancora porgeno e participano bellezza dottrinale ne le menti disposte di ricevere bellezza, e ancora bellezza artifiziale in tutti li corpi che per artifizio son fatti belli. Sí che la bellezza in tutto il mondo inferiore procede dal mondo spirituale ne le forme, e mediante le forme ne li corpi: le qual forme ovvero bellezze formali sempre sono astratte da la materia, però che non hanno compagnia di materia deforme che impedisca mai la sua bellezza; e però le virtú e sapienzie son sempre belle, ma li corpi informati qualche volta belli e qualche volta no, secondo si truova la materia obbediente o resistente a la bellezza formale.
Sofia. Intendo a che modo tutta la bellezza naturale del mondo corporeo deriva da la forma, o forme che informano li corpi in materia di quello; ma mi resta a intendere la bellezza de le cose artificiali donde dipende, poi che non viene dal spirituale, o ver celeste, l’origine de le forme naturali, né è del numero e natura di quelle.
Filone. Cosí come la bellezza de le cose naturali deriva da le forme naturali essenziali ovvero accidentali, cosí la bellezza de le cose artificiate deriva da le forme artifiziali: onde la diffinizione de l’una e de l’altra bellezza è una medesima, distribuita a tutte due.
Sofia. E qual saria la loro diffinizione?
Filone. Grazia formale che diletta e muove chi la comprende ad amar; e questa grazia formale, cosí come ne li belli naturali è di forma naturale, cosí ne li belli artifiziati è di forma artifiziale. E per conoscere che la bellezza dei corpi artifiziati viene da la forma de l’artifizio, immagina due pezzi di legno eguali, e che ne l’uno s’intagli una bellissima Venere e ne l’altro no: conoscerai che la bellezza di Venere non viene dal legno, ché l’altro pari legno non è giá bello; resta che la forma o, figura artifiziata, è la sua bellezza e quella che la fa bella. E cosí come le forme naturali de’ corpi derivano da incorporea e spiritual origine, la qual’è l’anima del mondo, e oltra dal primo e divino intelletto, ne li quali due prima tutte le forme esisteno con maggior essenzia perfezione e bellezza che ne li divisi corpi: cosí le forme artifiziali derivano da la mente de l’artifice umano, ne la qual prima esisteno [con] maggior perfezione e bellezza che nel corpo bellamente artifiziato; e cosí come levando per considerazione del bello artifiziato la corporenzia non resta altro che l’idea, la quale è in mente de l’artifice, cosí levando la materia de’ belli naturali restano solamente le forme ideali preesistenti ne l’intelletto primo, e da lui ne l’anima del mondo. Ben conoscerai, o Sofia, quanto piú bella debbe essere l’idea de l’artifizio unita ne la mente de l’artifice che quando si truova nel corpo distribuita e smembrata, però che ogni bellezza e perfezione cresce l’unione e la divisione la sminuisce: e le parti de la bellezza de la statua di Venere nel legno sono divise ciascuna per sé, onde fanno lenta e debile la sua bellezza in respetto di quella che è ne l’anima de l’artefice, però che in lei consiste l’idea de l’arte, con tutte le sue parti complicate insieme in modo che l’una favorisce l’altra e la fa crescere in bellezza e la bellezza di tutti insieme sta in ognuna e quella di ciascuno in tutti, senza alcuna divisione o discrepanzia; di maniera che, chi vedessi l’una e l’altra, conosceria che senza comparazione è piú bella l’arte che l’artifiziata, come quella che è causa de l’artifiziata, la quale ne la compagnia de li corpi perde de la sua perfezione tanto quanto li corpi guadagnano in quella: però che quanto piú il rozzo corpo è brutto e ritirato da la forma, tanto l’artifiziato rende piú bello; e quanto piú la forma è tirata e impedita dal corpo, tanto men bello resta il composto artifiziato. Resta adunque che la forma senza corpo è bellissima, sí come il corpo senza la forma è bruttissimo: e de la maniera de le cose artifiziali sono le naturali, ché quelle forme che li corpi naturali fan belli è manifesto che ne la mente del sommo artefice e vero architettore del mondo, cioè ne l’intelletto divino, si truovino molto piú belle, però che ivi son tutte insieme, astratte di materia di mutazione o alterazione e d’ogni maniera di divisione e moltitudine, e la bellezza di tutte insieme fa bella ognuna e la bellezza di ciascuna si trova in tutte. Si truovano di poi tutte le forme ne l’anima del mondo, che è il secondo artifice di quello, non giá in quel grado di bellezza che è nel primo intelletto architettore, però che ne l’anima non sono in quella pura unione ma con qualche moltitudine o diversitá ordinata, però che essa è in mezzo fra il primo opifice e le cose artifiziate: ma non sono ivi in molto maggior grado di bellezza che in esse cose naturali, però che ivi si truovano spiritualmente tutte in unione ordinata, astratte di materia di alterazione e moto. E da lei emanano tutte l’anime e forme naturali nel mondo inferiore, divise in diversi corpi di quello, sottoposte tutte a l’alterazione e moto con la successiva generazione: escetto solo l’anima umana razionale, [che è libera] di corruzione alterazione e moto corporeo, pur con qualche moto discorsivo e recezione de le spezie in modo spirituale, però che ella non è mista col corpo come l’altre anime e forme naturali; de le quali pure (pur come abbiamo detto de l’artifiziali) quelle che meno son miste col corpo son piú belle in sé e rendono li suoi corpi piú belli, e quelli che hanno piú mescolanza con la corporenzia sono men belli in sé e rendono li suoi corpi deformi; e il contrario ne li corpi naturali, che il piú elevato da la forma e piú sottoposto a lei è il piú bello, e quello che resiste a la sua forma e la retira a lui è il brutto. Tu, o Sofia, potrai conoscere per questo discorso come la bellezza de li corpi inferiori naturali e artifiziali non è altro che la grazia che ha ognuno di loro da la sua propria forma sustanziale, sia o accidentale ovvero di sua forma artifiziale; e conoscerai che le forme in sé a l’un modo e a l’altro sono piú belle che l’informate da quelle, e nel loro essere spirituale sono molto piú eccellenti in bellezza che nel suo essere corporale, ben che la sua bellezza corporale s’apprenda con gli occhi corporei e parte per l’orecchie, e la spirituale no, perché s’apprende per gli occhi de l’anima o de l’intelletto, proporzionati a lei e degni di vederla.
Sofia. A che modo gli occhi de l’anima nostra e intelletto si proporzionano a le bellezze spirituali?
Filone. Però che l’anima nostra razionale, per essere immagine de l’anima del mondo, è figurata nascosamente di tutte le forme esistenti in essa anima mondana, e però con discorso razionale (come simile) distintamente le conosce e gusta la sua bellezza e l’ama; e il puro intelletto che riluce in noi è similmente immagine de l’intelletto puro divino, disegnato de l’unitá di tutte le idee, il quale in fine de’ nostri discorsi razionali ne mostra l’essenzie ideali in intuitiva unica e astrattissima cognizione, quando il merita nostra bene abituata ragione. Sí che noi con gli occhi de l’intelletto possiamo vedere in uno intuito la somma bellezza del primo intelletto e idee divine: vedendola ne diletta, e noi l’amiamo; e con gli occhi de l’anima nostra razionale con ordinato discorso possiamo vedere la bellezza de l’anima del mondo e in lei tutte l’ordinate forme, la quale ancora grandemente ne diletta e move ad amare. Sono ancora proporzionate a queste due bellezze spirituali del primo intelletto e de l’anima del mondo le due bellezze corporee, quella che s’acquista per il vedere e quella che s’acquista per l’audito, come loro simulacri e immagini. Quella del viso è immagine de la bellezza intellettuale, però che tutta consiste in luce e per la luce s’apprende; e giá tu sai che il sole e la luce sua è immagine del primo intelletto: onde cosí come il primo intelletto illumina con la sua bellezza gli occhi del nostro intelletto e li empie di bellezza, cosí il sole, immagine di quello, con la sua luce (ch’è splendore di esso intelletto, fatto forma ed essenzia di esso sole) illumina i nostri occhi e li fa comprendere tutte le lucide bellezze corporee. E quella che s’acquista per l’andito è immagine de la bellezza de l’anima del mondo, però che consiste in concordanzia armonia e ordine, cosí come esisteno le forme in quella in ordinata unione; e cosí come l’ordine de le forme che è ne l’anima del mondo abbellisce l’anima nostra e da quella si comprende, cosí l’ordinazioni de le voci in armonico canto, in sentenziosa orazione o in verso si comprende dal nostro audito, e mediante quelle diletta la nostra anima per l’armonia e concordia di che lei è figurata da l’anima del mondo.
Sofia. Ho conosciuto come le bellezze corporee, cosí le visioni come l’auditi, sono immagini e simulacri de le bellezze spirituali del primo intelletto e anima del mondo, e che sí come gli occhi e l’orecchie sono quelli che comprendono le due bellezze corporee, cosí la nostra anima razionale e mente intellettiva sono quelle che apprendono ambe le bellezze spirituali. Ma mi resta in dubio, ch’io veggo che la nostra anima e mente intellettiva sono quelle che per via degli occhi e orecchie conoscono e giudicano le bellezze corporee e si dilettano in quelle e l’amano: ché gli occhi e orecchi propri non pare che sieno altro che condutti e vie de le bellezze corporee a l’anima e intelletto nostro; parrebbe adunque che loro versassino piú presto e propriamente circa le bellezze corporali che circa le spirituali, come hai detto.
Filone. Non è dubio che l’anima è quella che conosce giudica e sente tutte le bellezze corporee e si diletta in quelle e l’ama, e non gli occhi e l’orecchie, se bene le portano: però che se fussino questi li conoscitori e amatori de la bellezza, seguiria che ognuno egualmente conosceria le bellezze de le cose corporee, ed egualmente si dilettarla di quelle e l’amaria, perché tutti hanno occhi e orecchie. Perché tu vedrai molte cose belle che da molti chiari occhi non sono conosciute, né porgeno a quelli che le veggono dilettazione né amore; e quanti uomini di buono audito vedrai che non gustano la musica, né li pare bella né l’amano, e altri che li belli versi e orazioni li pareno inutili: pare adunque che il conoscimento de le bellezze corporee e la dilettazione e amore di quelle non consista negli occhi e orecchie, donde passano, ma ne l’anima, dove vanno.
Sofia. Ancora che in questo tu favorisci il mio dubio, t’interromperò la risposta, fin che mi dica la ragione perché tutte l’anime egualmente non hanno cognizione dilettazione e amore del bello, poi che tutti gli occhi e orecchi il porgeno.
Filone. La risposta di questa vedrai insieme con la soluzione del tuo dubio, se mi lascerai dire. Tu sai che le bellezze corporee sono grazie formali; e giá t’ho detto che tutte le forme astratte in ordine unitivo si truovano spiritualmente ne l’anima del mondo, de la quale è immagine l’anima nostra razionale, però che l’essenzia sua è una figurazione latente di tutte quelle spiritual forme per impressione fatta in lei da l’anima del mondo, sua esemplare origine. Questa latente figurazione è quella che Aristotile chiama potenzia e preparazione universale ne l’intelletto possibile a ricevere e intendere tutte le forme ed essenzie, però che, se non fussero in lei tutte in modo potenziale ovvero latente, non potria riceverle e intenderle ognuna di loro in atto e per preesistenzia. Dice Platone che ’l nostro discorso e intendere è reminiscenzia de le cose antesistenti ne l’anima in modo d’oblivione: che è la medesima potenzia di Aristotile, e il modo latente ch’io ti dico. Adunque conoscerai che tutte le forme e spezie non saltano de li corpi ne l’anima nostra, ché migrare d’un suggetto ne l’altro è impossibile: però, representati per li sensi, fanno rilucere quelle medesime forme ed essenzie che innanzi erano latenti ne l’anima nostra. Questa rilucenzia Aristotile la chiama atto d’intendere, e Platone ricordo; l’intenzione è una in diversi modi di dire. È adunque la nostra anima piena de le bellezze formali, anzi quelle sono sua propria essenzia; e se sono ascoste in lei, non viene la latenzia per parte sua ne l’intelletto che la fa essenziale, ma da parte de la colligazione e unione che ha col corpo e materia umana, che, se bene non è mista con quella, solamente l’unione e colligazione mista che ha con lei fa che l’essenzia sua (ne la quale è l’ordinazione de le bellezze formali) viene ombrata e oscura, in modo che bisogna la representazione de le bellezze diffuse ne li corpi per dilucidare quelle latenti ne l’anima. Ma essendo questa latenzia e tenebrositá molto diversa ne l’anime de l’individui umani, secondo la diversitá de l’obbedienzie de’ corpi e materie loro a le sue anime: interviene che l’anima di uno conosce facilmente le bellezze, e quella d’un altro con piú difficultá, e quella di qualche altro a nissun modo le può conoscere per la rozzezza de la sua materia, la quale non lascia lucidare la tenebrositá che lei causa ne l’anima: e però vedrai che uno uomo le conoscerá prontamente e da se stesso, e l’altro ará bisogno di erudizione, e l’altro non riesce mai erudito. Ancora vedrai un’anima conoscere facilmente alcune bellezze e altre bellezze con difficultá, però che la materia sua è piú proporzionata e simile ad alcuni corpi e cose belle che a l’altri, onde la latenzia e ombria de le bellezze ne l’animo suo non è eguale in tutti; per il che parte di quelle facilmente conosce l’anima per representazione de’ suoi sensi e parte no: e in questo si truovano tanti modi di diversitá negli uomini, che sono incomprensibili. Potrai adunque conoscere che tutte le bellezze de l’anima nostra naturali, indutte da li corpi, son quelle formali bellezze che l’anima del mondo ha prese da l’intelletto e distribuite per li corpi mondani, e quelle proprie bellezze de le quali essa a immagine e similitudine sua figurò e informò la nostra anima razionale. Facilmente adunque potremo da la cognizione de le bellezze corporee venire ne la cognizione de la bellezza de la nostra propria intellettiva e de la bellezza de l’anima del mondo, e di quella, mediante la nostra pura mente intellettuale, ne la somma bellezza del primo intelletto divino, come de la cognizione de l’immagini a la cognizione de l’esemplari de li quali sono immagini. Sono adunque le bellezze corporee nel nostro intelletto spirituale, e come tali si conoscono da lui; e però t’ho detto che gli occhi de l’anima nostra razionale e mente intellettuale conoscono le bellezze spirituali: ma la razionale conosce le bellezze de le forme che sono ne l’anima del mondo, mediante il discorso che fa de le bellezze corporee mondane, immagini e causate da quelle; ma la pura mente conosce direttamente in uno intuito l’unica bellezza de le cose [ne le] idee del primo intelletto, che è la finale beatitudine umana. E conoscerai che quelle anime che difficilmente conoscono le bellezze corporee, cioè la spiritualitá che è in quelle, e con difficoltá le possono estraere da la bruttezza materiale e deformitá corporea, sono ancor difficili nel conoscere le bellezze spirituali di essa anima, cioè le virtú scienzie e sapienzie; e cosí come, non ostante che ognuno che ha occhi vegga le bellezze corporee, non però ciascuno le conosce per belle né si diletta in quelle, ma solamente l’amatori, l’uno piú de l’altro secondo ha piú de l’amatorio: cosí, se bene tutte l’anime conoscono le bellezze spirituali, non tutte le reputano belle a un modo né a tutte la loro fruizione diletta, ma solamente a l’anime amatorie, e a una piú che a un’altra secondo è piú connaturata del spiritual amore.
Sofia. Intendo a che modo l’anima nostra conosce spiritualmente le bellezze, prima le corporee e di poi per quelle l’incorporee, le quali preesisteno nel primo intelletto e ne l’anima del mondo in modo chiarissimo e risplendente, ne la nostra anima razionale ombroso e latente; e intendo che cosí come quelli che piú perfettamente conoscono le bellezze l’amano, e l’altri no, cosí quelli che piú conoscono de l’incorporee sono ardenti amatori di quelle, e l’altri no. E m’hai ancora detto che quelli che conoscono bene l’incorporee bellezze, e l'apprendono con facilitá, sono quelli che meglio e piú prontamente conoscono le bellezze incorporee de l’intelletto e anima superiore: contra che mi occorre uno non piccolo dubio, però che, se l’amore de la bellezza si causa da la perfetta cognizione di quella, segue che cosí come quelli che bene conoscono le bellezze corporee son quelli che bene conoscono l’incorporee, cosí quelli che intensamente amano le bellezze corporee sono li primi amatori de le bellezze incorporee intellettuali, come la sapienzia e la virtú; di che il contrario è manifesto, ché quelli che molto amano le bellezze corporee son nudi de la cognizione e amore de le bellezze intellettuali e quasi ciechi in quelle, e cosí quelli che ardentissimamente amano le bellezze intellettuali sogliono spregiare le corporee, abbandonarle odiarle e fuggire da quelle.
Filone. Mi piace intendere il tuo dubio, perché la soluzione di quello ti mostrará a che modo le bellezze corporee si debbino conoscere e amare, e a che modo si debbino fuggire e odiare, e qual’è la perfetta cognizione e amore di quelle, e quale è il falso, sofistico e apparente. Tu hai inteso che l’anima è mezzo fra l’intelletto e il corpo: non solamente dico l’anima del mondo, ma ancora la nostra, simulacro di quella; ha adunque la nostra anima due faccie (come t’ho detto de la luna, verso il sole e la terra), l’una faccia verso l’intelletto suo superiore, l’altra verso il corpo inferiore a lei. La prima faccia, verso l’intelletto, è la ragione intellettiva, con la quale discorre con universale e spirituale cognizione, estraendo le forme ed essenzie intellettuali da li particulari e sensibili corpi, convertendo sempre il mondo corporeo ne l’intellettuale; la seconda faccia, che è verso il corpo, è il senso, che è cognizione particolare de le cose corporee, aggiunta e mista la materialitá de le cose corporee conosciute. Queste due faccie hanno contrari ovvero oppositi moti: cosí come l’anima nostra con la prima faccia, ovvero cognizione razionale, fa del corporeo incorporeo, cosí de la seconda faccia, o ver cognizione sensibile, accostandosi essa a li sensati corpi e mescolandosi seco contrae l’incorporeo al corporeo. Le bellezze corporee si conoscono da l’anima nostra in questi due modi di cognizione con l’una e l’altra faccia, cioè sensitivamente e corporalmente, o razionalmente e intellettivamente; e secondo ognuna di queste due cognizioni de le bellezze corporee si causa ne l’anima l’amor di quelle, cioè per la cognizione sensibile amor sensuale e per la cognizione razionale amor spirituale. Sono molti che la faccia de l’anima verso li corpi hanno luminosa e l’altra verso l’intelletto oscura, e ciò viene per essere l’anima loro sommersa e molto aderente al corpo, e il corpo inobbediente e poco vinto da l’anima: questi tutta la cognizione che hanno de le bellezze corporee e sensibili e cosí tutto l’amore che hanno a quelle è puro sensibile, e le bellezze spirituali non conoscono né amano, né si dilettano in quelle né le stimano degne d’essere amate; e questi tali sono degli uomini infelicissimi e poco differenti dagli animali bruti, e quel che han di piú è lascivia e libidine, concupiscenzia e cupidizia e avarizia, e altre passioni e turbazioni che fanno gli uomini non solamente vili e indegni, ma ancora laboriosi e insaziabili e sempre turbati e inquieti con nissuna satisfazione e contentezza, però che l’imperfezione di tali desidèri e dilettazioni gli leva ogni fine satisfattorio e ogni tranquilla contentezza, secondo la natura de l’inquieta materia, madre de le bellezze sensibili. Sono altri che piú veramente si possono chiamare uomini, ché [in loro] la faccia de l’anima che è verso l’intelletto è non men luminosa che quella che è verso il corpo, e alcuni ne li quali è molto piú lucida: questi dirizzano la cognizione sensibile a la razionale come proprio fine, e tanto reputano bellezze le sensibili con l’inferior faccia quanto si cava da quelle le razionali bellezze con la superiore, che è la vera bellezza (secondo t’ho detto); e se bene aderiscono l’anima spirituale con la faccia inferiore a li corpi per avere de la loro bellezza cognizione sensibile, di continente di contrario moto elevano le spezie sensibili con la faccia superiore razionale, cavando da quelle le forme e spezie intelligibili, riconoscendo essere quella la vera loro [cognizione de la bellezza], e lasciando il corporeo del sensibile, come brutto e scorza de l’incorporeo, ovvero ombra e immagine sua; e del modo che dirizzano l’una cognizione a l’altra cosí dirizzano l’uno amore a l’altro, cioè il sensibile a l’intelligibile, ché tanto amano le bellezze sensibili quanto le cognizioni loro inducono a riconoscere e amare le spirituali insensibili, le quali come vere bellezze solamente amano, e ne la fruizione di quelle si dilettano, e nel resto de la corporenzia e sensualitá non solamente non hanno amore né dilettazione in quella, ma l’odiano come brutta [e] materiale e fuggono da quella come da contrario nocivo. Perché la mescolanza de le cose corporee impedisce la felicitá de l’anima nostra, privandola con la luce sensuale de la faccia inferiore de la luce intellettuale in la faccia superiore, che è la sua propria beatitudine; e cosí come l’oro quando ha la lega e mescolanza de li rozzi metalli e parte terrestre, non può essere bello perfetto né puro, ché la bontá sua consiste in essere purificato d’ogni lega e netto d’ogni rozza mescolanza: cosí l’anima mista de l’amor de le bellezze sensuali non può esser bella né pura, né venire in sua beatitudine se non quando sará purificata e netta de l’incitazioni e bellezze sensuali, e allor viene a possedere la sua propria luce intellettiva senza impedimento alcuno, la quale è la felicitá. T’inganni adunque, o Sofia, di quale è la maggior cognizione de le bellezze sensuali, tu credi che sia in quello che le conosce in modo sensitivo materiale, non estraendo da quelle le bellezze spirituali, ed erri; ché questa è imperfetta cognizione de le bellezze corporee, ché chi fa de l’accessorio principale non ben conosce, e chi lassa la luce per l’ombra non ben vede, e chi lassa d’amare la forma originale per amare il suo simulacro o immagine, se stesso odia. La perfetta cognizione de le bellezze corporee è in conoscerle di modo che facilmente si possino estraere da quelle [le] bellezze incorporee; e allora la faccia inferiore de l’anima nostra, che è verso il corpo, ha il conveniente lume quando serve al lume de la faccia superiore intellettiva, ed è accessoria e inferiore e veiculo di quella: e se li cede, è imperfetta l’una e l’altra, e resta l’anima improporzionata e infelice. Adunque l’amore de le bellezze inferiori allora è conveniente e buono quando è solamente per distillare di quelle le bellezze spirituali, che sono le vere amabili, e l’amore è principalmente in quelle e ne le cose corporee accessorie per loro: ché cosí come gli occhiali tanto son buoni belli e amati, quanto la chiarezza loro è proporzionata a la vista e [a] gli occhi e serveno bene quelli ne la representazione de le spezie visive, — essendo piú chiari e improporzionati son tristi, non solamente inutili ma nocivi e impedienti de la vista, — cosí tanto è la cognizione de le bellezze sensitive buona e causatrice d’amore e diletto, quanto si dirizza a la cognizione de le bellezze intellettuali e induce l’amore a fruizione di quelle; e quando è improporzionata e non dirizzata in questo, è nociva, impediente de le bellezze del lume intellettuale, in che consiste il fine umano. Advertisce adunque, o Sofia, che non t’infanghi ne l’amore e dilettazione de le bellezze sensuali, tirando l’anima tua dal suo bello principio intellettuale per sommergerla nel pelago del deforme corpo e brutta materia. Non t’intervenga quel de la favola, di quello che vidde belle forme sculpite in acqua brutta, che volse le spalle a l’originali e seguitò l’ombrose immagini, e si buttò e annegò fra loro ne le turbide acque.
Sofia. Mi piace la tua dottrina in questo, e desidero imitarla; e conosco quanto fallo può cadere ne la cognizione e amore de le bellezze corporee, e il gran risico che in quelle si corre; e distintamente veggo che le bellezze corporali, in quanto son bellezze, non sono corporali, ma la sola participazione che li corporali hanno con l’incorporali, ovvero il lustrore che li spirituali infondeno ne li corpi inferiori, le bellezze de’ quali sono veramente ombre e immagini de le bellezze incorporee intellettuali, — e che ’l bene de l’anima nostra è ascendere da le bellezze corporali ne le spirituali, e conoscere per l’inferiori sensibili le superiori bellezze intellettuali. Ma con tutto questo mi resta desiderio di sapere che cosa è questa bellezza spirituale, che fa ognuno de l’incorporei bello, e ancora si comunica a li corpi, non solamente a li celesti in gran modo, ma ancora a l’inferiori e corruttibili secondo piú e manco; ancora si participa (e piú che a tutti) a l’uomo, principalmente a la sua anima razionale e mente intellettiva. Che cosa è adunque questa bellezza, che cosí si sparge per tutto l’universo e in ciascuna de le sue parti, e per lei tutti li belli è ciascuno di loro fatto bello? ché, se bene m’hai dichiarato che la bellezza è grazia formale, la cui cognizione ne muove ad amare, questa è solamente la bellezza de li corpi formati e de le loro forme: ma come questa sia ombra e immagine de l’incorporea, vorria sapere precisamente, [e] che cosa è questa bellezza incorporea da la quale la corporea depende. Ché, quando saprò questo, conoscerò quel che è vera bellezza, che per tutti si distribuisce, e non arò bisogno di particolare cognizione e diffinizione de la bellezza corporea, la quale m’hai dato: però che la diffinizione de la corporea non è diffinizione di sua bellezza, ma di lei in corpo, e non so quel che la medesima bellezza sia in se stessa fuor de li corpi; la qual cosa principalmente desidero sapere. Pregoti con l’altre cose ancora questa ne vogli mostrare.
Filone. Cosí come ne li belli artifiziati (secondo giá hai inteso) la bellezza non è altro che l’arte de l’artefice participata diffusamente in essi corpi artifiziati e in loro parti, onde la vera e prima bellezza artifiziale è essa scientifica arte, preesistente ne la mente de l’artefice, de la quale le bellezze de l’artifiziati corpi dependono come di loro prima idea a tutti comunicata: cosí la bellezza di tutti li corpi naturali non è altra che il splendore di loro idee, onde esse idee sono le vere bellezze per le quali tutti li corpi son belli.
Sofia. Tu mi dichiari la cosa per quello che non è meno occulto che lei: mi dici che le vere bellezze sono le idee, e a me non è men bisogno dichiararmi che cosa è idea di quello che sia bellezza; massimamente l’essere de le idee (come tu sai) è molto piú ascoso da noi che l’essere di essa bellezza. Vuoi adunque dichiarare il piú manifesto con l’ascoso: tanto piú che, oltra che è piú occulto l’essere de la idea che quello de la bellezza, è molto piú dubbioso e incerto: però che tutti concedono essere una vera bellezza da la quale tutte l’altre dependono, e molti de li filosofi sapientissimi niegono l’essere de le idee platoniche (come è Aristotile e tutti li suoi seguaci peripatetici). Come vuoi adunque dichiararmi il certo per il dubbioso e il piú manifesto per l’occulto?
Filone. Le idee non sono altre che le notizie de l’universo creato con tutte le sue parti, preesistenti ne l’intelletto del sommo opifice e creatore del mondo, l’essere de le quali nissuno de li suggetti de la ragione il può negare.
Sofia. Dimmi pur la ragione perché non si può negare.
Filone. Però che se ’l mondo non è prodotto a caso, come si mostra per l’ordine del tutto e de le parti, bisogna che sia prodotto da mente o intelletto sapiente, il quale il produce in quello perfettissimo ordine e corrispondente proporzione, che tu e ogni sapiente discerni in quello; il quale non solamente è mirabilissimo nel tutto, ma ne le piú minime de le parti sue ad ogni sapiente che ’l considera è in grande ammirazione, e ne l’ordine e corrispondenzia di ognuna de le minime parti di quello vede la somma perfezione de la mente de l’opifice del mondo e l’infinita sapienzia del creatore di quello.
Sofia. Questo non negherei giá, né credo si possa negare, però che in me stessa e in ciascuno de li miei membri veggo il gran sapere del creatore de le cose, il quale trapassa la mia apprensione e d’ogni uomo sapiente.
Filone. Conosci bene, massimamente se vedessi la notomia del corpo umano e d’ognuna de le sue parti, con quanta sottilitá d’arte e sapienzia è composto e formato, che in ciascuno di quelli ti si presentaria l’immensa sapienzia, providenzia e cura di Dio nostro creatore; come dice Iob: «Di mia carne veggo Dio».
Sofia. Vegnamo oltra, a le idee.
Filone. Se la sapienzia e arte del sommo opifice ha fatto tutto l’universo con tutte le sue parti e parti de le parti in modo perfettissimo, concordanza e ordine, bisogna che tutte le notizie de le cose sí saviamente fatte preesistino in ogni perfezione ne la mente di esso opifice del mondo: cosí come le notizie de l’arti de le cose artifiziate bisogna che preesistino ne la mente del loro artefice architettore; altrimenti non sariano artifiziate, ma solamente a caso fatte. Queste notizie de l’universo e de le sue parti, che preesisteno ne l’intelletto divino, son quelle che chiamiamo idee, cioè prenotizie divine de le cose prodotte. Hai adunque inteso quel che sono idee, e come veramente sono.
Sofia. Le intendo evidentemente: ma dimmi come possono Aristotile e gli altri peripatetici negarle.
Filone. Largo discorso saria bisogno a dirti in che consiste la discrepanzia d’Aristotile a Platone suo maestro in questo de le idee, e la ragione di ciascuna de le parti, e quali sieno quelle che piú convincerlo: non te le dirò giá, perché saria uscire troppo del nostro proposito e fare prolissa questa nostra confabulazione. Ti dico solamente per satisfazione tua, che ciò che t’abbiamo detto de le idee non niega né può negare Aristotile, se bene non le chiama idee: però che egli pone che ne la mente divina preesista il nimos de l’universo, cioè l’ordine sapiente di quello, dal quale ordine la perfezione e ordinazione del mondo e di tutte le sue parti deriva, cosí come ne la mente del duce de l’esercito preesiste l’ordine di tutto quello, dal quale ordine procede l’ordinanza e fatti di tutto il suo esercito e d’ognuna de le sue parti; sí che in effetto le idee platoniche ne la mente divina in diversi vocabuli e vari esempli sono concesse d’Aristotile.
Sofia. Intendo la conformitá: ma dimmi pur qualche cosa de la differenzia che è fra loro ne l’essere de le idee, che tanto Aristotile e li suoi si sforzorono di negare.
Filone. Tel dirò in somma. Sappi che Platone misse ne le idee tutte l’esistenzie e sustanzie de le cose, di modo che tutto il procreato di quelle nel mondo corporeo si stima che sia piú presto ombra di sustanzia ed essenzia, che si possi dire essenzia né sustanzia: e cosí sprezzò le bellezze corporee in loro stesse, però che dice che, non essendo loro altro che ombre de le bellezze ideali non vagliano per altro che per mostramele e indurne in la cognizione di quelle, ché per sé la loro bellezza è poco piú che niente. Aristotile vuole in questo essere piú temperato, però che gli pare che la somma perfezione de l’artefice debba produrre perfetti artifiziati in loro stessi: onde tiene che nel mondo corporeo e ne le parti sue sia l’essenzia e la sustanzia propria d’ognuno di loro, e che le notizie ideali non sieno l’essenzie e sustanzie de le cose, ma cause produttive e ordinative di quelle: onde egli tiene che le prime sustanzie sieno l’individui, e che in ognuno di loro si salvi l’essenzia de le spezie. De le quali spezie l’universali non vuole che sieno le idee che sono cause de le reali, ma solamente concetti intellettuali de la nostra anima razionale, pigliati da la sustanzia ed essenzia che è in ciascuno de l’individui reali: e perciò chiama quelli concetti universali sustanzie seconde, per essere astratti per il nostro intelletto da li primi individuali. E le idee non vuol che sieno prime sustanzie (come Platone dice) né ancora le seconde, ma prime cause di tutte le sustanzie corporee e di tutte loro essenzie composte di materia e forma: però che egli tiene che la materia e il corpo entri ne l’essenzia e sustanzia de le cose corporee, e che ne la diffinizione d’ogni essenzia, qual si facci per genero e differenzia, entri prima la materia o corporenzia, o ver forma materiale comune, per genero e la forma speziale per differenzia, però che l’essenzia e sustanzia sua è constituita d’ambidue, materia e forma; e come ne le idee non sia materia e corpo, in loro non cade secondo lui essenzia né sustanzia, ma sono il divino principio di che tutte l’essenzie e sustanzie dependono, cioè li primi come primi effetti corporali e li secondi come loro immagini spirituali. Tiene adunque che le bellezze del mondo corporeo sieno vere bellezze ma causate e dependenti da le prime bellezze ideali del primo intelletto divino. Di questa differenzia che è fra questi dui teologi nascono tutte l’altre che ne l’idee fra loro si truovano, e ancora la maggior parte di tutte le loro differenzie teologali e naturali.
Sofia. Mi piace conoscere la differenzia, e ancora mi piaceria saper il tuo parere con qual di loro in ciò piú si conforma.
Filone. Ancor questa differenzia, quando bene la saprai considerare, la trovarai piú presto ne la imposizione de’ vocabuli che ne la loro significazione del modo in che si debbino usare, cioè che voglia dire essenzia sostanzia unitá veritá bontá bellezza e altri simili, che in la realtá de le cose s’usano: sí che ne la sentenzia seguo ambidue, però che la loro è una medesima; ne l’uso de’ vocabuli forse è da seguire Aristotile, perché il moderno lima piú la lingua e piú divisamente e piú sottilmente suole appropriare i vocabuli a le cose. Ti dirò ben questo che, Platone trovando li primi filosofi di Grecia che non stimavano altre essenzie né sustanzie né bellezze che le corporee, e fuora de li corpi pensavano essere nulla, fu bisogno come verace medico curarli col contrario, mostrandoli che li corpi da se stessi nissuna essenzia nissuna sostanzia nissuna bellezza posseggono, come è veramente, né han altro che l’ombra de l’essenzia e bellezza incorporea ideale de la mente del sommo opifice del mondo. Aristotile, che trovò giá li filosofi per la dottrina di Platone remoti del tatto da li corpi, stimando che ogni bellezza essenzia e sustanzia fusse ne le idee e niente nel mondo corporeo; vedendoli che perciò si facevano negligenti ne la cognizione de le cose corporee, e in li suoi atti moti e alterazioni naturali, ne le cause de la sua generazione e corruzione (de la qual negligenzia verria a risultare difetto e mancamento ne la cognizione astratta de li suoi spirituali principi, però che la gran cognizione degli effetti al fine induce perfetta cognizione de le lor cause), — però gli parve tempo di temperare l’estremo in questo, qual forse in processo verria a escedere la mèta platonica: e dimostrò (come t’ho detto) essere propriamente nel mondo corporeo essenzie e sustanzie prodotte e causate da le idee, ed essere in quello ancora vere bellezze, ben che dependenti da le purissime e perfettissime ideali. Sí che Platone fu medico curatore di malattia con escesso, e Aristotile medico conservatore di sanitá, giá indotta da l’opera di Platone, con l’uso del temperamento.
Sofia. Non poca satisfazione ho avuto in conoscere che vuol dire idee, e come il essere è necessario, e che ancora Aristotile non le nieghi assolutamente, e la differenzia che è fra lui e Platone ne l’intendere e parlare di quelle: e di questo non ti domandarò piú, per non levarti dal nostro proposito de la bellezza. E tornando in quello, tu m’hai detto che le vere bellezze sono le idee intellettuali, ovvero le notizie esemplari de l’ordine de l’universo e de le sue parti, preesistenti ne la mente del sommo opifice di quello, cioè nel primo intelletto divino: ne le quali se bene mi par da concedere sia bellezza maggiore e prima che la corporea, come causa di quella, non mi par giá da concedere che le idee sieno la vera e assolutamente prima bellezza, per la quale ogni altra cosa è bella o bellezza. Però che le idee son molte, come conviene dire sieno le notizie esemplari de l’universo e di tutte le sue parti, che sono tante che quasi sariano innumerabili; e se ognuna di quelle idee è bella o bellezza, bisogna che la vera e prima bellezza sia altra più superiore che le idee, per participazione de la quale ogni idea è bella o bellezza: che se la vera fusse propria di una di quelle idee, nissuna de le altre non saria vera bellezza, né prima, ma seconda per participazione di quella prima. Bisogna adunque che tu mi dichiari quale è la prima vera bellezza, di che tutte l’idee la pigliano, poiché la bellezza ideale non satisfa in questo per la sua multitudine.
Filone. Mi piace questo dubio che hai mosso, però che la soluzione di quello porrá termine satisfattorio al tuo desiderio di saper qual sia la vera e prima bellezza. E prima ti dirò che t’inganni credendo che ne l’idee sia diversitá e multitudine divisa, cosí come ne le parti mondane che dependano da quelle: perché li defetti degli effetti non provengono e non si truovano ne le perfette cause loro, ma sono propri in l’effetti perciò che sono effetti, e per suo essere effettivo sono molto distanti da la perfezione de la causa; e però cadeno in loro defetti che non preesistono né vengano da le sue cause.
Sofia. Anzi par che da le buone cause venghino li buoni effetti, e che gli effetti debbino essere cosí simili a le cause, che per loro si possino conoscere le sue cause.
Filone. Se bene da la buona causa viene buono effetto, non perciò la bontá e perfezione de l’effetto si equipera a quella de la causa; e se bene l’effetto somiglia a la sua causa, non però l’agguaglia ne le cose perfettive. È ben vero che la perfezione de la causa induce perfezione ne l’effetto proporzionata a esso effetto, ma non eguale a quella che ’l causa: ché cosí saria l’effetto causa e non effetto, o la causa effetto e non causa. È ben vero che cosí buono e perfetto è l’effetto per effetto come la causa per causa, ma non sono solamente eguali in perfezione: anzi l’effetto manca assai de la perfezione de la sua causa, e perciò si truovan in lui de li defetti che non si truovano ne la causa.
Sofia. Intendo la ragione, ma vorrei qualche esemplo.
Filone. Tu sai che ’l mondo corporeo procede da l’incorporeo come proprio effetto de la sua causa e artefice: niente di manco il corporeo non contiene la perfezione de l’incorporeo; e tu vedi quanto manca il corpo da l’intelletto. E se truovi nel corpo molti defetti, (come la dimensione, la divisione, in alcuni l’alterazione, la corruzione), non però giudicarai che preesistino ne le lor cause intellettuali in modo defettuoso, ma giudicarai che ciò sia ne l’effetto solamente per il mancamento suo de la causa: cosí la pluralitá divisione e diversitá che si truovano ne le cose mondane, non credere che preesistino ne le notizie ideali loro; anzi quello che è uno indivisibile ne l’intelletto divino, si multiplica idealmente verso le parti del mondo causate, e in rispetto di quelle le idee sono molte, ma con esso intelletto è una e indivisibile.
Sofia. Come vuoi tu che le notizie di molte e diverse cose sia una in sé?
Filone. Queste molte cose non sono parti de l’universo?
Sofia. Sono.
Filone. E tutto l’universo con tutte le sue parti non è uno in sé?
Sofia. Uno veramente.
Filone. Adunque la notizia de l’universo e la idea di quello è una in sé, e non molte.
Sofia. Sí: ma come l’universo essendo uno ha molte parti diversamente essenziale, cosí quella notizia e idea de l’universo averá in sé molte diverse idee.
Filone. Quando bene ti concedessi che la idea de l’universo contiene molte idee diverse de le parti di quello, non è dubio che cosí come la bellezza de l’universo precede la bellezza de le sue parti, però che la bellezza di ciascuna è participata de la bellezza del tutto, cosí la bellezza de l’idea di tutto l’universo precede la bellezza de le idee parziali, ed ella, come prima, è vera bellezza, e participandosi a l’altre idee parziali le fa belle gradualmente. Massime che la multiplicazione de le idee separatamente non è da concedere: però che ancora che la prima idea de l’universo, che è in mente del sommo opifice di quello, sia multifaria con ordine a l’essenziali parti di quello, non però quella multifarietá induce in lei diversitá essenziale separabile né partizione dimensionaria né diviso numero, come fa ne le parti de l’universo; ma è talmente multifaria che resta in sé indivisibile, pura e simplicissima, e in perfetta unitá continente la pluralitá di tutte le parti de l’universo prodotto insieme con tutto l’ordine de’ suoi gradi, di sorte che dove è una sono tutte, e le tutte non levano l’unitá de l’una. Ivi l’un contrario non è diviso in luogo de l’altro, né diverso in essenzia opponente; ma insieme in la idea del fuoco è quella de l’acqua; e in quella del simplice è quella del composto, e in quella d’ogni parte è quella de l’universo tutto, e in quella del tutto quella di ciascuna de le parti: di sorte che la multitudine ne l’intelletto del primo opifice è la pura unitá, e la diversitá è la vera identitá, in tal maniera che piú presto questa cosa l’uomo la può comprendere con mente astratta che dir con lingua corporea, però che la materialitá de le parole impedisce la precisa ostensione di tanta puritá, longhissima dal corporeo depingere.
Sofia. Mi par intendere questa sublime astrazione, come ne l’unitá consiste multifaria causazione, e come de l’uno simplicissimo dependano molte diverse separate cose: ma se pur mi desse qualche esemplo sensibile, molto mi piaceria.
Filone. Mi ricordo in quello giá averti dato uno esemplo visibile, del sole con tutti li colori e luce corporea particolare: però che, [se bene] tutti dependano da lui, e in lui consisteno come in idea tutte l’essenzie de li colori e luce de l’universo con tutti li gradi suoi, nondimeno in lui non sono cosí multiplicati e divisi come ne li corpi inferiori inluminati da esso, ma in una essenzial luce solare, la quale con la sua unitá contiene tutti li gradi e differenzie de li colori e luce de l’universo. Però vedrai che, quando esso puro sole s’imprime ne le nubi umide opposite, fa l’arco chiamato iris, composto da molti complicati e diversi colori, di tal sorte che non potrai conoscere se non tutti insieme o ciascuno per sé; e cosí quando si representa esso sole ne li nostri occhi, causa ne la nostra pupilla una moltitudine di colori e luci diverse tutte insieme, di modo che sentiamo la multiplicazione che è con l’unitá, senza posser dare fra loro diversitá alcuna separabile. E in questo modo fa ogni cosa lustra, che s’imprime ne l’aere e ne l’acqua con moltitudine di colori e di luce insieme senza separazione, essendo lei una simplice: sí che la simplicissima luce solare, perché in sé contiene in unitá tutti li gradi de la luce o colori, si representa con moltitudine di colori e di luce ne li corpi diversi separatamente, e ne li nostri occhi e ne li nostri diafani (come l’aere e l’acqua) con multifari e lucidi colori tutto insieme; però che il diafano è manco distante da la sua simplicitá che l’opaco corpo, per riceverla unitamente. Di questo modo l’intelletto del sommo opifice imprime la sua pura e bellissima idea, continente tutti li gradi essenziali de la bellezza de’ corpi de l’universo, con moltitudine separata di belle essenzie e diversi gradi graduati; e nel nostro intelletto e negli altri angelici e celesti si rappresenta con multifaria unita bellezza senza alcuna separata divisione: e tanto la moltitudine è piú unita, quanto l’intelletto recipiente di quella è piú eccellente in attualitá e chiarezza; e la maggiore unione gli causa maggiore bellezza e piú propinqua de la prima e vera bellezza de la idea intellettuale che è ne la mente divina. E per maggiore tua satisfazione, oltre a questo esemplo del simulacro del sole te ne dirò un altro de l’intelletto umano, che è conforme in natura a l’esemplare. Tu vedi che uno simplice intellettuale concetto si rappresenta in la nostra fantasia, ovvero si conserva in la nostra memoria, non in quella unica simplicitá ma in una multifaria e unita immaginazione, emanante da l’unico e simplice concetto, e si rappresenta in la nostra prolazione con moltitudine separata di voci divisamente numerate: però che in la nostra fantasia o memoria è la representazione del concetto del nostro intelletto a modo che ’l sole s’imprime nel diafano e la bellezza divina in ogni intelletto creato, e in la nostra prolazione s’imprime il concetto a modo che la luce del sole si rappresenta ne li corpi opachi e come la bellezza e la sapienza divina ne le diverse parti del mondo creato. Sí che non solamente ne la luce solare visiva puoi conoscere il simulacro de la participazione de la somma bellezza e sapienzia, ma ancora piú proprio simulacro ne la representazione de li nostri concetti intellettuali nel senso interiore o ne l’audito esteriore.
Sofia. Intera satisfazione m’ha dato con questo esemplo de la representazione de la luce solare ne le due maniere di recipiente, cioè grosso opaco e sottile diafano, a la representazione de la divina idea intellettuale ne l’universo creato ne le due nature recipienti, cioè la corporea e la spirituale intellettiva. Il qual sole con la sua luce (come giá m’hai detto) è non solamente esemplo de la idea e intelletto divino, ma vero simulacro fatto da lui a la sua immagine: però che del modo che ’l sole participa la sua lucida bellezza estensamente o separatamente a li diversi corpi grossi opachi, participa l’intelletto divino la sua ideal bellezza estensamente e separatamente in tutte l’essenzie de le diverse parti corporee de l’universo, e al modo che ’l sole participa la sua bella e risplendente luciditá con multifaria unitá ne li corpi sottili diafani, cosí participa esso intelletto divino la sua bellezza ideale con multifaria unitá ne l’intelletti prodotti, umani celesti e angelici. Ma solamente una cosa desidero sapere toccante a la prima bellezza, che tu la poni essere forma esemplare ovvero idea di tutto l’universo prodotto, cosí corporeo come spirituale, cioè la notizia e ordine di quello preesistente ne la mente o intelletto divino, secondo il quale esso con tutte le sue parti fu prodotto. Essendo questa idea de l’universo la prima e vera bellezza (come dici), seguiria che la bellezza del mondo in forma saria sopra ogni altra bellezza, come prima; che a me pare fuor di ragione, però che la bellezza di esso intelletto o mente divina precede manifestamente a la bellezza de l’idea e notizia esemplare, che è in lui e da lui prodotta, come precede la bellezza de la causa produttiva quella de l’effetto: non è adunque essa idea la prima bellezza, come dici, ma quella de l’intelletto e mente divina, de la quale emana lei e sua bellezza.
Filone. Il tuo dubio viene da fallace e insufficiente cognizione, causata dal necessario uso de l’impropri vocabuli: però che, perché diciamo che la idea del mondo è ne l’intelletto o mente divina, tu pensi che sia altra la idea da esso intelletto e mente, in quale è.
Sofia. Bisogna pur dirlo, ché la cosa che esiste in alcuno è altra di necessitá che quello in che esiste.
Filone. Sí, se propriamente stesse in quello: ma la idea non propriamente esiste ne l’intelletto, anzi è il medesimo intelletto e mente divina; però che la idea del mondo è la somma sapienzia, per la quale il mondo fu fatto, e la sapienzia divina è il verbo, e l’intelletto suo la sua propria mente, però che non solamente in lui ma ancora in ogni intelletto prodotto in atto la sapienzia e l’intenzione e il medesimo intelletto è una medesima cosa in sé, e solamente appresso di noi è in questi tre modi rappresentata la sua simplicissima e pura unione: tanto piú nel sommo e purissimo intelletto divino, che è a tutti modi uno medesimo con la sapienzia ideale. Sí che la bellezza di essa idea è la medesima bellezza de l’intelletto, non che sia in lui la bellezza come in suggetto, ma il medesimo intelletto o idea è la medesima prima bellezza, per la quale ogni cosa è bella.
Sofia. Adunque tu non vuoi che sia altro la mente e intelletto divino che l’esemplo de l’universo, per il quale fu prodotto.
Filone. Non altro, veramente.
Sofia. Saria adunque l’intelletto divino solamente per servire a l’essere del mondo, poi che non è altro che l’esemplo da produrlo, e in se stesso nessuna eccellenzia averia.
Filone. Questo non segue, perché l’intelletto divino è per sé eccellentissimo ed eminentissimo sopra tutto l’universo prodotto; e se bene ti dico che è esemplo di quello, non voglio giá dire che sia fatto per lui come instrumento e modello per le cose artifiziate: ma dico che, essendo lui perfettissimo, resulta e deriva da lui tutto l’universo a similitudine sua come sua immagine; e lui è tanto piú eccellente che l’universo, quanto è la vera persona piú che la sua immagine e la luce piú che la proporzionata ombra. E però quella somma bellezza che è in sé, è purissima simplicissima e in perfettissima unitá, e ne l’universo si produce in unitá multifaria de l’unico tutto con le molte parti, in gran distanzia di perfezione da lui come è de l’effetto a la eminente causa (secondo t’ho detto).
Sofia. M’acquieta l’animo questa teologica e astratta unione; e conosco che la somma bellezza è la prima sapienzia, e quella, participata ne l’universo, tutto e ognuna de le sue parti fa belle: sí che nissuna altra bellezza è che sapienza participabile ovvero participata, l’una producente e l’altra prodotta, l’una purissima e sommamente una, e l’altra diffusa estensa separata e multiplicata, ma sempre a immagine di quella somma e vera bellezza, prima sapienzia. Ma solamente a una cosa voglio ancora che m’acquieti l’animo, che, essendo la prima bellezza (come hai detto) essa sapienzia divina, idea de l’universo ovvero intelletto prodotto o la mente sua, pareria che la bellezza di esso Dio precedessi a quella e fusse la vera e prima bellezza, e l’altra, che fai prima, par piú presto seconda, però che ’l sapiente precede a la sapienzia e l’intelligente a l’intelletto. Debbe adunque essere la prima bellezza quella del sommo sapiente e intelligente, e la seconda quella del suo intelletto e somma sapienzia: tanto più che essa sapienzia è l’idea de l’universo, esemplo e modello de l’artifiziato mondo (come hai detto), a la quale è bisogno che conceda che preceda esso sommo opifice, però che l’architettore bisogna che preceda a l’esemplare, modello del suo artifizio, e che ’l modello sia primo causato da l’architettore, e mediante quello l’opera artifiziata; e precedendo il sommo opifice a l’idea de l’universo, bisogna che la bellezza sua sia prima de la idea, cosí come la bellezza de la idea è la prima bellezza di esso universo prodotto. È adunque la bellezza de la idea e intelletto primo, ovvero de la mente e sapienzia divina, seconda in ordine de la bellezza, e non prima, e la prima saria quella del sommo opifice, e non l’idea (come hai detto).
Filone. Non mi dispiace che abbi mosso ancora questo dubio, però che la soluzione di quello ti condurrá nel termine finale di questa materia e te integrará nel conoscimento de la somma e vera bellezza, sopra tutte l’altre prima ed eminentissima. Prima ti solverò il tuo dubio con assai facilitá, mostrandoti che ’l primo intelletto (di mente d’Aristotile) è uno medesimo col sommo Iddio, in nissuna cosa diverso se non [ne] li vocaboli e modi di filosofare appresso di noi de la sua simplicissima unitá: però che egli tiene che l’essenzia divina non sia altro che somma sapienzia e intelletto; la qual essendo purissima e simplicissima unitá, produce l’unico universo con tutte le sue parti ordinate ne l’unione del tutto, e, cosí come il produce, il conosce tutto e tutte le suoi parti e parti de le parti in una simplicissima cognizione, cioè conoscendo se stesso, che è la somma sapienzia, di che tutto dipende come immagine e simulacro di quello. E in lui è il medesimo il conoscente e il conosciuto, il sapiente e la sapienzia, l’intelligente e l’intelletto e la cosa intesa da lui: in la quale, essendo simplicissimamente una senza multiplicazione alcuna, consiste la perfettissima cognizione de l’universo tutto e d’ognuna de le cose prodotte, molto piú eminente perfetta e distintamente e in molto piú preciso modo che in la cognizione che si piglia de le cose istesse divisamente d’ognuna, però che questa cognizione è causata da le cose cognite, e secondo quelle divisa e multiplicata e imperfetta. Ma quella cognizione è prima causa di tutte le cose e di ciascuna per sé, e però è libera de li defetti de li effetti ne la cognizione di quelli, e può con unitá e simplicitá de l’intelletto avere infinita e perfettissima cognizione di tutto l’universo e d’ognuna de le cose prodotte fino a l’ultima parte di quello. Strologhizando adunque per questa peripatetica via de l’essenzia divina, la soluzione del tuo dubio è manifesta: ché essendo Dio la sua medesima sapienzia, primo intelletto, idea de l’universo, la sua bellezza è quella medesima de la sapienzia e intelletto suo, idea del tutto; e quella (come t’ho detto) è la vera e prima bellezza, per la participazione de la quale, secondo piú o manco, ogni cosa de l’universo viene piú e meno bella; e il medesimo universo tutto continente è quel che piú la participa, come sua propria immagine, e de le parti sue la natura intellettuale è quella in che piú simile e piú perfettamente s’imprime, e piú riceve de li suoi cari raggi.
Sofia. Di poi questa integrazione, non mi resta piú sete desiderativa di nuovo poto in questa materia, però che talmente m’ha saziato questa tua ultima resoluzione, che piú presto procuro che ’l mio intelletto s’informi essenzialmente di quella che cercare piú nuove cose. Niente di manco, perché tu chiamasti questa prima via de la mia satisfazione peripatetica, se forse ne fusse qualch’altra che mi bisognasse intendere, ti prego che me la comunichi, avvenga che io nol meriti per propria acquisizione.
Filone. È bene altra via da risponderti al tuo dubio, concedendoti che la sapienzia e intelletto divino, idea de l’universo, è in alcun modo distinta e altra dal sommo Iddio: però che Platone pare che cosí l’affermi. Egli tiene che l’intelletto e sapienzia divina, che è il verbo ideale, non sia propriamente il sommo Iddio, né manco in tutto altro e distinto da lui, ma che sia una sua cosa dependente ed emanante da lui e non separata né distinta da lui realmente, come la luce del sole. Questo suo intelletto, ovvero sapienzia, chiama opifice del mondo, idea di quello, e continente ne la sua simplicitá e unitá tutte l’essenzie e forme de l’universo, le quali chiama idee: cioè che in la somma sapienzia si contengano tutte le notizie de l’universo e di tutte le sue parti, de le quali notizie tutte le cose sono prodotte e conosciute giuntamente. Il sommo Dio (il quale egli qualche volta chiama sommo buono) dice essere sopra il primo intelletto, cioè quell’origine da chi il primo intelletto emana; e dice che non è ente, ma sopra ente, però che l’essenzia prima è il primo ente e il primo intelletto è prima idea: e tanto il truova occulto da la pura astratta mente umana, che appena truova nome che imponerli, e però il piú de le volte il nomina ipse senza altra proprietá di nome, temendo che nissun nome che la mente umana possa produrre, e la lingua materiale possa proferire, non sia capace di nissuna proprietá del sommo Dio. E giá alcuni peripatetici volsero seguire (ben che imperfettamente) questa via: come furono Avicenna e Algazeli e rabi Moises nostro e loro seguaci, li quali dicono che ’l motore del primo cielo e corpo, che contiene tutto l’universo, non è la prima causa ma il primo intelletto o intelligente, prima e immediatamente prodotto da la prima causa, la quale è sopra ogni intelletto e sopra tutti li motori del corpo celeste (secondo piú largamente hai inteso quando de la comunitá de l’amore abbiam parlato). Ma io di questa oppinione non ti dirò altro, però che fu una composizione de le due vie teologali d’Aristotile e Platone, piú bassa e minoretta, meno astratta che nissuna di quelle.
Sofia. Secondo questa via platonica il mio dubio mi par efficace, però che, precedendo il sommo Dio al primo intelletto, la divina sua bellezza debba essere la vera e prima bellezza, non quella del primo intelletto, come hai detto.
Filone. Giá io era per solverlo. Sai che ’l sommo Iddio non è bellezza ma primo origine de la sua bellezza; e la sua bellezza, cioè quella che da lui prima emana, è la sua somma sapienzia, ovvero intelletto e mente ideale: si che questa, se bene è emanante da Dio e dependente da lui, è niente di manco la prima e vera bellezza divina, però che esso Dio non è bellezza ma è origine de la prima e vera bellezza sua, che è la somma sua sapienzia e intelletto ideale. Sí che, concesso che Dio sapiente o intelligente precede a la sua somma sapienzia e intelletto, non però è da concedere che la bellezza sua preceda a la bellezza de la sua somma sapienzia, perché la sua sapienzia è la sua medesima bellezza; e la precedenzia che Dio ha a la sua sapienzia, l’ha a la sua bellezza, che è la prima e vera bellezza; ed egli, come autore de la sapienzia, non è bellezza né sapienzia, ma fontana onde emana la prima bellezza e somma sapienzia; e la bellezza che ha, è essa somma sapienzia sua, la quale comunicata fa bello tutto l’universo con tutte le sue parti. E cosí nel mondo sono tre gradi ne la bellezza: l’attore di quella, quella, il participante di quella, cioè bello bellificante, bellezza e bello bellificato; il bello bellificante, padre della bellezza, è il sommo Dio, e la bellezza è la somma sapienzia e primo intelletto ideale; il bello bellificato, figliuolo di essa bellezza, è l’universo prodotto.
Sofia. La suprema astrazione di questa seconda via di soluzione mi leva l’intelletto in tal modo, che appena mi pare esser mio e piú presto mi somiglia raggio di quel primo intelletto divino e somma sapienzia. Ma per mia satisfazione dimmi perché Dio, sommo buono, tu nol chiami bellezza, come fai al suo primo intelletto, senza bisognare dare origine e principio a la prima bellezza come la dai a la sapienzia e intelletto primo.
Filone. Però che la sapienzia ha ragione di vera bellezza, e non è il sapiente dal quale emana; e la ragione è che la bellezza è cosa di sua bellezza, visibile o con gli occhi corporei o con quelli de l’intelletto, e per la complacenzia grazia amore e dilettazione che causa nel vidente si chiama bellezza, e (secondo t’ho detto) nissuna visione intellettuale prodotta può discernere piú che in la sapienzia divina. Ma il principio di quella, se ben conosce che è per il conoscimento che ha di essa sapienzia, non può discernere in lui stesso cosa quale il possa dire bellezza; e però intitula quello sommo bello origine e principio de la bellezza, e a la somma sapienzia, quale discerne per l’ordinata opera sua con sue proporzionate parti, chiama con ragione prima e vera bellezza, però che l’unitá di quella, per la sua continenzia di tutti li gradi essenziali ovvero ideali, si rappresenta sommamente bella ne l’intelletti che la possono contemplare: il quale non è possibile che s’abbi del purissimo e occulto origine di quella, che se non se li può dire nome che propriamente il significhi, come se li potrá appropriare bellezza? E giá in questo ti potrò dare per esemplo il sole, simulacro e immagine corporea de l’incorporea divinitá: però che la maggior bellezza che gli occhi corporei possono vedere del sole è la propria luce che lo circonda, e ancora in quella con grandissima difficultá si possono affissare gli occhi carnali per discernerlo; pure conoscano che quello è la prima e somma luce de l’universo, da la quale ogn’altra luce nel mondo depende, cosí come gli occhi intellettuali fanno de la somma sapienzia prima bellezza. Ma de la sustanzia intima del sole, di che quella prima circundante o collegata luce depende, gli occhi carnali nissuna luciditá bellezza o altro possono discernere, escetto conoscere che sia un corpo o sustanzia, che porge e produce quella sua bellissima luce congiunta a lui, da la quale tutte le luci e bellezze del mondo corporeo dependeno: cosí come gli occhi intellettuali non possono altro conoscere oltr’a la somma bellezza e sapienzia, se non che sia un sommo bello e sapiente, origine di quella; cosí come quella prima luce del sole è prodotta dal primo lucente e produce tutti li lucidi, che sono li belli corporei de l’universo, cosí quella somma sapienzia e bellezza depende dal sommo bello, ovvero bellificante, e fa per la sua participazione tutti li belli corporei e incorporei del mondo prodotto.
Sofia. Di poi di ciò non mi resta altro che domandarti, se non che tu mi dica quale di queste teologali vie è quella che piú t’acquieti l’animo.
Filone. Come ch’io sia mosaico ne la teologale sapienzia, m’abbraccio con questa seconda via, però che è veramente teologia mosaica: e Platone, come quel che maggior notizia aveva di questa antica sapienzia che Aristotile, la seguitò. Aristotile, la cui vista ne le cose astratte fu alquanto piú corta, non avendo la mostrazione de li nostri teologi antichi come Platone, negò quello ascoso che non ha possuto vedere, e gionse a la somma sapienzia, prima bellezza, de la quale il suo intelletto saziato, senza vedere piú oltre, affermò che quella fusse il primo principio incorporeo di tutte le cose. Ma Platone, avendo da li vecchi in Egitto imparato, potè piú oltre sentire; se ben non valse a vedere l’ascoso principio de la somma sapienzia o prima bellezza, e fece quella secondo principio de l’universo, dependente dal sommo Dio, primo principio di tutte le cose. E se bene Platone fu tanti anni maestro d’Aristotile, pure in quelle cose divine esso Platone (essendo discepolo de li nostri vecchi) imparò da migliori maestri che Aristotile da lui, ché ’l discepolo del discepolo non può arrivare al discipulo del maestro; ancor che Aristotile (se ben fu sottilissimo), mi credo che ne l’astrazione il suo ingegno non si potessi tanto sollevare come quello di Platone, ed egli non volle come gli altri credere del maestro quello che le proprie forze del suo ingegno non il dimostrassero.
Sofia. Io farò pure inseguire la tua dottrina a la platonica: intenderò quello che potrò, e il resto ti crederò, come a chi meglio e oltra di me vede. Ma vorria che mi mostrasse donde Moise e gli altri santi profeti significarono questa veritá platonica.
Filone. Le prime parole che Moise scrisse furono: «In principio creò Dio il cielo e la terra»; e l’antica interpretazione caldea disse, onde noi diciamo in principio, «con sapienzia creò Dio il cielo e la terra»: e perché la sapienzia si dice in ebraico principio (come disse Salamone), principio è sapienzia, e la dizione in può dire cum. Mira come [per] la prima cosa ne mostra che ’l mondo fu creato per sapienzia e che la sapienzia fu il primo principio creante, ma che ’l sommo Dio creatore mediante la sua somma sapienzia, prima bellezza, creò e fece bello tutto l’universo creato: sí che li primi vocabuli del sapiente Moise ne denotarono li tre gradi del bello, Dio sapienzia e mondo. E il sapientissimo re Salamone, come seguace e discepulo del divino Moise, dichiara questa sua prima sentenzia ne li Proverbi dicendo: «Il Signor con sapienzia fondò la terra, compose li cieli con somma scienzia; col suo intelletto l’abissi fûrno rotti e li cieli stillano la rosata». Onde egli dottrina dicendo: «Figliuolo mio, non le levare dinanzi a l’occhi tuoi: vedi e guarda le somme cogitazioni, le quali saranno vita de l’anima tua»; e non si potria giá questa cosa scrivere piú chiara.
Sofia. Ancora Aristotile concede che Dio ha fatto con sapienzia ogni cosa, come Platone: ma la differenzia è che egli pone la sapienzia essere una cosa medesima con Dio, e Platone dice che depende da lui. Tu che dici che ’l platonico è mosaico, vorria che mi mostrasse questa differenzia chiara ne l’antico.
Filone. I nostri primi ne le cose simili parlano precisamente; e non dicono: «Dio sapiente creò», ovvero «saviamente creò»: ma dissero: «Dio con sapienzia», per mostrare che Dio è il sommo creatore e la sapienzia è mezzo e instrumento, col quale fa la creazione. E questo vedrai piú chiaro nel detto del devoto re David, che dice: «Col verbo del signore li cieli fûro fatti, e col spirito de la bocca sua tutto l’esercito suo»; il verbo è la sapienzia, e somiglia al spirito che esce de la bocca, ché cosí la sapienzia emana dal primo sapiente, e non sono ambi una cosa medesima (come pone Aristotile). E per piú evidenzia mira quanto chiaramente il pone re Salamone, pur ne li Proverbi, che principia dicendo: «Io son la sapienzia», e dichiara come quella contiene tutte le virtú e bellezze de l’universo, scienzie prudenzie arti, le astinenti virtú; e in fine dice: «Io ho consiglio e ragione, io son intelletto, io ho la fortezza, e meco li re regnano e li grandi conoscono veritá; io amo li miei amatori, e li miei sollicitanti mi truovano; tutte le bellezze divine ho meco, degne e giuste, per participare a li miei amici assai ed empire li suoi tesori. E di poi che narrò (come vedi) a che modo da la sapienzia divina viene ogni sapere, virtú e bellezza de l’universo, le quali ella participa in gran copia a chi l’ama e sollicita, dichiarando di quanta somma sapienzia proviene; continua dicendo: «Il Signor mi produsse in principio de la via sua, innanzi de l’opere sue ab antico; ab eterno fui esaltata pel capo de le maggiori antichitá de la terra, prima che fussero l’abissi; io fui prodotta innanzi che fussero l’esuberanti origini de l’acqua, innanzi de li monti e valli e [di] tutte le polveri del mondo. Quando compose li cieli, ivi era io; e quando segnalò il termine sopra le faccie de l’abisso, quando pose il sito al mare e [a] l’acque che non passassero il suo comando, e quando assegnò il termine a li fondamenti de la terra, io allora era appresso di lui artifizio ovvero arte, esercitandomi in belli e dilettevoli artifizi, ogni dí giocando in presenzia sua, d’ogni ora giocante nel mondo e nel terreno suo e le delizie mie con li figli degli uomini. Onde, figliuoli miei, oditemi e guardate li miei precetti», et cetera. Mira, o Sofia, con quanta chiarezza ne mostrò questo sapientissimo re che quella somma sapienzia emana ed è prodotta dal sommo Dio, e non sono una medesima cosa (come vuole Aristotile): a la quale chiama principio de la via sua, però che la via di Dio è la creazione del mondo e la somma sapienzia è il principio di quella, col quale il mondo fu creato; dichiarando per la sapienzia il detto di Moise: «In principio creò Dio, et cetera». E dichiara questa come somma sapienzia essere la prima produzione divina, precedente a la creazione de l’universo, però che mediante lei tutto il mondo e le parti sue furono create; e la chiama (come Platone) arte o artifizio ovvero sommo opifice, però che essa è l’arte o l’artifizio con che tutto l’universo fu da Dio artifiziato, cioè esemplo o modello di quello; e dice che fu appresso di lui, per denotare che non è diviso essenzialmente l’emanante dal suo origine, ma congiunti. E dice come tutte le bellezze delettabili e deliziose vengono da lei, cosí nel mondo celeste come nel terrestre; e dichiara che le bellezze sue ne li terrestri sono basse e ridicule in respetto di quelle che essa imprime ne li figli degli uomini, però che (come t’ho detto), cosí come la bellezza de la luce del sole s’imprime piú perfettamente nel sottile diafano che ne l’opaco corpo, cosí la prima bellezza, somma sapienzia, s’imprime molto piú propria e perfettamente ne l’intelletti creati angelici e umani che in tutti gli altri corpi informati da lei ne l’universo. E non solamente questo sapientissimo re dichiarò questa emanazione ideale, principio di creazione, sotto spezie e nome di somma sapienzia; ma ancora la dichiarò sotto spezie e nome di bellezza ne la sua Cantica onde parlando di lei dice: «Bella sei tutta, compagna mia, e difetto non è in te». Mira quanto chiaro denota la somma bellezza ideale de la sapienzia divina, in porre la bellezza in tutta lei senza mescolanza d’alcuno difetto: ciò che non ti può dire nissuno bello per participazione, però che de la parte del recipiente il participante non è giá bello, e da quella parte è defettuoso, e chi participa bellezza non è tutto bello; e la chiama compagna perché l’accompagnò ne la creazione del mondo come l’arte a l’opifice. E in altra parte dichiara l’unitá e semplicitá di quella, quando dice: «Settanta sono le regine, et cetera; una è la mia colomba e la mia perfetta, et cetera»; e poi l’invoca dicendo: «Tu, mia colomba ascosa nel grado, mostra per me la tua presenzia, fammi ascoltare la tua voce, ché la tua presenzia è bella e la tua voce soave». Dichiarò la simplicissima unitá de la somma bellezza, e come sia occulta per il supremo grado che ha sopra tutti li enti creati; e l’invoca che vogli partecipare la bellezza ne li corpi de l’universo presenzialmente in modo visivo e apparente, e piú dice vocale e verbalmente, cioè in modo sapiente a l’intelletti creati. E molte altre cose de la somma bellezza descrive quello innamorato re ne la sua cantica, che lassarò per non essere prolisso; solamente ti dirò che cosí come denotò ne la ideale sapienzia la somma bellezza, cosí al sommo Dio da chi la bellezza emana chiamò sommo bello, dicendo: «Tu sei bello, mio amato, e ancora giocondissimo; ancora il nostro letto è fiorito». Vuol dire che non è bello, come gli altri, per participazione, ma supremo producente la bellezza; e denota la colligazione e coniunzione de la somma bellezza emanante col sommo bello di che emana, dicendo ch’il letto di ambidue è fiorito: vuol dire che Dio congionto con la somma bellezza fa fiorito e bello tutto l’universo. Ancora lui ne l’Ecclesiastes dichiara la bellezza participata in esso universo, dicendo: «Il tutto fece Dio bello in sua ora», pigliato parlare da Moise che dice: «Vidde Dio il tutto qual fece, ed era molto buono»; che in ogni parte de l’universo dice che Dio la vidde buona, e nel tutto dice che ’l vidde molto buono, e che il buono vuole dire bello, e però il gionta col vedere, perché la bontá che si vede è sempre bellezza; e dice: «chi lo vede? Dio buono», per dinotare che la visione divina e la sua somma sapienzia fece ogni parte del mondo bella, participando di bellezza, e il tutto fece bellissimo e buonissimo, imprimendo in quello tutta la sapienzia e bellezza divina giuntamente.
Sofia. Ti ringrazio della satisfazione de li miei dubi, e piú per essere stata con sí chiare e astratte notizie de la sacra e antica teologia mosaica; e mi chiamo satisfatta ne la cognizione de la vera bellezza, la quale conosco veramente essere la somma sapienzia divina, che in tutto l’universo resplende e ognuna de le sue parti col tutto bellifica. Voglio solamente che mi dica a che modo re Salamone ne la Cantica pone innamoramento fra il sommo bello ed essa somma bellezza: ché, essendo lui amante, saria inferiore a la bellezza amata (secondo ne hai mostrato), e tu il poni primo produttore di quella. Questo parrebbe discrepante.
Filone. Ancor questo ti dirò, per satisfazione tua. Sai che Salamone e gli altri teologi mosaici tengono che ’l mondo sia prodotto a modo di figlio dal sommo bello come padre e da essa somma sapienzia, vera bellezza, come di madre; e dicono che, la somma sapienzia innamorata del sommo bello come femmina del perfettissimo maschio, e il sommo bello reciprocando l’amore in lei, essa s’ingravida de la somma potestá del sommo bello e parturisce il bello universo, loro figlio, con tutte sue parti. E questa è la significazione de l’innamoramento che Salamone dice ne la Cantica, de la sua compagna col bellissimo amato, e perché egli ha prima e piú ragion d’amato in lei, per esser suo principio e producente, che ella in lui per essere prodotta e inferiore a quello, però vedrai che ella chiama sempre lui ‘mio amato’ come inferiore a superiore, e lui non la chiama mai ‘amata’ ma ‘compagna mia, colomba mia, perfetta mia, sorella mia’ come superiore a inferiore. Però che lei con l’amore di lui si fa perfetta, e leva la sterilitá ingravidandosi, e parturisce la perfezione de l’universo: ma l’amore in lui non è per acquistare perfezione, però che non se li può aggiugnere, ma per acquistarla a l’universo, generandolo come figlio d’ambidue; benché ancora in lui resulti perfezione relativa, ché ’l perfetto figlio fa perfetto padre, ma non essenziale e reale come fa in essa bellezza. E a immagine di questo si produce del maschio perfetto e [de] la femmina imperfetta l’individuo umano, che è microcosmo, cioè picciolo mondo; e ancora in cielo è il sole e la luna, che a modo d’uomo e donna innamorati, come t’ho detto, generano tutte le cose nel mondo inferiore.
Sofia. È adunque l’amoroso matrimonio de l’uomo e de la donna simulacro del sacro e divino matrimonio del sommo bello e [de] la somma bellezza, di che tutto l’universo proviene. Se non che, è differenzia ne la somma bellezza, che non solamente è mogliere del sommo bello, ma prima figliuola prodotta da lui.
Filone. Ancora in questo vedrai il simulacro nel primo matrimonio umano, ché Eva prima fu cavata di Adam come padre, e figlia sua, e poi gli fu mogliere in matrimonio. Di tutto questo discorso credo che debbi sufficientemente conoscere come l’amore de l’universo nacque de la prima bellezza come di padre, e de la cognizione che ha di lei la prima intelligenzia creata, motrice del sommo orbe che tutto l’universo corporeo contiene, desiderativa di quel che gli manca de la somma bellezza e de la cognizione di quella, come di madre. E cosí ogni particular amore si genera da la participazione di quella somma bellezza e de la cognizione di quella, a chi manca e desidera unirse con quella: e tanto l’amor è maggiore, quanto la participazione de la somma bellezza, o la cognizione di quella a chi manca, è piú copiosa; e tanto è piú eccellente l’amante, quanto è maggior la bellezza che s’ama, però che le cose grandemente belle fan molto belli li suoi amatori. Adunque è giusto, o Sofia, che lassiamo le piccole bellezze, miste con deformitá e brutti defetti, come sono tutte le bellezze materiali e corporee, e tanto amiamo di quelle quanto ne inducono a la cognizione e amore de le perfette bellezze incorporee, e tanto le odiamo e fuggiamo loro quanto ne impediscono la fruizione di quelle chiare e spirituali; e principalmente amiamo le grandi bellezze separate da la deforme materia e brutto corpo, come sono le virtú e scienzie, che sempre sono belle e prive di bruttezza e difetto; e ancora in quelle ascendiamo per le minori a le maggiori bellezze e per le chiare a le chiarissime, di sorte che ne portino a la cognizione e amore, non solamente de le bellissime intelligenzie anime e motrici de li corpi celesti, ma ancora di essa somma bellezza e di esso sommo bello, datore d’ogni bellezza vita intelligenzia ed essere. E questo potremo fare quando noi abbandonaremo le vesti corporee e le passioni materiali, non solamente sprezzando le loro piccole bellezze per quella somma, da la quale quella e le altre molto piú degne dependono, ma ancora odiandole e fuggendole, come quelle che ne impediscono l’arrivare a la vera bellezza, in che nostro ben consiste: e per veder quella bisogna vestirsi di monde e pure vesti spirituali, facendo come il sommo sacerdote, che quando nel dí sacro de le perdonanze intrava nel santo santorum, lasciava le dorate vesti piene di preziose gemme, e con vestimenti bianchi e candidi impetrava la grazia e la venia divina. Ché quando arrivará la nostra cognizione a la somma bellezza e sommo bello, il nostro amore sará sí ardente in lui, che ogni altra cosa abbandonará per amare solamente quella e quello con tutte le forze de l’anima nostra intellettuale unita in la sua pura mente; mediante il quale noi diventaremo bellissimi, ché gli amanti del sommo bello grandemente si bellificano de la sua somma bellezza: e allora fruiremo la sua soavissima unione, che è l’ultima felicitá e desiderata beatitudine de le chiarissime anime e puri intelletti. Però che, essendo il primo bello nostro progenitore e la prima bellezza nostra genitrice e la somma sapienzia nostra patria, onde siamo venuti, il bene e beatitudine nostra consiste in tornare in quella e aderirsi a li nostri parenti, felicitandone in la loro soave e visione e unione delettabile.
Sofia. Dio facci che non restiamo per la via privi di cosí soavissima dilettazione, e che siamo di quelli che sono eletti per arrivare a l’ultima felicitá e final beatitudine. E de la mia quarta dimanda, che è di chi l’amor nacque, io mi tengo non meno satisfatta da te che de l’altre tre, cioè se nacque, quando nacque, e onde nacque l’amore. Solamente ti resta a rispondere a la mia quinta dimanda, che è: perché nacque l’amore ne l’universo, e quale è il fine per il quale fu prodotto.
Filone. Secondo quello che hai inteso, in risposta de le quattro antecedenti questioni, del nascimento de l’amore, non bisogna dire longamente in risposta di questa ultima. Il fine, perché nacque l’amore in tutto l’universo, potremo facilmente conoscere quando consideraremo il fine de l’amore privato in ciascuno de l’individui umani e altri. Tu vedi che ’l fine d’ogni amore è la dilettazione de l’amante ne la cosa amata, cosí come il fin de l’odio è evitare la doglia che daria la cosa odiata: però che ’l fine che s’acquista per l’amore è contrario di quel che schiva l’odio, e cosí li mezzi loro sono contrari; e li mezzi de l’amore sono la speranza [e] il seguito del diletto, e quelli de l’odio sono il timore e la fuga de la doglia: adunque, se ’l fin de l’odio è appartare sé da la doglia come gattiva e brutta, è adunque il fin de l’amore approssimarsi al diletto come buono e bello.
Sofia. Tu affermi adunque, o Filone, che ’l fin di qualsivoglia amore sia la dilettazione?
Filone. Affermolo, certamente.
Sofia. Adunque non ogni amore è desiderio di bello, come hai diffinito?
Filone. A che modo ciò segue?
Sofia. Però che sono molte dilettazioni ne le quali non cade bellezza: anzi quelle che piú interamente dilettano, come sono quelle del gusto con la sua dolcezza, e quelle de l’odore con la sua soavitá, e quelle del tatto — non solamente con l’amena temperie, rimedio de l’escesso de l’un contrario con l’altro, reducente a temperamento, come del caldo col freddo e del freddo col caldo, del secco co l’umido e de l’umido col secco, e altri, [ma] spezialmente quella pongentissima dilettazione venerea che ogni diletto corporeo escede, — in nissuna di queste non cade bellezza, né si possono chiamare belle né difformi; e per te sono poste per fine d’amore, però che tutte s’acquistano mediante voglia e desiderio. Non è adunque la vera diffinizione d’amore desiderio di bello (come hai detto), ma desiderio di diletto, sia bello o non bello.
Filone. Ancora che (come giá t’ho detto) amore desiderio appetito voglia, e altri vocabuli simili, molte volte s’usino largamente in una medesima significazione, niente di manco, quando precisamente se deverá parlare, qualche differenzia sará ne li loro significati, in alcuni di diversitá e in alcuni di piú o manco comune. È ben vero che ogni amore è desiderio, ma non ogni desiderio è vero amore preciso, quale è quello che t’ho diffinito; però che con ogni dilettazione sta desiderio, e ogni desiderio è di dilettazione, ma non con ogni dilettazione sta amore, se ben con ogni amore sta dilettazione come proprio fine suo. Sono adunque parte de le dilettazioni fine d’ogni amore, e tutte fine di desiderio: e il desiderio si ha come un genero comune a l’amore e al non amore.
Sofia. È adunque una spezie del desiderio l’amore?
Filone. Sí, veramente.
Sofia. E l’altra spezie, che non è amore, come la chiamarai?
Filone. La chiamarò appetito, ovvero appetito carnale.
Sofia. Che differenzia fai da amore a appetito? non è un medesimo il fine di tutti due, cioè il delettabile? come li fai adunque cosí diversi?
Filone. È vero che ’l fine d’ognuno di loro è il diletto; ma de l’amore è fine il diletto bello, e de l’appetito è fine il diletto non bello.
Sofia. Se ’l fine de l’appetito fusse il diletto non bello, saria deforme: e oltra che è strano che ’l deforme ne diletti, però che la natura il fugge come contrario e séguita il bello come amato, è ancora impossibile, però che ogni deforme è gattivo e il desiderio non è mai di gattivo; ché Aristotile dice che ’l buono è quello che tutti desiano e appetiscono.
Filone. Giá mi ricordo averti di questo errore un’altra volta ripreso, che stimi che ogni non bello sia deforme, e non è cosí: ché molti sono che non sono belli né deformi, perché in la loro natura non cade alcuno de li due contrari, cioè bellezza né deformitá, e son pur dilettazioni come tutte quelle che m’hai nominato.
Sofia. Non mi negarai giá che ogni bello non sia buono.
Filone. No.
Sofia. Adunque il non bello è non buono, e ogni non buono è gattivo, ché fra loro non è mezzo (come m’hai detto); adunque ogni non bello è gattivo, e quelle dilettazioni che non sono belle, sarieno gattive: il che è falso, però che son desiderate, e ogni desiderato è buono.
Filone. Ancora in questo falli: ché, se bene ogni bello è buono, non ogni buono è bello; e se bene ogni non buono è gattivo e non è bello, non ogni non bello è gattivo e non buono, però che il buono è piú comune che il bello. E però è qualche buono bello e qualche buono non bello; e ogni diletto è buono in quanto diletta, e perciò si desidera, ma non ogni diletto è bello: anzi sono de li diletti buoni e belli, e questi son fine di desiderio che è amore, e sono altri diletti buoni e non belli, come quelli che hai nominato, che sono fine di desiderio che non è amore, ma propriamente appetito, cioè carnale.
Sofia. Intendo bene la differenzia che poni infra ’l desiderio amoroso e appetito, e come de l’amoroso sono fine de le dilettazioni le buone e belle, e de l’appetitoso le buone e non belle; e mi maraviglio, perché m’hai consentito e poni, che ogni dilettazione è buona, però che è desiderata, e ogni desiderato è buono. Il qual se bene si piglia d’Aristotile, che diffiní il buono esser quello che si desidera, e, per la conversione de la diffínizione col diffinito, cosí come ogni buono è desiato bisogna che ogni desiato sia buono: niente di manco ne vediamo il contrario, che molte dilettazioni non sono buone, anzi gattive perniziose e nocive, non solamente a la sanitá e vita del corpo umano ma ancora a la salute e vita de l’anima sua, e pur da molti son desiderate, ché altrimenti non si seguirieno; sí che non ogni desiderio è di cosa buona, né ogni desiderio è buono, né ogni dilettazione è buona, ma molti di quelli desidéri e diletti sono contrari e minatori del bene umano.
Filone. Per il ditto d’Aristotile non saria da concedere che ogni desiderato fusse buono, però che egli non dice che ’l buono è quel che si desia, ma dice che ’l buono è quel che tutti desiano: e questa diffínizione si converte bene con esso buono diffinito, però che quel che tutti desiano è veramente buono.
Sofia. E quale può essere questo buono, che gli uomini desiderano?
Filone. Lui medesimo Aristotile il dichiara, e dice che è il sapere; e principia la sua Metafisica: «Tutti gli uomini naturalmente desiano sapere», questo è non solamente buono, ma vero e sempre bello: sí che Aristotile non ne constringe però a dire che ogni desiderato sia buono.
Sofia. Adunque perché me l’hai consentito, e ancor confirmato?
Filone. Però che in effetto è cosí, che ’l fine de la volontá e desiderio è il buono, e tutto quel che si desidera è sotto spezie di buono e delettabile, e cosí ogni delettabile (in quanto delettabile) bisogna che sia buono e desiderato: ma li desidéri e dilettazioni desiderate sono come li desideranti, che alcuni sono temperati in sé e cosí li suoi desidéri sono dilettazioni temperate, e altri desideranti sono in sé stemperati e cosí li suoi desidéri sono di dilettazioni stemperate.
Sofia. Adunque non sarieno buone.
Filone. Non sono buone veramente in sé, ma son buone a lui, perché gli paiano buone: e sotto specie di buone le desia, perché il stemperamento de la sua complessione il fa errare, prima nel giudizio e di poi nel desiderio e ne la dilettazione desiata, che essendo gattiva la reputa buona.
Sofia. Adunque sono de le dilettazioni che non son buone se bene il paiano, e desidéri di cose non buone; contrario di quello che m’hai concesso e affirmato.
Filone. Cosí come ogni delettabile par buono, cosí participa qualche cosa buona che ’l fa parer buono, e il desiderio tende in lui da la parte del buono qual participa; e tu vedi che la dilettazione (in quanto dilettazione) è buona cosa, cosí come la doglia, contraria di quella, (in quanto doglia) è gattiva: non è adunque senza ragione che, sí come ogni doglia s’aborrisce teme e fugge, cosí ogni dilettazione si desideri speri e segua.
Sofia. Adunque come dici che molte dilettazioni son gattive e stemperate, e cosí li desidéri e li desideranti di quelli?
Filone. Può stare in un suggetto bene e male, non da una parte ma da diverse, perché può essere una cosa buona in piccola parte sua e apparente, ma gattiva ne la maggior parte sua e piú intimamente ed esistentemente. E tali sono le gattive e stemperate dilettazioni, che, in quanto dilettano, sono e paiono buone, ma in se stesse son gattive, però che ’l bene che hanno de la sua forma è unito con la malizia de la materia e sommerso in quella. Onde sono in sé gattive, e hanno qualche cosa di buono apparente che diletta; e ancora questo non è buono assoluto, né apparente né delettabile a tutti, ma solo a li suoi stemperati desideranti, che sono tirati nel desiderio del minimo bene loro, senza considerazione del superchio male che ha sotto di lui; ma li temperati non inganna quel poco bene apparente, perché conoscono il troppo male con che è misto, onde non il giudicano essere delettabile né desiderabile, ma vera doglia, la quale si debba aborrire temere e fuggire. E di questi si truovano assai ne l’appetito carnale, ché la maggior parte de le dilettazioni del gusto e del tatto venereo e altre mollicie sono gattive e perniziose.
Sofia. E sono alcune di queste carnali dilettazioni che sono pur veramente buone?
Filone. Sí, quelle che sono temperate necessarie a la vita umana e a la progenie; le quali, se ben sono dilettazioni carnali, sono e si chiamano oneste, però che sono misurate e temperate da l’intelletto, principio de l’onestá; e li desideranti e desidéri di quelle sono veramente virtuosi e onesti.
Sofia. Ne le belle dilettazioni è forse questa differenzia ancora di buone e gattive, come in quelle che non sono?
Filone. Anzi assai: però che molte cose sono amate per belle, che se bene hanno qualche formale bellezza apparente che le fa amate, quella è tanto vinta de la deformitá e bruttezza de la lor materia, che sono veramente brutte, non amabili ma odiabili e da fuggire: e di questa sorta è la bellezza de l’oro ornamenti gioie e de l’altre cose materiali superflue non necessarie a la vita, l’amore de le quali propriamente si chiama cupiditá e avarizia. E cosí paiano belli li ragionamenti, orazioni e versi che sono faceti e consonanti e contengono sentenzie disoneste e brutte, e cosí tutte le vaghe fantasie, e belli disegni a l’apparenzia, che da l’intellettuale ragione sono giudicate brutte: e di questa sorte sono l’illicita gloria e onore e ingiusto dominio e imperio, che come belli apparenti sono desiati, essendo in sé deformi e disonesti; l’amore de’ quali si dice ambizione, e il desio di tutte le spezie de le cose desiate, belle e buone apparenti e non esistenti, comunemente si chiama libidine.
Sofia. Sono dunque secondo questo quattro maniere di dilettazioni, due buone e belle e due buone e non belle: l’una de le buone e belle è esistente e l’altra è apparente, e cosí l’una de le buone e non belle è di buono esistente e l’altra di buono apparente. Sariano cosí forse tante differenzie ne li desidéri e ne li desideranti?
Filone. Ne li desidéri sí, che hanno tutte quattro le differenzie de le dilettazioni desiderate; ma ne li desideranti non bisogna porre piú che due spezie, cioè temperato o stemperato, ovvero onesto o disonesto. Li temperati de le belle bellezze e buone, e di quelle che sono belle e non buone, desiano quelle che sono tali in vera esistenzia, e non solo in apparenzia; ma li desideranti stemperati desiano quelle dilettazioni che sono belle, ovvero buone, in apparenzia, non in vera esistenzia: e questa differenzia procede da la bontá e bellezza che è ne l’anime de li desideranti, che quello che è buono e bello ama le dilettazioni veramente belle e desia le veramente buone, e quello che non ha bene né bellezza esistente, ma solamente apparente, ama le dilettazioni belle apparentemente e non in esistente veritá. Benché ancora fra queste due si truovino mezzi composti d’ambidue, che alcuni sono temperati e onesti circa alcune de le dilettazioni e circa de l’altre stemperati, e alcuni per la maggiore e principal parte sono temperati e nel manco stemperati, e altri al contrario; e pur debbono sortir il nome di quello a che piú sono inclinati, onesto o disonesto.
Sofia. Intendo a che modo ogni dilettazione è buona, apparente o esistente, e perciò è desiata; e quelle che oltra de l’essere buone sono belle apparenti o esistenti, non solamente si desiano ma ancora s’amano: e perciò hai detto che ’l fine de l’amore è la dilettazione de l’amante ne la cosa amata, e cosí debbe essere il fine del desiderio dilettazione del desiderante ne la cosa desiderata; poi che non è fra loro altra differenzia, se non che ’l desiderante non amante desia sotto spezie di buono non bello, esistente o a lui apparente, e il desiderante amante ama sotto spezie di buono bello, o che sia bello o che gli paia. Ma vorria saper da te, o Filone, come si conforma questo fine de l’amore con quello che m’hai detto ne la sua prima diffinizione, che è desiderio d’unione: che l’unione pare che sia altra cosa che la dilettazione.
Filone. Anzi è quella medesima: ché non è altro la dilettazione che l’unione del delettabile, e il delettabile (come t’ho detto) o è solo buono o ancora bello ovvero pare al desiderante; sí che dire del fine d’amore che è la dilettazione de l’amante ne la cosa amata, è quanto dire l’unione de l’amante con la cosa amata.
Sofia. Ancora questo intendo: ma in dubio mi resta ancora, che tu fai fine d’ogni amore la dilettazione; a questo modo ogni amore saria del delettabile: e tu di mente di Aristotile m’hai detto che sono tre amori, quello del delettabile, quello de l’utile, quello de l’onesto. Come adunque tu, lasciando li due principali, il fai tutto del delettabile, ponendo il fine de l’amore solamente in dilettazione?
Filone. Se ben Aristotile parte l’amore in tre (come hai detto), e uno di loro chiama solamente delettabile, sappi che ’l fine di ciascuno de li tre è la dilettazione: però che, cosí come quel che ama le dilettazioni corporee procura dilettarsi ne l’unione di quelle cose, e chi ama le cose utili e desia possederle, è per la dilettazione che fruisce nel loro acquisto e possessione (trovarai molti a chi molto piú diletta il guadagno de l’utile che il dolce mangiare e bevere e li venerei atti, onde molte volte li lasciano per seguitare l’utile), — e cosí l’onesto a chi l’ama è sommamente delettabile e l’amante desidera fruire la dilettazione de l’onesto acquisto: si che il fine d’ognuno di questi tre amori ultimamente è dilettarsi l’amante in l’unione de la cosa amata, sia delettabile o utile ovvero onesta.
Sofia. Adunque perché Aristotile chiama l’uno solamente amore del delettabile, e gli altri nomina altrimenti?
Filone. Però che vulgarmente le dilettazioni carnali si chiamano e son tenute propriamente dilettazioni. Non perché le siano veramente: però che la minore dilettazione consiste in quelle, per essere basse materiali e la maggior parte loro prive de la bellezza, e piú veramente si desiano che amano (come hai inteso), e se hanno qualche bellezza quella è si vinta da la bruttezza da la materia, che è sommersa in la sua deformitá, e la loro bontá in la malizia di quella; onde il buono e bello che in quelle si trova è solo apparente e non esistente. Ma Aristotile, secondo l’oppinione vulgare, l’intitulò in nome di delettabile; e a l’utile (avvenga che manco a molti non diletti) a differenzia di questo il chiama utile, cosí per avere l’utilitá oltra la dilettazione come principalmente perché la dilettazione sua, per essere ne la spirituale immaginazione, non è cosí materialmente sensata come la carnale; e a l’onesto, se bene è molto piú e piú veramente delettabile che gli altri due, il chiama onesto, cosí per l’onestá e sua propria differenzia come perchè la dilettazione sua, per essere ne la mente spirituale, non è materialmente sensata come il delettabile carnale; il quale (come t’ho detto), se bene è il piú apparente al vulgo degli uomini e ancora a le bestie, è in effetto poco o niente esistente in bontá né bellezza.
Sofia. Come no? ne le dilettazioni carnali non vedi tu che ne sono molte che sono necessarie a la sostentazione de l’individuo e a la conservazione de la spezie? onde da la natura di mente del sommo opifice con mirabil arte e sottilissima sapienzia in li suoi organi propri con soavissimo diletto furono ordinate e dedicate. Come adunque le tali dilettazioni non sono vere buone, se bene sono carnali, ma solamente apparenti (come dici)? Questo non è giá verisimile.
Filone. Di questa sorte di dilettazioni non ho detto mai che fossero gattive e solamente buone in apparenzia: anzi t’affermo che sono veramente buone.
Sofia. Sono pur dilettazioni carnali, e l’amor loro è de la parte del delettabile.
Filone. Sono ben carnali dilettazioni, ma non sono puramente de la spezie del delettabile: anzi sono veramente di quella de l’onesto, quando (come dissi) sono temperate quanto si richiede al bisogno de la sostentazione de l’individuo e conservazione de la spezie; e quando escedano questo temperamento, sono disoneste e stemperate, e proprie del puro delettabile nudo di onesto, e il bene e bellezza loro è solamente apparente e non esistente.
Sofia. Come! quelle che sono carnali tu le levi del membro del delettabile, per essere temperate e oneste? Queste non par giá che le possi cavare del suo genero delettabile, come fai.
Filone. Né manco io le cavo totalmente di quel genero: ma dico che non sono del puro delettabile, cioè di quello che non participa l’onesto, però che queste sono dilettazioni oneste.
Sofia. Adunque una medesima dilettazione entra in due generi d’amore, nel delettabile e ne l’onesto?
Filone. Intrano veramente in ambi generi, ma da diverse bande: ché queste necessarie dilettazioni, se bene hanno la parte loro materiale del delettabile, hanno la parte formale de l’onesto, che è il loro conveniente temperamento a li necessari e ottimi fini, a che sono dirizzate, de l’invidua sostentazione e de la conservazione specifica. E cosí accade nel genero de l’amore de l’utile, che quello ha puro utile, nudo de l’onesto, cioè stemperato e improporzionato al bisogno de la vita e de le opere virtuose, ed è solamente buono e bello apparente ed esistentemente è gattivo e pernizioso, quale è la cupiditá e avarizia; ma quando è temperato e conveniente a questi due fini, è veramente buono e bello ed entra in ambi generi d’amore, utile e onesto, però che la materia sua è de l’utile e la forma del suo temperamento è de l’onesto.
Sofia. Adunque l’amore de l’onesto è materialmente qualche volta del delettabile, qualche volta de l’utile? Saria forse alcuno amore, che materialmente e formalmente fusse onesto, senza pigliare da nissuno degli altri due generi?
Filone. L’amore de l’onesto è amare le virtú morali e intellettuali; e per essere le morali circa l’operazioni de l’uomo, bisogna che sia la materia loro secondo la natura di quelle operazioni, in che la virtú esiste. Onde la virtú de la continenzia, o temperamento ne le dilettazioni carnali, ha per materia il corporale diletto e per forma la continenzia e temperamento in quello; la quale porge tanto maggiore e piú degna dilettazione negli amanti che la corporea de la materia sua, quanto è piú degno in noi lo spirituale del corporeo. E cosí le virtú de la liberalitá e continenzia e astinenzia del superfluo ne le cose possedute hanno per materia l’utile e per la forma la satisfazione e astinenzia temperata del superfluo, con liberale distribuzione di quello, del quale l’onesto amante gusta per dilettazione ne la medesima possessione de l’utile; e cosí tutte l’altre virtú morali che sono circa de l’operazioni umane, come la fortezza giustizia e prudenzia ed altre, hanno la materia de la natura operativa, e la forma loro è l’abito onesto del temperamento di quella. Ma le virtú intellettuali sono tutte oneste e non hanno altra cosa del materiale, però che non versano circa atti né dilettazioni corporee, da le quali possino pigliare materia alcuna, ma circa cose eterne, separate da corpi e intelligenti: onde tutte sono forme intellettuali senza compagnia di materia, e sono pure e vere oneste per se stesse, e non per participazione come l’altre; e però l’amore di queste chiama Platone divino.
Sofia. E l’altre spezie d’amore come le chiama Platone?
Filone. Egli divide li generi d’amore in tre, come Aristotile, ma in altro modo, che è: amore bestiale, amore umano e amore divino. Chiama bestiale l’amore escessivo de le cose corporee, non temperato da l’onesto né misurato da la retta ragione, cosí ne le dilettazioni soperchie carnali come ne la cupiditá e avarizia de l’utile e altre fantastiche ambizioni: però che, mancando in tutte queste la moderazione e temperamento de l’intelletto umano, restano amori d’uno animale senza intelletto e veri bestiali. E chiama amore umano quello che è circa le virtú morali, temperative di tutti gli atti sensuali e fantastichi d’esso uomo e moderanti la loro dilettazione: il qual amore, per avere la materia corporea e la forma intellettuale e onesta, il chiama amore umano, per essere composto l’uomo di corpo e intelletto. E chiama amore divino l’amore de la sapienzia e de l’eterne cognizioni: il quale, per esser tutto intellettuale onesto e tutto formale senza compagnia di materia alcuna corporea, il chiama divino, però che in questo solo gli uomini sono participi de la divina bellezza. E quanto l’amore umano escede il bestiale, tanto la dilettazione, che è il fine suo de l’amante ne la cosa amata, è maggiore e piú eccellente che non sono le corporee ed esorbitanti dilettazioni bestiali, che appresso il vulgo son tenute le principali nel diletto, essendo in effetto basse e tenuissime in quello; e cosí potrai ancora intendere che, quanto l’amore divino è piú sublime de l’umano, tanto la dilettazione di quello è maggiore, piú soave e piú satisfattoria e piú intensamente desiata da chi la conosce, che la dilettazione de l’altre virtú morali e amori umani. Sí che, dividendo l’amore a la peripatetica o a la stoica, non ne troverai alcuno di chi il fine non sia la dilettazione de l’amante ne la cosa amata (come t’ho detto).
Sofia. Veggo in effetto che cosí è, e che ’l fine d’ogni particular amore è il diletto de l’amante in l’unione de la cosa amala. Oramai mi puoi dir oltra, rispondendo a la mia domanda, qual’è il fin universale per il quale nacque l’amore ne l’universo: ché in quello non mi par cosí facile porre la dilettazione per fine, come ne li particulari amori degli uomini e degli altri animali.
Filone. È ben tempo di dirtelo. Tu sai [che] una volta che ’l mondo fu prodotto dal sommo creatore mediante l’amore (però che vedendo il sommo buono la sua immensa bellezza, e amando quella e quella lui come sommo bello, produsse o ver generò a similitudine de la sua bellezza il bello universo, però che ’l fine de l’amore è, come Platone dice, parto in bello), — prodotto adunque l’universo dal sommo suo creatore a somiglianza ovvero a immagine de la sua immensa sapienzia, nacque amore del creatore verso di esso universo, non come d’imperfetto a perfetto, ma come da perfettissimo superiore a meno perfetto inferiore e come dal padre al figlio e da la causa al suo effetto singulare. Onde il fine di questo amore non è acquistare bellezza che manchi a l’amante, né dilettarsi ne l’unione di quello amato, ma è per fare acquistare la maggiore perfezione a l’amato, de la qual mancaria se non l’acquistasse per l’amore de l’amante, e per dilettarsi esso divino amante ne la bellezza maggiore a la quale l’amato universo arriva mediante il suo divino amore: come accade in tutti gli amori de li superiori agl’inferiori, de le cause a li quattro suoi effetti, de li padri a li figli, del maestro al discipulo e di tutti li benefattori a li suoi benefiziati, che l’amor lor è desiderio che l’inferiore suo arrivi al maggior grado di perfezione e bellezza, ne l’unione de la quale con esso amato esso amante si diletta; e questa dilettazione de l’amante ne la perfezione e bellezza de l’amato è fine de l’amore di esso amante.
Sofia. Di questa materia giá mi ricordo tu avermi detto questa distinzione, che è fra l’amore del superiore a l’inferiore e l’amore de l’inferiore al superiore; e la sentenzia è stata quasi una medesima, se bene in altri modi di dire e altri propositi. E conosco che, se bene il fine di ciascuno di questi due amori è dilettazione de l’amante ne l’acquistata bellezza de l’amato, che pur l’amore de l’inferiore al superiore è per la bellezza del superiore amato acquistata da l’inferiore amante, a chi manca, e il fine de l’amor suo è la dilettazione de l’amante ne l’unione de la bellezza de l’amato superiore, la quale gli mancava: ma l’amore del superiore a l’inferiore è per la bellezza che acquista l’inferiore amato, la quale gli mancava; col quale acquisto esso amante, come in fine del suo amore, ancora si diletta come si dilettò esso amato ne l’acquisto e unione di quella, la quale amava e desiava mancandogli. E conosco che di questa sorte è l’amore del sommo creatore a l’universo creato, e in lui questa distinzione è piú vera e propria che in nissun altro amore di superiore a inferiore, se bene gli altri superiori in questo li somigliano: tanto piú che l’amore divino (come dici) a l’universo è quello mediante il quale esso universo acquista il sommo grado di bellezza a lui possibile, come si vede ne l’amore del maestro al discipulo, che è mezzo di fare crescere il discipulo in perfezione e bellezza intellettuale; quel che non è ne l’amore di molti degli altri superiori a l’inferiori. Onde questo amore divino non solamente non denota mancamento in esso superiore amante, anzi denota somma perfezione participativa del maggior grado possibile ne l’universo creato, se non fusse una maniera di mancamento immaginario relativo, che ombreggia de l’effetto in la causa, secondo m’hai altre volte detto. Ti pare, o Filone, che abbi inteso questa tua sottil distinzione de l’amore del superiore a l’inferiore con la comune dilettazione ne l’uno e ne l’altro?
Filone. Mi pare che sí, ché assai bene l’hai referita; ma che adunque?
Sofia. Voglio inferire che questo non satisfá a la mia domanda: ch’io non ti domando del fine perché nacque l’amore divino, il quale quando il mondo fu prodotto nacque con lui, ma ti domando perché nacque l’amore de l’universo creato e quale è il fine di quello.
Filone. Ti satisfarò bene, quando vorrai intendere il resto, del quale questo bisognò che fusse esordio. Essendo adunque il primo amore divino, ovvero innamoramento del sommo Dio a la sua propria e somma bellezza e sapienzia, quello che è stato causa produttiva de l’universo a similitudine di quella con sua continua conservazione (però che l’amore, che prima l’ha prodotto per sua indissoluzione, sempre producendo il conserva), — il secondo amore divino, che è de l’universo prodotto, è quello che ’l prodotto porta in sua ultima perfezione. Ché cosí come il primo essere de l’universo viene da quel primo amore che ’l precede, cosí l’ultimo e perfettivo essere di quello procede ed è causato dal secondo amore divino, cioè quel che ha l’universo essendo giá prodotto: a somiglianza del padre, che, amando prima se stesso, desia generare in bello sua similitudine e genera per quello amore precedente il figlio, e di poi, acquistando col figlio un secondo e nuovo amore, procura condurre questo amato figliuolo ne l’ultima sua perfezione e maggior grado di bellezza possibile.
Sofia. Ancora questo intendo, e molto mi piace intenderlo: niente di manco non mi mostra ancora il fine perché nacque l’amore de l’universo, se bene mi mostra li dui fini de li due amori divini, del primo la produzione, del secondo la perfezione de l’universo; ti resta a dire il fine perché nacque l’amore di esso universo.
Filone. Son per dirlo: e, circa ciò, dèi prima intendere che è quello in che consiste la perfezione de l’universo prodotto.
Sofia. Questo ho ben giá inteso: non mi bisognaria per quello nuova erudizione. Però che essendo l’universo (come m’hai detto) prodotto a immagine e similitudine de la somma sapienzia, la sua perfezione consiste in essere propriamente simulacro di quella, il quale è il proprio fine del suo producente: come accade in ogni cosa artifiziata, che la perfezione sua consiste in essere fatta somigliante al proprio a la forma de l’arte che è ne la mente de l’artifice, e questo è il proprio fine di esso artifice in la fazione di quella; e cosí debbe essere di esso universo prodotto.
Filone. È ben vero che questa è la prima perfezione de l’universo prodotto e il primo fine del sommo producente ne la produzione di quello, come bene hai somigliato in ogni cosa fatta per arte, cioè che sia simile, tanto proprio quanto sia possibile, a la sapienzia del sommo opifice. Ma questo non è il fine ultimo e l’ultima sua perfezione: ché, cosí come in ogni cosa artifiziata, come dire un vaso da bevere, la prima perfezione e fine suo è essere fatto propriamente simile a la forma e arte che è ne la mente de l’artifice, e l’ultimo suo fine e perfezione è l’essere esercitato ne la sua propria opera per la quale è fatto, cioè in bevere per quello, e di questi due la prima perfezione è fine de l’opera e l’ultima è fine de l’operato, — cosí ne l’universo prodotto il primo fine del producente e la prima perfezione di quello consiste ne la perfezione de l’opera divina, essendo proprio simulacro de la divina sapienzia, ma l’ultimo fine suo e l’ultima perfezione di quello consiste in esercitarsi esso universo ne l’atto e opera per il quale fu prodotto; il quale è fine di esso operato, però che l’essere de l’operato è fine de l’operante, e l’opera de l’operante è fine de l’esser suo.
Sofia. Quale è adunque l’atto e l’opera che è fine d’esso universo prodotto e sua ultima perfezione?
Filone. Molti atti perfettivi si truovano ne l’universo, ma la sua ultima perfezione consiste ne l’ultimo e piú perfetto di quelli, e altri subalternati son via o scala per venire a l’ultimo perfettissimo: ma in questo tutti comunicano, che, cosí come l’essere de l’universo consiste in legittima produzione e retto esito de la divinitá in esso universo, cosí gli atti suoi perfettivi consistono ne la verace e propria redizione de l’universo in essa divinitá, da la quale prima ebbe esito, in modo che, cosí come quella è stata prima il suo principio effettivo, cosí ancora ella medesima sia il suo ultimo fine; ché non solamente il sommo Dio volse essere del mondo causa efficiente, ma ancora causa formale e causa finale; causa efficiente in produrlo, causa formale in conservarlo e sostenerlo nel suo proprio essere, e causa finale in redurlo in se stesso, come in ultima perfezione e fine, mediante gli atti perfettivi di esso universo.
Sofia. Ho bene inteso a che modo il sommo Dio in tre modi è causa de l’universo, efficiente formale e finale: l’uno per esito produttivo, l’altro per sostentazione conservativa, e l’altro per reduzione perfettiva. Ma dimmi quali sono questi atti perfettivi de l’universo, che causano la sua reduzione nel suo creatore, e quale è l’ultimo perfettissimo di questi, nel quale consiste la sua ultima perfezione.
Filone. Gli atti de l’universo parte sono corporei e parte sono incorporei: ne li corporei certo è che non consiste la redizione sua nel sommo Dio, però che per quelli piú presto s’allontana da la sua purissima divinitá che si approssimi a quella; sí che consiste la sua reduzione negli atti incorporei li quali dependono solamente de l’intelletto, che è separato da materia. Adunque tutto l’universo prodotto si reduce nel suo creatore mediante la parte intellettiva che in lui volse participare, e mediante gli atti di quella.
Sofia. L’intelletto ha nissuno altro atto che l’intendere?
Filone. No.
Sofia. Adunque non son molti gli atti che fanno perfetto l’universo, ma solamente uno, che è l’intendere.
Filone. Quando bene ti conceda che l’intelletto non ha altro atto che l’intendere, esso intendere di diverse cose son diversi atti intellettuali: e se bene son tutti atti perfettivi, che aiutano a la reduzione de la creatura nel suo creatore, nondimeno quello atto intellettuale che rettamente causa quella, è quello che ha per oggetto l’essenzia divina e la sua somma sapienzia, però che in questo (come giá altrove t’ho detto) consiste e si comprende ogni cosa intelletta e ogni grado d’intellezione; e questo è quello che può redurre l’intelletto possibile secondo tutta la sua essenzia in intero atto, e gli altri intelletti prodotti attuali nel sommo grado de la sua perfezione. Ancora, in questi si truovano gradi non pochi, subalternati l’uno a l’altro, e ancor diremo diversi atti; e giá t’ho dichiarato, ne la nostra prima confabulazione, che l’anima nostra intellettiva mediante tre atti si reduce nel suo sommo creatore: con intellezione, con amore e con fruizione unitiva.
Sofia. Adunque tu poni ne l’intelletto altro atto che l’intendere?
Filone. Giá sai che, se bene ne le cose corporee l’amore è diverso da l’intellezione (come una de le passioni corporee de l’atto incorporeo), che ne l’essenzie intellettuali e immateriali stanno insieme, e l’amore loro è intellettivo e intellezione loro de le cose piú alte amorosa: solo secondo ragione riceveno qualche distinzione, non reale né essenzialmente; e la fruizione unitiva è l’ultima e perfettissima intellezione, però che quanto piú perfetto è l’atto intellettivo, tanto è maggiore e piú perfetta l’unione de l’intelletto intendente e de la cosa intelletta.
Sofia. Bastaria adunque questo atto intellettivo per l’ultimo fine de l’universo e sua perfezione, senza far menzione degli altri due.
Filone. Non basta, perché questo terzo non può venire se non mediante gli altri due: però che (come t’ho detto) de le cognizioni sono alcune che son senz’amore e altre che sono con amore, e di quelle che sono con amore è una che precede l’amore, e l’amore è fine di quella, e l’altra, a chi l’amor precede, è fine d’amore.
Sofia. Tornamele a ricordare breve e distintamente.
Filone. Quelle cognizioni ove non accade amore, sono de le cose buone e non belle, e per conseguente non desiate, o veramente per essere gattive e deformi odiate, o forse, per non essere o non parere belle né deformi, però non desiate né aborrite; tutte l’altre cognizioni che sono de le cose buone e belle, sono o di quelle de le quali l’amore o il desiderio è il fin loro, come è la cognizione del cibo, che quando se ne bisogna gli succede il desiderio, o di quelle che sono fine di desiderio, come il fruire esso cibo con unione. Non è dubbio che questa è la perfetta cognizione del cibo, cioè l’unitiva, e pertanto con quella cessa il precedente desiderio; e la prima cognizione di quello era imperfetta, per non essere ancora unitiva; e per il mancamento de l’unione gli succede il desiderio, che è quello che la conduce in perfezione unitiva, e allora cessa, cessando il mancamento: sí che il desiderio e l’amore non è altro che via de la cognizione imperfetta, conducente a la perfetta unitiva. Di quella maniera accadeno li tre atti perfettivi de l’intellezione de l’universo a la prima causa: però che ’l primo atto reduttivo de la creatura è il primo conoscimento intellettivo che ha di sua immensa sapienzia e somma bellezza, e sentendosi distante da l’unione sua, l’ama e desidera venire a fruirla con perfetta unione e intera conversione di esso amante nel bellissimo amato; mediante il qual amore e desiderio di essa divinitá si viene a quello ultimo e perfettissimo fine unitivo, che è l’ultimo atto perfettissimo, nel qual consiste non solamente la beatitudine de l’intelletto transformato e unito in lei e fatto divino, ma ancora l’ultima perfezione e felicitá di tutto l’universo creato, del quale esso intelletto è la parte principale e piú essenziale; mediante la quale il tutto di esso universo è degno unirsi col suo sommo principio e farsi perfetto e bearsi ne la fruizione de la sua divina unione.
Sofia. Intendo come in questo ultimo atto e fruizione unitiva de l’intelletto prodotto nel suo sommo producente consiste l’ultima perfezione di tutto l’universo creato; e giá di questo vo considerando il fine d’alcuno amore de l’universo e il bisogno perché in lui nacque: però che io veggo che quello ultimo atto unitivo perficiente de l’universo gl’induce il presente amore, ed egli è fine di esso amore che ’l precede; manifesto è adunque che ’l fine di questo amore de l’universo è l’ultima perfezione di quello, qual’è l’ultimo atto e fruizione unitiva di quello col suo creatore. Ma ne l’universo sono altri amori, senza questo de la natura intellettuale prodotta in la sua prima causa: vorria che mi dicesse il fine comune perché nacque ogni amore ne l’universo prodotto, comprendendo ogni particular amore di quello.
Filone. Cosí come li gradi de l’essere ne l’universo sono subalternati e ordinati l’uno a l’altro, succedendo dal primo a l’ultimo e da l’infimo al supremo, che l’essere de la materia prima è ordinato a l’essere degli elementi, e quello a l’essere de li misti non animati, e questo a l’essere degli animati de l’anima vegetativa, e questo a l’essere degli animali, e l’essere animale a l’essere umano, che è l’ultimo e supremo nel mondo inferiore; e ancora a esso uomo le sue virtú sono cosí subordinate, l’inferiore a la superiore, quelle de l’anima vegetativa a quelle de la sensitiva, e quelle de la sensitiva a quelle de l’intellettiva, che è l’ultima e suprema virtú non solamente de l’uomo ma di tutto il mondo inferiore; e ancora in questa intellettiva virtú gli atti intellettuali si ordinano d’inferiore a superiore, secondo l’ordine de le cose intelligibili loro oggetto d’inferiore a superiore, e cosí fino al supremo e ultimo intelligibile, il quale, cosí come è sommo ente, è ultimo fine a che tutti sono ordinati: cosí l’atto de l’intellezione umana e angelica, di che egli è oggetto, è il sommo atto intellettivo de la mente umana, celeste e angelica, a che tutti gli altri sono ordinati come a ultimo fine e perfezione de l’universo prodotto; — cosí di questa medesima maniera hai da intendere che sono subalternati gli amori ne l’universo prodotto, l’inferiore al superiore fino a l’ultimo supremo, che è l’amore che ha l’universo al suo creatore; al quale amore succede come proprio fine la sua fruizione unitiva in lui, che è la sua ultima perfezione (come t’ho detto): sí che il fine de l’ultimo e supremo amore de l’universo prodotto è ultimo fin di tutti gli amori de l’universo in comune.
Sofia. Conosco che è cosí che la fruizione unitiva de la creatura intellettuale nel suo creatore non è solamente fine de l’amore che ha quella, ma di tutto l’amor de l’universo prodotto, in comune. Ma non poco mi piaceria che, cosí come mi mostrasti la coordinazione de li gradi de l’essere ne l’universo fino a l’ultimo e supremo, cosí mi mostrassi la coordinazione de l’amori di quello, dal primo a l’ultimo.
Filone. Che vuoi tu sapere, o Sofia? solamente il semicirculo de l’ordinazione degli amori ne l’universo, come fu quel che t’ho mostrato de li gradi de li enti in quello, o ver tutto il circulo intero in ordinazione?
Sofia. Se bene io non intendo che voglia dire semicirculo né circulo intero in l’amori de l’universo, né perché questa ordinazione de li gradi de li enti, che m’hai detto, è semicirculo e non tutto: non di meno, perché del buono è meglio il tutto che la parte, vorria che, se quello de li enti è mezzo, che l’integrassi, e degli amori mi mostrassi quello intero circulo che dici.
Filone. Il circulo di tutte le cose è quello che principia gradualmente dal primo principio di quelle, e, circulando successivamente per tutte, volge in quello proprio principio come in ultimo fine, comprendendo tutti li gradi de le cose a modo circulare: del quale il punto che è principio ritorna fine. Questo circulo ha due mezzi: l’uno è dal principio, cioè il punto al piú distante da lui, che è il suo mezzo, e il secondo mezzo è da quel punto piú distante fino al ritornare in lui.
Sofia. Nel circulo figurale cosí è: ma dimmi come si truova cosí nel circulo di tutte le cose.
Filone. Essendo il principio e fine del circulo il sommo produttore, il mezzo di quello è discendendo da lui fino a l’infimo piú distante da la sua somma perfezione: però che da lui prima succede la natura angelica per suoi ordinati gradi di maggior a minore, e di poi la celeste con suoi successivi gradi, dal cielo empireo, che è il maggiore, fino al minore, che è quel de la luna; e da quello viene nel nostro globo piú infimo, cioè a la materia prima, che è de le sustanzie eterne la meno perfetta e la piú distante da la somma perfezione del creatore, però che, sí come egli è il puro atto, cosí essa è la pura potenzia. In questa si termina la prima medietá del circulo de li enti, descendente dal creatore per gradi successivi da maggiore a minore fino a essa materia prima, infima d’ogni grado di essere: da lei il circulo volge la seconda medietá, ascendendo da minore a maggiore (come di sopra t’ho detto), cioè da la materia prima agli elementi, di poi a li misti, di poi a le piante, di poi agli animali, di poi a l’uomo ne l’uomo; da l’anima vegetativa a la sensitiva, e da quella a l’intellettiva; e negli atti intellettuali da uno intelligibile minore a un altro maggiore, fino a l’atto intellettuale del supremo intelligibile divino, che è l’ultimo unitivo non solamente con la natura angelica ma, quella mediante, con essa suprema divinitá. Vedi come la seconda medietá del circulo, ascendendo li gradi de li enti, viene a terminarsi nel primo principio divino come in ultimo fine, integrando perfettamente il circulo graduale di tutti li enti.
Sofia. Veggo l’integritá del mirabil circulo de li enti in la sua gradual ordinazione; e se bene un’altra volta me l’hai significata ad altro proposito, tanto mi satisfa e diletta l’intelletto che sempre m’è nuova. Ormai mi puoi mostrare il circulo degli amori in ordine graduale, di che è il nostro proposito.
Filone. Cosí come l’essere nel primo semicirculo procede discendendo, a modo di esito produttivo dal primo ente, dal maggiore al minore fino a l’infimo caos ovvero materia prima, e da lui ne l’altro semicirculo torna l’essere ad ascendere di minore a maggiore, a modo di reduzione in quello di che prima è uscito: cosí l’amore ha origine dal primo padre de l’universo, e da lui successivamente viene paternalmente discendendo, sempre da maggiore a minore e da perfetto a imperfetto, piú propriamente da piú bello a men bello per porgerli la sua perfezione e participarli la sua bellezza quanto è possibile; succedendo per li gradi de li enti, cosí nel mondo angelico come nel celeste, che ognuno con caritá paterna causa la produzione del suo succedente inferiore, participandoli il suo essere o bellezza paterna, ben che in minor grado secondo conviene: e cosí per ordine in tutto il primo semicirculo, fino al caos; infimo grado de li enti. E di quello principia l’amore ad ascendere nel secondo semicirculo da inferiore a superiore e da imperfetto a perfetto, per arrivare a la sua perfezione, e da men bello a piú bello, per fruire la sua bellezza: però che la materia prima naturalmente desia e appetisce le forme eiementali come belle e piú perfette, le forme elementali le miste e vegetabili, e le vegetabili le sensibili, e le sensibili amano con amor sensuale la forma intellettiva; la quale con amore intellettuale ascende da uno atto di intellezione di uno intelligibile men bello a un altro piú bello, fino a l’ultimo atto intellettivo del sommo intelligibile divino con l’ultimo amore de la sua somma bellezza: col quale il circulo amoroso si reintegra nel sommo buono, ultimo amato, qual fu il primo amante, padre creatore.
Sofia. È adunque il semicirculo primo degli amori de’ piú belli a li men belli e de li perfetti agli imperfetti, e l’altro semicirculo, al contrario, d’amori de li men belli a li piú belli: e oltra che è strano che sia l’amor efficace dal piú bello al meno, perché nissuno desia il meno di sé, è ancora strano che l’universo si divida tutto in dui mezzi di queste due maniere d’amori. Vorria che mi dichiarassi la causa.
Filone. Non meno efficace, ma forse piú è l’amor del padre al figlio e del maestro al discipulo e de la causa a l’effetto, che di questi a li suoi superiori; poi che fanno maggiori cose, mediante l’amore che gli hanno, in produrli generarli e bonificarli, che quelli per li suoi primi, ché non fanno altro che desiare d’approssimarsi a la sua perfezione; e se bene quelli inferiori non hanno bellezza che manchi a li superiori, per la quale essi amino desiandola, amano la propria bellezza per participarla a l’inferiore, a chi manca: con la quale participazione loro superiori restano piú belli, essendo li suoi inferiori bellificati da loro, e ancora per la bellezza di tutto l’universo (come giá piú largamente t’ho detto). Ed è tutto il primo semicirculo di simile amore di superiore piú bello a inferiore men bello, però che tutto quel mezzo consiste in esito produttivo, e il producente è piú bello del prodotto, e l’amor gliel fa produrre e participar la sua bellezza: e cosí è dal primo prodotto infino a la materia prima, ultima prodotta, ché l’amor del maggior al minore è mezzo e causa ne la produzione. Ma ne l’altro semicirculo da la materia prima fino al sommo buono, per essere reduttivo per via d’ascensione perfettiva da l’inferiore al superiore, bisogna che l’amor sia dal men bello al piú bello per acquistare de la sua bellezza e unirsi con quella: e cosí di grado in grado superiore successivamente, fino a l’unione de la natura intellettuale creata con la sua bellezza e a la sua fruizione nel sommo buono mediante l’ultimo amore di quella, che è causa de l’atto unitivo de l’universo col suo creatore, il qual è ultima sua perfezione.
Sofia. Mi piace non poco intendere l’intero circulo degli amori de l’universo, conforme a quello de li gradi de li enti: e con questo conosco che ’l fin degli amori de l’universo [è che] sono per ultimo atto unitivo col suo creatore, perché l’amori produttivi sono per li reduttivi e li reduttivi tutti successivamente sono per l’ultimo amore, che induce l’ultimo atto unitivo de l’universo col sommo buono, che è l’ultima perfezione di quello: in modo che tutto ciò che usci da quella pura e bellissima unitá divina fu perché, reducendo l’universo, ritornasse ne l’unione di quella, ne la quale il tutto come perfetto si beatificasse. Ma ricordati, o Filone, che tu m’hai detto che ’l fin d’ogni amore è la dilettazione de l’amante ne la cosa amata, e dicesti che ’l fine de l’amor de l’universo è di quella medesima sorte: tu ora il poni ne l’atto unitivo col principio divino, che parrebbe altra cosa.
Filone. Non è altro: anzi tanto quanto questo atto è piú supremo, per essere unitivo de l’universo con la somma bellezza tanto la dilettazione che è in quello (quale è il proprio fine de l’amore) è maggiore senza proporzione e piú immensa e somma di tutte le dilettazioni de le cose create. E giá ti ho detto che non è altro la dilettazione de l’amante se non l’unione sua con la bellezza amata: quando quella bellezza è finita, la dilettazione è finita, poco o assai secondo la bellezza, ed essendo finita come è ne l’ultimo amore de l’universo prodotto, cioè di sua parte intellettiva al sommo buono, bisogna che sia il fin di quell’amore immensa e infinita dilettazione, quale è fine di tutto l’amore del mondo creato, per il quale l’amore nacque in esso universo. Ché senza amore e desiderio di tornare ne la somma bellezza impossibile era che le cose uscissero in loro produzione allontanandosi da la divinitá, ché senza amore paternale e desiderio produttivo simile al divino era impossibile che procedessi l’uno grado de l’ente prodotto dal suo superiore e s’allontanassino da la divinitá, cosí succedendo di grado in grado fino a la materia prima: però che l’amor paternale ovvero produttivo è quello che ha tutto il primo semicirculo dal sommo ente fino a l’ultimo caos. E cosí non era possibile che li enti prodotti potessino tornare a unirsi con la divinitá e acquistare quella somma dilettazione, in che consiste la perfezione e felicitá di tutto l’universo, essendo sommamente distanti da loro in essa materia prima, se non fusse l’amore e desiderio di ritornare in quella come in ultima perfezione loro, che è quello che li conduce fino a l’ultimo atto felicitante de l’universo: sí che essendo l’amor produttivo del primo semicirculo per l’amor reduttivo del secondo, e quello per l’ultima perfezione e beatitudine de l’universo, segue che l’amor de l’universo nacque per indurli la sua ultima felicitá.
Sofia. Conosco veramente che l’amor nacque ne l’universo prima per ampliare successivamente la sua produzione e poi per bearlo con somma dilettazione, inducendo l’unione sua col sommo buono, primo principio suo: e con questo sono satisfatta de la mia quinta dimanda, del perché l’amor nacque ne l’universo. Tre cose sole mi restano a sapere in questa materia: l’una, che se bene la dilettazione debbe essere fine de l’amore naturale o sensibile, cioè di quello amore che proviene d’anima e virtú corporee, non par giá conveniente che sia ancor fine de l’amore intellettuale; però che la dilettazione è passione, e intelletto separato da materia non è possibile, né giusto è che sia suggetto d’alcuna passione, tanto piú l’intelletto angelico e divino: onde loro non debbeno avere la dilettazione per proprio fine; non è adunque quella il fin comune d’ogni amore (come hai detto). La seconda è, che se ben il fine di tutti gli amori reduttivi è dilettazione (come hai detto), l’amori produttivi non par che abbino questo fine, però che nissuna cosa si diletta in approssimarsi al non bello: onde piú presto par che sia il fine di quelli amori produttivi dare e participare bellezza ove non è, che dilettarsi (come hai detto), perché non si può dilettare con chi da sé non ha bellezza. La terza è, che tu hai detto di sopra che l’amore che ha il creatore a l’universo creato è quello che il reduce a la sua perfezione, cosí come l’amore che ha a la propria bellezza è quello che l’ha prodotto; e ora mi dici che quello amore ch’il conduce in la sua propria perfezione è quello che ha l’universo, mediante la sua parte intellettiva, a la somma bellezza divina: non è adunque l’amor di Dio a l’universo quello che il conduce in sua perfezione, ma quello de l’universo a Dio. Solvemi questi tre dubi, e mi chiamarò satisfatta da te di quello che m’hai promesso dire del nascimento d’amore.
Filone. Per questo poco resto non voglio lasciare d’uscire di questo debito. La dilettazione sensuale è passione ne l’anima sensitiva, cosí come l’amore sensuale è ancora passione di quella: se non che l’amor è la prima de le sue passioni, e la dilettazione è l’ultima e fin di esso amore: ma la dilettazione intellettuale non è passione ne l’intelletto amante: e se tu consenti che ne li enti intellettuali sia amore che non è passione, bisogna ancor che consenti che in quelli sia dilettazione senza passione, la quale è fine del loro amore e piú perfetta e astratta che il medesimo atto amoroso.
Sofia. Se l’amore e la dilettazione de l’intellettuali non son passioni, che sono adunque?
Filone. Sono atti intellettuali (secondo t’ho detto) remoti d’ogni naturale passione, se bene noi non aviamo altri nomi che darli, che in la sensualitá dicono passione; e giá t’ho detto che l’amor ne l’intelletto prodotto è la tendenzia de la prima intellettiva del bello intelligibile ne l’ultima unitiva, che è la perfetta, e la dilettazione in lui non è altro che la medesima intellezione unitiva di esso bello intelligibile.
Sofia. E ne l’intelletto divino che sono?
Filone. L’amor divino è tendenzia di sua bellissima sapienzia in sua bella immagine, cioè l’universo da lui prodotto, con redizione di quello ne l’unione de la sua somma bellezza; e la dilettazione sua è la perfetta unione di sua immagine in se stesso e del suo universo prodotto in esso producente; e perciò dice David: «Dilettasi il Signore ne li effetti suoi»: ché in quella unione de la creatura col creatore non solamente consiste la dilettazione e salvazione di essa creatura (come dice David: «Ci dilettaremo nel sommo principio di nostra salvazione»), ma ancora consiste in quella unione la divina dilettazione relativa per la felicitá del suo effetto. E non ti paia strano che Iddio si diletta, poi che egli è la somma dilettazione de l’universo, e per l’eterno amore de la sua medesima bellezza bisogna che in lui, da lui e a lui sia somma dilettazione: e per quello gli antichi ebrei, quando avevano diletto, dicevano: «Benedetto quello che la dilettazione abita in lui»; e la dilettazione in lui è una cosa medesima col dilettante e con quel che ’l diletta. E non è strano che diciamo lui dilettarsi con la perfezione de la sua creatura, quando vediamo che la sacra Scrittura per il peccato comune degli uomini, per il quale venne di poi il diluvio, dice: «Vidde il Signore quanto era grande la malizia de l’uomo ne la terra, e che l’inclinazione de le sue cogitazioni ogni di peggiorava; si pentí d’aver fatto l’uomo ne la terra, e attristossi nel suo cuore, e disse: — Disfarò l’uomo ch’io creai con tutte l’altre cose de la terra, — et cetera». Adunque se la malizia degli uomini attrista Dio intimamente e cordialmente, la perfezione e beatitudine loro quanto gli debbe dilettare! ma in effetto né la tristezza né la letizia son passioni in lui, ma la dilettazione è grata correspondenzia de la perfezione del suo effetto e la tristezza privazione di quella da la parte de l’effetto.
Sofia. Del primo mio dubio son satisfatta: e conosco che la dilettazione de l’intellettuali, ne la quale non cade passione, è maggiore e piú vera dilettazione che quella de li corporali, ove accade passione; e ancora come l’amore di quelli, per essere senza passione, è maggiore e piú vero che quello di questi corporei appassionati. Rispondemi adunque al secondo.
Filone. Per quel che t’ho detto nel primo, sará facile rispondere al secondo. Quando il superiore ama l’inferiore in tutto il semicirculo primo, da Dio fino a la materia prima, non consiste la dilettazione, che è il fine loro, ne l’unirsi col non bello o men bello suo inferiore, come arguisci, ma consiste ne l’unire il non bello o il men bello con lui bellificandolo, o facendolo perfetto participandoli sua bellezza; qual non solamente dá perfezione delettabile a esso effetto inferiore, ma ancor la dá a essa causa per relazione del suo effetto, ché ’l bello e perfetto effetto fa la sua causa piú perfetta e piú bella e dilettante ne la bellezza aggiunta per relazione (come giá t’ho detto). E se io t’ho mostrato che Dio si diletta con la perfezione de li effetti e che s’attrista per li loro difetti, tanto piú può constare in ogni ente prodotto il dilettare sé col bene del suo succedente effetto e attristarse del suo male.
Sofia. Ancora in questo secondo dubio m’hai quietato l’animo: e veggo come il fine d’ogni amore de l’universo è la dilettazione de l’amante ne l’unione de la cosa amata, sia inferiore a lui ovvero superiore. Mi resta solamente a solvere il terzo ultimo dubio, cioè che, se l’amore de l’universo a Dio è quello che ’l conduce in la sua ultima perfezione unitiva con esso, come hai detto giá innanzi, che l’amore che ha esso creatore a l’universo è quello che causa questo effetto e lo conduce al beato fine, unitivo con la somma bellezza.
Filone. Non si può negare che, sí come l’amore de l’universo è conduttore suo ne la delettabile unione felicitante del creatore, cosí l’amor di Dio a esso universo è quello che ’l trae a la sua divina unione, ne la quale lui con suprema dilettazione si fa beato. Però che, cosí come in un padre l’amore produttivo del figlio non è amore di esso figlio, che ancora non è, ma l’amore di se stesso è il produttivo del figlio, ché per sua propria perfezione desia essere padre, producendo figlio a sua similitudine, e un altro secondo amore del figlio giá prodotto il fa notrire e allevare e condurlo ne la possibile perfezione, — cosí l’amore di Dio, produttivo de l’universo, non è l’amore che ha a esso universo, ma un altro innanzi di lui, cioè amore di se stesso, desiando participare la sua somma bellezza ne l’universo suo, prodotto a sua immagine e similitudine; però che non è alcuna perfezione né bellezza che non cresca quando è communicata, ché l’arbore fruttifero sempre è piú bello che ’l sterile, e l’acque emananti e correnti fuora sono piú degne che le raccolte e ritenute in le sue vivagne. Prodotto l’universo, fu prodotto con lui l’amore di Dio a esso, come del padre nel figlio giá nato: il qual non solamente fu per sostentarlo nel primo stato de la sua produzione, ma ancora e piú veramente per condurlo ne la sua ultima perfezione con la sua felicitante unione con la divina bellezza.
Sofia. Se bene, per la paterna somiglianza, pare che l’amore divino a esso universo sia quello che ’l conduce nel suo fine ultimo perfettivo, niente di manco l’opera di questo pare esser propria de l’amore che ha esso universo a la divina bellezza: però che mediante quello viene, mediate, a unirsi con quella, ne la quale si felicita; e de l’altro, cioè de l’amore che Dio ha a l’universo, se ben pare che egli debba essere ancora cagione di ciò, pur la propria opera in questo a me non è ancora manifesta. Mostramela, ti prego.
Filone. L’opera de l’amor di Dio, in causare la nostra felicitá e di tutto l’universo, è tale quale è l’opera del sole in causare che noi il vediamo. Non è dubio che li nostri occhi e virtú visiva col desiderio di sentire la luce ne conduce a vedere la luce e corpo del sole, nel quale ci dilettiamo: niente di manco, se gli occhi nostri non fussero prima illuminati da esso sole e da la luce, noi non potremmo mai arrivare a vederlo, però che senza il sole impossibile è che il sole si veda, perché col sole il sol si vede. Cosí, se bene l’amore nostro e de l’universo a la somma bellezza divina è quello che ne conduce a unirsi con quella con felice dilettazione, niente di manco né noi né l’universo, né l’amor nostro né suo sarieno mai capaci di simile unione, né sufficienti di tanto alto grado di dilettevole perfezione, se non fusse la nostra parte intellettuale aiutata e illuminata da la somma bellezza divina e de l’amore che esso ha a l’universo; il quale avviva e solleva l’amore de l’universo illuminando la parte sua intellettiva, acciò che ’l possa condurre a la felicitá unitiva de la sua somma bellezza. E pur questo dice David: «Con la luce tua vediamo la luce»; e dice il profeta: «Ritornane, Dio, in te, e tornaremo»; e dice un’altro: «Ritorname, e tornarò; ché tu sei il Signor mio Dio»: però che, senza l’aiutorio suo a ritornare in lui, saria impossibile noi soli retirarsi. E piú precisamente l’esprime Salamone ne la sua Cantica, in nome de l’anima intellettiva innamorata de la divina bellezza, dicendo: «Ritirame, e dietro a te corriremo; se ’l re mi traesse ne le sue camere, ci dilettaremo e allegraremo in te, ricordaremo l’amori tuoi piú che vino: le rettitudini t’amano». Mira come prima prega l’anima intellettuale che sia ritirata da l’amore de la divinitá, e che allora ella col suo ardentissimo corrirá dietro a quella; e dice che essendo messa per mano del re ne le camere sue, cioè essendo unita per grazia divina ne l’intimo de la divina bellezza regale, conseguirá la somma dilettazione in quella, quale è fine de l’amore suo in Dio; e dice che ricordaria gli amori suoi piú che vino, cioè che l’amore divino gli saria altrimenti sempre presente, ricordato ne la mente, che l’amore de le cose mondane, che sono de la qualitá de l’amore del vino, che imbriaca l’uomo e levalo da la rettitudine de la mente; e perciò finisce: «le rettitudini t’amano»: vuol dire: «Tu non sei amato per irrettitudine d’animo, come sono gli amori carnali, ma la propria drittezza de l’anima è quella t’ama». Mira come principia a parlare in singulare, dicendo «ritirami»; e incontinente dice in plurale: «dietro a te correremo»; e torna a dire in singulare: «se mi mena il re ne le sue camere»: e torna in plurale a dire: «ci dilettaremo e allegraremo in te, ricordaremo gli amori tuoi piú che vino»: per mostrare che con l’unione de la parte intellettiva de l’uomo, o de l’universo prodotto, si felicita e diletta non solamente lei, ma tutte le parti di esso universo con lui; per le quali dice in plurali: «le rettitudini t’amano», perché tutte tendono ne l’amore divino mediante la parte intellettiva. Sí che l’opera e il risplendere de l’amore divino in noi è quella che prima ne guida in la nostra felice dilettazione, e dietro a quella va l’ardentissima opera de l’amore nostro in noi, che ne conduce a unirsi e bearsi con la sua somma bellezza. La qual cosa perché meglio l’intendi, mira la sua somiglianza fra dui perfetti amanti, uomo e donna, che se ben l’uomo amante ha ardente amore a la donna amata, non ha mai ardimento né possibilitá di fruire la delettabile unione di quella, che è il fine del suo amore, s’ella con li raggi degli occhi amorosi, con dolci parole, con soavi contegni, con piacenti segni e affettuosi gesti non gli mostrasse una tale complacenzia di corrispondenzia amorosa, che gli sollevasse e avvivasse l’amore, e lo facesse capace e audace a condursi esso amante ne la dilettevole unione de l’amata, fine perfettivo del suo ardentissimo amore.
Sofia. Di questi miei dubi ho intera satisfazione; e de l’obbligo che me avevi, di dirmi del nascimento de l’amore, tu oramai sei sciolto, con non minore pagamento di quello che m’hai fatto prima de l’essenzia d’amore e desiderio e di poi de la comunitá de l’amore. E in questo terzo conosco come l’amore veramente nacque, e conosco come quello che Dio ha a l’universo e [quello che ha] l’universo a Dio nacquero quando l’universo nacque, e cosí il reciproco amore de le parti di quello l’una a l’altra; e conosco come il principio del nascimento suo ne l’universo prodotto è nel mondo angelico, e cosí conosco la sua nobilissima geneologia, e che li suoi parenti sono la cognizione e la bellezza, e lucina nel suo parto è il mancamento; e finalmente conosco che ’l fine suo è la dilettazione de l’amante ne la fruizione unitiva de la bellezza amata, e quello de l’universo ne la somma bellezza, che è l’ultimo fine felicitante di tutte le cose: il quale il sommo Dio si degni concedere. Ben che io mi credeva, o Filone, che ancora il fine perché nacque l’amore fusse qualche volta affliggere e cruciare gli amanti che affettuosamente amano le sue amate.
Filone. Ancora che l’amore porti seco afflizione e tormento, ansietá e affanno, e molt’altre pene che saria longo a dirle, non sono giá queste il suo proprio fine, ma piú presto il soave diletto, che è contrario di queste. Niente di manco tu hai detto il vero, non d’ogni amore, ma solamente del mio verso di te, che ’l fine suo non è mai stato piacere né diletto; anzi il principio, il mezzo e ’l fine suo veggo che è tutto doglie, angustie e passioni.
Sofia. Come adunque falla in te la regola? e il tuo come è privo di quello che ogn’altro conseguir debbe?
Filone. Questo il puoi domandare a te e non a me. A me sta amarti quanto ne l’animo mio può capire; se tu fai l’amore sterile e privo del suo debito fine, vuoi tu che cerchi la tua escusazione?
Sofia. Voglio che cerchi la tua: ché essendo l’amor tuo nudo del proprio fine che hai dato a l’amore, bisogna che ’l tuo non sia vero amore, o che questo non sia il vero fine suo.
Filone. Il fine d’ogni amore è il diletto: e il mio è vivacissimo amore, e il fine suo è fruirti con unitiva dilettazione, al qual fine l’amante e l’amore è intento: niente di manco non ognuno che attende a un fine l’acquista, tanto piú quando l’effetto de l’acquisto di quel fine bisogna che venga di mano d’altri, come è la dilettazione de l’amante, che è fine nel quale tende il suo amore, ma non verrá mai se ’l reciproco amore de la sua amata noi conduce in quello. Sí che quello che fa mancare del fine a l’amore mio in te, è quello che ’l reciproco amore tuo manca del debito suo: però che, se in tutto l’universo e ognuna de le sue parti l’amore nacque, in te sola mi pare che non nacque mai.
Sofia. Forse non nacque perché non fu ben seminato.
Filone. Non fu ben seminato perché il terreno non volse ricevere la perfetta semenza.
Sofia. Adunque è defettuoso?
Filone. In questo sí, veramente.
Sofia. Ogni defettuoso è deforme: come adunque ami il deforme? se perché ti pare bello l’amore tuo, adunque non è retto né vero come dici.
Filone. Non è cosa cosí bella che alcun difetto non abbi, se non il sommo bello; è in te tanta bellezza che, se bene con quella questo difetto (che mi fa infelice) s’accompagna, può molto piú la gran bellezza movermi ad amarti, che ’l piccol difetto (a me non poco nocivo) a odiarti.
Sofia. Io non so giá che bellezza possi essere questa mia, che tanto ti muova ad amarmi. Tu mi hai mostrato che la vera bellezza è la sapienzia; in me di questa non è altra parte che quella che tu mi porgi: in te adunque è la vera bellezza e non in me; io dovria amare te e non tu me.
Filone. Bastami dirti la causa perché io t’amo, senza cercare quella perché non ami me: ché io non so altro, se non che ’l mio amore verso di te è tanto che non lascia per te parte alcuna, con la quale mi possi amare.
Sofia. Basta che dichi come tu m’ami non essendo bella, o che bisogna che la bellezza sia altro che sapienzia, o che tu non veramente m’ami.
Filone. È vero che t’ho detto che la somma bellezza è la sapienzia divina; la quale in te ne la formazione e grazia de la persona e ne l’angelica disposizione de l’anima, se bene gli manca qualche cosa de la esercitazione, reluce in tal maniera che la tua immagine ne la mente mia è fatta e reputata divina e adorata per quella.
Sofia. Non credeva giá che in tua bocca capisse adulazione, né che tu verso di me la volessi mai usare. Io, secondo te, non posso essere bella, ché in me non è sapienzia: e tu mi vuoi dire ch’io son divina.
Filone. La disposizione de la sapienzia è la bellezza che Dio participò a l’anime intellettive quando le produsse: e tanto piú bella formò l’anima quanto piú disposta a quella la fece, di che la tua fu grandemente dotata; e l’essere in atto sapiente consiste ne l’erudizione e assuefazione de le dottrine, ed è come l’artifiziale bellezza sopra la naturale. Vuoi ch’io sia sí grosso, ch’io lasci d’amare una gran bellezza naturale perché gli manchi alquanto de l’artifizio e diligenzia? Voglio piú presto amare una naturale bella non concia, che una concia non bella. E quella che chiami adulazione, non è, ché in effetto, se la tua bellezza in me non fussi fatta divina, mai l’amor tuo m’averia levato la mente da ogn’altra cosa che in te, come ha fatto.
Sofia. Se non è stata adulazione, adunque è errore, che una fragile persona come la mia si transformi in te in forma divina.
Filone. Né manco ti vo’ concedere che sia errore, però che questo è proprio degli amanti e cose amate, che l’amato in mente de l’amante si fa e reputa divino.
Sofia. È adunque errore di tutti.
Filone. In tutti non può essere errore, se ’l medesimo amore non fusse errore.
Sofia. Come adunque senza errore si fanno sí distanti variazioni de la cosa amata a la sua immagine in mente l’amante, che d’umana la torna divina?
Filone. Essendo l’anima nostra immagine dipinta de la somma bellezza, e desiderando naturalmente ritornare nel proprio divino, resta ingravidata sempre di questo con natural desiderio; per il quale, quando vede una persona in sé bella di bellezza a se stessa conveniente, conosce in quella e per quella la bellezza divina, però che ancor quella persona è immagine de la divina bellezza. Di quella persona amata l’immagine ne la mente de l’amante avviva con la sua bellezza quella bellezza divina latente, che è la medesima anima, e gli dá attualitá al modo che gli daria essa medesima bellezza divina esemplare: onde ella si fa divina, e cresce e fassi maggiore in lei sua bellezza quanto è maggiore la divina che l’umana, e perciò l’amore di quella viene sí intenso, ardente ed efficace, che rubba li sensi la fantasia e tutta la mente, come faria essa bellezza divina quando retirasse a sé in contemplazione l’anima umana. E tanto quella immagine de la persona amata s’adora ne la mente de l’amante per divina, quanto la bellezza sua de l’anima e del corpo è piú eccellente e consimile a la bellezza divina e in lei piú reluce la sua somma sapienzia; e ancora con questo si giunta la natura de la mente de l’amante che la riceve, però che se in quella la bellezza divina è molto sommersa e latente, per essere vinta da la materia e corpo, se bene l’amato è molto bello, in lei può poco deificare, per la poca divinitá che in quella mente luce; né ancora quella può vedere nel bello amato quanta sia la bellezza sua, né può conoscere il grado della sua bellezza: onde raro è che l’anime basse e sommerse in materia amino grandi e vere bellezze, e che l’amore loro sia grandemente eccellente. Ma quando la persona amata bellissima è amata da anima chiara e levata da la materia, ne la quale la somma bellezza divina sommamente riluce, allora è grandemente deificata in lei, quale l’adora sempre per divina, e l’amore suo verso lei è grandemente intenso, efficace e ardente. Il mio di te, o Sofia, il fa grandemente divino la molto illustre bellezza tua spirituale e corporale; e se bene la chiarezza de la mia mente non è proporzionata e capace a deificarla quanto converrebbe, la eccellenzia di tua bellezza supplisce al mancamento de la mia oscura mente.
Sofia. Non bisogna adunque ch’io ami il non vero adulatore, poi che l’amore il porge; né ancora è errore, poi che de la natura del bello e de l’anima proviene. Ma io, di questa mia trasformazione d’umana in divina, ben veggo che ne è piú presto causa la divinitá de la tua sapiente mente che mia infima bellezza.
Filone. Questo inganno tuo verso di me vorria che fusse piú presto in farti con l’animo amarmi per tale qual saria conveniente se ’l credessi, che con la lingua dirmelo; e se pure nol credi, come è giusto, non puoi negare che la somma bellezza divina, che è maggiore e piú eccellente di tutte in infinito, non sia retirata da l’amore di una mente umana bassa e finita, se l’ama, a riamarla e retirarla (mediante l’amore che quella gli porta) in la sua felicissima dilettazione unitiva. Tu che fra gli umani tanto somigli a quella somma bellezza, perché ancora in questa reciprocazione amorosa non gli vuoi somigliare?
Sofia. Né in questo credo molto dissomigliarmi; però che, cosí come ella non retira l’amante ad altra unione che a quella spirituale de la mente, e però lo riama, cosí io non voglio negare che non t’ami e desideri l’unione de la mente tua, non [di] quella con la mia, ma [de] la mia con quella come con piú perfetta; e di questo non puoi dubitare, attento la sollicitudine mia a contemplare li concetti de la tua mente e a fruire la tua sapienzia, in che grandissima dilettazione ricevo. De l’altra unione corporea, che sogliono desiare gli amanti, non credo né vorria che in te né in me si trovasse desiderio alcuno: però che, cosí come l’amore spirituale è tutto pieno di bene e bellezza, e tutti li suoi effetti sono convenienti e salutiferi, cosí il corporeo mi credo sia piú presto gattivo e deforme, e gli effetti suoi per la maggior parte molesti e nocivi. E perché meglio di questo ti possa rispondere, dimmi, ti prego, come giá mi hai promesso, degli effetti de l’amore umano, quali sono li buoni e laudabili e quali perniziosi e vituperabili, e quali di questi fanno maggior numero; perché con questo resto finirai d’uscire di tutti gli oblighi che m’hai per le tue promesse.
Filone. Veggo, o Sofia, che per fuggire da le mie giuste accusazioni mi domandi pagamento di resto d’obligo. Mi ricordo in ciò averti dato ambigua promissione: al presente ben vedi che non è tempo di pagare, ché molto abbiamo tardato in questa confabulazione de l’origine de l’amore, e giá è tempo di lasciarti riposare. Pensa di pagare tu a me li debiti che amore ragione e virtú t’obligano; che io, se potrò avere tempo, non mancarò di pagarti quello in che la mia promissione e servitú verso di te amorosa m’obligano. Vale.
- ↑ [L’ed. princ. aggiunge, e cosí tutte le stampe]: e ancor santo Giovanni evangelista. [Cfr. Nota, § II].