Dialoghi d'amore/Nota/II. Opere filosofiche e poetiche dell'Abarbanel

II.

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Nota - I. Vita di Giuda Abarbanel, detto Leone Ebreo Nota - III. Criteri e problemi di questa edizione
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II

L’opera filosofica e letteraria di Leone si limita, per quanto ci è noto, a questi tre capi: 1) i Dialoghi d’Amore 2) un trattato De coeli harmonia, perduto; 3) le poesie ebraiche.

Quanto ai Dialoghi d’Amore, un dato fondamentale per fissare il tempo della loro composizione è offerto dal testo stesso, dove [p. 425 modifica]si dice che «siamo, secondo la veritá ebraica, a cinque milia ducento sessantadue [anni] dal principio de la creazione» (Dialogo III, p. 245): e cioè nell’anno ebraico 5262, corrispondente al periodo settembre 1501-settembre 1502. Da questo dato si è tratto, e con molta facilitá ripetuto, che i Dialoghi siano stati scritti a Genova nel 1502. Ma sappiamo, intanto, che almeno dall’aprile 1501 Leone non era piú a Genova, bensí a Barletta, e poi, dal maggio, a Napoli, dove passò certamente tutto il 5262 del suo calendario. D’altra parte, quella data s’incontra giá avanti nel dialogo III, quasi a due terzi del libro: e poiché si tratta di un’opera di lunga lena, la data non può aver valore se non relativamente al dialogo III. Diremo dunque, anzi abbiamo giá detto, che a Genova, avanti l’aprile del 1501, Leone aveva con tutta probabilitá giá stesi i primi due dialoghi, e che, a Napoli, nel settembre del 1502 al piú tardi era giá progredito nella redazione del terzo. Ma non è chiaro se l’angosciosa domanda, — chi avrebbe finito e compito la sua opera, — che si trova nell’Elegia del 1504 (v. 102), si riferisca a uno stato di persistente incompiutezza del lavoro fino allora soltanto sbozzato, ovvero, come a me pare, soltanto alla mancata composizione di un quarto dialogo, non mai piú scritto.

In generale come termine a quo abbiamo nel testo (Dial. I, p. 38; Dial. II, p. 86), l’indicazione della «nuova navigazione de’ portoghesi e spagnuoli» nell’emisfero meridionale (Vasco de Gama, 1497; Cabral, 1501): e come termine ad quem la notizia giunta fino in Candia a Saul Cohen nel 1506 sulle ricerche di Leone intorno ai miti classici e biblici, le quali costituiscono due grandi digressioni nei dialoghi II e III.

Non meno spinosa questione è quella della lingua in cui furono scritti originariamente i Dialoghi: se in italiano o in ispagnuolo, o in ebraico; sebbene sia chiaro che furono conservati e divulgati soltanto in italiano. Vi fu anche chi asserí che il testo era conosciuto solo in forma latina, come il Montesa1, e chi addirittura ne parlò come di un’opera latina, come il Bartolocci2: [p. 426 modifica]ma il primo aveva bisogno di questa affermazione gratuita per concordare l’altra sua tesi della redazione originaria spagnuola con il fatto che suo padre avesse sentito il bisogno di tradurre il libro in ispagnuolo e lui di pubblicare la traduzione; e il secondo, qual puro bibliografo, scambiava per l’opera autentica la versione latina. Basta del resto considerare che nella prima metá del ’500 un testo latino, sia pure manoscritto, era ancora molto meno esposto alla dispersione che un testo volgare: e sarebbe strano che fosse avvenuto il caso inverso. Anche uno scrittore ebreo, Joseph Salomon del Medigo, di Candia, scriveva nel 1623 dei Dialoghi come di un’opera in lingua latina3: ma a parte la possibilitá che egli indicasse come «latina» anche la lingua italiana, è probabile che anche lui possedesse semplicemente la versione latina. Latino no, dunque (e maestro Leone non doveva poi essere un gran latinista): ma perché non spagnuolo? Questa era la lingua che Leone doveva conoscere meglio, dopo l’ebraico dei suoi libri e il giudeo-portoghese (per non dire il portoghese addirittura) della sua gioventú: certo nel 1501-’02 la conosceva meglio dell’italiano. In ispagnuolo dice il Montesa, testimonio apparentemente attendibile, che l’opera «fué escrita originalmente del autor», con sí elegante stile che ciascuna nazione nel proprio volgare desiderò tradurla. Ed ecco il Menendez y Pelayo, nel secolo scorso, confortare della sua autoritá questa voce isolata e sostenerne dottamente la tesi4: fondandosi principalmente sugli spagnolismi che abbondano nel testo italiano a noi noto, come razo per «raggio», «a chi» (á qui) per «a cui», e «chiamare» col caso dativo, e simili. Ma alcuni di questi spagnolismi, come gli ultimi due citati, erano allora diffusissimi in Italia: altri, e tutti in genere, son ben naturali in uno scrittore che scrivendo in una lingua mal nota come era per Leone l’italiano, conosciuto piuttosto attraverso l’uso che per dottrina, non poteva sottrarsi all’influsso di una lingua piú familiare, come lo spagnuolo. E accanto agli spagnolismi troviamo, piú frequenti ancora, i latinismi: sí che l’argomento è ben ambiguo. Né sembra probabile che, se l’editore del 1535, che era italiano, avesse sostenuto l’ingente fatica di [p. 427 modifica]tradurre dallo spagnuolo in italiano un’opera di questa mole, nella dedicatoria non se ne sarebbe fatto un merito e, soprattutto, non avrebbe usato maggior diligenza linguistica. Ma quel che piú importa, concordemente riferiscono l’opera essere stata scritta in italiano gli scrittori ebrei del tempo, come Baruch Usiel Chaschetto (1551), Gedaljah ibn Jachjah (1560 ca.), Azariah de’ Rossi (1570-’75), Jsaac Alatrini (1605), Joseph Baruch da Urbino (1659)5; e non meno importa che la ritenessero scritta originariamente nel nostro volgare il Varchi, il Muzio, e il Cervantes6.

Di fronte a tali e tante testimonianze, non vi è alcuna notizia discorde, da quella del Montesa in fuori: la quale è troppo incerta e oscura, anche di per sé stessa, per meritare ulteriore considerazione. Resta l’ipotesi dell’ebraico, che ora velatamente ha avanzata il Pflaum7: ma, per quanto possa apparir naturale, essa urta non men dell’altra contro l’asserto concorde dei dotti israeliti, che certo non avrebbero ignorato un dato cosí essenziale per loro, e non trova alcun appoggio concreto, se si eccettui una trascrizione di νόμος con nimos (come nella trascrizione ebraica), svista o licenza spiegabilissima da parte di un ebreo8. Sicché l’originaria italianitá dei Dialoghi resta inconcussa; e d’altra parte è uno stato di fatto senza possibilitá di rimedio anche per chi si ostinasse a negarla: né toglie però che si pensi, se proprio non se ne vuol fare a meno, ad abbozzi o appunti o primi saggi di stesura in ispagnuolo o in ebraico.

La struttura dell’opera è semplice, e non suggerisce in questa sede particolari considerazioni, se non quelle poche che seguono. Filone è l’autore stesso: e possiamo pensare che egli scegliesse [p. 428 modifica]questo nome per l’interlocutore non solo per omaggio all’umanesimo, ma per memoria di Filone di Alessandria, suo grande antecessore nel sincretismo9. Filone di Alessandria si chiamava ebraicamente Jedidjah, che vuol dire «amico di Dio»: e cosí il Filone dell’Abarbanel non è soltanto «l’amante», ma corrisponde esattamente al Teofilo e Filoteo del Bruno. Sofia è «la sapienza»: né solo la sapienza greca, ma la sapienza dello gnosticismo giudaico, e prima di tutto la sapienza salomonica, perché il suo compito principale è di dubitare. Come donna, apprendiamo via via che essa è estremamente intelligente ma non bella: sí che la sua bellezza è esclusivamente spirituale. Ella mostra di possedere, almeno quanto la filosofia, anche le arti della civetteria: e giustamente è stato notato che i dibattiti in cui Sofia si nega e Filone protesta il suo disperato amore costituiscono ai Dialoghi una cornice artistica degna del Rinascimento10. Ma piú originale forse, per quanto meno appariscente, è la tessitura stessa della discussione, che pone le basi del futuro dialogo bruniano e spinoziano, poiché si svolge attraverso continui dubbi, negazioni e antitesi, cui Filone si affatica a superare, con un procedimento ben diverso da quello del dialogo platonico, ma non ignoto a chi abbia qualche familiaritá con la scolastica arabo-giudaica (basti rammentare il Fons vitae di Ibn Gebirol, ben noto al nostro) e che del resto anche ricorda le sottili contrapposizioni di Abelardo e dei grandi Scolastici, divenute qui materia d’arte.

I Dialoghi dovevano essere quattro, dedicati successivamente alla definizione e determinazione di amore e desiderio, all’universalitá o comunitá dell’amore, al problema fondamentale della sua origine, infine agli effetti dell’amore. Senonché dopo i tre che abbiamo (D’amore e desiderio; De la comunitá d’amore; De l’origine d’amore), invano si desidera il quarto, come invano lo desiderarono i contemporanei11; del suo argomento si ha quasi [p. 429 modifica]un assaggio preliminare nel III dialogo; del suo probabile andamento drammatico si può forse dire che Sofia avrebbe finito per cedere a Filone posto che giá alla fine del dialogo III si lascia sfuggire una mezza confessione di essere toccata dal suo amore, e che molto Leone si proponeva di approfondire il contrasto fra i benefici e i malefici dell’amore; ma questo è tutto. Certo una quarta parte doveva essere scritta, perché il libro appare non chiuso: ma se sia stata scritta e poi si sia dispersa, ovvero se Leone non abbia attuato il disegno di quel quarto dialogo (forse per quel certo timore di offendere il dio Eros e di svelare segreti non comunicabili, a cui accenna lá dove tocca il tema, o piú semplicemente per le vicende della sua vita inquieta), non abbiamo modo di decidere.

Notevole la sproporzione della materia e dello svolgimento fra i primi due Dialoghi e il terzo, che da solo è piú esteso degli altri due messi insieme e ne riassorbe in qualche misura i problemi fondamentali, riprendendo in particolare l’argomento del primo. I primi due dialoghi hanno inoltre uno schema piú semplice, ripartendosi l’uno nella triplice trattazione dei rapporti tra amore e desiderio, dell’amor divino, dell’amore umano, e l’altro egualmente nei tre capi dell’amore nel mondo sublunare, nel mondo celeste, nel mondo angelico: mentre il terzo dialogo si suddivide nettamente in due parti, l’una dedicata alla teoria dello spirito nel suo duplice aspetto di anima e intelletto, e l’altra, che da sola fa metá del libro, alle cinque questioni sull’origine dell’amore nelle quali si riassume tutta la filosofia di Leone. Nulla vieta pertanto di pensare che un primitivo disegno si sia venuto via via ampliando, come dimostra giá la lunga digressione del II dialogo sull’interpretazione esoterica dei miti: ma una rielaborazione in vista di maggiore equilibrio nell’economia dell’opera non era certo richiesta dalla tradizione letteraria dell’ebraismo medioevale. Gli intermezzi amorosi tra Filone e Sofia segnano tuttavia divisioni un poco piú rispondenti alle esigenze della materia trattata.

Quali relazioni intrinseche avesse con i Dialoghi la seconda opera di Filone non ci è direttamente noto: perché tutto quel [p. 430 modifica]che ne sappiamo è in una breve notizia del medico israelita e marrano Amato Lusitano12, datata da Salonicco, 1559:

Jehudah Abarbanelius, magni illius Jehudae sive Leonis Abarbanelii platonici philosophi, qui nobis divinos de amore dialogos reliquit, nepos... aetate XXVII amorum... supremum diem obiit, non sine doctorum hominum dolore. Philosophiae namque, ut obiter hic dicam, apud se librum iustae magnitudinis, quem avus suus composuerat, reservatum habebat, cui de coeli harmonia titulus erat, non nisi longobardicis litteris inscriptus, et quem bonus ille Leo, divini Mirandulensis Pici precibus, composuerat, ut ex eius proemio elicitur. Quem librum ego non semel percurri et legi et, nisi mors immatura nepotis huic ita praevenerat, eum brevi in tempore in lucem mittere decreveramus. Est sane opus hoc doctissimum, in quo bonus ille Leo, quantum in philosophia valebat, satis indicaverat, scholastico tamen stilo inscriptum.

Donde si rileva: che il nipote di Leone (cioè il figlio del fanciullo trafugato in Portogallo nel 1492) conservava ancora nel 1559 un manoscritto del filosofo, probabilmente autografo; che questo manoscritto, consultato fruttuosamente dai dotti, conteneva un trattato, di giusta mole, intitolato De coeli harmonia; che questo titolo era scritto solo in lettere «longobarde», cioè con la corrente scrittura lombarda, e, stando alle apparenze, in latino, certo non in ebraico; che dal proemio si ricavava essere stato il libro scritto a istanza di Pico della Mirandola; che l’opera, dottissima, era redatta in istile scolastico. Lo Zimmels13, osservando che Giovanni Pico era morto nel 1494, suppone che l’ispiratore dell’opera fosse Francesco Pico suo nipote: ma l’espressione «divini Mirandulensis Pici» non lascia dubbio che si tratti proprio del primo. E pertanto l’opera, per la data probabilmente anteriore e per il contenuto presumibile dal titolo, si dovrebbe considerare un primo saggio delle idee svolte nella parte centrale del II dei Dialoghi d’Amore; il che forse può rendere meno vivo il rimpianto della dispersione, avvenuta per la morte del nipote del nostro, se si deve tenere in considerazione il fatto che questa morte era motivo al Lusitano per rinunciare al suo progetto di edizione del libro14. [p. 431 modifica]Ma che la formula «scholastico stilo» mostri come il trattato fosse steso in latino, secondo pare al Pflaum15, è supposizione arbitraria: lo stile scolastico riguarda evidentemente il metodo dello svolgimento in forma sillogistica e formulistica, in opposizione alla forma appassionata e dialettica dei «divini» dialoghi d’amore. Anzi il rilievo che proprio il titolo era soltanto (non nisi) in caratteri occidentali e non ebraici, può far dubitare che il testo fosse per contro in ebraico.

I componimenti poetici di Leone, tutti in lingua ebraica e in distici, sono cinque in tutto: 1) l’elegia autobiografica, intitolata Telunoth ’al ha-zeman («Elegia sopra il destino», o anche Lamentationes de mutatione temporum), edita la prima volta nel 1857, secondo il manoscritto, dal Carmoly e riprodotta nella introduzione alla versione ebraica dei Dialoghi nel 1871; — 2-4) i tre brevi componimenti laudativi premessi ai commentari talmudici di Isacco Abarbanel editi a Costantinopoli nel 1505-’06, che portano i titoli di Zebach Pesach («Sacrificio pasquale», commentario all’Haggadá ossia alla parte leggendaria del Talmud), Nachalath Aboth («La parte dei Padri», commentario alle Pirke Aboth, «Sentenze dei Padri»), Rosch Amanah («Il culmine della veritá», ovvero «della fede»): tutti tre i carmi di Leone sono acrostici, il primo e il terzo in Jehudah, il secondo in Jehudah ben Jizhac Abarbanel; — 5) l’elegia in commemorazione del padre, per l’edizione del suo Commentario sopra gli ultimi Profeti edita a Pesaro nel 1520, e ristampata piú tardi ad Amsterdam16. Soltanto le due maggiori elegie, l’una di 137 e l’altra di 55 versetti o distici, hanno valore poetico, ma grandissimo17. Un’edizione critica di tutti i cinque componimenti ha dato recentemente il Gebhardt in appendice alla sua riproduzione dei Dialoghi: e sul testo da lui fissato con la collaborazione di altri studiosi ho condotto direttamente la mia traduzione. La quale è stata per altro preceduta per tutte le poesie da quella del Gebhardt (in italiano), che accompagna il suo testo critico, e per l’Elegia sopra il destino dalla [p. 432 modifica]versione che ne ha dato (in tedesco) il Pflaum18: ma poiché la prima è soltanto il saggio di uno straniero, mosso dal nobile desiderio «di dare forma italiana alla pubblicazione delle opere di Leone Ebreo», e la seconda è limitata ad un solo componimento, la mia fatica potrá apparire, se non nuova, utile almeno.


Come si vede, tutta la fama di Leone poggiava e poggia, in sostanza, sui soli Dialoghi d’Amore: ma non lui, che ne dovette portar seco, qual prezioso tesoro, il manoscritto nelle molteplici peregrinazioni, non lui potè pubblicarli. Qualche anno dopo la sua morte il manoscritto era nelle mani di un Mariano Lenzi, non altrimenti conosciuto, se non forse come familiare di Francesco Pico19; il quale li pubblicava, traendoli «fuora de le tenebre in che essi stavano sepolti», dedicandoli alla «valorosa donna» Aurelia Petrucci, del pari a noi ignota. Non si può dire con sicurezza che il Lenzi fosse amico di Leone: poiché egli parla solo di volersene obbligare l’ombra, che si rallegrerá della dedica a tanto alta persona; ma che meriti di tal genere siano opera d’amico piuttosto che di estraneo, è abbastanza evidente20.

Uscivano pertanto a Roma nel 1535 i Dialoghi in edizione oggi assai rara, unico fondamento di tutte le edizioni posteriori, con il semplice titolo di Dialogi d’Amore | di mae | stro Leone medi | co hebreo: bel volume in-4, opera dell’insigne tipografia del Blado. Sul verso del frontespizio si legge: «Con gratia, et prohibitione del sommo Pontefice, de l’eccelso Senato di Venetia, de l’Illustrissimo Duca di Milano, de l’Illustrissimo Duca di Fiorenza, et altri Principi d’Italia, che nissuno possi stampare detta opera sotto le pene che ne’ lor privilegii si contiene». Segue in due facciate senza numerazione la dedica del Lenzi; poi si hanno i tre dialoghi, con numerazione separata e nel solo recto delle pagine, il primo di pp. 1-37, il secondo di pp. 2-75 (la pag. 1 porta l’elenco dei fogli del dial. I), il terzo di pp. 1-154. A pag. 154b e nella facciata di contro (s. n.) si ha un’errata-corrige, con questa premessa: «Ancor che si sia usata assai diligenzia, non s’è potuto [p. 433 modifica]tanto avvertire per la longhezza dell’opera, non si sia incorso nel comune errore [di] quasi di tutte l’opere che si stampano, cioè d’alcune scorrezioni, et perché alli lettori è facil cosa ravvedersene, et emendarli, è nondimeno paruto bene il notarli, acciocché per la negligenza d’altri non fusse incolpato l’autore». Nel verso dell’ultima pagina: Stampata in Roma per Antonio Blado d’Assola. Del M. D. XXXV.

Le poche correzioni elencate nell’errata, quasi esclusivamente di sviste tipografiche21, sono in realtá solo una minima parte di quelle che richiede il testo romano, scorrettissimo dalla numerazione delle pagine alla grafia irregolarissima, dagli errori frequenti del compositore all’interpunzione affidata al caso, dalle numerose omissioni all’uso incertissimo delle maiuscole e degli accenti. Ma chiunque abbia pratica di edizioni cinquecentesche, si avvede subito che la stampa del Blado è stata composta su un manoscritto originale, cosí com’era, senza revisione di sorta, salve le arbitrarie modificazioni dei tipografi. Che poi quel manoscritto fosse l’intatta opera di Leone, e non ritoccato da Mariano Lenzi, è un dato di fiducia che bisogna concedere a quest’ultimo, sul fondamento non trascurabile dell’alta e costante coerenza del testo sotto ogni suo aspetto. In un sol caso c’è manifesta interpolazione: a p. 73b del Dial. III, dove si legge: «Coloro chel desiano [di mai nô morire] nô credeno interamête che sia impossibile, hano inteso per le historie legali, che Enoc, et Elia, et ancor’ santo Giovani euangelista sono immortali in corpo, et anima»; e dove quell’et ancor santo Giovanni evangelista (il quale non solo è luminare del Cristianesimo, ma di cui non si poteva certo trovar menzione nelle istorie legali e cioè ne’ libri storici del Vecchio Testamento) non viene certo dalla penna del fedele israelita Giuda Abarbanel, ma da un’interpolazione, si può dir quasi spontanea, del cristiano Lenzi. Nella presente edizione, confortati dalla concorde opinione dei piú autorevoli studiosi22, abbiamo [p. 434 modifica]pertanto relegata in nota (v. a pag. 279) la frase sospetta. Ma per quanto si cerchi, non sembrano esservi nel libro altri casi consimili.

Nel 1541 l’opera, sottoposta (non sappiamo ad opera di chi) a una paziente e minuziosa, ma sovente arbitraria, revisione umanistica, era ristampata a Venezia per cura di Aldo Manuzio, col titolo di Dialoghi di amore composti per Leone Medico Hebreo, in nitido ottavo piccolo (pp. 261, doppie). Il titolo si trova poi modificato con la clausola di Natione Hebreo, e dipoi fatto cristiano nella seconda edizione aldina del 1545; si riduce alla prima ed esatta formula nelle edizioni dei figli di Aldo con le date 1549 e 1552 (di pp. 228). Attraverso le quattro edizioni aldine (ve ne sarebbe secondo il Graesse23 ancora una quinta, del 1558) il testo si presenta, nella sua nuova forma, sempre piú corretto e accurato: l’edizione del 1552 mostra in particolare di essere stata riveduta con nuova attenzione. Essa è il fondamento delle altre edizioni uscite a Venezia nella seconda metá del secolo, le quali per lo piú annunziano nel titolo i Dialoghi di amore di Leone Hebreo medico, di nuovo corretti e ristampati, o meglio guastati da piú libere mani: e cioè le edizioni del 1558 ap. Domenico Giglio, del 1562 ap. Nicola Bevilacqua, del 1565 presso Giorgio de’ Cavalli, del 1572 ancora del Bevilacqua, del 1573 del Bonfadino, del 1586 ap. Giovanni Alberti, del 1587 e del 1607 terza e quarta del Bevilacqua. Alle quali edizioni integre tutte e di palese origine, è da aggiungere una rara stampa dello stesso secolo XVI, con l’intestazione di Libro de l’amore divino et humano, che riproduce il solo dialogo II, e non porta indicazioni tipografiche, ma si suppone essere uscita dalle officine dei Giunta24. Sono dunque ben quattordici le edizioni italiane dell’opera, nel breve spazio di settantadue anni, e stanno a documentare materialmente la sua enorme diffusione.

I Dialoghi divennero immediatamente il trattato tipico della nuova erotologia, come appare dalle citazioni ammirative del Betussi25, [p. 435 modifica]di Tullia d’Aragona26, del Varchi27, del Doni28, e dalla ricordata intenzione del Piccolomini di compiere l’opera con un quarto dialogo. E la fortuna del libro si estese senza indugio fuori d’Italia. Nel 1551 ne usciva a Lione (ap. de Tournes, 2 tomi in un vol.) una traduzione francese anonima, attribuita a Ponthus de Tyard29; e pure nel 1551 a Lione (Rouille; in due tomi) si pubblicava La sainte philosophie d’Amour de Léon Hèbreu, traduicte de l’italien par le seigneur Du Parc (cioè Denis Sauvage), con sonetto introduttivo30, versione ristampata nel 1559 (dallo stesso Rouille) e nel 1595 (Lyon, Rigaud). Il Ronsard, negli Amours31, inveiva contro

     Leon Hebrieu, qui donne aux dames cognoissance
d’un amour fabuleux, la mesme fiction:
faux, trompeur, mensonger, plein de fraude et d’astuce,
je croix qu’en lui coupant la peau de son prepuce
on lui coupa le coeur et toute affection.


E Montaigne, verso il 158832, a dimostrare che «les sciences traictent les choses trop finement, d’une mode trop artificielle et differente á la commune et naturelle», scriveva: «Mon page faict l’amour et l’entend. Lisez luy Leon Hebreu et Ficin; on parie de luy, de ses pensées et de ses actions, e si il n’y entend rien». Son critiche forti, ma documentano una popolaritá non comune. Attraverso Ponthus de Tyard e Maurice Scève, che giá dal 1544 [p. 436 modifica]aveva largamente sfruttati i Dialoghi nella sua Délie, la scuola lionese aveva largamente operato questa divulgazione.

Anche maggior fortuna ebbero i Dialoghi in Ispagna, dove il libro interessava non solo per l’argomento, ma per la personalitá dell’autore e per la sintesi di ebraismo e di platonismo italiano, cioè di due fondamenti essenziali della Rinascenza spagnuola. A promuoverne la diffusione nella penisola iberica giovò anzitutto una traduzione uscita a Venezia nel 1568, opera di Gedaliah ibn Jachjah (al. Guedello Yahia), dotto cabalista33: Los Dialogos de Amor de Mestre Leon Abarbanel Medico y Filosofo excellente. De nuevo traduzidos en lengua castellana y deregidos a la Magestad de rey Filippo34. Ma la prima traduzione stampata in Ispagna uscí a Saragozza nel 1584 (dal tip. Angelo Tavanno), e vi fu anche ristampata nel 1593: essa porta il titolo, scambiato poi talvolta per l’autentico35, di Philographia Universal de todo el mundo, de los dialogos de Leon Hebreo, traduzida de Italiano en Español, corregida y anadida por micer Carlos Montesa... de Çaragoça (in-4, pp. 27 + 263 doppie). Ma la versione era stata giá iniziata dal padre del traduttore Hernando de Montesa, nel suo soggiorno a Roma al seguito dell’ambasciatore di Spagna don Diego de Mendoza, sotto il pontificato di Giulio III (1550-’55): il Carlos Montesa, recatala a compimento, vi premise una Apologia en alabança de amor, una prefazione con le notizie alquanto cervellotiche di cui abbiamo discusso piú sopra, e ritoccò il testo in modo da attenuarne gli spunti teosofici e cabalistici e da poter scrivere sul [p. 437 modifica]frontespizio: «Es obra utilisima y muy provechosa assi para seculares come religiosos». Ma il valore della traduzione è assai modesto.

Letterariamente perfetta, fedele al testo e in tutto degna dell’opera è La traducion del Indio de los tres Dialogos de Amor de Leon Hebreo, hecha de Italiano en Español por Garcilasso Inga de la Vega, natural de la gran Ciudad del Cuzco, cabeça de los reynos y provincias del Perú, dirigidos á la sacra Catolica Magestad del rey don Felipe maestro señor. (En Madrid. En casa de Pedro Madrigal. M. D. XC) (in-4, pp. + 313 + 30 di indice). Questa versione, per la personalitá del traduttore e per il suo valore stilistico, è considerata un testo classico della letteratura spagnuola, e come tale è stata di recente ristampata con gli altri scritti di Garcilaso de la Vega nella Nueva Biblioteca de Autores Españoles (Madrid, 1915, vol. XXXI, pp. 283-458): ma appunto per la sua rapida diffusione e per la sua integritá veniva posta all’indice dei libri proibiti dall’Inquisizione di Spagna36.

Una quarta traduzione, secondo il grande bibliografo Nicolas Antonio, sarebbe stata fatta dal cronista aragonese Juan Costa, che però non giunse a stamparla37.

Ma nemmeno occorrevano allora traduzioni in Ispagna per far conoscere un libro italiano. Il Cervantes non solo citava, come si è visto, Leone Ebreo nel prologo del Don Quixote, ma traeva quasi testualmente dai Dialoghi d’Amore la materia di un lungo dibattito sull’essenza del bello, contenuto nel IV libro della Galatea38: è vero che la Galatea è del 1585, quindi posteriore alle prime due versioni spagnuole, ma dalla frase del Quixote pare evidente che Cervantes leggeva questo suo autore in italiano: «Si tractaredes de amores, con dos onzas que sepais de la lengua toscana, topareis con Leon Hebreo, que os hincha las medidas». I grandi lirici spagnuoli e portoghesi del ’500 e lo stesso Camoens sentirono come il Cervantes questo profondo soddisfacimento nella lettura di Leone39. [p. 438 modifica]

I Dialoghi furono anche assicurati al patrimonio della cultura internazionale da una traduzione latina, pubblicata da Juan Carlos Sarrasin nel 1564 a Venezia (ap. Franciscum Senensem, pp. 59 + 422, 8° piccolo) e dedicata al cardinale Granvela: Leonis Hebraei, doctissimi atque sapientissimi viri, De amore dialogi tres, nuper a Joanne Carolo Saraceno purissima candidissimaque latinitate donati; necnon ab eodem et singulis dialogis argumenta sua premissa, et marginales annotationes suis quibusque locis insertae, alphabetico et locupletissimo indice his tandem adiuncto, fuerunt. La versione è veramente fatta con molta cura e intelligenza, e importanti aiuti allo studio del testo sono gli argomenti, le note marginali e la tavola delle materie. Nella dedicatoria il Sarrasin esalta la vasta dottrina dell’Ebreo, e rileva nettamente il valore filosofico del libro. Questa traduzione fu ristampata poi nel 1587 a Basilea dal Pistorius, come primo tomo di una silloge Artis cabalisticae, hoc est, reconditae theologiae et philosophiae scriptorum: e in questo tomo lesse i Dialoghi nel 1797 lo Schiller, che li considerò come un’opera prevalentemente astrologica, ma di grandissimo interesse40. In ogni modo al Sarrasin spetta il merito di aver primo avviato in modo deciso l’influsso di Leone dal campo dell’estetica e della letteratura a quello piú vasto della filosofia, dove attraverso Bruno e Campanella, Bacone e Spinoza esso esercita un’azione di prim’ordine sullo svolgimento del pensiero moderno41.

L’ultima edizione dei Dialoghi è per altro quella veneta del Bevilacqua nel 1607. Il decreto proibitivo dell’inquisizione spagnuola, pur essendo limitato alla versione di Garcilaso de la Vega, e non riguardando quindi neppure la versione del Montesa (perché ritoccata secondo criteri cattolici), dovette di riflesso influire anche sui tipografi italiani. D’altra parte è chiaro che per la Controriforma e per i nuovi indirizzi dell’estetica e della morale nel secolo XVII l’interesse suscitato dai Dialoghi era destinato a scemare42. Né [p. 439 modifica]alcuna edizione del testo originale o delle traduzioni ricordate è stata fatta fino ad oggi.

Solo nel 1871 usciva a Lyck, nella serie M’kize Nirdanim del Gordon, una traduzione ebraica dell’opera di Leone, dovuta a Joseph Baruch da Urbino (sec. XVII), preceduta dall’elegia autobiografica dell’Abarbanel: il volume porta il titolo di Vicoach ‘al ha-Ahabah («Deputazioni sopra l’Amore»), e offre non piccolo sussidio per l’interpretazione del testo.

Infine nel 1924, nella Bibliotheca Spinoziana (t. III) uscivano i Dialoghi d’Amore e le Poesie ebraiche, a cura di Carl Gebhardt (Heidelberg — ’S Gravenhage — London, curis Societatis Spinozanae; in-4° gr., pp. xvi + text. Dial. + 30 + 11): in nitida riproduzione anastatica dell’edizione principe dei Dialoghi, con edizione critica e versione italiana delle Poesie, per la prima volta raccolte e illustrate. In questo modo il Gebhardt, che ha raccolto in una succosa introduzione i principali dati biografici e bibliografici, poneva a piú facile portata degli studiosi la rarissima stampa del 1535 e auspicava all’edizione critica, di cui chi scrive ha ora cercato di assolvere il compito43.

Note

  1. L. c.: «mi padre... quiso hacer esta traducion de lengua Latina en Española, en que fué escrita originalmente del autor, con tan elegante estilo, que dió occasion á que qualquiera nacion desease traducilla en su proprio vulgar para participar de la amorosa philosophia que el libro tenia».
  2. Bartoloccius, Bibliotheca magna rabbinica (Roma, 1683), pars III, p. 56: «R. Judas ben R. Isaaci Abravanelli, cognomeno Leo Hebraeus, philosophus et medicus non vulgaris sui temporis, scripsit lingua Latina De Amore dialogi tre».
  3. Mihthab achus, ed. Geiger (in «Melo chofnajim», Berlin, 1840, p. 29 (cfr. Pflaum, op. cit., p. 151).
  4. Origines de la novela, l. c.: confutato giá ampiamente dal Savino, op. cit., pp. 109-111.
  5. Tutte queste citazioni, in genere puramente laudative, sono riportate integralmente dal Pflaum, op. cit., pp. 150-151: ma si noti che due di questi autori, il Jachjah e il da Urbino, tradussero anche il nostro testo, l’uno in ispagnuolo e l’altro in ebraico, (v. oltre).
  6. B. Varchi, L’Ercolano (1560): «Se i Dialoghi di Leone Ebreo fossero vestiti come meriterebbero, noi non aremmo da invidiare né i Latini né i Greci» (ed. princ. Firenze, 1570, p. 27): G. Muzio, Battaglie per difesa dell’italica lingua (1560): «Leone Ebreo scrisse quei suoi tre Dialoghi d’Amore, dei quali il secondo è per due volte grande come il primo, e il terzo è per due volte grande come il secondo, ed è di lunghezza fastidiosa (ed. di Napoli, 1742, p. 31); Cervantes, Don Quixote, prol. (ed. princ. 1605): «Con dos onzas que sepais de la lengua toscana, topareis con Leon Hebreo».
  7. Op. cit., p. 157 n.
  8. Vedi a p. 337, l. 6, di questa ed.
  9. Il ravvicinamento è giá in Joseph Salomon del Medigo, l. c. (Pflaum, p. 151)
  10. G. de Ruggiero, in «Critica», XXV (1927), p. 396.
  11. Dalla dedica (datata 1540) dell’Institutione di tutta la vita dell’uomo nato nobile (Venezia, 1542) di Alessandro Piccolomini a Don Diego Mendoza (lo stesso che poi indusse probabilmente il Montesa a tradurre i Dialoghi in ispagnuolo), appare che il Mendoza, allora ambasciatore di Spagna a Venezia, molto desiderava il ritrovamento del «Quarto dialogo di Filone e Sofia», o, se non si trovasse, che almeno il Piccolomini lo aggiungesse lui. Questi giudicava che fosse «meglio d’aspettar qualche mese se tal Dialogo si scoprisse»: in caso contrario, si dichiarava disposto ad assumere lui la fatica; ma il proposito rimase, per quanto risulta, senza effetto.
  12. Curationum medicalium centuriae septem, t. II (Venezia, 1566), p. 152 (Cent. VI, cur. 98).
  13. N. Studien cit.
  14. Il Graetz, op. cit., IX, 226, opina che nel De coeli harmonia si dovessero trovare le dottrine piú profonde di Leone: ma, per quanto si può congetturare, non sembra che abbia ragione.
  15. Op. cit., p. 153 n.
  16. Ozar Nechmad, cit., II 70 sgg. Il Carmoly aveva trovato anche un’elegia di 46 versetti composta da Leone in lode del padre: ma il ms. di essa si perdette nella vendita all’asta della sua collezione.
  17. Gli ultimi cinque versetti della prima e, ancor piú evidentemente, gli ultimi tre della seconda sono con molta probabilitá spurii: per lo meno non fanno parte del testo poetico vero e proprio.
  18. Soncino-Blätter cit., I (1925-’26).
  19. S’incontra infatti un Marianus vester vel potius noster in (Fr.) Pici, Opera (Basilea, 1571), t. II, p. 1313.
  20. Vedi tutta la dedicatoria del Lenzi (in questo vol., pp. 1-2), e particolarmente la chiusa.
  21. Due solo ve ne sono di sostanziali: la prima, Clotos in luogo di Chaos a p. 36 a 23 del Dial. II (p. 112, l. 18 di qs. ed.) è stata da me accettata come ovvia; la seconda, de’ sei di in luogo di de’ servi a p. 53 a 4 del Dial. III p. 249 l. 25 di qs. ed.) ho avuto scrupolo di accogliere, perché, se tipograficamente l’errore è comprensibile, la correzione mi ha tutta l’aria di una chiosa.
  22. Solmi, op. cit., p. 27 n.; Gentile, l. cit., pp. 100 n.; Gebhardt, Introd. cit., p. xiv; Saitta, op. cit., p. 91.
  23. Trèsor de livres rares et pricieux (Dresden, 1863), IV, 165-166.
  24. Cfr. G. Rossi, La collezione Giordani della Bibl. Comunale di Bologna, in «Giorn. stor. lett it.», XXVII (1896), p. 372 sgg.
  25. Il Raverta (1544): «se dall’opera di quell’ebreo che sí divinamente ha scritto dell’amore... voi non rimanete contenta, molto meno di me v’appagherete voi» (in Trattati d’amore del Cinquecento, a cura di G. Zonta; Bari, Laterza, 1912; p. 4).
  26. Della infinitá di Amore (1547): «Io prepongo Filone a tutti, se bene in alcune cose, e massimamente quando entra nelle cose della fede giudaica, piú tosto lo scuso che l’approvo» (Trattati d’amore cit., p. 224).
  27. L’Ercolano, l. c.; Sopra alcune quistioni d’amore, lez. I (1554): «Ultimamente venne in luce il Dialogo di Filone Ebreo, diviso in tre libri, nei quali si tratta, benché alcuna volta oscuramente e confusamente, cosí a lungo delle cose d’amore e cosí veramente, che io per me lo prepongo a tutti gli altri» (ed. di Firenze, 1590, p. 352)
  28. La Libraria del Doni Fiorentino (1550): «Leone Hebreo ha mostratoci quanto si può dire e bene dire nelle cose amorose e ci diede un honorato volume, Dialoghi di Amore» (ed. di Venezia, 1571, p. 31 b).
  29. Cfr. F. Brunetière, La Plèiade française, in «R. des Deux Mondes», CLXII (1900), p. 905; F. Flamini, Du rôle de P. de Thyard dans le pétrarquisme français, in «R. de la Renaissance», I (1901), p. 50.
  30. Vedilo riportato in Pflaum, op. cit., pp. 153-154.
  31. Ed. Laumonier, Paris, 1924, II, 176.
  32. Essais, III, 5.
  33. Il quale nella sua Schalsceleth ha-kabbalah («Catena della tradizione»), (Venezia, 1587, p. 64 b), ricorda il figlio di Isacco Abarbanel come un saggio e filosofo di straordinario valore, «il quale scrisse un libro italiano, intitolato “Dialoghi di Leone il Giudeo”, in cui si vede tutta la grandezza della sua filosofia»: ma non parla di questa sua traduzione, che del resto è apparentemente anonima. Ciò ha indotto taluno a identificarla con quella del Costa (cfr. Graesse, l. c.); ma questa invece rimase inedita.
  34. V. per questa e le seguenti versioni la bibliografia del Menendez y Pelayo, Historia de las ideas est. III3, pp. 14-18 n.
  35. P. es. da Rabbi Imanuel Aboab, Nomologia o Discursos legales (1625; ed. 1629), p. 303: «el señor don Jehudah Abravanel, que compuso la Philografia..., en que mostrò su extrema sabiduria... imita perfectamente á Platon; y dizen por el lo que por nuestro antigo Philon: “Aut Plato philonizat aut Philo platonizat”»; e da Menasseh ben Israel, De fragililate Humana (Amstelodami, 1642), p. 37: «opinio... don Ishac Abarbanel et filii eius Leonis Hebraei, in sua Philographia, sive Dialogo de Amore».
  36. Index librorum prohibitorum di Madrid, 1667, p. 758, col. 2; cfr. Rodriguez de Castro, Biblioteca española (Madrid, 1781), I, 372; Baumgarten, Hallensis Biblioth., VII, 29; Gallardo, Ensayo de una Bibl. española (1863), p. 1.
  37. Cfr. Menendez y Pelayo, Hist. cit, III 3, 18 n.
  38. F. E. Abelenda, Sobre la ‘Galatea’ de M. de Cervantes, in «Rev. de Archivios, Bibl. y Museos», n. s., XXV (1921), pp. 554-560; C. De Lollis, Cervantes reazionario (Roma, 1924), pp. 19-22.
  39. Pflaum, op. cit., pp. 139-141.
  40. Briefwechsel zw. Schiller u. Goethe, 7 aprile 1797.
  41. Per l’influsso sui trattatisti di estetica v. P. Lorenzetti, La bellezza e l’amore nei trattati del Cinquecento (Pisa, Nistri, 1920; estr. dagli «Annali della R. Scuola Normale Sup. di Pisa», XXVIII). — Per i rapporti col Bruno, v. in particolare F. Tocco, Di un nuovo doc. intorno a G. Bruno, in «N. Antologia» 1902, p. 91 sgg. — Nella biblioteca di Spinoza (Freudenthal, Lebensgeschichte Spinozas, p. 161) si trovava un volume di «Leon Abarbanel, Dialogos de amor», probabilmente nella traduzione del suo correligionario Jachjah.
  42. Tuttavia se ne trova qualche citazione settecentesca, come in Wolf, Bibliotheca Hebraeorum (Amburgo, 1715); Lampillas, Saggio apologetico della letteratura spagnuola (Genova, 1778); De Boissi, Supplèment á l’histoire de M. Basmage (Paris, 1785). — Col De Rossi (Dizionario storico degli autori ebrei, Parma, 1802) si fissa poi quel tipo di biografia sommaria del nostro, che si ritrova secondo uno schema costante in tutte le enciclopedie della prima metá dell’800.
  43. Oltre alla riproduzione del Gebhardt, sono state usufruite per la nostra edizione due copie dell’edizione Blado: una delle quali trovasi nella biblioteca di Benedetto Croce, e una nella Biblioteca delle Missioni Urbane di San Carlo a Genova.