La chiesa della solitudine
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GRAZIA DELEDDA
LA CHIESA
DELLA SOLITUDINE
ROMANZO
MILANO
S. A. FRATELLI TREVES EDITORI
Maria Concezione uscì dal piccolo ospedale del suo paese il sette dicembre, vigilia del suo onomastico. Aveva subita una grave operazione: le era stata asportata completamente la mammella sinistra, e, nel congedarla, il primario le aveva detto con olimpica e cristallina crudeltà:
— Lei ha la fortuna di non essere più giovanissima: ha vent’otto anni mi pare: quindi il male tarderà a riprodursi: dieci, anche dodici anni. Ad ogni modo si abbia molto riguardo: non si strapazzi, non cerchi emozioni. Tranquillità, eh? E si lasci vedere, qualche volta.
Ella lo guardò, coi grandi occhi neri nel viso scarno e verdastro d’angelo decaduto: avrebbe voluto fargli le corna o qualche altro segno di scongiuro, ma in fondo non credeva a queste cose e da molto tempo era rassegnata al suo destino. Si contentò di proporsi di non tornare mai più all’ospedale.
Adesso se ne tornava a casa, tutta avvolta e imbacuccata in un lungo scialle nero, che rendeva più sottile la sua persona alta, e più scuro il suo profilo di beduina; rasentò il muro del giardino dell’ospedale, poi il muro più basso di un orto piantato quasi tutto a cavoli con il grosso fiore lunare, e sboccò subito in una strada campestre, sfossata e pietrosa, che andava verso i monti vicini. Tutto le sembrava diverso del come lo aveva lasciato; e lei stessa era diversa, vuota e, le pareva, con un odore di morte nelle vesti; odore che non l’avrebbe lasciata mai più.
Eppure si sentiva contenta; di camminare, di respirare, di aver fame, di voler bene a sua madre, alla sua casa, persino al gatto: gioia di vivere.
In quei giorni aveva piovuto abbondantemente, dopo una lunga siccità. La terra era nera, così che in certi punti sembrava cosparsa di fondi di caffè; ma dai lati della strada, fra i due ciglioni che scendevano in chine lente alle valli del Birchi e del Capro, due fiumiciattoli adesso appena ingrossati dai torrenti ravvivati dalle ultime piogge, vi risaltavano meglio i massi di granito quasi argentei, picchiettati di scintille nere, che affioravano come scogli fra l’erba umida lunga e scura simile alle alghe. Tutto d’altronde aveva alcunché di fondo marino, per i meandri della valle e le impronte ondulate del terreno, come se il mare in antiche epoche arrivasse fino alle falde dei monti e all’altura dove sorgeva il paese. E i monti stessi, sopra la casa di Concezione, avevano un aspetto arido, scaglioso, con le coste frastagliate, corrose, come un tempo battute dalle onde. Solo più in alto nereggiavano i boschi secolari di querce.
Insolita era anche l’abitazione davanti alla quale ella si fermò, nella biforcazione dove la strada proseguiva, da una parte inerpicandosi sulla china del monte, e dall’altra scendendo nella valle a sinistra. Era una chiesetta, con la facciata che appunto guardava verso questa valle; circondata davanti e a un lato da uno spiazzo rinforzato da un muricciuolo assiepato che chiudeva una specie di orto, con alberi da frutta; un cancelletto di legno vi si apriva, e un piccolo sentiero conduceva alla parte orientale della chiesetta, adibita ad abitazione.
Solo due finestruole munite d’inferriata si aprivano sul muro della vecchia costruzione, dove la strada svoltava sotto lo spiazzo: il tetto di tegole nere, incrostate di musco e di erbe parassite, copriva egualmente la chiesetta e l’abitazione; e due segni, due simboli, vi si guardavano, da uno spigolo all’altro, sopra le due valli del promontorio: si guardavano come fratelli che, pure lontani, separati da tutto un mondo, si ricordano con tenerezza, e son pur figli della stessa madre: quello in cima alla facciata, sopra un piccolo arco dal quale pendeva la campana, era una croce; l’altro, dalla parte dell’orto, e quasi sopra la porticina dell’abitazione, era un comignolo: e ne usciva una bandiera di fumo, che rallegrò il cuore di Concezione. Ella si fece il segno della croce, prima di spingere il cancelletto, e si pulì i piedi sull’erba quasi volendo lasciar fuori la polvere e il ricordo dei brutti luoghi e dei tristi giorni attraversati: e sincera fu la sua gioia quando sulla porticina della casa apparve la figura della madre, piccola figura dura e tutta grigia, come partecipe del colore e della natura delle pietre intorno; ma come appunto del granito aveva la chiarità argentea, e non so che di festoso e di solenne assieme.
Non aspettava così presto il ritorno della figlia, e non si esaltò nel vederla; sapeva che doveva tornare, che la Madonnina della chiesetta vigilava su loro due e non le avrebbe mai tradite: quindi sorrise appena, con la bocca grande incoronata di peli argentei, e finì di asciugarsi le mani nel grembiale grigio. E Concezione, dopo un cenno di saluto, attraversata la cucina, andò a riporre lo scialle nella cassapanca della camera attigua. Un odore di mele cotogne uscì dalla cassa piena di robe. Un letto grande, con una coperta di lana tessuta e ricamata a mano, tutta fiori e uccelli rossi e azzurri, occupava quasi intera la stanza e serviva per entrambe le donne: ed era alto in modo che, sotto, vi si rifugiavano cestini e arnesi, rotoli di lana filata, un sacco di patate e uno, più piccolo, di legumi; ma tutto in ordine, e pulito, sul pavimento di rozzi mattoni rossi. Entro un cestino, fra la lana scardassata, stava il bel gatto nero, che pareva si fosse messo una cuffietta bianca di pelo per dormire meglio: aprì un occhio verde, fissò la padrona, tornò ad assopirsi: partecipava all’olimpica tranquillità del luogo. Ritornando nella cucina, Concezione pero arrossì e si turbò nel vedere che la madre aveva tirato fuori dall’armadio a muro un porcellino morto, con la cotenna rossa e il ventre aperto ripieno di fronde di mirto: e lo guardava anche lei, la madre, incerta e un po’ inquieta, e pareva rivolgergli la parola.
— Povera bestiolina: avrà avuto solo tre giorni di vita. Mah!
Sospirò, rassegnandosi al destino della piccola vittima: in fondo bisogna sempre contentarsi quando la Provvidenza manda i suoi doni. Riprese, con la sua voce ancora giovanile:
— Ieri sera, è venuto Aroldo: e ha portato questo. Per te: per la tua festa. Ritornerà stasera. Voleva venire all’ospedale, ma l’ho sconsigliato. Era tutto felice, però. Ebbene, che ne facciamo, della bestiolina?
— Fate quello che volete. Se la mangerà lui, — disse Concezione con dispetto. — Poteva fare a meno di portarla.
— Ma Concezione...
La madre la guardò bene in viso, e solo allora si accorse che la figlia era completamente cambiata: sembrava d’un tratto invecchiata, con la pelle appassita intorno agli occhi foschi, i capelli tirati sulle tempia e raccolti stretti sulla nuca come appunto usano le vecchie. E pensò che, sì, Aroldo era troppo giovine per lei, un ragazzo, ancora, buono e innamorato, sì, ma al quale non si poteva pensare per un probabile marito. Inoltre era di razza diversa dalla loro; e anche diverso di linguaggio, tanto che la vecchia ne capiva a stento le parole; ma dagli occhi celesti di lui, dal sorriso luminoso e dalla voce calda ne intendeva la lealtà e la mansuetudine, e gli voleva bene come ad un bambino. Anche Concezione gli si era sempre mostrata non ostile: tutt’altro: ma adesso la malattia l’aveva cambiata.
Di questa malattia parlavano il meno che fosse possibile, come di una cosa misteriosa; e il suo nome terribile che, del resto, neppure i dottori avevano pronunziato chiaro, rimaneva, in fondo al loro cuore, con una segreta intesa di non rivelarlo neppure a se stesse: quindi Concezione non riferì alla madre le parole del primario dell’ospedale; e solo, mentre l’altra le porgeva con premura il caffè, disse che si sentiva molto debole e non doveva fare strapazzi.
— Sì, — confermò, quasi seguendo il pensiero della madre; — sono cambiata; mi sento vecchia, ma tranquilla. Riprenderò il mio lavoro, e vivremo contente.
Il suo lavoro era facile: cuciva biancheria, specialmente da uomo, e doveva a questo la conoscenza di Aroldo, che nell’estate scorsa le aveva portato da confezionargli sei camicie.
Ma prima di rimettersi tra la finestra e il camino, col paniere del lavoro accanto, ella andò nella chiesetta, passando per la piccola sagrestia che comunicava anch’essa con la cucina. Una finestruola alta s’apriva nella stanzetta, a nord: si vedeva il monte, come in un quadretto melanconico, senza sfondo di cielo, e la luce cruda delle rocce nude dava un senso profondo di solitudine glaciale. Anche la chiesetta, alla quale si entrava per mezzo di un usciuolo comunicante con la piccola sagrestia, sembrava scavata sotterra, tanto era fredda e umida; il barlume della lampadina accanto all’altare, e quello della lunetta polverosa sopra la porta, ne accrescevano la tristezza, ma, aperta la finestra, un chiarore cilestrino che veniva dall’orizzonte schiarito sopra le lontananze della valle, fece apparire meno gelido e desolato il povero santuario. Nulla lo adornava; il tetto era di assi come quello di una capanna; un sedile in muratura, lungo le pareti, faceva le funzioni di panca. Ma quasi ricco era l’unico altare, con una tovaglia ricamata, lungo e prezioso lavoro di Concezione: dieci candelabri di vetro dorato, con grossi ceri a scala, cinque per parte, facevano ala alla statuetta in legno della Madonna della solitudine.
E la solitudine più iperborea e sconfinata pareva pronta a sfidare, questa Madonnina quasi fiera, tutta scura e rigida nella sua nicchia azzurra macchiata d’umido, che dava l’idea di una grotta marina, ma di quelle che appaiono fra le nubi, in uno squarcio di cielo di sera tempestosa: uno spicchio di luna sosteneva infatti i piedi della bruna immagine, ed era la sola cosa di sereno che ne raddolciva la severità. Anche il Bambino che le sue mani lunghe e svogliate reggevano un po’ basso, quasi volesse scivolarle fra le pieghe rugose della veste, era imbronciato, camuso, animalesco; ma i suoi piedini grassocci, ribelli e mossi, con le ditina aperte e i pollici che sembravano animati, conservavano pure a lui un senso di tenerezza, di umanità quasi allegra; e fu verso quei piedini che Concezione guardò, più che verso la dura e assente Madonnina, sola davvero sopra la luna.
Poi ravvivò la lampadina, spostò il vasetto dei fiori di carta, polverosi e sbiaditi, e infine s’inginocchiò, con un brivido di freddo alle spalle.
Anche la sua anima rabbrividiva di freddo, di tristezza, di paura: improvvisa paura della vita, dei giorni che l’aspettavano tutti eguali, sempre eguali, senza più amore né speranza; e quei piedini sacri, lassù, nella luce rossastra simile al crepuscolo che precede la notte, le davano un desiderio profondo di pianto.
— Io non devo avere bambini: non devo averne, — pensava, attraverso le parole della sua preghiera: — ed è giusto, è giusto. Tutto è giusto, nella tua volontà, o Signore. Ho peccato contro l’amore, ho seminato il dolore e distrutto la vita di un uomo; e nella mia vita tu, Signore, spargi adesso il sale della sterilità. Sia fatto il tuo volere. E tu, Vergine Madre, aiutami adesso ad attraversare questa mia vita desolata; guardami dall’alto della tua misericordia.
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E le parve che quest’aiuto non le mancasse, durante le ore di quella giornata grigia e ferma come le pietre intorno. Seduta davanti al suo cestino di lavoro, dentro il quale era un rotolo di cotonina rosa da camicie da uomo, tentava di fare le asole a dei polsini già imbastiti prima della sua entrata all’ospedale; ma era fiacca, col braccio sinistro ancora indolenzito: tuttavia, in confronto ai tristi giorni passati, le pareva di essere tornata in un palazzo luminoso, e che lo sfondo della finestra, con lo spiazzo dell’orto, i cespugli, i massi del ciglione, fosse un giardino primaverile; la gioia di vivere la riprendeva suo malgrado. Era un ritmo umile, col ronfare del gattino arrotolato sulla pietra del focolare, l’odore del porchetto che la madre aveva messo ad arrostire nel forno ove ogni tanto ella cuoceva il pane; e l’andirivieni silenzioso di lei, intenta alle faccende di casa; e lo stesso immoto silenzio di fuori, rotto appena da qualche rotolìo di carretti o da passi di cavallo nella strada campestre.
Ma verso sera la solitudine si animò; una figura d’uomo campeggiò, grande, fra le piccole cose della cucina, quasi sproporzionata e stonata nel piano del quadro povero e stupito. Era Aroldo, il forestiero. Aveva un sacco sulle spalle; una specie di zaino che si sfilò lentamente dalle braccia aitanti, e depose in un canto, allontanando con la palma della mano il gatto subito curioso e avido.
— Va via, mascalzone, — disse, accarezzandolo: — non ti basta il buon odore intorno?
E lui stesso fiutò l’aria, come un ospite giunto al luogo ove troverà benessere e riposo. Ma la figura nera di Concezione, con quel viso notturno e gli occhi carichi di ombra, parve oscurare anche la sua. Il sorriso gli si sbiadì sulla bocca: bellissima bocca, con le labbra lucide infantili e i denti che parevano ancora quelli di latte.
Tutto del resto era bello e quasi troppo colorato, nel suo viso roseo, nei capelli biondi, negli occhi azzurri che le sopracciglia nere, alte e arcuate come quelle di una donna rendevano più vivi e dolci.
E rosso era il collo forte, rosse le mani forti, tutto forte, vivo, sanguigno, nel suo corpo quasi gigantesco.
Eppure parve sbiancarsi e diminuirsi tutto, come cercando di nascondersi nell’ampiezza del suo vestito di fustagno, per l’accoglienza non attesa di Concezione. Ne vedeva chiaro il mutamento, ch’ella non ostentava ma non nascondeva; e anche a lui sembrava un’altra, come se all’ospedale, invece dell’operazione che le due donne gli avevano dato a intendere, cioè una semplice estrazione di un polipo al naso, le avessero per opera malefica tolto il sangue, la carne, la giovinezza. E qualche cosa di inesplicabile, oltre l’alito di tristezza e di malattia, emanava da lei, quasi un senso di minaccia e di pericolo, gelando l’atmosfera già così confortante della casetta ospitale. Egli sentiva di essere di nuovo il forestiero, come quel giorno che era venuto portando la stoffa per le camicie, e Concezione gli aveva preso le misure senza guardarlo in viso: forestiero, di terra lontana, senza nessuno al mondo. Ma con quelle misure, Concezione lo aveva legato, stregato; e le camicie cucite da lei erano state poi per lui come l’abito nuovo per i ragazzi, il vestito di festa, una fascia di speranza e di gioia.
— Come va? — disse con voce bassa, turbata: e pareva avesse paura di essere ascoltato da qualcuno più padrone delle stesse padrone, che lo potesse cacciar via come un intruso.
— Siedi; va bene, tutto bene, — rispose la madre. — Concezione è guarita; la vedi.
— La vedo, — egli dice, ma incerto; e non osa rivolgersi direttamente alla giovane donna; anzi, in attesa ch’ella si degni di venirgli incontro, fa due passi indietro verso la porta, pronto ad andarsene se lei glielo ordina: tanto che ella, accorgendosene, ha un sorriso fra di beffe e di pietà.
— E siedi, — gli dice, in modo quasi rozzo, battendo la mano sulla spalliera della sedia accanto al focolare. — Da dove vieni?
Rosso di emozione e di gioia, egli fece un cenno, col braccio teso verso la porta. Arrivava di lontano, di laggiù, dalla valle dove questa si congiunge con un’altra vallata che piano piano si allarga, si stende quasi in pianura e declina verso il mare. Si costruiva una strada provinciale laggiù, che appunto dalla costa saliva verso il paese delle due donne: Aroldo, con altri operai venuti d’oltre mare, guidati da un impresario pure lui forestiero, lavorava alla costruzione di questa strada e specialmente a quella dei ponti.
— Che novità, dunque? — gli domandò la vecchia, mentre Concezione si dava un gran da fare per preparare la tavola, sulla quale depose un vassoio colmo dei pezzi del porchetto che esalavano un buon odore di rosmarino.
Vedendo quei preparativi Aroldo ricominciò a rasserenarsi: già altre volte le donne lo avevano invitato, e, con l’appetito destato dalla lunga camminata, quella sera soprattutto si sentiva felice della loro ospitalità.
— Novità? Che novità posso portare? Si lavora come schiavi, e il padrone è sempre lì a urlare e pungere. Mai contento. Adesso, poi, con le piogge dei giorni scorsi, il terreno è brutto; vengono giù delle piccole frane, e l’acqua scorre dappertutto. Ma con la buona volontà tutto si supera. A me, del resto, il padrone vuol bene, forse anche perché sono il più coscienzioso. Anzi... — Guardò alle spalle di Concezione e non proseguì. Il suo viso tornò a offuscarsi.
Quando però furono a tavola, e la vecchia gli versò da bere, sebbene il vino fosse roseo e leggero come una bibita rinfrescante, egli riprese coraggio. Mangiando lentamente, servendosi di forchetta e coltello come un signore, riprese a raccontare, con la sua voce lievemente cadenzata, le vicende della strada e dell’impresario.
— È un tipo, però. È stato già due volte in America, a costruire strade e ponti, e adesso ha per la testa qualche cosa di straordinario. Bisogna premettere che è un gran lavoratore: vive con noi, e con noi passa la notte al bivacco. Non ritorna in paese neppure alla festa, come possiamo fare noi dipendenti. Del resto egli ci tiene, che si vada alla messa. D’altra parte neppure io farei tutta quella scarpinata, se non fosse appunto per la messa...
Concezione capiva benissimo che egli tornava solo per lei; ma rimase rigida e dura. Non mangiava; non si moveva dalla tavola, come ogni tanto faceva sua madre; era assente, però, e pareva non sentisse le parole dell’ospite. Solo si scosse, quasi suo malgrado, quando egli riprese:
— E adesso si tratta di questo: sì, ma lo racconto solo a voi, perché almeno per qualche tempo, la cosa non si deve sapere. L’impresario, dunque, oggi mi chiamò da parte e mi domandò se voglio andare con lui in America, appena finita la strada qui, cioè fra un anno circa. Pare che questa volta le sue idee siano grandiose. Non solo una strada vuole aprire, in una regione boscosa e inesplorata verso la Patagonia, ma costruire addirittura una città, e poi un tronco di ferrovia. Il luogo dico, è adesso disabitato, ma fra due o tre anni sarà certamente magnifico, con case tutte nuove, una terra fecondissima, orti, giardini, fontane. C’è molto da lavorare, s’intende, ma anche molto da guadagnare: forse la ricchezza, certo l’avvenire assicurato. — La vecchia si sforzava a capire bene: ma le sembrava un po’ una favola, un po’ uno scherzo: poiché Aroldo, quando era di buon umore, non esitava a darne ad intendere delle più grosse, contentandosi però di burlare solo la madre, la figlia essendo troppo svelta e diffidente per dargli retta.
Questa volta però egli era serio e impegnato, e la sua forse non era una fantasia. Concezione quindi badava, senza dimostrarlo, ad ogni parola di lui, con un misto di curiosità e di speranza.
Ecco che la Vergine della Solitudine esaudiva, in qualche modo, la preghiera di lei: se Aroldo se ne andava, ella sarebbe ritornata completamente sola e libera nella strada che la sorte le aveva tracciato. Una domanda della madre, fece sorridere anche lei.
— Ma chi andrebbe laggiù a fare questo nuovo paese? Tu e l’impresario?
— E centinaia e centinaia di compagni, un po’ di qui, un po’ indigeni. Poiché si formerebbe anzitutto una specie di colonia, con piccole case per noi; poi una vera cooperativa, con giuste divisioni di utili. Più si è bravi e si lavora, più si partecipa all’impresa. E assicurazioni sul lavoro, sulle malattie, sugli infortuni, sulla vita: e, infine, piena libertà ad uno che voglia tornarsene indietro con indennità di lavoro e di viaggio. Il clima è buono, bestie pericolose non ce ne sono. Molti insetti, sì, e zanzare specialmente, che spariranno con le prime bonifiche.
— E i fondi? — domandò con aria un po’ beffarda Concezione.
— Ma pare che l’impresario li abbia: non è un balordo, e non parla per parlare: un po’ strambo sì, ma ambizioso ed appassionato per queste imprese. Del resto non c’è nulla da perdere, almeno per uno come me. — Anche lui prese un atteggiamento canzonatorio, ma verso se stesso; bevette un altro bicchiere di vino, respinse il piatto che la vecchia gli aveva ricolmato, e guardò avanti a sé, in alto, come vedesse un quadro che lo interessava più che le altre cose intorno. Riprese:
— Non sarò certamente io ad aver paura delle zanzare. E, se occorre, neppure dei serpenti. Ho ammazzato tante bisce, e anche qualche vipera, da ragazzo. Si viveva, io e la mia mamma, in una capanna peggio di quelle che si andrà ad abitare laggiù. La poveretta lavorava nelle risaie, finché è morta di stenti: eppure mi mandava a scuola, e sognava per me un avvenire felice. Sì, e feci prima l’arrotino, morta lei, con un impresario, anche allora; un cieco, che possedeva solo la macchina d’arrotare, e mi accompagnava, e controllava il lavoro come neppure nella nuova città, laggiù, lo controllerà il nostro ingegnere. Si andava da un paese all’altro, e specialmente d’estate, il lavoro c’era. Falci, forbici, scuri; e coltelli per le donne che fanno la pasta in casa e tagliano i salami a fette fini, per i ragazzi. Ci scappava qualche fetta anche per noi, con un po’ di polenta, nelle aie benedette. La gente è buona lassù, ma verso le risaie è anche povera; c’era allora molta miseria. Si dormiva dove ci si trovava; ed è in quel tempo che ho imparato a cacciare le bisce, e far la pelle dura per le zanzare. Poi, una volta, siamo capitati in un paese dove si era incendiata una casa: il padrone voleva ricostruirla subito, intanto che il tempo era buono, e racimolava tutti gli operai disponibili del luogo. Ma quasi tutti erano occupati perché si costruiva una diga: e così ebbi la proposta di fare da manovale. Il padrone della casa incendiata e il mio impresario mi disputarono: io ero stanco della vita randagia, e delle angherie dell’arrotino, che spesso mi lasciava senza mangiare; poi avvenne una cosa strana: la padrona della casa aveva conosciuto mia madre, poiché da ragazza era stata anche lei nelle risaie; non solo, ma disse di avere conosciuto l’uomo che secondo lei, aveva ingannato e poi abbandonato mia madre. Un signore, diceva, uno di quelli che ispezionavano i lavori della risaia. Io pensavo sempre a questo mio padre ignoto e mascalzone; mia madre non me ne aveva mai parlato, neppure in punto di morte, e io credevo di essere orfano; adesso la mia fantasia si accese; e fu questa illusione che mi decise ad abbandonare l’arrotino e apprendere il mestiere del manovale. Furono tempi duri anche quelli: per quante ricerche mi fu possibile di fare, non riuscii a saper nulla di mio padre; finita la costruzione della casa, trovai qualche cosa da fare nei lavori dell’argine; e poi un operaio mi portò con sé per la costruzione di una strada ferrata: poco anche lui mi dava; appresi però il mestiere, specialmente per i lavori dei ponti e delle scarpate, e come suol dirsi, mi arrangiai. Adesso sono qui: poi andrò forse laggiù, in America. Secondo... Del resto, la mia storia ve l’avevo già raccontata. Non è vergogna essere figlio di nessuno: si vive delle proprie opere; e io non mi faccio illusioni.
Pareva che egli tenesse molto a insistere sul passato di sua madre e la sua vita randagia: sapeva che nel paese delle sue ospiti non si ha molta stima dei figli del peccato, soprattutto se poveri; ma egli non voleva ingannare nessuno; e se Concezione gli aveva già dimostrato un attaccamento non privo di calore, non c’era ragione ch’ella mutasse a un tratto pensiero.
Del resto egli credeva che anche lei vivesse del suo scarno lavoro, in quello strano rifugio mezzo sacro mezzo brigantesco ereditato appunto da avi che la voce pubblica assicurava poco e niente scrupolosi, in fatto di onestà. Ma a misura che egli parlava, ella pareva riprendere un po’ della sua antica cordialità; e sorrise di nuovo, questa volta con benevolenza, quando la madre domandò con ingenua malizia se laggiù ci sarebbero state anche donne, ad aiutare e consolare i pionieri.
— Per i primi tempi niente, credo. Si va a vivere nelle baracche, soli, come naufraghi. Ma appena pronte le case, il primo a voler le donne con noi è l’impresario. Sono necessarie, per molte ragioni.
Un sorriso, che voleva essere anch’esso malizioso, gli scavò le fossette delle guancie, e l’azzurro dei suoi occhi ne fu tutto indorato. Fissò Concezione, ed ella ripeté, quasi per compiacerlo, le parole di lui.
— Sì, per molte ragioni.
Allora egli tornò a guardare in alto, verso quel quadro che egli solo vedeva.
— I primi tempi, certo, saranno duri, ma io, ripeto, ci sono abituato. Sono forte — disse stendendo le braccia coi pugni stretti, — sarò il capo fila: e il padrone lo ha bell’e indovinato. Del resto si arriverà solo al principio della buona stagione, e per noi uomini non sarà poi difficile accamparsi come i soldati. È una vita, anzi, che fa bene. E poi si sarà provvisti di tutto, anche di vino, di caffè, di medicine; anche il medico ci sarà, promette l’impresario, che, d’altronde, non ingaggerà se non uomini sani e più che capaci. Costruite le prime case, passata la cattiva stagione si penserà poi a far venire le donne.
— Ma, e come faranno? Sole?
Era la madre, che di nuovo s’informava, sebbene anche lei già un po’ disincantata del racconto.
— Oh, sì, e perché no? Ci sono le mogli e le sorelle degli emigrati che non domandano di meglio che di raggiungerli. Si va dove Dio ci aiuta a vivere; e non è detto che si debba vivere sempre in paese straniero. Se qualche donna vorrà venire laggiù le si manderà i soldi per il viaggio, e le si andrà incontro allo sbarco, che non è lontano. Il difficile è piuttosto il viaggio nell’interno, se la strada ferrata non avrà ancora raggiunto la nostra colonia.
— Salute, — disse allora Concezione, riprendendo la sua aria divertita; — io non ci verrei, certo!
La parola era detta: taglio lieve che però, come un colpo furtivo ma sicuro, divideva nettamente il destino sognato da Aroldo: da una parte lui con la sua fantastica città, dall’altra Concezione nella sua spelonca. Il quadro sparve dalla parete di questa; ed egli sbatté lievemente le ciglia nere sugli occhi diventati scuri. La bocca parve quella di un bambino che rifiuta la medicina. E neppure lui credette al suo coraggio e alla voce che domandava:
— E se tu fossi mia moglie?
Queste parole turbarono anche la madre: anche i suoi placidi occhi corsero da un viso all’altro dei due giovani, e non sapeva neppure lei quello che desiderava; se una risposta affermativa di Concezione o la sua definitiva rinunzia al sogno del giovine pretendente.
Eppure Concezione, piegata la testa, parve pensare, prima di pronunziare la sua decisione: poi rispose, pacata:
— Una parola anche questa!
Dunque, c’era ancora qualche speranza: allora la vecchia, che per antica saggezza sapeva come una sola parola possa a volte influire sul destino altrui, pensò che non doveva intervenire coi suoi consigli: anzi si alzò, con la scusa di andare a prendere qualche cosa nella camera, e lasciò soli i due giovani.
Lentamente, Aroldo tese la mano e la mise su quella di Concezione; ed ella non la ritirò, ma nascose con durezza la commozione ardente che quel contatto le dava.
Egli disse, sottovoce:
— Ricordati; una sera, là nell’orto, ci siamo baciati; e tu hai promesso di sposarmi, appena le mie condizioni lo avrebbero permesso. Queste condizioni miglioreranno, certo, appena io sarò laggiù. E se ci vado, ci vado per questo. Io non ti domando di seguirmi, finché non avrò anch’io tenuto la promessa; ma tu devi promettermi di aspettarmi. Due anni, solo due anni di tempo...
Ella sorride: quel sorriso triste e stanco, e tuttavia ironico, che lascia scoperti i suoi denti fino alle gengive un po’ scolorite; ritira la mano che sguscia quasi felina da quella di lui, e risponde a voce alta, poiché nulla ha più da nascondere:
— Fra due anni sarò vecchia: lo sono già, anzi; vecchia e malata. Non sono più buona a niente; e tu sei giovane, Aroldo; tu hai bisogno di una donna forte, sana, che ti segua e ti aiuti nei luoghi della tua fortuna.
— Io ho bisogno di te, Concezione. Non so perché, appena ti ho conosciuta ho sentito che tu sola potevi rendermi contento, e che Dio mi aveva mandato in questi luoghi per raggiungerti. Non posso più vivere senza di te. Anche se andrò in capo al mondo, anche se diventerò milionario, penserò sempre a te. Ma perché dovrei andare in capo al mondo a cercare fortuna, se tu non mi vuoi più bene? Ogni cosa sarà inutile senza di te. Preferisco rimanere qui, anche miserabile; e se tu mi scacci ritornerò alla tua porta come un mendicante. I mendicanti non si mandano via.
Egli parlava chiaro e bene, con la sua voce eguale, cadenzata, che gli veniva su dal cuore sincero:
pareva una canzone, rassegnata ma d’una passione inesorabile che fa luce a se stessa: una di quelle canzoni di amore senza speranza che Concezione aveva sentito e imparato fin dalla sua prima adolescenza, ed anzi erano state l’accompagnamento, quasi il motivo delle sue prime inquietudini, delle sue curiosità e dei suoi turbamenti sensuali. Non era la prima volta che Aroldo le parlava così; anche le sue prime dichiarazioni di amore suonavano allo stesso modo; e lei se ne era lasciata vincere come da una musica che ricorda e fa rivivere le cose passate. Un rifiorire di sensazioni, d’impeti, anche di illusioni, l’aveva accostata a lui: accanto alla giovinezza in apparenza povera eppure ricchissima di lui, al suo calore di uomo, all’esuberanza frenata ma profonda della vitalità di lui, ella si era sentita come quelle erbe e quei fiori selvatici e grami che nella vicinanza di erbe e di fiori più ricchi di loro ne prendono, se non altro, la simiglianza. E poi, oltre al desiderio fisico, allo slancio naturale della sua carne verso quella di lui, l’attirava la stessa diversità di razza, di età, di carattere, di linguaggio, che pareva dovesse allontanarli e invece li spingeva maggiormente uno verso l’altro.
Avevano raccontato ad Aroldo, nella casupola dove aveva in affitto per poche lire un buco per ripararsi nei giorni di riposo, che Concezione discendeva da una progenie di violenti, di passionali, e che lei stessa aveva avuto una passione tragica nella sua prima fanciullezza: sapendo ch’egli frequentava la casa di lei, non insistevano nei particolari; ma egli era fisso nelle sue idee; voleva Concezione, a tutti i costi la voleva; l’atmosfera stessa, fra romantica e ambigua, che la circondava, pareva gli destasse nel sangue una specie di febbre, tormentandolo con un pungiglione che lo feriva nel cuore, ma sopra tutto nei sensi. Voleva Concezione: giorno e notte la desiderava; e bastava un fissarsi di pupille di lei nelle sue perché egli sentisse quasi una voluttà di possesso, un delirio che lo esaltava e lo rendeva muto.
E adesso, dunque, era tutto finito: ella non lo guardava più; era divenuta un’altra; ed egli aveva davvero l’impressione che all’ospedale l’avessero cambiata, sostituita con una Concezione vuota, vecchia, spettrale.
— Lo so, — disse, ripensando alle storie che si accennavano sul conto di lei; — tu non mi hai voluto mai veramente bene: e se io andrò lontano mi dimenticherai facilmente; anzi ne prenderai un altro.
— Non c’è pericolo, Aroldo! — ella disse, aggrottando le ciglia, poiché sapeva a che cosa egli intendeva alludere: — io resterò sempre qui, con mia madre e con la Madonnina. E morremo qui, se Dio vuole. E sì, Dio lo vorrà, poiché noi abbiamo fede in lui: e nessuno mai potrà farmi del male.
Quasi riconfortato, egli riprese:
— E così sia. E, dimmi, se io, fra due anni, mettiamo fra tre, avessi la possibilità di ritornare e portarvi via entrambe, tu e tua madre? Che ne dite, Giustina?
La donna era rientrata, col vassoio e le tazze: si rimise a tavola versò il caffè. Era tranquilla, e il suo viso liscio, alla luce della lampada ad olio, sembrava più giovane di quello di Concezione. Depose la tazza davanti al giovane e disse:
— Figlio caro, le parole che tu dici sono belle; ma sono come il soffio del vento, che desta il fruscìo fra i rami e poi cessa.
Infastidito ma rispettoso egli ribatté:
— Vediamo un po’; che cosa avete capito?
— Ho capito, ho capito. Tu vorresti sradicare il macigno che è sopra il nostro orto e farlo rotolare in fondo alla valle: è mai possibile, questo?
— Oh, se parliamo per parabole, è inutile continuare. Insomma, le cose stanno così: mi si offre la possibilità di crearmi una certa fortuna: io offro a Concezione e a voi di dividere con me la buona sorte. Se non volete seguirmi, che almeno Concezione mi aspetti due anni.
— Ma perché ripeti a lei queste cose? — disse Concezione indispettita. — Ho già risposto io: non sono una bambina e non mi piacciono le chiacchiere inutili.
Aroldo si fece rosso fino al collo e non osò insistere: ma uno sguardo furtivo della madre, parve dirgli: «Lascia passare il tempo: vedrai che le cose cambieranno».
Inoltre fu bussato alla porta; ed ella, senza sorpresa né curiosità, andò ad aprire. Apparve un uomo che, per la grossezza, occupava tutto il vano della piccola apertura: era vecchio, ma con una testa possente: circondato da una folta barba a collare, mista di nero, bianco e fulvo, il viso pareva la maschera di un satiro, col naso largo e gli occhi dorati e selvatici di cinghiale coraggioso. Indossava un cappotto corto, di panno ruvido, con un grande cappuccio calato sulle spalle; e pareva che anche da vecchio continuasse a crescere, poiché dalle maniche scappavano i polsi nudi e le mani da pugilatore. Si tirò alquanto indietro sulla testa calva il berretto di panno e poi se lo ricacciò sulla fronte fin sulle irsute sopracciglia: era il suo modo di salutare.
Aroldo si scostò, come per lasciargli posto alla tavola; ma l’uomo, chiusa la porticina, vi si sedette quasi addosso, su uno sgabello troppo piccolo per lui, e si mise una mano all’orecchio peloso per sentire meglio le parole di presentazione della vecchia Giustina.
— Questo è il nostro amico Felice Giordano: e questo è il nostro amico Aroldo.
L’uomo, che doveva sapere qualche cosa del forestiero, disse subito con una voce straordinariamente sonora, ma anche aggressiva:
— Cognome non ne ha? Tutti amici, — soggiunse in fretta; e col bastone grattò la schiena del gatto, che gli si era subito avvicinato: cosa che ingelosì puerilmente Aroldo, e lo indispose ancor più contro il rosso visitatore, poiché la bestia non si lasciava mai accarezzare volentieri da lui. Con voce forte pronunziò intero il suo nome:
— Aroldo Aroldi; — ma già l’altro pareva non badasse più a lui, concentrando tutta la sua attenzione sulla padrona giovane che, a sua volta, lo fissava con una certa ironica sfida, invitandolo ad avvicinarsi:
— Su, venite qui con noi: berrete un bicchiere d’acqua, se non volete altro.
Egli sollevò la mano destra, con l’indice uncinato, in modo che l’ombra si disegnò sulla parete come la testa di un uccello di rapina; e fece un cenno di minaccia; ma Concezione non aveva davvero paura, anzi, si mise a ridere, e i suoi denti bianchi, nel viso che pur rimaneva duro, apparvero ad Aroldo un po’ crudeli.
La madre spiegò:
— Il nostro compare Felice non ama il caffè: e neppure la carne di porco, — aggiunse, toccando il piatto con gli avanzi dell’arrosto. Per rinforzare l’affermazione di lei, il vecchio si volse verso il muro e sputò, mentre un comico ma sincero disgusto gli arricciava il lungo labbro superiore.
— Il caffè alle donne: la carne di porco a quelli che la rubano.
— Questa intanto non è rubata, — ribatté Concezione, anche per difendere il già mortificato donatore.
— Io non so niente; solo dico che la carne di porco procura cattivi sogni, e neppure i giudei la mangiavano. E io sono cristiano.
— E dire che egli è padrone di duecento maiali: e tutti gli anni ne vende più di cento, belli grassi, nutriti di ghiande del suo bosco sul monte, che si vede a guardarlo anche dal nostro orto. E li vende ai cristiani, ma con l’usura d’un giudeo.
Ecco che anche la vecchia si metteva canzonarlo: egli però non smetteva la sua maestosa dignità.
— Per forza li vendo ai cristiani; poiché qui non ci sono i nemici di Cristo, sebbene i miei clienti in qualche modo lo sieno.
— In che modo?
— Sono tutti ladri e imbroglioni: e se il porco me lo possono rubare dallo stabbio non ci pensano due volte.
— Tutto il mondo è paese, — si azzardò a intervenire Aroldo; ma il vecchio, pur avendolo bene osservato da capo a piedi e soprattutto in viso e negli occhi, giudicò non essere necessario onorarlo di una risposta: la sua attenzione era sempre più fissa a Concezione, della quale aveva ben notato il profondo mutamento: eppure quel viso quasi di argento brunito, quegli occhi una volta scuri e lucenti come l’onice, adesso sbiaditi e velati di tristezza, e tutta la persona svuotata di lei, invece di pietà gli destavano un senso d’irrisione.
Ma solo dopo aver pensato bene all’effetto che le sue parole potevano provocare, domandò freddamente:
— Che hai fatto Maria Concezione? Ti sei rinsecchita: sei come un albero che ha perduto le foglie.
— L’autunno viene per tutti: per voi è già inverno, — ella rispose; poi assunse un tono grave, e Aroldo capì che ella, più che per il vecchio, parlava per lui. — Sono stata all’ospedale, perché avevo un male grave al naso: mi hanno cavato molto sangue, ho molto sofferto, e ancora non sto bene.
— La tua voce però è chiara, — osservò il visitatore, non senza malizia. — Un mio amico, che aveva un verme nel naso, ha aspettato che venisse fuori da sé; ma è rimasto senza voce. E tu hai fatto male ad andare da quegli imbroglioni di dottori. Se stavi a casa e ti mettevi al sole, il male se ne andava da sé.
— Forse voi avete ragione: ma io non potevo più respirare; non potevo più lavorare.
— Lavorare! Che forse tuo padre, il beato Antonio Giuseppe, non ti ha lasciato abbastanza da vivere? Dieci mila scudi, ti ha lasciato, oltre la casa e la chiesa: e tu non li hai seppelliti sotto l’altare, no, ma da brava ragazza li hai messi a frutto nella banca. E hai fatto bene.
Concezione arrossì: poiché Aroldo ignorava ch’ella avesse questo capitale, come del resto lo ignoravano quasi tutti quelli del paese.
— Non è vero niente, — mentì; — io non possedevo che pochi soldi; e li ho spesi adesso, per l’operazione e il resto.
Senza muoversi, senza più sollevare un dito, con le mani ferme una sull’altra sul bastone che aveva messo traverso sulle ginocchia, egli ribatté:
— Come, non è vero niente? Lo vieni a raccontare a me? Hai una bella faccia tosta, fiore mio. Tuo padre, il beato Antonio Giuseppe, mio compare di battesimo, poiché fu lui a far da padrino ai miei quattro nipoti, possedeva terreni, boschi e bestiame: quando si sentì ammalare mi disse: bisogna che venda tutto, e collochi a frutto i denari, poiché quelle povere donne non hanno nessuno che possa badare alla roba; e le tasse e i ladri si pigliano tutto. Vuol dire che quando la ragazza avrà l’età, e troverà un buon marito, potrà ricomprare la terra e le bestie. E così fu fatto. Tu avevi dieci anni, Maria Concezione, e ricorderai benissimo tutto.
— Io non ricordo niente, — ella disse con dispetto.
Imperturbabile, come se la presenza di Aroldo fosse quella di un’ombra, egli riprese:
— Io dissi, anzi: compare Antonio Giuseppe, due dei miei nipotini tuoi figliocci, Pietro e Paolo, saranno grandicelli quando tua figlia sarà in età da marito. Ed egli intese, e fu contento. Ma tu, Maria Concezione, non ne hai mai voluto sentire; non hai esaudito il voto di tuo padre perché sembri buona buona, ma hai il cuore di pietra, e la testa ancora più dura, che un tuono te la spacchi.
— Compare Felice! — protestò la vecchia, mentre Concezione rideva di nuovo, fissando la sua tazzina di caffè.
— Mandateli a balia, i vostri nipoti, se non sapete che farne, — disse alzando le spalle.
— Ah, tu vuoi mandarli a balia; lo so io il perché; come so benissimo perché, ti ridi di me e di tutti, — ribatté il vecchio; poi tacque un momento, e Aroldo ebbe quasi paura del silenzio che solo lo sbattere un po’ nervoso del cucchiaino di Concezione entro la tazzina vuota interrompeva. Egli ascoltava calmo, domandandosi se non doveva andarsene; ma aveva l’impressione che il vecchio parlasse per lui, per fargli conoscere la vita, il carattere, i mezzi di esistenza di Concezione, e possibilmente distoglierlo dai suoi progetti amorosi.
E infatti il Giordano riprese:
— Te lo dico io il perché. Tu sembri la sorellina della Madonna, ma il tuo aspetto inganna, figlia cara, inganna. Per questo rassomigli ai tuoi avi paterni; dico paterni, perché quelli materni erano tutti di buona pasta; prova ne abbiamo in questa donnina che, lei davvero, è madre e sorella di Maria Santissima.
— Amen, — disse Giustina, che d’altronde non sembrava troppo lusingata. — Di mio marito, almeno credo che la tua mala lingua non possa dir nulla.
— Tuo marito, il beato Antonio Giuseppe, era mio compare di battesimo; e non lo sarebbe stato se non più che galantuomo. Era uno stendardo, tuo marito, una bandiera da processione. Ma suo padre, e il padre del padre, salve siano le anime loro, se ancora non sono, mettiamo, in purgatorio, tutti sanno che tipi erano. Belli a vedersi, belli come statue, ma... ma...
Questa volta fu Concezione a protestare fieramente:
— Parlate, parlate pure. Non c’è ragione che un uomo come voi, che non rispetta i vivi, debba rispettare i morti.
— Non sono venuto per questionare, — riprese egli tranquillo: e dalla sua bocca satiresca le parole continuavano a fluire sonore e uguali come l’acqua d’una fontana: — sono venuto per salutarvi, poiché da molto tempo non ci si vedeva. Ma se tu proprio lo vuoi, Maria Concezione, ti ricorderò che il padre di tuo nonno aveva fama di aver preso parte, anzi di essere stato il capo di una spedizione brigantesca contro un ricco prete che, del resto, sia pace all’anima sua, era un mezzo brigante anche lui, e si era arricchito coi denari della chiesa. Fra le altre cose, poi, si diceva che, pena la scomunica, o il rifiuto di celebrarne il matrimonio, egli pretendeva la prima notte di una sposa; e altre ribalderie. Questo indegno servo di Dio, si era costruito un palazzotto, in una sua vigna, e là se ne stava spesso, facendo il vino forte e l’acquavite con le sue mani, e poi invitando i suoi amiconi a godersela in allegra compagnia. Fu dopo uno di questi festini, partiti gli amici, che un gruppo di uomini mascherati assalì la casa del prete, e poiché egli rifiutava di rivelare il nascondiglio dei denari, i bravi ragazzi lo legarono e lo misero col sedere nudo su un treppiede infocato: in modo che il marchio gli rimase per tutta la vita.
— Favole! — disse Concezione. — E questa faccenda del treppiede si racconta per tante altre invenzioni del genere.
— Va bene; ma accadde questo. Dopo il fatto del prete, e altre imprese minori, il tuo bisnonno, che era un povero pastore di capre, acquistò terreni, vacche, case: morì ricco, e più ricco diventò il tuo nonno, che seguiva, più cautamente, sì, ma con fortuna, l’esempio paterno. La scomunica del prete, però, gravava sulla vostra famiglia: i fratelli del tuo nonno morirono tutti di mala morte; e a lui, in seguito ad una infezione, dicono venuta da una ferita, gli fu amputato il braccio destro, quello che commetteva le male azioni. Allora il diavolo si fece eremita: egli costruì questa chiesetta, e queste stanze per abitarci anche lui e i suoi discendenti e far dire una messa tutte le domeniche e le altre feste comandate in suffragio dell’anima sua. È favola anche questa, Maria Giustina?
La donna non risponde: il suo viso però è triste, serio, ed anche Concezione non protesta più. Dopo tutto, pensa, e meglio che Aroldo sappia queste cose: si rassegnerà più facilmente. E tutti, ella e sua madre lo sanno benissimo, tutti, in paese e nei dintorni, ripetono le storie raccontate dal vecchio Giordano. Egli insiste:
— Compare Antonio Giuseppe, anima buona, obbedì al padre; e fece del bene ma provvide anche perché, dopo la sua morte, la vedova e la figlia vivessero tranquille come adagiate fra due guanciali. Bene fece: chi non lo approva? Il primo sono io, che dovunque passo onoro la sua memoria. Ma tu, Maria Concezione, perché vuoi disconoscere la bontà di tuo padre? perché ti fingi povera, costretta al lavoro, mentre lui ti ha lasciato come una signora? Hai paura che ti rubino la tua roba? Oh, certo, stai attenta, che qualche gabbamondo non ti si metta davvero intorno, o qualche brigante non ti faccia lo scherzo che il tuo avo fece al prete.
Aroldo rise, ma a denti stretti; un riso che gli rimase in gola, pur facendogli scintillare gli occhi.
Avrebbe voluto rispondere al vecchio, difendersi, poiché si sentiva aggredito da lui; ma sentiva pietà di Concezione e per sfuggire alle ulteriori umiliazioni di lei decise di andarsene. Ma sarebbe tornato, oh, sì, sarebbe tornato; le parole del rozzo proprietario di porci, non smuovevano il suo cuore:
e se Concezione era ricca, tanto meglio per lei. Egli l’amava, povera: l’amava anche così com’era adesso, malata, appassita: anche come la coloriva il vecchio, ingannevole e forse cattiva e crudele.
Scacciato, egli se ne andava; poiché non poteva difenderla; né aveva il diritto di difendersi dalle insinuazioni dell’uomo selvatico, senza provocarlo oltre; ma sarebbe tornato, come si torna alla fontana, come si torna in chiesa.
— È tardi, — disse, alzandosi; — io vi saluto.
Non guardò Concezione, ma ebbe come l’istinto di sollevarsi, di allungarsi, per apparirle più alto, dritto e lineare; poi cercò la sua borsa, si cacciò bene sul capo il berretto a visiera, che gli ringiovaniva il viso fino a farlo apparire quello di un fanciullo, sollevò la mano per salutare e s’avviò. Maria Giustina lo accompagnò sin fuori della porta. Era una notte umida ma tiepida: i monti, di un nero fulvo fumigavano come enormi carbonaie, e intorno alla luna si stendevano grandi nuvole giallognole trasparenti. Anche l’orto, tutto bagnato come dopo una lieve pioggia, rifletteva quel chiarore.
Aroldo si fermò, indeciso: pareva volesse dire qualche cosa, poi scosse le spalle per tirarsi ben su la borsa, e andò via a lunghi passi. La vecchia ne seguì l’alta figura finché non sparve dietro il cancello, e sospirò: aveva l’impressione che il giovane fuggisse, giustamente offeso, e volle dimostrare il suo risentimento al vecchio maligno, che la prevenì con evidente soddisfazione:
— Quando andrò via io, — disse, — tu certo non mi accompagnerai, come hai fatto con quello spilungone. Ma che voleva, costui, da voi? Ha gli occhi di gatto e il sorriso del gabbamondo. Sì, accennavo a lui, quando ho parlato di questi: poiché so che frequenta la vostra casa, ed è figlio di nessuno.
— Siamo tutti figli di Dio, Felis Giordano; e la nostra casa è frequentata solo da galantuomini.
— Sì, lo so; vengono qui i vecchi amici di Antonio Giuseppe, e le vostre amiche devote alla vostra Madonna, e il pretino mio nipote, tre volte santo, e il dottore e il flebotomo quando vanno a spasso; ma anche la gente della strada si ferma da voi, e voi fate eguale accoglienza a tutti. Questo spilungone, poi, lo sa lui cosa vuole.
Concezione era stanca e irritata: lo fissò con gli occhi ravvivati da una luce di fierezza e disse, con sorpresa e piacere della madre:
— Questo giovane è il mio fidanzato. — Allora il vecchio tirò su il bastone e picchiò forte il pavimento.
— Bene; lo dicevo io, Maria Concezione, che si vuole farti la festa come al prete, per spillarti i soldi.
— Finiamola, — disse la madre: e poiché aveva un certo timore del compare cercò di essere conciliante. — Non ti accorgi, Felis, che la ragazza ti prende in giro? Il giovinotto è bravo e onesto; viene qui perché Concezione gli confezionava le camicie, come fa con altri clienti, paesani e forestieri: ma altro non c’è né ci può essere. Dimmi piuttosto dove sei stato tutto questo tempo. E adesso ti darò anche da bere; è vino buono, lo avevo comprato per rinforzare Concezione, ma essa non ne vuole. Bevilo tu, alla sua salute.
Gli portò un bicchiere di vino, ed egli parve convinto.
Anche Concezione si placò: dopo tutto, che le importava se Aroldo era andato via, forse per non più ritornare? Oramai tutto è finito, con lui e col resto del mondo. Sei sola col tuo destino, Maria Concezione, e basta che la tua mano sfiori il tuo seno per ricordarti che la tua sorte è chiusa. Anche le parole del vecchio non possono più che sembrarti vane come il rumore del vento nella valle. Sorride di nuovo quindi, ma di un sorriso vago e rassegnato, quando il vecchio, dopo aver bevuto, disse lo scopo della sua visita: e la sua voce, adesso che Aroldo se n’era andato, e anche nel dubbio che si fosse fermato fuori ad ascoltare, si abbassava e prendeva un tono più naturale.
— Anzitutto si tratta di questo: Marcello il fabbro vuol rivendere il terreno che Antonio Giuseppe gli ha venduto prima della sua morte. Ha bisogno di denari, Marcello, perché i suoi nipoti studiano e vogliono diventare dottori; e anche perché vuole ingrandire la sua casa. Insomma, sono fatti che lo riguardano. A noi riguarda il fatto che egli vuol vendere il terreno a ottime condizioni, e siccome nell’atto di vendita di Antonio Giuseppe è detto che, in caso di rivendita, è da preferirsi lui o i suoi eredi, così io vengo da voi per sapere che intenzione avete.
Madre e figlia si guardarono; ma Concezione pareva non avesse né la forza né la volontà di rispondere.
— Le nostre condizioni non sono mutate, dopo la morte di mio marito. Siamo sempre donne sole, Felis, e non intendiamo di prenderci dei grattacapi.
— Ma le vostre condizioni potrebbero mutare, e presto. Tu hai creduto che scherzassi proponendo per tua figlia uno dei miei nipoti. Non sono poi dei bambini come dice la superbona: hanno compiuti i ventitré anni e sono bravi e forti in tutto. Pietro lavora già per conto suo: ha cinquanta vacche, e le fa fruttare come cinquanta tesori. Paolo è con me, e lavora giorno e notte senza mai stancarsi. Buoni tutti e due, senza vizi, sani e coraggiosi. Ed io voglio Maria Concezione per uno di loro.
— Voglio! Bisogna vedere se vuole lei, — disse la madre, che non sapeva se rallegrarsi o no.
— O l’uno o l’altro. Scegliere.
— Già, come si sceglie il frutto più maturo. Ma sai che vai per le spiccie, fratello mio? Se neppure conosciamo bene i due ragazzi.
— Ti ripeto che sono due giganti, belli e gagliardi. Gente tutta brava, siamo noi; si conosce la nostra vita fino alle radici, e abbiamo in casa un sacerdote; quale famiglia è più onorata e laboriosa? Anche mia figlia, la madre dei ragazzi, lavora come una serva: sempre a far pane, a lavare i panni, a preparare il cibo, a cucire e badare alla casa. Serafino, il nostro prete, vorrebbe farla aiutare da una serva; ma lei non vuole donne estranee in casa. Maria Concezione solamente potrebbe contentarla.
Un po’ ironica, ma anche lusingata la madre si volse di nuovo a Concezione.
— Ebbene, che dici, tu? Spetta a te rispondere.
— Per quanto riguarda il terreno, avete risposto bene voi: e non se ne parli più. Direte a Marcello il fabbro che cerchi un altro compratore: noi non faremo nessuna opposizione. Riguardo al resto, è tutto uno scherzo: ed io non ho voglia di scherzare, specialmente adesso.
— Tu sei pallida, figlia — disse la madre; — va a letto; ti sei già abbastanza strapazzata, oggi: e questo non era il consiglio del dottore. Va: farò compagnia io al nostro vecchio Felis.
Egli però non voleva andarsene con un pugno di vento in mano.
— Maria Concezione, pensaci bene: tu neppure conosci i miei ragazzi. Ebbene, domani è domenica: li farò venire alla messa della vostra chiesa: poi te li porterò qui.
— Portateli pure, come due cagnolini — ella rispose, alzandosi. — Li conoscerò volentieri; ma poi mi lascerete in pace.
— Due cagnolini? Due leoni, sono; due querce fiorite, e tu faresti bene a rispettarli.
— Io rispetto tutti; ma voglio essere lasciata in pace. Buona notte.
La sua voce era dolce e stanca; l’ombra delle sue ciglia si sbatteva sulle occhiaie livide. Quando fu andata via, il vecchio parve anche lui diventare triste, o almeno pensieroso. Riprese il bicchiere, che aveva deposto per terra, e abbassò ancor più la voce:
— Sì, è molto consunta, tua figlia: bisogna farla risanare. Dovresti darle sugo di carne, zabaioni, uccelli arrosto. Mi fido di te, Maria Giustina: bisogna che la ragazza si riprenda. E caccia via quel forestiero: non è uomo per voi: è un omuncolo di stracci, nonostante la sua statura. E se torna qui, e ancora infastidisce la ragazza, ci penserò io a metterlo a posto.
Concezione sentì queste parole, ma non si irritò. Era veramente stanca, e desiderava solo dormire: ma coricata che fu, nel grande letto freddo, dalla parte del muro, ricordò che bisognava prima recitare le sue preghiere, per i morti e per i vivi: per tutti, anche per quel vecchio illuso, che continuava a far progetti a bassa voce, uno più vano dell’altro. Quando egli finalmente se ne andò, ella poté pregare meglio. Le pareva di essere ancora nel lettuccio dell’ospedale, e si sentì a addosso l’odore dell’alcool col quale le avevano pulito le spalle. Una suora notturna, vestita di nero e viola, col viso lunare, coi piedi agili e silenziosi come quelli dei felini, le sfiorava la fronte con la mano tiepida. Era un contatto piacevole, che a Concezione ricordò quello della mano di Aroldo: ma subito ella scosse la testa sul guanciale, per liberarsi dal ricordo. E Aroldo sparisce: rimane la suora, nera e viola e bianca come la notte; Concezione finge di dormire, e aspetta con pazienza di essere lasciata sola. E quando è sola, nella sua cella a pagamento, che è al pian terreno dell’ospedale, scivola dal letto, si avvolge nella coperta e fugge. Perché faccia questo non lo sa neppure lei: si sa nulla di preciso nei sogni? Dapprima tutto le riesce facile, rapido: tutto è liscio e lucido. La strada davanti all’ospedale è selciata di lastre di granito, e una fila d’alberi giovani la ombreggia. Altri alberi, vecchi, neri, si sporgono dal muro dell’orto attiguo al giardinetto dell’ospedale e questo muro, verdiccio di musco, non è tanto alto che Concezione non possa vederci sopra: e vede, infatti, la distesa dei cavoli coi loro bocci chiari, e, in fondo, una casa a un piano, con una piccola loggia di ferro arrugginito. Sui vetri della finestra batte la luna, e Concezione rabbrividisce, come se quel chiarore fosse un fuoco fatuo: infatti ella sa che la casetta è disabitata perché si dice che dentro ci siano fantasmi. Eppure si attarda a guardarla, attirata da un fascino pauroso; finché le sembra che un’ombra passi dietro i vetri; allora riprende la sua corsa, sboccando nella strada che conduce a casa sua. Altri alberi sorgono lungo il ciglione sopra la valle, e la luna va di ramo in ramo, come un uccello d’argento, ma più in là corre anch’essa sul cielo latteo, precedendo e facendo luce a Concezione, finché si fermano tutte e due, come a guardarsi e dirsi qualche cosa. E d’un tratto la fuggiasca si accorge che ha perduto per strada la coperta; ma non ha freddo, sebbene vestita di un leggero abito di stoffa nera, lo stesso che indossava da ragazzina, quando andava alla scuola del paese, con la borsa dei libri fatta della stessa stoffa del vestito, il tutto confezionato dalla madre. Una fettuccia chiude la borsa, che ella dondola come faceva il chierico con l’incensiere, nella chiesetta paterna; ed ecco, d’improvviso, questo ragazzo nero di bronzo, con gli occhi tanto grandi che pareva non potesse aprirli del tutto, le salta dietro e le ferma la borsa. Spavento e gioia, anzi allegria, la fanno tremare e ridere.
— Ma io non rido — dice il ragazzo, — non rido, no, hai capito?
Ella cessa di ridere e stringe la bocca per non rispondere, come faceva Aroldo quella sera, mentre il vecchio parlava. Ed ecco Aroldo nel sentiero che viene su dalla valle: ritorna dal lavoro, con lo zaino sulle spalle; e il ragazzo sparisce, ma prima dà un urlo che sveglia Concezione di soprassalto, fredda di angoscia. Sentì la madre che russava lievemente, dall’altra parte del letto, e le si accostò per scaldarsi, ancora con l’impressione di essere ragazzetta, di aver paura delle voci notturne, di cercare insomma, protezione. Ma non poté riaddormentarsi, e neppure ricominciare le sue preghiere: il calore del corpo della madre e lo stesso russare di lei, al quale era abituata, le diedero però una sensazione di benessere, di difesa, anzi, tanto che le parve di poter guardare dentro di sé, nei suoi ricordi, che erano appunto i suoi peggiori nemici, e di vincerli, una buona volta, e non pensarci più.
Ricominciò dai suoi ritorni dalla scuola, quando aveva undici anni, e si fermava, arrampicandosi sul muro, a guardare l’orto dei cavoli e la casa col balconcino di ferro. Una famigliuola povera ma quieta, abitava il luogo; l’ortolano, la moglie, un ragazzetto bruno coi denti lucidi sempre pieni di fili d’erba come quelli dei capretti: era il chierico che assisteva la messa nella chiesetta: voleva farsi prete, ma poi cambiò idea: cambiò anche spesso di mestiere, senza riuscire mai a concludere niente. Gironzolava sempre intorno alla chiesetta, e un giorno, quando Concezione aveva quattordici anni, egli la sorprese sola in casa e l’avrebbe violentata se la madre non fosse sopraggiunta a tempo, scacciandolo come un ladro e minacciando di denunziarlo alla polizia. Eppure Concezione si sentiva attirata verso di lui da un potere malefico, o meglio da un fascino sensuale superiore a ogni sua volontà. Nonostante la sorveglianza della madre trovava modo d’incontrarsi con lui: ed era un idillio quasi feroce, da giovani belve in amore, favorito dai recessi del luogo: macigni, cespugli, muricciuoli, erbe alte, anfratti, solitudine e spazio.
Concezione però resisteva validamente alle carezze di lui, ed egli, d’altronde, diceva:
— Tua madre non mi vuole perché sono povero e disgraziato: ma vedrai, troverò il modo di diventare ricco, e ti sposerò, vedrai.
Un giorno, infatti, apparve vestito di nuovo da capo a piedi, con belle scarpe e il taschino del corpetto gonfio di monete. E regalò a Concezione un anello d’oro, che doveva essere quello del fidanzamento. Ma pochi giorni dopo fu arrestato, assieme con altri, per fabbrica e spaccio di monete false. Condannato a vari anni di carcere, s’impiccò nella sua prigione. Questo era il segreto e l’inutile rimorso di Maria Concezione.
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La prima ad alzarsi, la mattina dopo, fu la madre. Giornata grigia, anche questa, e rigida: svanita la nebbia, i monti apparivano nudi, con le macchie livide dei boschi, le chine solcate da striscie rossastre, come schiene scudisciate.
— Avremo la neve, — annunziò la vecchia, e per confortarsi accese subito il fuoco e mise a bollire l’acqua per il caffè.
A momenti arriverà frettoloso, con la sciarpa al collo, il piccolo prete, seguito dal chierico. Sebbene nessuna campana la annunziasse, parecchia gente veniva dal paese per ascoltare la messa nella chiesetta: e Maria Giustina ne era orgogliosa, come se i fedeli venissero per rendere omaggio a lei.
A sua volta ella aveva una profonda adorazione per Serafino, il giovine prete, che tutte le domeniche si sacrificava a venire fin laggiù, sebbene malaticcio e anzi, si diceva, toccato da un male ai polmoni. Il caffè era per lui, ed ella glielo serviva nella piccola sagrestia, mentre il chierico si scolava, dietro l’altare, il rimasuglio del vino per la messa. Nella piccola sagrestia ella apparecchiò sopra il tavolino accanto alla finestruola verde, poi andò ad aprire la porticina laterale della chiesa. Ed ecco, nella luce ancora crepuscolare della lontananza, nella strada sterrata, vide avanzarsi la figura nera del prete: camminava che pareva avesse le ali, ed ella provò, al guardarlo, una tenerezza, uno struggimento materno: avrebbe voluto accoglierlo fra le sue braccia, riscaldarlo come un bambino. Ne sentiva la tosse, lo vedeva stringersi il cappotto sul petto; e avanzarsi di corsa; il chierichetto sbilenco e quasi gobbo si attardava invece a sbattere una fronda contro i cespugli lungo la proda erbosa della strada.
Non potendo far altro, ella spalancò la porta e salutò con un profondo inchino il sacerdote, mentre egli ne faceva uno eguale alla Madonna, dirigendosi poi rapido alla sagrestia.
— Com’è pallido, — ella pensava; — è giallo, anzi: le sue mani rassomigliano alle zampe di un uccellino Mentre quell’animale...
Il chierico non si affrettava: adesso sbatteva la fronda contro il muricciuolo dello spiazzo, con una smorfia che gli tirava in su la bocca fin quasi all’orecchio.
— Maledetto scarabeo, — disse la vecchia: — tu fai aspettare quel santo, mentre egli è tanto buono con te.
E gli strappò di mano la fronda, col desiderio di provargliela sulle spalle; non lo fece, anche perché sopraggiungeva un gruppo di donnicciole, quasi tutte vecchie, col naso rosso per il freddo.
Nella sagrestia il prete si vestiva, senza aspettare l’aiuto del chierico, che del resto si affaccendava ad accendere i ceri e guardava nell’armadietto accanto all’altare se c’era l’ampollina col vino bianco: c’era, ed egli avrebbe voluto già assaggiarlo, ma ebbe paura della vecchia che, entrate le donne, aveva socchiuso la porta e risaliva verso l’altare.
Altri fedeli arrivavano; vecchi contadini che fin dal tempo della loro fiera giovinezza frequentavano la chiesa; anche qualche giovane; anche Aroldo. Sembrava un signore; indossava una gabardine con le tasche gonfie; e una sciarpa bianca e rossa intorno al collo faceva apparire il suo volto fresco e colorito come una rosa. Si mise in fondo alla chiesetta, nell’angolo dietro la porta, e guardò se si vedeva Concezione. No, non si vedeva: forse stava ancora a letto, forse si sentiva ancora male. Una tenerezza simile a quella che le donne lì raccolte sotto l’altare provavano nel guardare i piedini mossi del santo Bambino, gli riscaldò il cuore. Era quasi contento che ella fosse sofferente: poiché solo così spiegava il contegno duro di lei, i suoi propositi di solitudine e di distacco dalle cose del mondo: ma subito egli vinse questo suo istinto che in fondo era di egoismo. No, ch’ella sia sana e forte come prima; ch’ella sia felice e buona; per se stessa e per gli altri. Non importa che sia cattiva con me; ella può calpestarmi, come voi, Madonnina, fate col serpente: mi parrà di essere sotto i vostri piedi, non come il serpente, ma come la luna, e di essere contento lo stesso.
Così egli pregava, ancora in piedi, col cappello di feltro grigio fra le mani, guardandosi le scarpe gialle ben lucidate; e si sentiva davvero contento. Gli bastava di amare: e il sangue gli scorreva caldo nelle vene, e la giovinezza gli fioriva intorno, nella chiesetta fredda, con tutte le rose della speranza e dei buoni propositi. Ma d’un tratto la porta fu aperta bruscamente, ed entrarono, quasi spingendosi l’un l’altro, due uomini giovani, che cominciarono a farsi grandi segni di croce con l’acqua santa, ma volgendo le spalle all’altare. Poi sedettero sul sedile in muratura lungo la parete, poco distanti da Aroldo. Sembravano due gemelli, piuttosto piccoli e tozzi, con le grosse teste brune ricciute e il viso scuro con le labbra tumide e rosse e le sopracciglia grandi e folte. Rassomigliavano al vecchio che Aroldo aveva la sera prima lasciato dalle donne, anche nel modo del vestire, col cappotto corto e le uose di lana ricadenti sulle scarpe a chiodi unte di sevo.
— Devono essere i nipoti di quel vecchio prepotente, — egli pensò rabbuiandosi; e gli sembrò di sentirne l’odore selvatico; ma sbirciandoli bene, dai capelli oleosi alle grasse mani olivastre con le unghie nere, pensò che non erano tipi da piacere a Concezione.
Quando il prete apparve sull’altare, entrambi i due giovanotti si buttarono in ginocchio, più per timore di lui che per devozione. Aroldo, rimasto in piedi, li vedeva davanti a lui come un paio di giovenchi ancora non domati, e maggiormente si rinfrancava; si sentiva alto, sopra di loro, alto fino alla luna ai piedi della Madonna; e di nuovo ebbe piacere che Concezione non venisse, poiché gli sembrava che il solo sguardo di quei zoticoni l’avrebbe offesa e profanata.
Quando però la messa fu terminata, ed egli uscì col proposito di andare dalle donne e portare a Concezione il nuovo regalo che aveva in tasca per lei, vide con dispetto che i due fratelli, sempre spingendosi a vicenda, forse per farsi coraggio, si dirigevano anch’essi al cancelletto dell’orto.
Allora scantonò; discese un tratto del sentiero che andava giù dalla strada nella valle, poi risalì, confuso e disorientato, e stette a spiare accanto alla siepe dell’orto.
Quei due erano entrati nella cucina delle donne, senza bussare, senza chiedere permesso; non c’era nessuno; però si sentiva la voce di Giustina nella sagrestia, dal cui uscio socchiuso usciva l’odore del caffè. Uno dei fratelli si spinse cauto a origliare, ma tornò indietro facendo segni di comico spavento: poiché aveva sentito la voce fievole di Serafino, che parlava con la vecchia; e tutti, nella famiglia Giordano, compreso il nonno, avevano una grande soggezione, quasi una sacra paura, del giovane prete. Era lui, in fondo, il padrone assoluto della famiglia: parlava poco, ma tutti di casa sapevano quello che si doveva fare: e la madre, soprattutto, gli obbediva come una bambina docile.
I due fratelli, quindi, che erano arrivati fin là per ordine del vecchio, con la speranza che appena finita la messa Serafino sarebbe andato via, si guardarono negli occhi, e mentre l’uno ammiccava con malizia, l’altro fece una smorfia col labbro superiore e col naso, come nel sentire un cattivo odore. Ma erano quasi contenti che le cose procedessero così: nessuno dei due conosceva Concezione e la consideravano una vecchia zitella: quell’offrirsi poi in società, affinché lei scegliesse uno di loro «come si sceglie la pera più matura», li umiliava e li divertiva nello stesso tempo: nel venire alla messa, via per la strada solitaria, si erano dati parecchi spintoni: «avanti tu, Giudeo, che sei il più bello: avanti tu, Maccabeo, che sei più alto di un centimetro», e in coro ripetevano un ritornello, non riferibile, nel quale una donna esprimeva il desiderio di trovarsi nuda fra due giovanotti.
Ed erano anche contenti di farla franca col nonno, che, forse per prendersi la rivincita della ferma padronanza di Serafino, li comandava a bacchetta, minacciando ancora di bastonarli se non filavano dritti. Adesso si era messo in mente quest’idea del matrimonio con Concezione, ed essi sentivano che se non venivano respinti da lei, lo scampo era difficile.
Uscirono dunque dalla cucina, decisi, almeno per questa volta, a svignarsela: nell’orticello videro il chierico, che si leccava ancora le labbra per il sapore del vino, e con la sua ghigna storta pareva deriderli. Il maggiore gli accennò con l’indice di avvicinarsi, e gli disse minaccioso:
— Guardati bene, animale, di dire a nostro fratello che ci hai veduto qui, altrimenti ti mettiamo dentro un sacco come un porchetto.
E risero, ricordandosi che spesse volte avevano eseguito la faccenda con qualche porchetto magari di comune accordo rubato nell’ovile del nonno; poi se ne andarono spingendosi per le spalle allegramente. Aroldo, dietro la siepe, aveva veduto e sentito tutto; per il momento provò di nuovo un senso di speranza, e attese che anche il pretino se ne andasse. Serafino però si attardava presso le donne. La vecchia disse che Concezione non aveva assistito alla messa perché ancora non si sentiva bene, ed egli espresse il desiderio di vederla. La madre andò a cercarla e subito dopo Concezione, alzatasi nel frattempo, entrò nella sagrestia. Era grigia in viso e tremava di freddo: a Serafino però bastò uno sguardo per accorgersi ch’ella fingeva di essere sofferente più di quanto lo era. Disse la madre:
— Ma andate a sedervi accanto al fuoco: discorrerete meglio.
Né l’uno né l’altra però avevano voglia di cose piacevoli: ed entrambi, come d’intesa, scossero la testa, restando in piedi presso l’armadio ove egli aveva riposto i suoi paramenti, sotto la luce cruda e verdastra della finestrina sulla roccia. Dall’uscio della chiesetta veniva ancora l’odore dell’incenso, ma freddo, funebre; e la piccola cella, con alcuni vecchi candelabri scrostati in un angolo, aveva il clima di una tomba. Il primo a riprendersi dalla tristezza di tutte quelle cose, fu Serafino: esilissimo nella sua sottana accurata e quasi elegante, coi capelli un po’ crespi intorno alla chierica, come cespuglietti intorno a una radura, aveva anche lui, come il nonno e i fratelli, una strana aria selvatica, fra di uccello di rapina e di santo eremita: le sue mani gialle, un po’ adunche, facevano contrasto con gli occhi grandi, dorati e buoni. Fissandoli bene in faccia a Concezione, disse:
— Perché non sei venuta alla messa?
Ella piegò la testa; e avrebbe voluto dirgli tutte le sue pene, e l’esito dell’operazione subìta, ma si vergognava, ed anzi, istintivamente, si stringeva le mani al seno, per nasconderne il vuoto. Tuttavia, con una tenue, umile voce di confessione, disse:
— Sono malata, non lo vedi? Non mi reggo in piedi. Sono uscita ieri dall’ospedale, e mi sento estremamente debole. Forse non guarirò più.
— Questo lo sa solamente il Signore. O tu non hai più fede?
Allora ella ricordò che anche lui era malato, di un male più certo e inguaribile del suo, e tuttavia viveva e operava come un uomo forte e sano; e ne provò conforto. Un senso di luce le veniva dalle parole di lui. Sollevò il viso, lo guardò e proseguì:
— Il primario dell’ospedale mi raccomandò di tenermi riguardata, di non strapazzarmi, di non cercare emozioni. Io ho fede, sì, e voglio vivere, per mia madre, per fare, se posso, un po’ di bene. Ma ho bisogno di essere lasciata tranquilla.
— Hai qualcuno che ti molesta?
— Sì, ieri sera è venuto qui tuo nonno. Io ho un grande rispetto per lui, anche perché era amico di mio padre. Ma ieri sera mi ha fatto quasi paura. Vuole che io sposi uno dei suoi nipoti, uno dei tuoi fratelli, Serafino. Mi disse che questa mattina sarebbe tornato con loro, per farmi scegliere; ed io non posso, proprio non posso.
Uno sdegno mal represso fece arrossire il prete: adesso capiva perché i suoi fratelli erano venuti alla messa; il vecchio, che all’alba era ripartito per l’ovile, poiché qualcuno gli aveva portato la notizia che la sera prima, mentre egli si perdeva in chiacchiere nella cucina delle donne, gli erano stati rubati venti porci, piuttosto che portarsi appresso i due giovani alla ricerca dei ladri, aveva preferito mandarli nella chiesetta. Più che i porci gli premevano gli scudi di Concezione!
— Io non posso sposarmi — ella riprese, ferma e triste. — Non è superbia; è necessità. Non posso sposarmi, né coi tuoi fratelli, né con altri. Mai, mi sposerò: ma voglio essere lasciata in pace. Cerca di convincere tuo nonno. Dopo tutto egli ha in vista, per questo suo progettato matrimonio, solo quei pochi maledetti soldi che mi ha lasciato mio padre.
— Appunto perché te li ha lasciati tuo padre, non devi maledirli.
— No, Serafino, lui lo sa benissimo, e tutti lo sanno. Quei denari vengono da una sorgente di colpe, forse di delitti: ed io ci rinunzierei volentieri se non fosse per mia madre. Ma ella ci tiene; e dopo tutto vivere bisogna. Io morrò presto, Serafino, ma se dovessi campare dopo mia madre, ti assicuro che con quei denari riatterò la chiesa e farò elemosine: e se occorre mi metterò sulla porta a mendicare.
— Uh, uh — disse Serafino, facendo dei gesti come per scacciare qualche fantasma. — Non esageriamo, Concezione. Tuo padre era un uomo onesto e lavoratore; e non sono poi milioni, quelli che ti ha lasciato. Riguardo al resto, ti ripeto, Dio è grande: la vita, la morte, la salute nostra sono nelle sue mani. Bisogna aver fede. Sai la parabola del fanciullo di Cafarnao?
— Non ricordo.
— Ebbene, adesso non ho tempo, perché devo andare alla Cattedrale per gli uffici divini. Ma domenica prossima, racconterò a tutti, qui nella chiesetta, quella parabola: poiché tutti siamo più o meno infermi e abbiamo bisogno di guarire. Riguardo a mio nonno ed ai miei fratelli, sta tranquilla; non ti molesteranno più: a meno che...
— A meno che?
— Uno di loro non ti piaccia. Sono bravi ragazzi, allegri, generosi. Molto giovani, è vero, ma la buona moglie deve essere anche la madre del suo sposo.
Egli scherzava, certamente, e al vedere il viso ch’ella fece, di allarme e di spavento, anche lui ritornò serio:
— Sai che cosa devo dirti, Maria Concezione? Tu sei un po’ come la vita: tu mi capisci: tutti guardano alla vita, con la speranza di riceverne piacere, denari, amore: mentre invece la vita, in fondo, ci sfugge e non ci dà che delusioni e spesso dolore. Mio nonno, i miei fratelli, altri, forse, guardano a te per la tua fortuna, e ti credono una donna che oltre ai denari, può dare anche felicità. Mentre anche tu sei una povera creatura debole e infelice.
Ella capiva: un sorriso spettrale fece vedere i suoi denti un po’ grandi, d’avorio lucidato: e Serafino strinse le labbra per non far vedere i suoi.
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Aroldo lo vide andarsene, seguito dal chierico che si divertiva a tirargli il lembo del cappotto; e fu geloso anche di questo pretino fatto di nulla e di tutto, che si era trattenuto oltre il necessario dentro la casetta delle donne. Si avanzò, ma prima di spingere il cancelletto si fermò di nuovo a guardare giù verso la valle. Tutto sembrava pietrificato: anche le erbe, i cespugli, gli alberi nudi e grigi. Col crescere del giorno cresceva il freddo: un freddo opaco, fermo, incrinato appena dal grido di qualche passero: ma bastava quel tremolìo di vita, e il fumo che saliva dal camino di Concezione per sostenere la speranza dell’uomo solo e straniero. Senza cercare oltre di nascondersi, egli penetrò nell’orticello e si avvicinò alla porta: era chiusa, tiepida però del calore interno, e dalle fessure usciva il profumo del caffè. Egli lo fiutò, come quello di un fiore; avrebbe voluto inginocchiarsi sulla soglia, come il pellegrino davanti al santuario chiuso: poiché era quello il suo rifugio, la sua sosta, la sua gioia nella vita. Picchiò, una, due, tre volte, con la nocca delle dita intirizzite: le donne non rispondevano, intente a rifare assieme il loro vasto letto; ma per loro rispondeva la porticina, e pareva volesse aprirsi da sé per lasciarlo passare.
Pazienza, Aroldo, oggi è proprio la giornata delle contrarietà; tutto però si vince, con la pazienza, la buona volontà e soprattutto con la forza dell’amore. E così, dopo qualche minuto, venne ad aprire Concezione in persona: spalancò gli occhi, nel vederlo, in apparenza contrariata; tuttavia egli vide la scintilla di gioia che le brillò nella pupilla nera, dove si rifletteva l’immagine innamorata di lui, e non si disarmò se ella, quasi sbarrandogli il passo, esclamò:
— Così presto? Che vuoi?
Egli avrebbe potuto rispondere che altre visite c’erano già state, prima di lui; si contentò invece di sorridere, e trasse dalla tasca l’involto che la gonfiava.
— Sono stato alla vostra messa, Concezione. Oggi è la tua festa. Prendi.
E poiché ella non prendeva, ma anzi respingeva con ostilità il dono, egli assunse un’aria desolata di bambino pronto a piangere: e se non lo fece davvero, fu perché, sopraggiunta la vecchia, lo salutò benevolmente e prese lei l’involto.
Tutto era buono, in quei tempi avari, quando la Banca diminuiva disastrosamente l’interesse dei depositi, e Concezione non poteva più lavorare: e il tempo minacciava la neve.
— Entra, entra, figlio: tu sei sempre il benvenuto.
Egli entrò, guardingo, come un gatto in casa altrui: avrebbe voluto sedersi nell’angolo dietro la porta, come il vecchio Giordano; ma la vecchia lo spingeva verso il camino.
— Non abbiamo finito la tua porchetta che già porti altra roba, sciupone che sei. Che cosa c’è qui? Ah, del formaggio, e buono anche. Ebbene, oggi si fa festa: vieni a mangiare con noi, a mezzogiorno: ti farò i maccheroni.
Egli stava in piedi, a testa china, davanti al fuoco, col cappello fra le mani, nello stesso atteggiamento assunto in chiesa: non osava accettare, ma il solo invito lo consolava: avrebbe voluto accovacciarsi nell’angolo del camino, dire con umiltà:
— Lasciatemi qui; non fiaterò; tenetemi come un cane fedele, almeno fino a che possa tornare al mio lavoro. Poiché nel paese non ci posso stare: i miei compagni vanno dalle male donne, e poi all’osteria: poi camminano per le strade, ubbriachi e contenti. Io mi sento smarrito, in loro compagnia. Non bevo, non canto: la mia ubbriachezza e la mia gioia sono qui.
— Vieni, o no?
Egli volse la testa, cercando Concezione; era sparita; eppure si sentì più libero, e disse di sì.
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Tutto il giorno il cielo rimase basso, uniforme, l’aria gelida e immota: una giornata cupa, che pareva meditasse un delitto e non si decidesse a consumarlo. Si decise nella notte, nel buio, nel silenzio impressionante che l’aiutava a compierlo. Ma era un delitto innocente, e quando alla mattina presto la vecchia andò ad aprire la porticina la trovò sbarrata da un marmoreo scalino di neve, e con una tenda mobile di merletto candido. Stette a guardare, quasi felice come una bambina, sebbene lo spettacolo non le fosse nuovo; e non richiuse del tutto la porta contro l’ospite gradita (la neve è la lana dei campi, che al suo calore si fecondano felici), in modo che anche il gatto si avanzò, fiutò, tornò indietro, starnutando.
Il fuoco fu presto acceso; bollì di nuovo il caffè; di nuovo tutte le cose umili della casetta si rallegrarono. Si rallegrò anche Concezione, nel grande letto tiepido che odorava di stoppia come un campo mietuto: pensava che, almeno per quel giorno i suoi pretendenti non sarebbero venuti a molestarla; eppure il ricordo di Aroldo non voleva lasciarla; e la figura giovanile e sana di lui, la bocca fresca che non sapeva né di vino né di tabacco, gli occhi pieni di azzurro il silenzio prudente ma appassionato di lui, tutto le piaceva e le destava tenerezza. E di lui era sicura, poiché egli si mostrava piuttosto intimidito e contrariato dalla notizia della ricchezza di lei: ma l’ombra del suo avvenire non l’abbandonava: le pareva di essere come una monaca, che non può e non vuole sciogliersi dai suoi voti: e se respingeva Aroldo era per il bene di lui, per amore e non per altro. Maria Vergine, tu che esaudisci chi si rivolge a te con la fede del cieco sicuro di rivedere la luce in un’altra vita, Maria piena di grazia, accogli la preghiera della tua povera Concezione: toglile dal cuore questa freccia, fa che non pensi più ad Aroldo con desiderio carnale. Tre volte recitò l’Ave; già alla terza sentiva il calore della protezione divina sfiorarle il cuore, quando la madre entrò nella camera, e avvicinandosi allo scuretto socchiuso della finestra, dopo aver passato la mano sul vetro appannato, disse:
— Accidenti, anche con questo tempo c’è gente in viaggio.
Si vedeva, infatti, uno strano cavaliere avanzarsi nella strada solitaria, nero il cavallo, che scuoteva di continuo la coda e le orecchie per liberarsi da quelle innumerevoli mosche bianche che scendevano dal cielo; nera, tutta imbacuccata in un mantello, con sproni da guerriero sulle scarpe alte, la punta del cappuccio orlata di neve come la cima dei monti, la figura che lo cavalcava.
— Oh, — riprese la madre, sempre più sorpresa e incuriosita; — adesso si ferma proprio qui davanti. È un uomo o una donna? Adesso smonta e tira il cavallo verso il nostro cancello: pare voglia venire qui. Oh, Gesù e Maria, è lei, quell’indiavolata di comare Maria Giuseppa.
E corse nella cucina ad aprire la porta. La donna con gli sproni era entrata senz’altro nell’orticello, tirandosi appresso il cavallo e affondando vigorosamente i piedi nella neve, gelata e granulosa come fior di farina: nell’arco del cappuccio ben legato sotto il mento, si vedeva un viso pallido e grasso, con la bocca stretta sormontata da due baffi che sembravano quelli di un adolescente: e gli occhi neri corruscanti guardavano come quelli di una volpe dalla profondità della sua tana. Anche la voce era maschia, e rimbombò nel silenzio del luogo.
— Salute, e fatto tutto. Salute, comare Giustina. Mi volete o no? Ho la bisaccia piena.
— Piena o vuota, la bisaccia è vostra; mio è il piacere di rivedervi.
Allora l’ospite allungò le mani e carezzò il viso di comare Giustina; poi, essendo pratica del luogo, portò da sé il cavallo sotto la tettoia che copriva il pozzo e ospitava alcune galline freddolose: gli legò al collo un sacchetto con dentro un po’ d’orzo; tirò giù la bisaccia e la sella e le portò dentro la cucina, avendo prima cura di scuotersi di dosso la neve.
— Non per me, ma per il cavallo mi sono permessa di fermarmi da voi; altrimenti mi toccava di portare la povera bestia fin davanti al palazzo del Tribunale. Ho un’udienza che durerà chissà fino a quando; poiché i giudici, peste sia a loro, fanno il comodo loro.
Pur piegata a trarre la roba dalla bisaccia, fece molti gesti di scongiuro contro i giudici, mentre l’altra, già intenerita per i regali che l’ospite generosa portava, le faceva tanti complimenti.
— Sempre voi, comare Maria Giuseppa; sempre intrepida e coraggiosa e giovane. Ma perché sempre queste vostre liti, che non vi lasceranno in pace neppure il giorno del Giudizio universale?
— Quello meno che mai: sarà però il giorno della vera giustizia, quando io prenderò di mano a Lucifero, il tridente col quale inforca i dannati, e lo adoprerò contro i miei nemici, nudi e crudi, maledetti loro e tutte le loro generazioni.
— Che causa è quella che oggi dovete discutere? Non si poteva rimandare, con questo tempo? Non c’è l’avvocato?
Senza smettere di trarre cestini e involti dalla bisaccia, la donna sollevò il viso inferocito.
— L’avvocato? Tre, ne ho avuto, che mi hanno rosicchiato le ossa fino al midollo. I primi ad essere inforcati dal tridente di fuoco, nel giorno del Giudizio, saranno loro. E li morderò, anche, perché i denti mi rimarranno apposta anche dopo morta, tanta rabbia ho contro quei malfattori. Per adesso l’avvocato delle mie cause sono io: e non ho bisogno di carta né di penna: ho la lingua, e basta.
— Calma, comare Maria Giuseppa: pigliate una tazza di caffè, che vi riscalderà e vi farà bene. E datemi notizie di vostro marito.
— Mio marito sta bene. Sordo come una pietra, beato come un angelo del cielo, non si preoccupa di altro che della sua pipa, lui. Seduto tutto il giorno davanti al fuoco, non pensa agli affari di casa, no: ma di lui vi racconterò dopo: adesso ho fretta.
Sbuffante, accaldata come in un giorno estivo, per poco non versò addosso all’ospite la tazza di caffè che questa le porgeva: poi, con un gran botto, mise sul tavolo il cestino tratto dalla bisaccia.
— Questo per Maria Concezione. Che fa, la bambina?
Per lei, come del resto anche per la madre, Concezione era sempre una bambina; e comare Giustina s’intenerì.
— Sta poco bene: è ancora a letto: volete vederla?
— Adesso ho furia: alle nove devo essere in Tribunale, e di qui ci sono dei passi.
E corse via, come un fantasma nero; il fantasma dell’inverno; lasciando sulla neve l’impronta bucherellata delle sue scarpe coi chiodi.
Maria Giustina non sapeva se ridere o stare seria. Voleva bene alla donna bisbetica, ricca e litigiosa, con la quale da molti anni erano amiche, ma la considerava alquanto pazza. Veniva costei da un paesetto sui monti, un povero gruppo di casupole di pastori, del quale poteva considerarsi regina: aveva un marito molto più vecchio di lei, che la lasciava libera nelle sue stravaganze: senza figli, padrona di terre, di armenti, di molto denaro, era sempre in lite coi confinanti delle sue proprietà; litigava per ogni più piccola cosa; per diritti di passaggio, per limiti di pochi centimetri di terra, per scoli d’acqua piovana, per alberi che sfioravano i muricciuoli di divisione: e dilatava questi conflitti sino a farsene una continua appassionata lotta vitale; non per avarizia, o per amor proprio, e neppure per istinto di proprietà, ma perché aveva bisogno di agitarsi, di sfogare la energia esuberante del suo corpo robusto e della sua natura prepotente.
Concezione, ancora a letto, aveva sentito l’irruzione della comare di sua madre, — comari di San Giovanni, poiché s’erano incontrate, spose e in viaggio di nozze, ad una festa campestre, e, mentre i relativi mariti bevevano e giuocavano alla morra, si erano legate di amicizia scambiandosi i fazzoletti sette volte annodati, — e se ne rallegrava, per il diversivo che l’ospite portava nella piccola dimora.
C’era sempre da divertirsi, con Maria Giuseppa: per le sue storie, i suoi contrasti, le sue superstizioni, il suo fare chiassoso e sincero. I suoi regali, poi, erano straordinari e ricercati. Aveva portato alla bambina cose rare: uva fresca, pere, dolci di mandorle e un vaso di miele: e alla comare un intero prosciutto, e latte cagliato secco.
— Questa è proprio la casa dei regali, — disse Concezione: — bisognerebbe però ricambiarli.
— Che vuoi ricambiarle? Già butterebbe tutto per aria, e poi ha tanta roba, a casa sua, che non sa cosa farsene. E, infine, è la nostra Madonnina che ci protegge: è lei che ci fa arrivare i doni.
Ci credeva anche Concezione: e su questa fede non cieca né fanatica, ma tranquilla e luminosa, le galleggiava sempre, come la ninfea su un’acqua trasparente, il fiore della speranza. Anche il suo male, forse, era un dono misterioso, che l’avrebbe preservata dal peccato e da altri dolori. Sia fatta la volontà di Dio.
Eppure Aroldo le tornava davanti, coi suoi occhi che parevano anch’essi due fiori di luce: e pensava che quel giorno egli non sarebbe forse potuto tornare al lavoro, passando così una ben triste giornata.
Per liberarsi dai suoi pensieri si alzò, sebbene sentisse molto freddo, e disse alla madre, che almeno, bisognava preparare un buon pranzo all’ospite. Impastò un po’ di farina, con uova e strutto, e ne fece tante treccioline che, dopo fritte, spalmò di miele: sì, davvero, le pareva di essere tornata bambina. Anche la madre si dava da fare: odori buoni si sparsero nella casetta: odori di ospitalità, e quindi quasi di festa. Anche il cavallo non fu trascurato: Giustina lo abbeverò, mescolò un po’ di paglia all’orzo del sacchetto, gli batté la mano sulla testa: era una bestia buona e paziente; pareva di legno nero verniciato: tanto che il gallo prepotente, tutto giallo e rosso come una fiamma, gli beccava le zampe quasi per assicurarsi se erano vere o finte.
E la neve continuava a cadere, meno fitta ma incessante, e lieve come il fiore del biancospino che si sfoglia; e tale era il silenzio che fino alla cucina arrivava il ruminare del cavallo e il pigolìo supplichevole delle galline.
Ma ecco, dopo mezzogiorno, a rianimare il luogo, tornò comare Maria Giuseppa. Sedette anche lei nell’angolo della porta, come il vecchio Giordano, col quale aveva qualche sfumatura di rassomiglianza, — erano per lo meno della stessa razza, - dichiarando che aveva un caldo da crepare. Buttò giù il mantello, e apparve in un costume di panno scuro orlato di giallo e di verde che le stringeva la persona potente: la gonna era corta, tanto che si vedevano, sopra gli scarponcini allacciati con stringhe di pelle, le calze di cotone, bianche, con le cifre rosse: gambe salde, un po’ divaricate dall’uso del cavalcare. Dopo aver guardato bene Concezione, scuotendo la testa nel vederla così deperita, cominciò a raccontare dell’udienza in Tribunale; ma pareva facesse, più che alle sue ospiti, un resoconto a se stessa, con alti e bassi di voce risonanti. E imitava la voce del presidente e quella del cancelliere, in modo che Concezione si divertiva, come aveva sperato.
Si trattava di una delle solite cause, per la contestazione di una casupola che Maria Giuseppa aveva acquistato senza regolare contratto di vendita: ma pareva si parlasse di un castello, e c’erano di mezzo testimonianze false, ingiurie fra le parti, minacce d’incendi e di morte: anche una stregoneria la parte avversa aveva messo in opera, contro la nuova proprietaria della catapecchia contrastata.
— Sì, ho trovato nell’angolo sotto l’arco del pagliaio, dove io passavo tutti i giorni, un lungo bastone con una testina di stracci tutta trapunta di spilli. Ogni spillo un malanno. Infatti cominciavo a sentire dolori alle ossa, quando feci la scoperta: ma tanti furono i miei scongiuri e le mie imprecazioni che seppi di poi uno dei miei avversari malato di lombaggine. Oggi non ha potuto venire neppure all’udienza; e ben gli sta. Lo stesso giudice diceva: non deve aver paura del male chi il male non commette.
Ella, certamente, metteva in bocca agli uomini della giustizia, sentenze di sua speciale invenzione: e pareva recitasse una tragedia antica, citando gli articoli della legge, quasi sapesse a memoria, come un poema, il codice penale e anche quello civile e quello commerciale.
Le ospiti, la madre occupata a cuocere la pasta, Concezione a preparare la tavola, l’ascoltavano con interesse; d’un tratto ella cambiò tono di voce, e domandò:
— Ma chi è quel badalucco che, nel venire in qua ho visto girare due volte intorno alla chiesetta? Ha l’ombrello, e pare abbia smarrito qualche cosa fra la neve.
— Ha smarrito questo, — disse Maria Giustina, battendosi un dito sulla fronte; e rise giovialmente, guardando Concezione fatta scura in viso: entrambe avevano capito che si trattava di Aroldo.
— Oh, certo — affermò l’ospite; — solo un pazzo può girare così con questo tempo. Non mi ruberà il cavallo?
E balzò sulla porta, per sorvegliare il vagabondo. Anche lui l’aveva vista entrare dalle donne ed era sparito.
— Meno male, non si vede più. A meno che non si sia nascosto. Io, in fede mia, non ho paura di nessuno, né dei vivi né dei morti; ma i pazzi mi destano un terrore invincibile.
— Non è un pazzo: rassicuratevi, comare Maria Giuseppa: è un forestiere che lavora nella strada in costruzione, e oggi, con questo tempo, è in vacanza. Venite a tavola.
A tavola ella ricominciò a parlare dei suoi nemici. Adesso ce l’aveva coi parenti.
— Gente tua, morte tua. Tutti cercano di succhiarti il sangue, tutti aspettano la tua fine, per godersi la tua roba. Solo mio fratello Gaspare mi voleva un po’ di bene; ma il Signore se l’è preso giovane ancora; se l’è preso, il Signore, come un pastore al suo servizio. Gaspare ha lasciato solo un figlio illegittimo, Costante, buon ragazzo, troppo buono anzi, sempliciotto ma lavoratore. Anche lui mi vuol bene: è l’unico parente, anzi, che ci voglia bene. E va a finire che lascerò a lui la mia roba; bisognerebbe però che gli trovassi una buona moglie. E su da noi chi c’è? Ragazze morte di fame, straccione con le sottane sfrangiate, figlie di mendicanti o bagasciotte. Io e mio marito si ha sempre avuto l’intenzione di adottare una figlia, trovarle un buon marito, lasciarle la roba; finora le nostre ricerche sono state vane: adesso io cerco una buona moglie per Costante. Sarebbe ricca e fortunata: e la padrona sarebbe lei, poiché il ragazzo, ripeto, è un po’ semplice e ha bisogno di aiuto. Non te la sentiresti, Maria Concezione?
Concezione ebbe dapprima voglia di ridere; poi si volse tutta di un pezzo verso l’ospite, fissandola con gli occhi quasi spaventati. Oh, anche lei, adesso? Era proprio una persecuzione. Eppure la madre aveva còlto la palla al balzo, e il pensiero che un giorno la figlia sarebbe potuta diventare ricchissima, accese la sua fantasia. Tuttavia disse:
— Concezione è povera; e non intende, per adesso, abbandonare la sua vecchia madre. Ma vi ringraziamo, comare Maria Giuseppa, per la vostra buona intenzione; e vi auguriamo, che tutti i vostri desideri siano esauditi. Per adesso godiamoci questa ora di svago. Mangiate, mangiate; ancora un pezzo di porchetta.
L’ospite non si faceva pregare: il viaggio, il freddo, lo strapazzo, avevano aperto una voragine nel suo stomaco potente: e beveva anche; poiché il vino, perché l’ospitalità fosse completa, non mancava sulla tavola.
Allora divenne affettuosa, di una cordiale umanità che le affiorava negli occhi corruscanti e, a momenti, glieli riempiva di lagrime: e li fissava sul viso duro di Concezione come su quello di una santa di marmo dalla quale si spera tuttavia di ottenere un miracolo.
— Noi abbiamo bisogno di te, rosa mia. La nostra casa è piena di ogni ben di Dio, ma è fredda come la casa dei morti. Abbiamo bisogno di un’anima sincera, e di bambini, di speranze, di amore. Mio marito sembra tranquillo, col suo fuoco e la pipa, ma quando è solo sospira e sospira. Non è detto, rosa mia, che tu debba abbandonare tua madre. Essa potrebbe venire a stare con noi; la casa è grande come un convento; e se vuole la sua libertà ho altre case accanto, e tutte sono a sua disposizione: e avrà, se vuole, serve e servette: e anche un orto, dieci volte più grande di questo: se vuole posso farle costruire anche una chiesa. Basta che tu mi levi questa melanconia dall’anima, Maria Concezione; che tu voglia diventare nostra figlia.
Concezione piluccava un po’ svogliatamente uno dei grappoli d’uva portati dall’ospite, e non rispondeva.
— Non credere, — proseguì la tentatrice, — che io ti voglia in casa mia per servirmi di te. Sarai una signora, una regina. Ti alzerai all’ora che ti piacerà: ti porteremo a letto il caffè, ti laveremo i piedi, accenderemo il fuoco nella tua camera: avrai tante ancelle quante quelle delle mogli di Salomone. Di primavera andremo nelle nostre terre, dove l’erba è alta come l’acqua del mare; e toseremo le pecore, faremo festa, ci coricheremo all’ombra degli alberi. Sai quanto è bello sentire gli uccelli, su questi alberi, e il vento stormire fra i rami. E un servo suonerà la fisarmonica. E mangeremo il formaggio fresco cotto col miele, e il dolce fatto con i cedri canditi. Se ti piace il caffè e il rosolio, li avrai a portata di mano. Se vorrai, cuore mio, andrai a tutte le feste anche le più lontane, a cavallo, o sul carro ricoperto da una tenda, ed anche in carrozza. Non avrai che a esprimere un desiderio e sarà subito esaudito. E se avrai figli faremo venire il vescovo con la mitria a battezzarli.
Solo questa prospettiva toccava il duro cuore di Concezione: ma era come il vento che, al dire dell’ospite, stormiva sulle querce dell’altipiano, nei meriggi di primavera: soffio d’illusione.
L’altra proseguiva:
— Lo sai, tu, la roba che c’è nella mia casa? Non lo so precisamente neppure io, a dirti la verità. Armadi pieni di lenzuola, di tovaglie e di tela antica; casse zeppe di coperte di lana, di cotone e di seta; anzi te ne voglio regalare una, per farti vedere come sono tessute. Roba buona, non ragnatela come quella che si vende nelle botteghe. E abbiamo cose d’oro e d’argento che formano un tesoro: anelli con le corniole, e orecchini e collane di corallo; e un rosario in filigrana, con le poste d’oro, e una croce dentro la quale si vede la vera immagine di Cristo: è un talismano, venuto, si dice, da Terra Santa, e preserva dalla mala morte. Non ti dico poi delle provviste: ogni ben di Dio ti aspetta: olle piene di olio, e grano e farina, e mandorle e legumi, lardo e frutta secche. Abbiamo persino il frutto del giuggiolo e le olive secche che sembrano prugne. Quando i venditori ambulanti vengono al paese, la casa dove scaricano la loro roba è la nostra: ma a che serve, se nessuno ne profitta? Mio marito vuole solo la zuppa di farro, ed a me piace il pane d’orzo e il baccalà. Bambini, ci vogliono, per schiacciare le noci e masticare le castagne secche: e gente giovane per nutrirsi di agnelli arrostiti e di fegato di porco. La casa dove non c’è gente, come la nostra, ripeto, è la sagrestia del cimitero; non c’è fuoco che la scalda, né sacchi di denaro che la tengano allegra.
— È vero, è sacrosantamente vero, — ammise Maria Giustina: e un po’ ammaliata, un po’ anche impietosita per l’accento lamentoso dell’ospite guardava anche lei con occhi supplichevoli l’inesorabile Concezione. Ella aveva finito il grappolo dell’uva, e rosicchiava uno dei dolci di pasta fatti da lei: quelli portati dall’ospite, sebbene ricoperti di zucchero e in vaghe forme di uccellini e di fiori, le destavano nausea. E si sentiva soffocare, alla sola idea di dover abitare la casa «piena di roba» della ricca paesana. Quando poi questa fece un ritratto particolareggiato del nipote Costante, alto e bruno, capelluto e forte come uno degli antichi pastori venuti dalla Libia, ma un po’ balbuziente e così semplice da aver ancora paura degli spauracchi e dei gatti selvatici, impazientita disse:
— Mille donne se lo prenderebbero ad occhi chiusi: ma non fa per me.
— Insomma, ho capito: tu non lo vuoi. Chi vuoi, dunque? Il re di Spagna?
— Non voglio nessuno, non offendetevi: io sono già vecchia, sono malata; non sposerò nessuno.
Dunque, la speranza non era del tutto perduta: e Maria Giuseppa continuò imperterrita a enumerare i suoi beni: terre cintate di muri, bestiame, cavalli, alveari, boschi di sugheri che da soli producevano una rendita considerevole. Ma Concezione, buttata un po’ indietro sulla spalliera della seggiola, socchiudeva gli occhi e aspettava solo il momento che l’ospite se ne andasse.
~
La domenica seguente tornò Serafino, e tenne la promessa della predica. Il tempo si era raddolcito, e nella chiesetta non faceva molto freddo. C’era parecchia gente, ma di uomini solo qualche vecchio e Aroldo timidamente inginocchiato nell’angolo in fondo. Il prete, dunque, dall’altare, raccontò una specie di fiaba, che a poco a poco prendeva con un fascino quasi musicale, gli umili ascoltatori.
— La casa era appena finita, bella, solida, bianca, con terrazze e portici per la stagione calda, e stanze con tappeti e camini per l’inverno. Molti servi l’avevano messa in ordine, e coltivavano il giardino pieno di palme e di ori. Questa casa era del Regolo, cioè del Capitano che governava la città; e questa città si chiamava Cafarnao ed era in Palestina, ai tempi di Gesù Cristo. Il Regolo era di religione pagana; non credeva in Dio, derideva le dottrine nuove del Messia. Egli dunque e la sua famiglia, composta della moglie, della suocera e di un fanciullo che era tutta la sua gioia e la sua speranza, vennero ad abitare la nuova casa.
Aveva appena dodici anni, il figlio, ma ne dimostrava di più: forse era cresciuto troppo presto, e la nonna e la madre tremavano ad ogni soffio di vento che potesse fargli male. Infatti, appena furono nella nuova casa, si ammalò. La nonna, che era di razza ebrea, fece gli antichi scongiuri; portò due colombe in offerta al Tempio, e non smetteva mai di piangere e pregare. Il Regolo, già assai prepotente e cattivo nei tempi sereni, nel vedere il figlio malato diventò quasi feroce. Maltrattava i soldati e i servi, bestemmiava e s’infuriava per ogni cosa. Solo la madre pareva cupamente rassegnata: diceva: io lo sapevo; fatta la casa entra la morte.
Chiamarono i più famosi dottori, ma nessuno di loro seppe definire il male del ragazzo, mentre il poveretto si consumava lentamente, aveva sempre la febbre e non accettava cibo.
Fu chiamato anche un medico della città di Cana, vicino a Gerusalemme, ed egli, mentre se ne andava, disse al padre:
— Mi dispiace, ma il male del giovinetto è uno di quelli dai quali non ci si salva. Neppure il Rabbi, coi suoi pretesi miracoli, potrebbe guarirlo.
Eppure come un arcobaleno brillò tra le nuvole che opprimevano il cuore del Capitano. Il Rabbi, così veniva chiamato Gesù, in quei giorni, andava predicando per le contrade della Palestina. Egli, il Regolo, era incaricato di sorvegliarlo e con lui i suoi seguaci, ma, come si è detto, non ne faceva gran conto, anzi lo credeva un esaltato, quasi un pazzo. Ma poiché in quei giorni egli aveva consultato, per la malattia del figlio, anche maghi e stregoni, pensò di andare in cerca dell’uomo che, si diceva, faceva miracoli, e domandargli una medicina. Ed ecco che questo solo pensiero lo colmò di speranza.
In quei giorni il Rabbi si trovava appunto nella città di Cana; il Capitano, dunque, vi si recò, a cavallo, con alcuni servi. Trovò la città tutta in festa: pareva fosse primavera; tutte le finestre erano piene di fiori; nelle osterie si sentivano canti e suoni. Molta gente si dirigeva verso una casa che era quasi al limite della città: e il Regolo, lasciati i servi e i cavalli nel cortile di una caserma, si diresse anche lui verso il luogo dove accorreva la folla. Era quasi sera: nell’aia davanti alla casa di un contadino si vedeva brillare un grande fuoco; e Gesù vi sedeva davanti, in mezzo a molti uomini del popolo. Era tutto vestito di bianco e pareva che la sua persona risplendesse come l’argento: anche le sue dita sembravano raggi, e i suoi capelli erano del colore della seta appena filata.
Così, almeno, lo vide il Regolo di Cafarnao; che al suo apparire, con le sue vesti e le sue armi da Capitano, destò un senso di paura, poiché si credette che venisse a perseguitare il Maestro e i suoi seguaci. Ma Gesù continuava a parlare, con la sua voce forte e dolce nello stesso tempo, e tutti si rassicurarono. Infatti il Capitano si avanzava serio e addolorato, con le mani ferme sul pomo della spada; arrivato davanti a Gesù disse al alta voce:
— Ho un figlio che sta per morire: Rabbi, ti prego, scendi in Cafarnao e vieni a visitarlo. Ma vieni subito, o sarà tardi.
Gesù lo guardò, eppure pareva non lo vedesse, o che non si curasse di lui: tuttavia rispose:
— Voi, se non vedete miracoli o prodigi, non credete.
Replicò l’altro, con disperazione:
— Vieni, Signore, prima che il fanciullo muoia.
Gesù allora disse:
— Va, il tuo figlio vive.
Il cuore del padre credette subito a queste parole; ed egli andò via senz’altro, ma portando con sé una grande luce: gli sembrava di sentire dentro il suo cuore ardere il fuoco davanti al quale Gesù continuava a parlare ai suoi discepoli. E la notte stessa fece ritorno a Cafarnao; i servi spronavano i cavalli, tutti erano pieni di speranza. Arrivati poco distanti dalla città, egli mandò di corsa uno dei suoi servi, a prendere notizie del figlio: corse, l’uomo, tornò verso i viaggiatori come un uccello di buon augurio.
— Il fanciullo è vivo: non ha più febbre, è quasi guarito — gridava con gioia.
Il Capitano, l’uomo che fino a quel giorno aveva usato bestemmiare per esprimere la sua contentezza, questa volta guardò le stelle e gli sembrò che piangessero: era invece lui che piangeva.
Dalla casa altri servi gli corsero incontro: e il più vecchio, il più affezionato, piangeva anche lui.
— È dall’ora settima che il fanciullo non ha più febbre, — disse.
Era l’ora appunto in cui Gesù aveva detto: «Va, il tuo figlio vive».
E anche lui, il Regolo, si sentì come rinascere a una nuova vita, guarito dal peggiore dei mali; la mancanza di fede; gli parve di ritornare fanciullo, come il suo figlio diletto, e di poter ormai vivere di una eterna giovinezza: poiché adesso egli credeva nella parola di Dio. E con lui, sentito il suo racconto, si convertirono i suoi familiari.
Concezione era abbastanza intelligente per capire che Serafino predicava per lei: gli altri fedeli ascoltavano, sì, di buona volontà, e pensavano che i parenti malati, e loro stessi, con la volontà di Gesù potevano guarire dai mali più gravi; ma non andavano più oltre, poiché tutti possedevano la fede e non sentivano bisogno di convertirsi: solo Aroldo, che tormentava con le mani nervose il suo cappello di feltro, capiva che il prete, oltre che di salute fisica parlava anche di salvezza morale; e accompagnava la musica in sordina della parabola con un suo canto umile e silenzioso che lo riempiva di gioia e di tristezza. Sì, Concezione, tu devi guarire; per la tua felicità stessa, per il bene di chi vive di te solamente, e quando tu sarai guarita tutti intorno a te si sentiranno ringiovanire, tutti si convertiranno.
Eppure, nel capire che il prete parlava solo per lei, sentiva di nuovo una vena di gelosia: avrebbe voluto essere lui al posto di quel fantasma di cera, vestito di merletti, che si affacciava dalla balaustrata dell’altare come da un mondo sovrannaturale, e con appena un soffio di voce arrivava al cuore di Concezione, mentre lui, con tutto il suo ardore e la sua vitalità, la lasciava fredda e indifferente.
— Maria Vergine, Maria della Solitudine, guarda sopra di noi, dalla tua altezza lunare, e fa che c’incontriamo ancora, io e Concezione, nel deserto della vita: sono così solo, e sola è anche lei, col suo cuore che pare sia stato punto dal serpente.
Il senso di desolazione e di gelosia crebbe in lui, quando la gente se ne andò e Serafino si indugiò nella sagrestia. Il chierico spegneva i ceri, la chiesetta tornava grigia e fredda: che ci stava a far lui, in quell’angolo senza luce, con la testa bassa come un colpevole? Ecco una festa che gli si presentava tetramente vuota e sconsolata; meglio tornarsene all’accampamento degli operai della strada, e spaccare le pietre per intontire la sua pena. Si avviò, infatti, passo passo, fino alla proda della strada, ma non ebbe il coraggio di avanzare.
I macigni più alti del monte ancora coperti di neve, parevano, ai primi raggi del sole, blocchi di marmo; ma dalla valle saliva un alito tiepido, come di un fanciullo che dorme: il rumore del torrente, ingrossato dallo scioglimento delle nevi, era la ninnananna. E quel respiro riaccese un po’ di speranza nel cuore di Aroldo. Coi suoi occhi sani, egli vedeva in lontananza, a riparo di una insenatura tra la valle e il monte, l’accampamento suo e dei suoi compagni, fatto di capanne e di qualche tettoia, e pensava ai luoghi ove sarebbe dovuto andare, volendolo, per scavare strade ben più lunghe e difficili di questa, e trovare fortuna.
— Ebbene, è meglio che me ne vada, sì: che devo fare oltre qui? Sono come le volpi che vengono fino al nostro accampamento, poiché non trovano da nutrirsi che le corbezzole acide, e si contentano di sentire l’odore del nostro cibo. È meglio andarsene: almeno laggiù ci sarà da lavorare in grande: farò io il primo ponte; col primo guadagno mi comprerò una chitarra, che già so suonare, e la domenica farò divertire i miei compagni. E poi, sì, col tempo, verranno anche le donne.
Sospirò; pensò se aveva qualche parente giovane dalla quale farsi accompagnare laggiù. Nessuna: era proprio solo al mondo.
Una cornacchia, poi due, poi tante, passarono alte sul cielo di un azzurro marino: si inseguivano con gridi dolci e lamentosi; parvero sciogliersi come fuse nello splendore del sole.
Egli pensava seriamente alla chitarra. Prima di partire, con l’impresario, sarebbe già estate, con le notti calde, la luna rossa sui monti, l’odore delle stoppie ancora gialle: bello, suonare la chitarra, accompagnandosi al canto dei grilli e al tremolio delle stelle; senza parole: poiché certi dolori non si possono esprimere a parole.
Ricordò che il padrone di un’osteria del paese, dove qualche volta egli andava a mangiare, aveva una chitarra appesa al muro. Forse la si sarebbe potuta comprare, e portarsela addirittura in viaggio.
E prima di partire mettersi davanti alla finestruola di Concezione, una notte scura, appoggiato al muro, e col berretto tirato sugli occhi, e farle la serenata dell’addio.
~
Il mercoledì santo, Concezione preparò nella chiesetta il Sepolcro di Nostro Signore. Poco più sotto i gradini dell’altare stese un’antica coperta filata e tessuta dalla nonna del padre, la moglie del famoso rapinatore, riserbata solo per l’uso della sacra ricorrenza: era di lana di pecora, ma sembrava di seta cruda, con un bordo di greche nere, e sul fondo fiori di asfodelo.
Vi depose al centro il crocefisso di legno, che il resto dell’anno rimaneva appeso, stanco e rassegnato, alla parete nell’angolo della chiesa. Steso sulla coperta parve un altro; il viso dolce e olivastro, bucato dai tarli come quello di uno che ha sofferto il vaiuolo, pulito dalla polvere, si rivolgeva in alto, gli occhi si socchiudevano, le membra tutte, pur così inchiodate e insecchite, si distendevano, nude e d’una castità di ramo stroncato dal vento, con un vero abbandono di riposo. Era, sì, come il ramo caduto sull’erba, stroncato dal vento o dal potatore, non morto, anzi pronto a germogliare di nuovo, se la terra lo riprende: e Concezione, in quel giorno di acerba primavera, sentiva anche lei qualche cosa di simile. Sette piattini fondi, dove ella aveva fatto germogliare nell’acqua un po’ di grano, furono collocati, come diadema di rinascita, intorno alla testa del Cristo: era bianco, il grano, e odorava di amido: come simbolo poteva andare, ma sarebbe stato troppo melanconico, quasi innaturale, come i capelli dei neonati, cresciuti nel buio delle viscere materne, se in sette bicchieri di vetro, uno diverso dall’altro, non avessero riprodotto i colori dell’arcobaleno i primi fiori dell’orto e quelli del ciglione sopra la valle: viole, narcisi, violacciocche, margherite bianche e arancione, e pervinche nel colore cielo di marzo. Stretti e lunghi erano i mazzolini; e pareva si sorridessero, infantili, al di sopra dei pallidi ciuffi del grano, illuminando l’aria coi loro colori.
Quando ebbe finito, Concezione s’inginocchiò sul lembo rimasto libero del tappeto, piegandosi a baciare i piedi di Nostro Signore: e le parve che il freddo di quelle dita stanche non fosse il freddo della morte, ma quello di un povero che non ha fuoco e aspetta il primo sole primaverile per riscaldarsi.
Ed ella pensò ad Aroldo: anche lui, povero, anche lui in attesa di un raggio d’amore. La pietà, la tenerezza per il Cristo morto, si fusero, in lei: poiché, se Aroldo non si era più fatto vedere, ed ella credeva di esserne contenta, in fondo sentiva che la loro storia non doveva finire così: e l’immagine di lui le rimaneva nell’anima, senza mai chetarsi, come di uno che annega ma che con tutte le forze della vita tende a risalire a galla e salvarsi. Ella non gli tendeva una mano, ma neppure lo respingeva.
— Non è peccato, il mio, — dice al Cristo morto per amore degli uomini; — non vado contro la tua legge: lascia dunque, o Signore, che io ami senza speranza, che io sola soffra per lui.
A giorni — in quei primi giorni di primavera — si sentiva anche lei andare a fondo: se non puoi aiutarmi a vivere — le diceva l’altro — vieni e muori con me.
Ed ecco, mentre ella è ancora piegata sul tappeto, la porta rimasta socchiusa si apre, e una striscia di luce arriva fino a lei: la figura rapida, silenziosa di Serafino attraversa quella scìa luminosa, e prima che ella si sollevi, le sfiora la testa con la mano.
— Brava: hai fatto le cose per bene.
Anche la voce di lui s’era rischiarata; roseo, sebbene di un roseo giallognolo, pareva anche lui in via di guarigione; ella se ne rallegrò, e lo invitò ad andare a prendere il caffè.
Non passarono per la sagrestia; anzi Serafino volle attraversare lo spiazzo davanti alla chiesetta, dove sotto il muricciuolo fiorivano i biancospini; poi si aggirò nell’orticello, fra le fave e i piselli già sparsi di farfalle bianche e nere di fiori. Si piegava a guardare i fili d’erba, il musco che copriva i sassi, le lucertole fuggenti; con scatti di riso, come quelli di un bambino lasciato in libertà.
— Se è felice lui, perché non dovrei esserlo anch’io? — pensò Concezione; e d’improvviso si sentì davvero contenta; contenta della bella giornata, delle montagne che rinverdivano, del sole già caldo. Disse, andando a prendere il vassoio col caffè:
— Mia madre è fuori: è andata giù a lavare i panni nel torrente. Avevi da dirle qualche cosa, forse?
No, egli era venuto per lei. Sedette sulla panchina di pietra accanto alla porta, e accarezzò il gatto che pretendeva saltargli in grembo.
— Maria Concezione, sono venuto per te. È da molto che non vedi l’Aroldi?
Ella arrossì, ma rispose la verità: erano quasi tre mesi che non vedeva il giovine; e nel calcolare quel tempo, che con la tristezza delle cattive giornate, non era stato breve, si domandò come faceva a vivere, così, di nulla come una povera vecchia rassegnata.
— Perché? — domandò con una pallida curiosità, ma già preoccupata per l’interessamento di Serafino.
— Senti, Concezione, tu devi parlarmi con sincerità. Sei proprio decisa a non aver più a che fare con lui? Lo hai dimenticato?
— Ma, non so neppur io. Non si comanda ai propri pensieri: ad ogni modo è meglio che il giovane sia lui a dimenticarmi. E sarò contenta quando i lavori della strada saranno finiti ed egli se ne sarà partito.
— Un’altra cosa prima di proseguire su quest’argomento. Ma non ti sdegnare. A suo tempo ho imposto ai miei fratelli e al nonno di non darti molestia: egli però sembra preso dalla manìa di un possibile matrimonio fra te e Pietro: s’è deciso per Pietro — aggiunse sorridendo, — perché è il maggiore: e mi ha tanto ossessionato, che sono venuto anche per questo. Non c’è proprio nessuna speranza?
— È proprio una domanda di matrimonio?
— E perché no, se ti fa piacere?
Senza rispondere ella riportò in cucina il vassoio, poi tornò, mandò via il gatto importuno e sedette rigida accanto a Serafino.
— Tu hai voglia di scherzare, oggi; segno che stai bene: e questo mi fa davvero piacere: ma non parliamo più delle idee di tuo nonno. Tu stesso, se ricordi, me lo avevi promesso.
— Ma anche tu, adesso, stai bene, Concezione: sembri un’altra. Dio ti conservi fino alla più tarda vecchiaia. Non c’è quindi ragione che tu non pensi al tuo bene. Come amico tuo e di tua madre, come uomo e come sacerdote, io desidero che la tua vita non trascorra così, triste a te, inutile agli altri. Il mio dovere è di consigliare il bene alle anime che mi circondano: e tu sei una fra le predilette, perché capisco che meriti una sorte migliore di quella che la tua fantasia vuole crearti. La donna è fatta per sposarsi, per crearsi una famiglia, compiere il proprio ciclo, come lo hanno compiuto le nostre madri e le nostre nonne.
— Ma sta zitto, — ella disse, cercando di prendere la cosa alla leggera; — non devo poi sposarmi per forza, con uno che non amo.
— Non è vero. Ammetto che tu non voglia sentir parlare dei miei fratelli; e se te ne ho accennato è per soddisfare mio nonno e mettergli il cuore in pace. Dopo tutto la sua fissazione è innocua, e né lui né i miei fratelli possono serbarti rancore. Ma tu non sei tranquilla, Concezione; io ti conosco; e tu, più di tante altre donne, hai bisogno di amore. Perché vuoi sciupare la tua vita? È un dono di Dio, la vita, e bisogna accettarla con gioia.
Ella piegò la testa. Capiva che Serafino parlava convinto: nel suo cerchio di piccolo apostolo, egli voleva il bene delle anime che vivevano accanto a lui: era la sua missione; e ancora una volta ella fu per raccontargli le sue pene, le sue paure; ma non riuscì che a ripetere:
— Sono malata, Serafino; sono molto malata: voglio, per questo, solamente per questo, restare libera: se questa è la mia sola soddisfazione, se la mia vita può ancora essere utile per mia madre, perché cercare di convincermi altrimenti?
— Ma tu, senti, pensi al male che, anche senza volerlo, puoi fare a chi ti vuol bene?
Ella ricordò: e il pensiero che anche Aroldo potesse commettere per lei qualche sciocchezza, le fece sollevare il viso quasi spaurito.
— Ascoltami bene, Concezione. C’è una donna, nel nostro paese, che la voce pubblica dice figlia di tuo padre. Uomo buono era tuo padre, ma ignorante e di poca religione vera, come la maggior parte degli uomini incolti abbandonati a se stessi. Egli ebbe questa figlia da una serva, e non se ne curò: chi è il paesano benestante che non ebbe relazioni con donne facili, e non lasciò qualche bastardo sperso per il mondo? D’altronde la madre della bambina aveva relazioni con altri uomini; e neppure lei si curò dei suoi diritti. Crebbe, la ragazza, sotto il cattivo esempio della madre e, morta questa, ne seguì la via. Adesso vive in una sua casetta quasi nascosta in mezzo a un orticello, che, a vederla, sembra un nido di pace e di virtù, ed è invece un covo di serpi. Ho qualche volta tentato di rimettere la donna nella buona strada, ma inutilmente. Essa è contenta della sua mala sorte; è anche, come tutte le sue pari, una squilibrata e irresponsabile; io non dispero, col tempo, di richiamarla in sé; ma intanto non posso nulla: troppo grandi sono le forze del demonio.
— Lo so, — disse Concezione mortificata e dolente; — è una storia che da lungo tempo ci umilia, me e la mamma. Lo so; e poiché, né vivo mio padre, né dopo la sua morte, anche noi nulla abbiamo potuto fare per porre qualche rimedio al peccato di lui, tante volte io ho pensato di far parte, almeno, dell’eredità di lui alla disgraziata: ella, lo sappiamo, non ha bisogno di aiuto materiale, ed ha rifiutato, una volta, una mia offerta; è d’animo malvagio, e disse che sperava lei di vederci ridotte in miseria, di veder distrutta la nostra chiesa, e di poterci un giorno soccorrere lei col suo denaro maledetto. Allora, la miglior cosa per noi è di lasciarla in pace e pregare per lei: ma se adesso che tu me ne parli, Serafino, se adesso posso fare qualche cosa per lei, eccomi pronta.
— Ecco, — egli riprese, un po’ turbato, — quello che devo dirti non è piacevole, e prima di riferirtelo ho voluto esserne sicuro. L’Aroldi frequenta la casa di Pasqua, di quella donna, insomma. Perché lo fa? Per disperazione, o per farti dispetto? Pasqua è bella; ti rassomiglia; e sebbene sia più vecchia di te sembra più giovine: perché non si strapazza, no; fa una vita comoda, e fra gli uomini che la cercano sa scegliere bene: li vuole sani, giovani e ricchi.
— Aroldo non è ricco, — scattò Concezione; ma subito si pentì e riprese la sua cupa rigidezza.
— Non è ricco; ma può diventarlo, così almeno va raccontando lui a chi vuol sentirlo. E adesso chiacchiera con tutti: è diventato un altro; tutte le feste è all’osteria, e suona e canta e, purtroppo beve. Certo, sembra, come dice la gente superstiziosa, che gli abbiano fatto una stregoneria. E fama di queste cose ha appunto la sciagurata Pasqua; ma la vera malìa, certo, l’Aroldi l’ha avuta da te.
— Oh, Serafino, — disse allora Concezione, con rimprovero amaro; — tu non devi parlare così. E, del resto, che cosa posso farci io? Mi dispiace che egli vada da quella donna; ma, credi pure, non sono gelosa; e non ne ho io la colpa. Tutti gli uomini fanno la stessa cosa: un giorno, poi, egli se ne dovrà pure andare, e tutto sarà finito.
— Non so; credo che tutto non sarà finito così presto. Pasqua lo rovinerà; forse riuscirà a farsi sposare.
— E lascia che si sposino. Non sarà un modo, per l’infelice, di redimersi?
— Tu non mi intendi, sorella mia: non mi vuoi intendere. L’uomo è disperato; è traviato: nulla di buono, qualunque ne sia la conclusione, può nascere da questa avventura. Tu sola puoi e devi salvarlo.
— Poco fa tu mi chiedevi di aiutare Pasqua; non sarebbe il modo, di lasciare invece che la sorte di lei e quella di Aroldo si uniscano?
Serafino scuoteva la testa: un po’ irritato disse:
— Tu parli senza convinzione. Fingi con me come vuoi fingere con te stessa: così non ci si può intendere. La vita non deve essere commedia, Concezione, almeno fra persone di fede e di giudizio, come io ti ritengo. Ora, io ti dico: sono venuto per metterti in avvertenza: non si scherza con l’anima delle persone a cui si vuol bene: e tu vuoi bene a quell’uomo.
Per la seconda volta ella arrossì, e stava per rispondere, quando vide spingere il cancello socchiuso, e senz’altro avanzarsi nel vialetto, una donna con un canestro in testa. Era del paese di comare Maria Giuseppa; anche lei con le scarpe a chiodi, la persona forte e dura come una colonna; il viso lucido e rosso e gli occhi neri maliziosi sorrisero con ironia nel vedere Concezione e il prete seduti accosto sulla panchina quasi stretti come due innamorati.
— Buon giorno e salute, — disse, deponendo ai piedi di Concezione il canestro e sollevando il panno che lo copriva; — questo te lo manda Maria Giuseppa Alivia: è il regalo di Pasqua. Sarebbe venuta lei, ma ha male a un piede poiché è caduta da una scala nel fare le pulizie per la settimana santa.
Di nuovo rigida e ostile, Concezione si era alzata e guardava la roba del canestro, accanto al quale la donna stava piegata in adorazione.
— Vedi quanto bene di Dio? Burro, formaggio, uova, pizze e salami: roba solida, figlia mia: e poiché sono venuta col cavallo di San Francesco, ti dico, figlia cara, che il mio collo si risente del peso del canestro.
— E perché non vi ha dato uno dei suoi cavalli, comare Maria Giuseppa? — domandò Serafino.
La donna lo guardò male: non era convinta che la visita di un pretino, a quell’ora, a una bella ragazza come Concezione, fosse del tutto innocente.
— Mi piace camminare col cavallo di San Francesco — disse, — ognuno ha i suoi gusti.
— Ma questa roba è troppa per me — protestò Concezione. — Si può aprire un negozio.
— O dare un pranzo ai poveri — aggiunse serio il prete.
— E poi, come sdebitarmi? Io non ho proprio nulla da poter mandare a comare Maria Giuseppa.
— Tu sai bene il modo di ricambiarla, — disse la donna, guardandola di sotto in su con un cenno di intesa. — Basta un tuo saluto.
Oppressa, ma decisa a ribellarsi, Concezione si rivolse a Serafino:
— Pare impossibile: anche Maria Giuseppa Alivia mi vuol dare marito: che ho, di tanto bello, da essere così ricercata? No, buona donna, io non posso mandare alla tua padrona il saluto ch’ella desidera. Le auguro buona Pasqua; ogni bene le auguro, a lei ed a tutta la sua famiglia: ma che ella non pensi più a me che come ad una buona amica. E questa roba, sì, l’accetto; poiché scortesia sarebbe rifiutarla, ma ne farò parte ai poveri, come Gesù nostro Signore comanda. È dentro la chiesetta, steso sul pavimento, più povero di tutti i poveri: vuoi vederlo, donna?
La donna si chinò in ginocchio.
— Tu parli come un libro d’oro, — disse, fattasi triste e quasi severa; — ci sono tanti poveri che hanno fame. Anche da noi, lassù. Riporterò le tue parole a Maria Giuseppa: sta pur sicura, anima mia. E adesso fammi vedere il Cristo morto.
E prima di andarsene, Serafino disse:
— Concezione, ti manderò qualche povera madre di famiglia, e qualche bisognoso che non vuol dimostrarsi tale: e tu farai loro parte di questo ben di Dio.
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Fu come un raggio di sole in una giornata sia pure calma e tiepida, ma grigia e uniforme: e grigio, tiepido, ma fermo e grave era quel giovedì santo, con gli alberi coperti di piume verdi, e le montagne tigrate melanconiche come belve assopite. D’un tratto però il cielo si aprì; una spada d’oro sfolgorò toccando il mandorlo dell’orto che si coprì di perle: e i monti buttarono via, definitivamente, le loro pellicce invernali.
Un piccolo uomo d’età e di condizione indefinibili, ancora smilzo nel suo cappotto nero di vecchio taglio, ma attillato e pulito, con una bombetta lucida sulla testa piccola irrequieta come quella di un uccello, i guanti, il bastone, le scarpe di coppale, entrò nella chiesetta, piegandosi, senza inginocchiarsi, sopra il santo Sepolcro: ma pareva lo facesse più che altro per osservare il tappeto, del quale aggiustò un lembo con la punta del bastone, e per sentire l’odore dei fiori; poi andò dalle donne. Anche lì si guardò bene attorno, con un lieve fiuto, e disse con voce un po’ tremula:
— Prete Serafino mi ha incaricato di farvi sapere che oggi non può venire perché occupato nelle cerimonie della Cattedrale. L’ho appunto incontrato in piazza, e saputo che venivo a passeggiare da queste parti mi ha pregato di entrare da voi. Così ho visitato anche il vostro grazioso Sepolcro: la parola grazioso non sarebbe giusta a proposito; ma immaginando che lo abbia combinato la nostra amabile Concezione non ne trovo una più adatta. Brava, brava: hai gusto, fanciulla. E, dunque, come va la salute? È un pezzo che non ci si vede.
— È vero; non si è fatta più vedere, da queste parti, signor dottore: ma avrà avuto molto da fare; con l’inverno vengono tanti malanni.
Se non fosse stata la buona Giustina, a parlare così, l’uomo avrebbe sorriso male; poiché era un vecchio flebotomo, che aveva, sì, esercitato abusivamente medicina, ma dopo l’apertura dell’Ospedale, e le nuove teorie sul salasso, perduto ogni prestigio; e, adesso, mezzo alcoolizzato e senza più un cliente, viveva in completa miseria.
Ricordando le parole di Serafino: «ti manderò qualche povero bisognoso che si vergogna di esserlo», Concezione capì subito di che si trattava.
Il viso scarno ma pulito dell’uomo, i suoi occhi azzurri, infossati e smorti, la piega amara delle sue labbra grigie, persino il vestito che ricordava l’antica dignità, le destarono una pietà profonda. Non seppe perché, pensò ad Aroldo vecchio; ad Aroldo logorato da una vita di fatica, di errori, di vizi; di quei vizi che, una volta preso possesso di un uomo, lo marciscono fino alle ossa: e l’inquietudine che già dal giorno avanti la rodeva, scoppiò in tenerezza e carità.
— Senta, — disse, sapendo di fare una doppia elemosina; — io avevo proprio bisogno di lei, pensavo a lei, anche ieri. Sono stata, forse lei lo sa, venti giorni all’ospedale, per una operazione: non le parlerò di questa, poiché tutto è andato bene, grazie a Dio; ma mi è rimasta una gran debolezza, e non so come curarla. All’ospedale non voglio più tornare, no: mi è rimasto in odio. Ma lei può ordinarmi qualche cosa, dottore: se non vuole che le compensi le visite, le farò un regaluccio.
— Niente, niente, — egli disse, con fierezza, battendo il bastone sulla pietra del focolare. — Fammi sentire il polso.
Il polso batteva regolare; l’aspetto di lei era abbastanza buono: egli la guardò negli occhi, e una scintilla s’accese nei suoi.
— Sai che cosa hai, Maria Concezione? Hai bisogno urgente di marito.
Ella rise, ritirò la mano che egli le palpava con le dita nervose.
— E dove lo trovo, il marito?
— Birbante, figlia di birbanti! Dove lo trovi? Dovunque si posino i tuoi occhi di sirena. E se vuoi, te ne mando uno io, fra un’ora al massimo, a spron battuto.
— Non si disturbi, dottore: e, intanto, prendiamo il caffè, alla salute del futuro sposo.
L’uomo non accettava mai niente, per timore che volessero fargli l’elemosina; ma tanta grazia era nei modi di Concezione che accettò non solo una grande tazza di caffè, ma anche i biscotti ch’ella gli offriva. Giustina, poi, disse:
— Un tempo, dottore, io usavo mandarle il regalo di Pasqua, si ricorda? Mio marito aveva tanta amicizia per lei; e fu lei a curarlo. Dopo, i tempi sono diventati duri, per noi donne sole; ed io ho trascurato i miei doveri. Ma adesso pare che vada meglio: mi permette dunque, poiché io non posso più fare il viaggio fino a casa sua, e questa ragazza selvatica non esce mai dalla sua tana, mi permette di farle un regaluccio? Roba da poveri: ma lei accetterà la buona intenzione.
— Niente, niente, — egli tornò a protestare; ma Concezione era corsa di là, nella camera, e fece un involto di roba: ci mise anche un pane, di quelli che si usavano regalare agli amici ed ai poveri per Pasqua, in simbolo di comunione come l’ostia consacrata; e tanto insisté, che il dottore lo accettò.
— Da’ qui, figlia di ladroni.
— Roba da poveri — ripeteva la madre.
— Sì, lo so; povero sono io, e vecchio e solitario. Ma un giorno verrà bene a liberarmi, quella vecchia troia della morte.
E se ne andò, arrabbiato: però nei suoi occhi la scintilla si era spenta, sotto un velo di lagrime.
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Poi venne una donna, anche lei decaduta. Madama Peperona, la chiamavano, forse per il suo grande naso rosso che rivelava lo stesso vizio del dottore. E anche lei aveva uno scialle di antica grandezza, ma che adesso pareva una ragnatela; e un cappellino piumato, in cima al cocuzzolo di capelli grigi: e anche lei i guanti, con la punta delle dita tutte in fuori per le rotture. Dapprima entrò con una certa dignità in chiesa, trascinando le scarpe di stracci; s’inginocchiò davanti al Cristo, che riposava tra i fiori e il grano come un pastore addormentato, e pregò a lungo. Anche lei voleva serbare una certa compostezza, tanto che fu Giustina stessa che andò a chiamarla, pregandola di accettare una tazza di caffè.
La donna andò nella cucina, e sedette davanti al fuoco, come stanca di un faticoso viaggio: il viaggio della sua vita disastrosa: e non si fece pregare, ma neppure mostrò avidità, anzi togliendosi con lento gesto signorile, quella sua parvenza di guanti, prese la tazza di caffè e latte, i biscotti, l’involto che Concezione le porgeva. Ed era non senza interesse, che Concezione glieli porgeva, poiché la donna abitava una stanzetta terrena, un vero buco, in un cortile sul quale s’apriva la casa, pur essa terrena, dove Aroldo abitava anche lui, in una cameretta presa in affitto da una vecchia paesana. Fu di questa paesana che dapprima Concezione domandò notizie.
— È malata, — disse madama Peperona; — da due mesi ha una pleurite secca dalla quale non so se camperà. Ed è sola, e la poca assistenza che posso gliela do io.
— Ma che dice il dottore?
— Ma che dottore? Chi può pagarlo, in questi tempi? La disgraziata è più povera di me: vive, si può dire, di quello che le dà il forestiere: anche lui però è buono, e, quando torna dal lavoro, le compra sempre qualche cosa, qualche medicina: anche lui però è povero; ci aiutiamo così, fra poveri, come si aiutano gli uccelli feriti; e Dio vede ogni cosa.
Concezione fu contenta di aver così, indirettamente, notizie di Aroldo e di saperlo ancora buono: e avrebbe insistito, se un’altra donna non fosse sopraggiunta, questa veramente povera, smunta in viso, con gli occhi di gatto affamato. Di solito questa infelice, che aveva il marito infermo e un mucchio di bambini anch’essi più o meno malati, veniva ogni tanto dalle donne, sapendo di trovare qualche piccola elemosina; e adesso non era mandata da Serafino ma spinta proprio dalla fame sua e dei suoi. Nel vedere madama Peperona, che nel suo scialle tutto sfrangiato pur conservava un’aria dignitosa, l’altra la fissò spaurita, per paura di essere arrivata troppo tardi; la signora decaduta invece si scostò verso l’angolo del camino, per farle posto, quasi fosse lei la padrona, e volle darle il rimasuglio del suo caffè: ma Giustina fu pronta a preparare un’altra tazza di latte caldo, e così la poveretta fu consolata. E se ne andò quasi felice, per l’involto che Concezione le consegnò senza parlare, ma anche da quel tepore di amor del prossimo che persino la sua compagna di miseria le dimostrava.
— Poter fare del bene, — pensava Concezione, anche lei sollevata da un senso di gioia mai prima di allora provato così a fondo. Questo era il raggio di sole che rompeva la desolazione del suo cuore e della sua carne, l’elemosina che anche a lei veniva distribuita dall’alto dei cieli.
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Fino al giorno di Pasqua, il tempo, quasi partecipando alla passione dolorosa del sempre rinnovato Mistero, si mantenne triste, con rade apparizioni di sole, sì, ma poi con acquazzoni e grandine. Tutte le cose piangevano, accompagnando il pianto della Madre di Dio. Ma la mattina di Pasqua il tempo si rischiarò: i fedeli accorsero nella chiesetta, e le donne fecero la comunione: anche Serafino apparve lieto e quasi raggiante.
Più tardi, mentre la madre preparava i ravioli tradizionali, di cacio fresco e mentuccia, Concezione fece scaldare un paiolino di acqua per lavarsi. Bisognava pur fare un po’ di pulizia personale, dare anche al corpo la sua parte di freschezza e di rinnovamento.
Mentre l’acqua si scalda, Concezione, davanti alla finestruola della camera, si scioglie i capelli, li divide, li manda tutti giù sul viso e sul petto come una tenda nera: col pettine grosso, col pettine fitto, con un’antica spazzola da panni, ne fa cadere una nevicata di forfora; poi li ricacciò indietro e ripeté la faccenda, fino ad arrossare la cute, che infine strofinò con un fazzoletto bagnato e insaponato: mezzi primitivi, che tuttavia le lasciarono i capelli freschi e gonfi come acconciati da un abile parrucchiere.
E portato in camera il paiolino chiuse a chiave l’uscio: adesso si trattava di fare le abluzioni, e cinque litri d’acqua le sembravano anche troppi. Lentamente, con ordine, le sue vesti furono stese sulla sponda del letto: il corpetto di lana, la camicetta di cotone a quadretti bianchi e blu; e poi un altro corpetto di tela con una parvenza di merletto alla scollatura, e il sottanino di lana a maglia, e infine la camicia lunga e larga come la misericordia divina. E apparve tutta nuda, bruna ma lucida, col seno che le mancava; pareva un’amazzone di bronzo dorato.
E con l’agilità pronta di un’amazzone ella si piegava e sollevava, strofinandosi con un panno insaponato le gambe lunghe e sottili, le ginocchia piccole dove appariva un po’ di rosso come su una melagrana che comincia a maturare, sul ventre piatto quasi rientrante, sotto le ascelle pulite come quelle di una bambina. Infine, trattandosi delle spalle, il panno vi fu buttato a tracolla; e su e giù, e su e giù, dall’omero all’ascella opposta, l’abluzione fu completa: e l’asciugatoio non fu risparmiato, tanto che lasciò qualche striscia rossa sul bel dorso e i fianchi rabbrividenti. Brividi piacevoli, ai quali seguiva un senso di caldo; tanto caldo che ella avrebbe voluto restare nuda, coi capelli sciolti umidi come di rugiada. Le pareva di essere tornata fanciulla, quando correva all’appuntamento dietro i ciglioni bianchi di margheritine; e le parole e i consigli di Serafino, nonostante il seno mutilato e il ricordo degli ammonimenti del dottore dell’ospedale, le davano un calore di gioia. Vivere; voleva vivere; amare, dimenticare le sue pene e i suoi scrupoli. Gli occhi di Aroldo le sorridevano nell’azzurro della piccola finestra; e il pensiero di richiamarlo non le sembrava più tanto innaturale.
A incoraggiarla in questo proposito, arrivò, più tardi, un compagno di lavoro del giovine, che già Concezione conosceva perché aveva pure a lui confezionato un po’ di biancheria. Era un ometto anziano, ma col viso che sembrava quello di un ragazzino: aveva già bevuto qualche bicchierino di acquavite, ed era disposto a ridere e chiacchierare: si beffava di Aroldo, ma a Concezione pareva che fosse venuto mandato dal compagno.
— Adesso s’è dato alla musica, e tutte le sere suona come un grillo. Farebbe piacere a sentirlo, se non si sapesse che i grilli ce li ha lui, in testa: sappiamo per chi — aggiunse strizzando gli occhietti verdi verso Concezione. — Però è un bravo ragazzo: e io le consiglierei, signorina, di essere meno crudele con lui.
— Non avete altri a cui rivolgere i vostri consigli?
— L’avrei sì; ci sarebbe una donna che consolerebbe Aroldo, in modo da fargli subito deporre la chitarra; e tutti lo sanno; ma non è una donna per lui: anzi, mi dispiacerebbe se il ragazzo si lasciasse irretire.
— Dispiacerebbe anche a me, — disse Giustina, alla quale Concezione non aveva ancora riferito le parole di Serafino. — Si potrebbe sapere chi è?
E quando l’ebbe saputo si fece rossa e pensierosa.
— Concezione, — disse, andato via l’uomo, — è una brutta faccenda. Quella lo fa certo per vendetta; bisognerebbe salvare il ragazzo: salvare l’anima sua.
Concezione aveva il suo orgoglio; e non voleva andare proprio lei in cerca di Aroldo, adesso che appunto c’era di mezzo la triste avventura: ma attese che egli ritornasse di sua volontà. Sarebbe stata, questa, anche una prova che egli non era cambiato.
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Adesso i lavori della strada s’erano avvicinati all’ultima salita delle valli verso il paese. Si scavava il fianco del monte, e il rimbombo delle mine arrivava fino alla casetta delle donne: negli intervalli di silenzio già singhiozzava il canto del cuculo e pareva si lamentasse per essere disturbato nella sua solitudine. Anche Concezione si lamentava, fra di sé, inquieta e incerta. Altre volte il canto del cuculo aveva accompagnato la sua solitudine rassegnata, i ricordi del passato, la speranza di una vita sempre così, eguale ma tranquilla. Aroldo non tornava; e il pensiero che egli andava da quella donna a bere, come nell’osteria, il veleno dell’oblio, le pungeva il cuore.
Seduta a cucire sulla panchina di pietra, ella ascoltava l’eco delle mine, il canto del cuculo, e trasaliva ad ogni fruscio di passi dietro la siepe. Non sapeva però quello che veramente voleva: il pensiero del suo avvenire oscuro non l’abbandonava; e la sua attesa era un po’ fatta di superstizioso fatalismo. Ecco, bisognava affidarsi a Dio; e non sentiva rancore contro quell’altra; se Aroldo l’avrebbe preferita a lei era segno che così Dio voleva: dopo tutto era sua sorella; e forse stava appunto nella volontà divina che la figlia legittima dovesse in qualche modo scontare il peccato del padre. In fondo sentiva di non essere gelosa, perché sicura dell’amore di Aroldo: egli sarebbe tornato, e bastava un cenno di lei per riaverlo: qualche volta, però, quando era sola in casa e le ore passavano lente, si muoveva dalla panchina e andava fino al muretto dell’orto. Tutta la valle era già piena di vita e di vaghi odori di vegetazione, si vedeva l’acqua del torrente scivolare di pietra in pietra come una biscia d’argento verdastro, e il canto del fringuello ne accompagnava la voce: anche i monti si rivestivano, ma senza fretta; anzi le querce lasciavano cadere le vecchie foglie color rame come bruciate dalla fiamma gelida dell’inverno, e nello stesso tempo mostravano i nuovi germogli, di un verde perlato. Concezione sollevava gli occhi all’azzurro sopra le cime: e pensava a quell’altro azzurro.
Anche nell’orto tutto era fresco e fervido: i piselli si arrampicavano fin sulle piante, le violacciocche diventavano rosse come spruzzate di sangue. Concezione coglieva una margheritina bianca orlata di rosa, con l’occhio d’oro fra le ciglia dei petali e se la portava per compagna nella sua solitudine; ma il fiorellino si rattristava subito, si chiudeva, si addormentava: ed ella si pentiva di averlo stroncato inutilmente. Possibile che non si possa vivere senza far male agli innocenti?
E quei rimbombi delle mine che parevano correre e sperdersi tra gli anfratti del monte, e di là sbucare e salire violenti per i sentieri delle macchie, per arrivare fino a lei, torcendosi e infine placandosi ai suoi piedi, come messaggeri minacciosi e affannati? Ella aveva voglia di alzarsi, di salvarsi, come se davvero qualche cosa di vivo e di tangibile si rotolasse ai suoi piedi: e negli intervalli, dunque, era poi il grido del cuculo a finire di inquietarla: tutto le sembrava si rivolgesse a lei, per ricordarle che la sua vita non era giusta, che ella aveva sempre sbagliato strada e fatto del male: forse peggio dell’altra sorella fuori legge. E se il lamento del cuculo veniva da un mondo di là, il rombo delle mine le diceva anche di un passaggio sotterraneo che Aroldo si scavava da sé per arrivare di nuovo fino a lei, ma stroncato come la margheritina.
~
Ecco un giorno arriva il vecchio Giordano, con un viso scuro da giustiziere. Aveva accumulato molto sdegno, in tutto quel tempo, e veniva, nonostante le ingiunzioni di Serafino, a rovesciarlo addosso alle donne. Volle essere ricevuto dentro: al fresco si fanno solo le chiacchiere che si sperdono col venticello. Seduto al solito posto, afferrandosi al bastone, cominciò senza preamboli:
— E dunque il vostro spilungone, il vostro Gesù di stoppa va dalla Maddalena. Ma siete tutti in famiglia. Sicuro.
Concezione si sentì pungere come ella pungeva la stoffa con l’ago, da una parte all’altra: vide la madre arrossire, poi avvicinarsi al vecchio infuriata ed ebbe quasi paura che si accapigliassero.
— Ti proibisco di bestemmiare, in casa mia, — disse Maria Giustina, piegandosi minacciosa: — se sei venuto per salutarci sii il benvenuto, ma non parlare in quel modo. Che importa a te, e che importa a noi, se un uomo che non è nostro parente va dove gli pare e piace?
— Ah, a te non importa? Importa a me, invece, per l’onore del paese.
— Oh, oh, — si permise di ridacchiare Concezione; ma il vecchio questa volta era sdegnato sul serio e alzò la voce.
— Non ridere, sai, cuore mio: c’è poco da ridere, e te ne accorgerai presto. M’importa, sì, perché il nostro paese non è abitato solo da asini, ma anche da cristiani e galantuomini e teste quadrate. E che sono venuti a far qui questi forestieri senza midollo? A portare lo scandalo e il subbuglio: sono sempre ubbriachi e cantano come galli arrochiti. Che sono venuti a fare? Una strada? Ma noi non ne avevamo bisogno, di questa strada, il diavolo ci passi. Sappiamo camminare di pietra in pietra, come i giganti, ed entrare fino al collo nell’acqua corrente. Mi fa ridere, il ponte che stanno a fare su quel filo d’acqua che io scavalco con un passo: e parlo di me, che sono vecchio: i miei nipoti, poi, passano avanti ai caprioli, e il torrentello, quando essi lo saltano, scodinzola come fa il loro cane. Razza di forti, siamo noi, e non strimpelliamo la chitarra; se andiamo una volta tanto da una donna come quella, nel lasciare la sua tana sputiamo, e il giorno dopo in fede mia, andiamo a confessarci.
— E a me, ripeto, che importa? — ribatté Concezione; ma poi si pentì, scosse l’oggetto che aveva in mano e riprese a cucire decisa a non più parlare. Capiva che il vecchio sfogava la sua rabbia: bisognava lasciarlo finire. Ma egli non l’avrebbe finita tanto presto, se Maria Giustina, affacciatasi all’uscio, non avesse visto i due nipoti del vecchio appiattati dietro la siepe dell’orticello: ora l’uno, ora l’altro, allungavano il collo a spiare dentro il recinto, e dovevano, come al solito, darsi dei pugni, perché facevano smorfie e sberleffi; e non due nobili caprioli, come li vantava il nonno, ma due leprotti sembravano.
Nell’accorgersi ch’ella li aveva scoperti si nascosero del tutto: si sentì il loro ridere soffocato, e anche la vecchia cominciò a divertirsi; pensò di umiliare il Giordano col dirgli che i caprioli erano lì a giocare nascosti; egli però doveva essere d’intesa con loro perché, mentre pure aggrottava le sopracciglia setolose, si sporse dall’uscio e li chiamò, con un fischio, quasi si trattasse di cani.
I due accorsero, uno dietro l’altro: Pietro rideva silenzioso, e Paolo si lasciava, timido, rimorchiare da lui: così si presentarono sull’uscio, tentando, anche il più giovane, di assumere un’aria canzonatrice, quasi per pigliarsi, più che altro, beffa del nonno e della loro grottesca situazione.
Grottesca, sì, e ridicola: tuttavia Concezione ebbe un freddo di paura, quasi di terrore, nel veder la casetta invasa da quei selvaticoni: per la prima volta sentì la debolezza e la desolazione sua e della madre, che non avevano chi potesse difenderle e aiutarle in caso di pericolo; e quei due scervellati, che si presentavano così, senza dignità né orgoglio, aizzati dal vecchio prepotente come in un gioco da circo, le destarono più che mai disprezzo e ribrezzo. Rimase tuttavia immobile, con l’ago fermo sulla tela, come una immagine dipinta; e più che altro parve offrirsi allo sguardo dei due fratelli, come il ladro che alza le mani per essere meglio derubato. Ma ella si sbagliava: un velo di soggezione, se non di ammirazione, avvolse i due giovani; e solo dopo che Giustina ebbe loro offerto da sedersi, rassicurati dal silenzio di entrambe le donne, dalla loro accoglienza forzata ma non ostile, il maggiore si provò ad essere disinvolto, anzi goffamente spiritoso: si volse da una parte e dall’altra sulla sedia, stirò le gambe, si batté il petto con la punta delle dita.
— Soldato intrepido, — disse, — un gorilla, ottanta di torace, stomaco sano, appetito pari al coraggio.
Fermo sul suo bastone, come il vecchio orso che ammira gli orsacchiotti, il nonno s’era rischiarato in viso; sperava.
Infatti, Concezione, rassicurata, preso il tono leggero di canzonatura del giovane, e facendo scorrere lo sguardo ridente sulla persona di lui, disse:
— Sì; ma come va che ti hanno preso, con quelle gambe corte?
L’altro fratello scoppiò a ridere in modo che gli schizzi della saliva gli irrorarono il viso: ed egli si asciugò col dorso della mano. Pietro si sentì quasi scalzato, poiché gli occhi di Concezione corsero subito sulla persona del fratello: corrugò le sopracciglia che sembravano segnate col carbone, e ribatté con voce che poteva anche sembrare minacciosa sul serio:
— Ebbene, ti sfido allora a correre con me, tu che hai le gambe di pioppo sciolto. Provati; andiamo fuori, corriamo dove ti pare. In un baleno ti prendo, anche se tu vai avanti di un chilometro: ti acchiappo, ti carico sulle spalle come una pecora ammattita, ti porto su di corsa fino alla cima del monte.
Il fratello gli diede un forte colpo sulle spalle, non si sa se di approvazione o di rimprovero: egli si rivoltò:
— E lasciami stare, figlio di una cornacchia.
— La mia madre è la tua, manigoldo.
Questi erano i complimenti che sapevano fare i due fratelli: e il nonno continuava a fissarli, non sapendo quale dei due fosse più bravo. Più severa fu Giustina, che si era completamente rassicurata, e sedeva col suo atteggiamento da idolo, con le mani sul ventre.
— Neppure vostra madre rispettate, cattivi ragazzi che siete. Ad ogni modo, adesso Concezione vi darà il caffè: vino non ne ho. Quel diavoletto di Biblino, il chierico, s’è scolato anche quello della messa.
— Non sarà stato nostro fratello Serafino? — dissero a una voce i pretendenti; e cominciarono a beffarsi anche del loro santo di casa, adesso che era lontano e non poteva sentirli. — Perché a lui piace solo il vino bianco; per ciò è di quel colore, in viso; e non pare neppure un discendente di nonno nostro.
E risero del vecchio, per far vedere a Concezione che neppure di lui avevano timore. Ma ben altre prove del loro coraggio e della loro forza avrebbero voluto darle: come si fa, per esempio, a massacrare un nemico, in pace e in guerra, schiacciandogli la testa con le ginocchia; o ad afferrare per le corna un toro infuriato; a cacciare un’aquila, più pericolosa del toro; a spegnere, battendo il fuoco con le fronde, un incendio già avanzato. Non potevano, lì per lì, mostrare la loro bravura; Pietro però, esaltato dalle sue vanterie, osava guardare con occhi di maschio, e di maschio che se ne intende, la persona di Concezione; e l’altro, accorgendosene, mentre lui aveva quasi paura di fissare gli occhi sul petto di lei, cominciava ad essere geloso; così, solo per spirito di emulazione: e venutagli l’improvvisa idea di giocare col fratello una partita pugilistica, come spesso facevano per esercitarsi fraternamente, gli diede un pugno sotto il gomito.
Sollevò il braccio con dolore, mordendosi le labbra, Pietro lo spiritoso; e avrebbe immediatamente restituito il complimento manesco se il nonno, a sua volta, non avesse sollevato il bastone con un vero ringhio di orso.
— Ma vi credete all’ovile, asini che altro non siete? Smettila, Paolo; e fate e dite cose meno stupide.
— Ebbene, cantiamo una canzone, quella che dice: «Sono andato alla festa di santa Gasta; quella che viene in primavera». — L’avrebbero cantata, se un nuovo avvenimento non avesse smorzato il loro ardore e la loro incipiente rivalità, spingendoli anzi a stringersi l’uno contro l’altro come per difendersi da un comune pericolo.
E tutto fu movimento, novità, chiasso e vita vera, intorno e dentro la casetta ospitale.
Arrivava d’improvviso, e non certo, quel giorno, per una vertenza giudiziaria, comare Maria Giuseppa; non più camuffata da uomo, ma sempre coperta di vesti pesanti, con una cuffia di seta nera e, sopra, un fazzoletto che pareva avesse strappato, per decorarsene, tutti i fiorellini e le frange verdi della strada campestre. Intorno alle possenti caviglie, sopra le alte scarpe ad elastico, aveva allacciati due grossi sproni lucenti. Dopo aver condotto il cavallo sotto la tettoia, facendo segni di saluto alle galline, tirò giù la bisaccia colma e la portò sulla panchina di pietra accanto alla porta. Aveva già veduto nella cucina i due giovanotti, e corrugò le sopracciglia che, in quanto a foltezza e ribellione, gareggiavano con quelle di Giordano; ma il suo cipiglio divenne addirittura guerresco, aggressivo, quando scoprì il vecchio che la fissava anche lui sorpreso, curioso, e infine allarmato.
Non si conoscevano personalmente: egli però sapeva bene chi era Maria Giuseppa Alivia; e della sua autentica ricchezza, della sua prepotenza e infine del nipote bastardo e scemo al quale ella destinava la sua roba. Lui, Felice Giordano, s’infischiava, per non dire la vera espressione pensata in quel momento da lui, di tutte quelle cose; tuttavia si armò, pur senza fare un solo movimento; si armò come quando spiava i ladri dei suoi porci, pronto a ferire e ucciderli senza misericordia se osavano eseguire i loro progetti. E qui c’era davvero da stare attenti a Maria Giuseppa; oh, molto di più che al forestiero suonatore di chitarra. La sua collera crebbe nel veder Concezione alzarsi, dopo che la madre era corsa d’un balzo incontro all’ospite, e cambiare aspetto.
In fondo ella era contenta per l’arrivo della donna che avrebbe messo fine alla sgradita visita degli altri; sentiva però che la cosa non sarebbe andata liscia, e non sapeva se divertirsi o rattristarsi. Ricordava bene le parole di Serafino: tu sei come la vita, che desta tante lotte e bramosie, e lascia tutti delusi.
No, ella non voleva deludere, e sopra tutto non voleva ingannare nessuno; ma provava quasi un vago sentimento di vendetta contro il suo male, e il conseguente dolore, a veder quella gente contendersi una cosa che non esisteva. Dopo aver salutato con sostenuta cortesia l’ospite, reprimendo il primo impulso che era stato quello di far dispetto ai Giordano, tornò a sedersi ma non riprese il suo lavoro; e seguì come una spettatrice la scena degli altri. I giovanotti ed anche il nonno avevano per buona creanza, pur senza alzarsi, salutato con cenni della testa la donna: essa, che aveva già intuito di che si trattava, pensò di punzecchiarli immediatamente e farli andar via.
— Comare mia Giustina, — disse piegandosi a levarsi gli sproni, — vi ho portato qualche cosetta che voglio credere riesca gradita a Maria Concezione. Non è quello che Maria Concezione si merita: lei si merita tutti i tesori del mondo, però... però...
Si sapeva in che consistevano le cosette che ella usava portare in regalo, e Giustina era troppo donna di casa e buona massaia per non rallegrarsene: tuttavia non si affrettò a metter dentro la bisaccia, e questo incuriosì maggiormente i tre uomini.
— Ecco, — pensava malignamente il vecchio; — per amicarsi queste donnette bisogna portar loro dei doni; io non ci avevo pensato, ma sono sempre a tempo.
Disse, con dignità patriarcale:
— Anch’io allevo un bel porchetto, per comare Maria Giustina: anche lei merita qualche tesoro.
Pietro, invece, liberatosi dal primo imbarazzo, volle riprendere a fare lo spiritoso, e disse che lui, per conto suo, appena sarebbe la stagione, avrebbe portato un cestino pieno di cavallette.
— Di locuste si nutrivano gli ebrei, — disse seria l’ospite, attaccando familiarmente gli sproni a un chiodo; — e noi siamo cristiani battezzati, e ci nutriamo di pane e di santi cibi.
Egli fu per replicare, ma la donna finse di non badare oltre a lui e agli altri, con la stessa tattica che una sera il vecchio Giordano aveva usato con Aroldo. Ed egli dovette forse ricordarsene perché, per pungere meglio l’ospite e vendicarsi subito di lei, un po’ imitandola nel suo fare, si rivolse a Concezione.
— Riprendendo il discorso interrotto, — disse, — ti dirò dunque che quel giovinotto, quello spilungone, quel tuo pretendente favorito...
— Chi, chi? — si rivolse subito l’ospite, senza più potersi frenare. — E a me non dite mai niente.
— Ma lasciatelo cantare; ha voglia di scherzare, il vecchio. Io non ho pretendenti, né favoriti né altro: finiamola con queste storie.
Però il vecchio era troppo inquieto per non tentare di tirare ancora qualche frecciata, e quando Giustina servì a tutti il caffè egli respinse la tazzina con disprezzo.
— Figurati se voglio di quest’acquetta nera! Ho già bevuto tre bicchierini d’acquavite; e in buona compagnia li ho bevuti, con compare Francesco Marcello, quello che ha comprato i terreni del tuo beato marito, e adesso ha intenzione di rivenderli perché vuol fabbricare un palazzo per i suoi nipoti che studiano da avvocati e dottori. Io credo, veramente, che egli voglia vendere perché questi ragazzi, orfani anch’essi come i miei, ma di ben altro sangue, si stanno a rosicchiare il patrimonio; questo a noi non importa: importa che se tu, Giustina, e tu, Maria Concezione, non volete riscattare i terreni, come era volontà del beato morto, ho intenzione di comprarli io.
— Sì — pensò Concezione, — coi miei denari. Stai fresco, vecchione.
L’ospite, seduta a gambe larghe e con la tazzina fra tutte e due le mani, adesso, sì, prestava attenzione alle parole di lui e i suoi occhi scintillavano come perle nere: però si rivolgeva sempre a Giustina, e misurava anche il suono delle sue parole.
— Come, come? Vostro marito aveva stabilito questa sua volontà?
— Ma lasciate dire il vecchio: ha proprio voglia di scherzare: oggi è festa, e l’acquavite già scorre a rivoli nell’osteria del paese.
Un colpo di bastone del vecchio fece tremare il pavimento e scappare il gatto: ma egli non insisté per non sembrare maleducato, ed anche perché le due donne si erano completamente rivolte l’una all’altra e parlavano fra di loro come se egli non ci fosse.
Giustina s’informava della salute del marito dell’altra e delle novità lassù del paese, ascoltando con reverenza le risposte un po’ vanitose con le quali Maria Giuseppa esagerava le miserie del suo luogo natio per meglio far risaltare il benessere suo e della sua casa: tanto che Concezione cominciò a irritarsene e a sua volta si mise a parlare coi Giordano.
Intanto la bisaccia rimaneva fuori; non doveva contenere roba da mangiare, perché il gatto, dopo averla fiutata ben bene, raspandone i fiori e gli uccelli di lana ricamativi sopra, se ne andò nel folto delle fave.
Faceva già caldo e la natura era in pieno fiorire. Il musco nuovo, come un velluto verde sul quale si posavano le perle della rugiada, copriva le rocce e gli angoli di terra in ombra: l’odore vivo della mentuccia insaporiva l’aria; e il suono delle campane che arrivava dalle chiese della cittadina, con oscillazioni musicali come di danza, accresceva gioia e festa alle cose innocenti, mentre nella cuci na delle donne, gli animi in apparenza amici, o almeno senza ragioni di ostilità, si rodevano per le loro vane bramosie.
— Sì, — ripete comare Maria Giuseppa, stringendo le labbra color prugna per rendere più calme e nello stesso tempo più acute e pungenti le sue parole, — mio marito, grazie a Dio, è sano e florido come un pontefice. Poco si muove, sebbene le sue gambe siano buone; ma tutti vengono a trovarlo, a fargli compagnia: il parroco, il dottore, il segretario, il podestà: e i poveri anche, per tastargli il taschino; e lui se ne sta in mezzo a tutti come Salomone. Poco parla e molto ascolta, ed è saggio; non offende, non si fa offendere da nessuno. Nel tempo buono se ne va sotto il portico della nostra casa, un vero portico, sapete, non una rustica tettoia, con le colonne vere, tagliate nel granito; e lì c’è l’aria fina che viene dai monti e la vista grande che apre il cuore solo a vederla. E là se ne sta proprio come Salomone, a fumare la pipa, e molti vengono anche da lontano per domandargli consiglio e sottomettere al suo retto giudizio le loro questioni.
Avrebbe voluto aggiungere che no, non era davvero stolto come quel bestione imprudente e vanitoso che come gli scimmioni si conduceva appresso i nipoti per far divertire la gente; ma ricordando appunto certe osservazioni del marito a proposito della lingua sfrenata di lei, non aggiunse parola.
— E anche la vostra casa è come quella di Salomone, — disse comare Giustina, affascinata ma anche un tantino adulatrice, — piena di tesori e di ogni ben di Dio, che Egli ve li conservi lungamente.
Il vecchio aveva voglia di grugnire; pensava alla sua casa, bassa, che sorgeva nel quartiere più popolare della cittadina, ed era quasi buia. Oh, Concezione avrebbe preferito certo quella dell’ospite: tuttavia ascoltava anche lui un po’ incantato, confortandosi solo al pensiero che la donna esagerava il colore dei quadri che esponeva.
— D’inverno, invece, si sta in cucina: non nella cucina dove c’è il forno e si fa il pane, ma in quella del camino, che è grande e sto per dire bella quanto la sala comunale. Intonacata, sì, e con le tavole e le panche lucenti: i camini, poi, sono due, perché anche le spalle della gente, quando fa freddo, hanno da essere scaldate. Quando nevica, e gli uomini non possono andare al lavoro, ecco, tutti vengono da noi: giocano alle carte, e mio marito ogni tanto si alza, quieto quieto, e va a prendere un boccale di vino. Ah, per questo, è generoso: ha bisogno di veder la gente felice intorno a lui; e se un povero vergognoso lo guarda come il cane quando ha fame, egli finge di stendergli la mano per soccorrerlo di nascosto.
— Insomma, lo faremo santo — scattò il vecchio, ed ella volse a lui uno sguardo serio, come se anche lui avesse parlato seriamente.
— Oh, certo, in paradiso andrà.
— E allora, tanti saluti, e che preghi per noi — egli disse, alzandosi.
Era sdegnato di doversene andare così, senza aver raggiunto il suo scopo; ma nel vedere che i nipoti, protesi tutti e due verso Concezione, come per scaldarsi al fuoco della sua persona, sorridevano mostrandole i forti denti bianchi pensò essere bene lasciarli lì. Forse da soli, spronati dalla presenza dell’ospite rivale, se la sarebbero sbrigata meglio; tanto più che, e questo lo sentiva bene, avevano già cominciato a scaldarsi sul serio. Quindi, accennò loro di restare, poi se ne andò bruscamente, lasciando spalancata la porta.
E andato via lui, un senso di migliore cordialità animò gli astanti. Dopo tutto, comare Maria Giuseppa amava la gioventù, e i due ragazzi non le riuscivano antipatici. Come al vecchio il ricordo della sua casa tetra, così a lei tornò in mente la figura del suo nipote illegittimo, con gli occhi di montone e la bocca quasi sempre aperta come il becco degli uccelli che aspettano il cibo. Oh, il Signore divide in parti eguali i beni della terra, ed è sempre giusto anche quando meno lo pare. Ella si volse dunque verso il gruppo dei giovani, e interrogò Pietro con benevolenza: ma egli rispose riprendendo la sua aria diffidente e beffarda.
— Ho duecento pecore, tutte mie: non sono le vostre greggie, ma insomma non sono poi duecento accidenti. Si campa. E poi nonno ha pure lui qualche cosa: non sono le vostre ricchezze...
— Oh, ragazzo, smettila, — disse lei bonariamente; — non si pigliano in giro le persone anziane. E tu poi, agnello mio, hai una ricchezza che pochi re posseggono.
— Abbiamo capito — intervenne l’altro, non senza una punta di gelosia; — è la gioventù; che è anche la bellezza dell’asino.
Pietro gli diede un pugno sulla spalla; al che Paolo si raddrizzò e parve ingoiare una pietruzza; ma fingeva, e si sentiva contento lo stesso. Dalla porta spalancata si vedeva, attraverso il merletto scintillante degli alberi, un lembo celeste di montagna e di cielo; e la lontana voce del cuculo diceva di luoghi segreti, di angoli morbidi e ombrosi di bosco, ove sarebbe stato per i giovani aspiranti, infinitamente dolce baciarsi con Maria Concezione. A lei però, che si era di nuovo piegata sulla sua tela, e pareva rifletterne il grezzo pallore sul viso, il lamento del cuculo scavava intorno un vuoto improvviso, freddo e solitario. Eppure di tanto in tanto le pareva di sentire il rimbombo pietroso delle mine, e poi, ricordandosi ch’era giorno festivo, si domandava dove era Aroldo. Da quella donna? O errava smarrito, straniero fra stranieri, anche lui circondato di vuoto e di solitudine. Senza sollevare il viso, mentre i due giovanotti si erano adesso rivolti all’ospite e scherzavano con lei come con una ragazza, si ficcò la mano sotto l’ascella, incrociò l’altra mano sul braccio piegato e vi piegò il mento: pareva dormisse.
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Strambo sarebbe parso questa volta il dono dall’ospite offerto, senza il significato che le donne subito intesero senza però gradirlo. Era una coperta antica da letto, di lana che sembrava seta, leggera e morbida, che a soffiarla si gonfiava come un velo: e più che di seta pareva tessuta di fili di piume; e di certe piume di uccelli, fra il grigio, il rosso, il giallo, il viola, l’azzurro e il nero, aveva il colore e la trama, mentre tutto intorno le correva un fregio arcaico, una fuga di agnellini, di croci, di colombi e ramicelli di mirto: pareva, ed era veramente, un arazzo; e subito Concezione pensò, non senza una certa tenerezza, che poiché la preziosa coperta non poteva servire al suo letto nuziale, sarebbe stata bene e in luogo degno, sotto il Cristo nudo, nei giorni del Santo Sepolcro.
Non lo disse: accettò lo strano e fastoso dono lasciando alla madre il modo alquanto brusco di piegare la coperta il più stretto possibile e riporla sopra le altre modeste robe nella cassapanca della camera da letto. Chi non taceva era Maria Giuseppa, mentre con un piede appoggiato alla panchina si stringeva il laccio delle calze di cotone turchino, lasciando vedere le gambe che sembravano grossi e sodi zamponi di maiale.
— E dunque quei due giovani cinghiali ti fanno la ronda? Non sono belli; eppure non dispiacciono: però bisognerebbe fonderli e farne uno solo per formarne un cristiano a modo. Quello che non mi piace è il nonno, l’inferno lo aspetti: è un cinghiale davvero, ma di quelli buoni, che vivono fra le spine e si nutriscono di serpi. Se gli occhi potessero uccidere, a quest’ora sarei morta, sotto il pugnale del suo sguardo. L’angelo custode ci liberi da lui.
— Ma no, non è cattivo: è un galantuomo, che brontola ma è incapace di far male a una lucertola, — lo difende Giustina, che ama la verità. — Certo, vuol bene ai nipoti, e cerca di favorirli come può.
— E dei ragazzotti, che ne pensate?
— Non so, bisogna domandare a Maria Concezione.
— Maria Concezione, che ne pensi?
— È la prima volta che li vedo: non mi fanno né caldo né freddo.
— Bene, — approva l’ospite, riconfortata. — In quanto a fisico, il mio Costante è più forte e bello di loro: è semplice, sì, ma tu ne farai quello che vorrai.
— Io non ne farò nulla, — disse Concezione, con ferma tristezza. — Io, lo ripeto, non mi sposerò mai. Se volete restarci amica ne saremo sempre felici; ma non parliamo più di queste cose.
Era tuttavia fatalità che nessuno dovesse credere ai suoi propositi: e Maria Giuseppa pensò piuttosto a quel maledetto forestiero, al quale aveva accennato il vecchio. Concezione ne doveva essere innamorata, e qualche cosa le impediva di sposarlo; ma per amore di lui non accettava altre proposte di matrimonio. Bisognerebbe eliminarlo, il malvenuto forestiero, farlo andar via, toglierlo in tutti i modi di mezzo.
Durante il pasto, ella cercò di sapere, di conoscere meglio la faccenda di Aroldo; le donne non le diedero soddisfazione, ed ella pensò di fare un’inchiesta per conto suo. Disse che aveva da salutare in città una sua conoscenza, e si avviò a passi lunghi e decisi. Tornò un’ora dopo; ma poco doveva aver scoperto perché aveva l’aria scontenta di chi ha fatto un viaggio inutile: e con quest’aria rimontò sul suo cavallo e partì.
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— Maria, Madre di Dio, fa che mi lascino in pace, — pregava Concezione inginocchiata ai piedi dell’altare, — non domando che di poter vivere finché vive mia madre, e di non farla soffrire: dopo, fa di me quello che tu vuoi. Sono pronta a tutto; non mi spaventa il dolore, ma il peccato mortale. E tutta questa gente, intorno alle mie povere ossa, come i cani affamati mi fa peccare di odio, di rabbia, di vanità. Sì, di vanità: poiché a volte mi illudo che sia la mia persona a destare desiderio e rivalità, mentre essi sono tutti guidati da meschini interessi personali; e se sapessero che un male terribile, il peggiore di tutti, è annidato come un serpente velenoso nel mio povero seno, mi fuggirebbero come si fuggono i lebbrosi e gli indemoniati. Maria Santissima, fa che mi lascino in pace, come una vecchia che nulla più possiede al mondo tranne un metro di terra per morirci sopra, e sotto esserci sepolta.
Tre volte recitò l’Ave, poiché la Madre di Dio non nega il suo conforto a chi la saluta come un’amica fedele; ma intanto il profumo denso delle iris di velluto violetto con le quali Concezione aveva adornato l’altare; e quello dei cespugli, dei ciclamini e dei convolvoli selvatici, che penetrava dalla finestruola aperta sulla valle, arrivava fino all’anima di lei. E quei segnali vulcanici delle mine, che avevano ricominciato fin dalla mattina presto, la scuotevano tutta, minacciavano di spaccarle il cuore e mandarlo in frantumi per aria come le pietre della montagna. Pregava più per questo che per la persecuzione dei suoi pretendenti: la vera persecuzione era dentro il suo sangue, nell’amore tenace per la vita, nella paura del male, del dolore, della morte.
Rimase a lungo sotto l’altare, a poco a poco piegandosi sulle ginocchia fino ad accovacciarsi: le pareva di trovare un rifugio, un nascondiglio contro se stessa, nella chiesetta ancora fredda e grigia, dove i ragni anch’essi trovavano da ripararsi, e il Cristo nudo e giallo sulla croce nera, col viso reclinato a sinistra, pareva infastidito dalla sua corona di spine. Ella ne sentiva una pietà materna, più che per il Bambino dai piedi mossi come per tentare i primi passi sopra la luna e le stelle: e avrebbe voluto metterlo giù, il rassegnato eppur dolente Cristo bruno, stenderlo sulla coperta nuova, farlo riposare tra i fiori come nei giorni del Santo Sepolcro.
E d’improvviso, per associazione di idee, pensò più intensamente, volontariamente, ad Aroldo: le parve di nuovo che il Cristo in qualche modo gli rassomigliasse.
— Maria, Madre di Dio, levatemelo dal pensiero: fate che egli se ne vada lontano, nelle altre parti del la terra; che io non senta più sue notizie: che egli sia felice, libero dal peccato, e rimanga buono e puro come l’ho conosciuto io.
Ma l’immagine viva e vera di lui, l’onda quasi argentata dei suoi capelli, l’azzurro implorante degli occhi, e sopra tutto la viva bocca sensuale e casta nello stesso tempo, la perseguitavano giorno e notte, anche nei sogni, anzi specialmente nei sogni, quando il controllo della volontà non frenava i suoi sensi ancora giovani e avidi.
Spesso vi si mischiava il ricordo, l’immagine torbida dell’altro; un senso mortale di angoscia la premeva, allora, come se il morto la innalzasse, dall’inferno, fatto anche lui essenza del demonio, del male, del dolore che non ha fine. Si svegliava tutta in sudore, e per calmarsi pensava, ripiegandosi di nuovo sulla realtà, che la sua era forse una pena di espiazione: Dio gliene avrebbe tenuto conto nel momento di fare il grande viaggio.
Un’altra figura quasi diabolica le sembrava quella del primario dell’ospedale, che personificava per lei il primo giudice che aveva pronunziato la sua condanna: qualche volta pensava di andare a farsi visitare da lui, come egli le aveva ordinato; ma ne aveva quasi terrore: temeva che egli le annunziasse una prossima ripresa del male, una morte lenta ma non remota. E lei voleva vivere: per sua madre, diceva, ma in realtà per il solo istinto di vivere. Che importa l’amore, la discendenza, il nutrimento superfluo che si domanda alla vita, quando il solo pane di essa basta per farci godere e comunicare con Dio? Concezione non aveva studiato, non leggeva che il suo libro da messa, ma era intelligente; e la solitudine e l’atavismo sviluppavano in lei, ogni giorno di più, come nei pastori sulla montagna, un primordiale ma sensato concetto filosofico e quasi stoico della vita. Capiva benissimo che il suo male era, in rapporto all’amore, come un legame, un voto, un ostacolo simile a tanti altri: e che ella aveva da lottare coi sensi, coi sogni, con gli stessi istinti che l’ostacolo stesso destava: ma, come molta gente raffinata, provava, in fondo, la gioia, il gusto del dolore.
Quel lunedì la madre era andata a lavare i panni al torrente, già scarso d’acqua ma ancora abbastanza provvido: Concezione sperava che nessuno venisse a molestarla, e se ne stava all’ombra della casa, col suo ago, la camicia del compagno di Aroldo e il saluto delle mine lontane. Ecco invece passa, rasentando il cancelletto, il vecchio pseudo dottore, col pastrano bene abbottonato, come se l’inverno sia ancora vivo: passeggiava spesso da quelle parti, quando il tempo lo permetteva, di tanto in tanto fermandosi e piegandosi a guardare per terra, quasi vi scorgesse un oggetto smarrito, che egli però non voleva raccogliere per non avere impicci.
Era invece una lucertolina guizzante fra l’erba come un pesciolino nell’onda; o un gruppo di formiche intorno al minuscolo pozzo da loro scavato, o una famiglia di fiorellini rossi; e anche una semplice eppure meravigliosa goccia di rugiada che nel suo nulla rifletteva tutto il folgorante mistero dell’universo.
— Forse non ha mangiato da due giorni, — pensò Concezione, e gli andò incontro, lo fece entrare, gli portò fuori una sedia buona.
— Come va, come va? — egli diceva, fissandola tra beato e triste, come prima aveva fissato la goccia di rugiada. Tutto era ancora meraviglia per lui in questo mondo; la stessa meraviglia del bambino che osserva per la prima volta le cose ma non sa spiegarsele; che vorrebbe toccarle col dito e non osa per paura, non di distruggerle, ma di esserne punto: per questo avevano cacciato via il flebotomo dalla comunità degli uomini di vera scienza, per i quali non esistono misteri. Ed egli errava ancora, per il sentiero della vita, come un fanciullo scappato di casa per paura del castigo, ma felice di vagabondare senza far niente. Anche a costo di soffrire la fame.
— Come sta, signor dottore? — insiste Concezione, e nel vedere che la piccola testa di lui si muove come quella di un uccellino implume che aspetta il mangime, pensa che cosa può offrirgli, senza offenderne la dignità; vino no, a quell’ora, caffè era troppo poco: allora ricordò che aveva del cacao, e biscotti ben grossi: e aspettò il momento opportuno per preparargli una buona tazza di cioccolata, e offrirgliela con gentilezza signorile. Egli non cessava di fissarla: i suoi occhi lattiginosi si accesero di quella scintilla di conforto ch’ella ben gli conosceva, e anche lei si confortò.
— Ti trovo un po’ sciupata, Concezione, — egli disse poi, — ma è la primavera. La primavera è fatale alle donne. Come la terra, esse hanno bisogno, in questa stagione, di fiorire, godere, essere feconde. L’amore è il miglior polline per loro. Tutto va bene quando c’è l’amore: null’altro conta, nella vita, poiché la vita stessa è l’essenza, il principio e la fine dell’amore. Se tu, mia cara amica, ti fossi sposata dieci anni fa, a quest’ora avresti tre o quattro bambini, qui intorno, a far compagnia ai fiori, agli uccelli, e sopra tutto al tuo cuore. Ma tu, forse, hai badato alle altre vane cose della vita, e così adesso ti sciupi, ti consumi lentamente, sei come una mandorla che si secca entro il suo guscio prima di esser venuta a maturazione.
Ella ricordava il suo primo amore, il suo involontario delitto, e in cuor suo approvava il vecchio; ma adesso che il sole rendeva nitide le cose non voleva abbandonarsi ai suoi fantasmi: quindi osservò, con un sorriso che mostrava tutti i suoi denti ancora intatti:
— Anche la mandorla secca è buona: anzi è più buona di quella fresca, e ci si fanno i dolci, però io sono vecchia — aggiunse subito, per non essere fraintesa; troppo vecchia: e quando è troppo vecchia, la mandorla si baca.
— No, cara amica, tu mentisci a te stessa. Basta guardare i tuoi occhi. Sembri una zingara mascherata da monaca. E dunque, lasciando le teorie, veniamo alla realtà. Confidami qualche cosa, consultami: sono buono a darti ancora qualche ricetta.
Col bastoncino da zerbinotto, che questa volta aveva aggiunto alle altre sue eleganze, faceva qualche mulinello per aria; anzi si divertiva a buttarlo in alto e riprenderlo fra le dita con destrezza giovanile: e Concezione, che dapprima aveva avuto quasi desiderio di confidarsi davvero con lui e accennargli al suo segreto tormento, vedendolo intento a quel gioco, ridicolo in lui, prese un tono comicamente sentimentale e falso quando gli disse che, sì, era innamorata, ma di uno che non poteva sposare: uno già ammogliato, con famiglia lontana; e pensando al compagno di Aroldo, al forestiero del quale cuciva la camicia, s’investì nella sua parte, lo descrisse, lo abbellì, lo ringiovanì, e infine rise per la sua davvero divertente invenzione.
— Tu mi pigli in giri, anima mia; conosco quell’operaio: è un vecchione, peggio di me; l’amore, però, non ha età — egli disse, dopo aver fermato il suo gioco del bastoncino: e allungando la piccola mano gialla, le cui vene sembravano sanguisughe nuotanti sotto la pelle rugosa, tentò di toccarla.
Ella rabbrividì tutta di ribrezzo, e pensò che, dunque, neppure i morti la rispettavano. Allora volle vendicarsi; scostandosi sulla panchina disse:
— No, non è un vecchio: è giovane, anzi è molto più giovane di me, di quelli che possono masticare le mandorle col guscio e tutto. E non è vero che è sposato. È libero, è bello, è sano; e buono: ha i capelli che sembrano di seta dorata, e gli occhi e la bocca come fiori; ecco, quei fiori lì, quelli del fioraliso e quelli della peonia: anzi, la bocca è più bella ancora; è come la prugna rossa ben matura, quando si spacca e lascia colare il miele. E alto. — E ti tradisce, s’intende. — Con chi? Come lo sa, lei? — Ma, precisamente non lo so. Con un’altra donna, suppongo. Ci sono tante belle figliuole, nel nostro paese, che aspettano solo l’uomo che le baci. Anch’esse hanno la bocca solo per questo, come i frutti maturi che aspettano di essere succhiati. È giusto, che sia così: è la natura. E se tu fai la schifiltosa, come il fico d’India che per esser goduto ha bisogno di essere scorticato col coltello dalla sua buccia spinosa, è giusto che il tuo giovinotto si volga da un’altra parte: specialmente se è forestiero. Una volta ho conosciuto un fantaccino, un ragazzo del settentrione, che volle mangiare un fico d’India, e non sapendo che si doveva sbucciare, lo morsicò con le spine e tutto. Venne da me con la bocca che gli bruciava come un forno acceso, e ne ebbe per un bel pezzo. Il tuo forestiero, dunque, va verso i pomi e altri bei frutti amabili. I forestieri, poi, sono famosi per tradire le donne; e qualche volta lo fanno anche innocentemente: ne amano due e tre alla volta, e non badano alla qualità; oh, per questo, anche i nostrani non guardano per il sottile, e spesso la donna più scadente, ma dotta nelle arti amorose, li accalappia come anche la volpe più astuta si lascia accalappiare dalla trappola nascosta.
— Non è il caso, non è il caso, — ella disse, già pensando che il vecchietto alludesse ad Aroldo. — Il mio caso è un altro. Si tratta che io non ho mai avuto fortuna, in amore. È il destino, la sorte, la mala sorte.
— Parole. La sorte ce la facciamo noi. E se io fossi stato più furbo, se io avessi tenuto a bada la mia clientela, se io avessi salassato bene anche nella borsa i miei malati, avrei tenuto alto il mio prestigio, adesso non sarei come un vecchio operaio disoccupato. Invece sono stato sempre onesto e generoso; e se un salasso non era necessario non lo facevo, e se non conoscevo abbastanza bene la malattia per la quale la buona gente ricorreva con fiducia a me, li mandavo dal dottore laureato. Una volta venne da me una donna benestante, dei paesi di montagna: aveva paura di avere un cancro, e a tutti i costi voleva che la operassi di nascosto, perché al suo paese la sua malattia era vergognosa come la lebbra. Rifiutai. Ella non aveva che male di nervi, fissazioni, fobie. Ebbene, ella andò da un altro, che le portò via una fetta di mammella e si beccò mille scudi: e poi raccontava la cosa e rideva. Il mondo, cara mia, è fatto di furbi e di imbecilli. E il tuo biondino, dunque?
Concezione palpitava: le sembrava di essere stretta da una mano invisibile; ma non era quella di Aroldo, povera mano bruciata dal lavoro e timida come quella di un bambino: era quella dell’illusione. L’illusione che il dottore dicesse il vero, che l’esempio raccontato da lui fosse adattabile al suo caso: che i dottori dell’ospedale l’avessero ingannata e il suo male fosse solo una immaginazione dolorosa della sua mente.
E aspettava che il vecchio portasse altri esempi; ma egli già divagava; fra le altre cose raccontò che da bambino credeva esistesse un lungo passaggio sotterraneo, fra la chiesetta della Solitudine e una grotta giù nella valle a tramontana, dove il luogo era più scosceso brullo e disabitato.
— I tuoi nonni e bisnonni, il Signore li abbia perdonati, se ne servivano, al dire della gente, per le loro bellissime imprese: da una botola della chiesa, sotto l’altare, penetravano nel passaggio, uscivano per la grotta e si recavano, come i cavalieri erranti, in cerca di fortuna. E col bottino rientravano nella grotta, dove le pecore sgozzate rimanevano come in un frigorifero, e ben altre provviste vi si accumulavano.
Leggermente inviperita, Concezione disse:
— Intanto le faccio osservare che la chiesetta fu costruita da mio nonno, che nessuno mai incolpò d’altro che di essere troppo buono e scrupoloso.
— Umh, — sogghignò l’altro; — l’hai conosciuto tu, tuo nonno? No: e, dunque, tira via. Tuo padre, sì, non dico, era un galantuomo, lavoratore, religioso, onesto: e anche tua madre è una donna biblica: tu, amica mia, hai preso un po’ da tutti i rami, sei come il frutto dell’albero innestato, che tuttavia conserva un certo sapore di selvatico. Sei buona e cattiva nello stesso tempo; sei la vera figlia di Eva, che vorrebbe anche lei mangiare il pomo e se non lo fa è perché sente il terrore del castigo ancora vivo sulla pelle della madre. E dunque, tornando al discorso del passaggio nascosto, non è detto che partisse proprio dalla chiesetta: troppo i tuoi avi erano superstiziosi per calarsi nel pozzo delle loro nequizie proprio sotto gli occhi della Madonna. Ma la terra, qui intorno, era tutta loro: il bosco scendeva fin qui, e vi pascolavano le capre e i porci. Probabilmente qui, dove noi sediamo come due colombi innocenti, sorgeva la loro capanna; o forse la capanna di quei prodi mascalzoni era più in là, verso quella roccia; e la botola si partiva di là, ben mascherata di terra e di foglie secche.
— Lei conta una bella favola: la conti alle galline, però, eccole lì.
Infatti, nel loro recinto di canne, si vedevano le galline bianche e nere, bionde o tigrate, con in mezzo il loro sultano dalla cresta rossa come un papavero; e alcune, dietro la siepe, con una zampa sospesa e guardando con un occhio solo, parevano davvero intente al racconto del dottore.
— Si raccontavano, allora, storie paurose, a proposito dei tuoi illustri antenati: un bambino, avanzatosi fin qui in cerca di more, sparì e non fu più ritrovato. Pare avesse visto a sollevare la botola: ad ogni modo non fu più ritrovato. Le urla della madre si sentirono in paese per settimane intere: poi ella morì col cuore crepato. Io però non credo alle maledizioni, siano pure di una madre alla quale è stato ucciso il figlio bambino. Balle: le maledizioni le ha sparse Dio prima di tutti, sulla terra e sugli uomini: il vero perché ancora bene non si sa, ma è certo che il dolore e il male sono leggi naturali, come la tempesta, la guerra, la morte.
— Mi parli di cose più allegre, — supplicò Concezione, che tuttavia lo ascoltava volentieri.
Ma egli non ricordava più che cosa fosse l’allegria, quella cioè che fa ridere la gente; e d’altronde anche lui si divertiva a suo modo, quel giorno, con la favola del passaggio sotterraneo, con le gesta degli avi di Concezione, e sopra tutto con l’impressionare la sua ascoltatrice.
— Be’, qualche volta anche i tuoi venerati bisnonni, — poiché tu non vuoi si tocchi il tuo nonno; e lasciamolo lì, — i tuoi venerabili bisnonni se la spassavano anch’essi. Non parliamo della faccenda del prete messo a sedere sul treppiede ardente: era forse, quello, un seggio degno di lui; parliamo di quando un giorno invitarono a un banchetto un loro amico e gli diedero da mangiare l’arrosto di una vitella che il giorno prima gli avevano rubato: e questa volta avevano rubato la vitella solo per fare quello scherzo all’amico: scherzo più innocente di così non si può fare; ma il bello viene dopo, quando ubbriacarono l’amico e lo calarono giù per la botola; tanto che quando gli fu passata la sbornia egli si credette sepolto vivo; ma a tastoni raggiunse poi l’apertura della grotta e il primo a ridere della burla fu lui.
— Oh, basta, signor dottore; — dice Concezione; — tanto, io non credo a queste fandonie, che sono poi indegne di lei. Le lasci al vecchio Giordano.
— Buono, anche quello! Il passaggio sotterraneo ce l’ha anche lui, dentro la sua anima di macigno, e può nascondervi i più truci sogni, senza però metterli in esecuzione: i tempi sono cambiati, e adesso c’è il nostro bravo don Calogero che non ama gli scherzi di nessun genere.
Don Calogero era il brigadiere dei carabinieri, temuto e amato da tutta la popolazione. E il dottore, che si sapeva sorvegliato da lui, ne parlò bene, e disse che la vigilanza del bravo milite arrivava, senza parerlo, fino alla chiesetta e alle sue solitarie abitatrici: cosa che però non rianimò Concezione. Ella si sentiva triste; si domandava se non erano le maledizioni della madre alla quale era stato ucciso il bambino, a gravare ancora su di lei; invano il dottore, nell’andarsene, le disse che le sue chiacchiere erano tutte invenzioni sue, e le consigliò di divertirsi e fare all’amore.
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Ella invece, nelle sue fantasticherie, pensava che avrebbe avuto piacere di compiere qualche opera pietosa: assistere i malati, lavare e vestire i morti, aiutare i poveri, raccogliere in casa qualche orfano: persino alla sorella perduta, pensava, col desiderio di andare a trovarla, a salvarla dal male. Era disposta a dividere la sua eredità con lei: ma la madre era una donna saggia e pratica, e con la sua presenza le impediva di fare sciocchezze.
Così arrivò l’estate: un luccicare di pendici coperte di orzo maturo, di frumento già spigato, di pascoli che s’indoravano: un canto chiassoso di usignoli che finivano la covata, e di merli che li imitavano quasi beffandosi del loro sentimentale richiamo. Nell’orto il ciliegio piangeva grosse lagrime di sangue, e gli ultimi carciofi aprivano i loro duri fiori violetti: del resto tutta la vegetazione era già un po’ decomposta, di una decomposizione secca che tuttavia alla notte aveva un profumo ardente come di ginepro bruciato: rassomigliava a quella del cuore di Concezione. Ella si sentiva stanca e fiacca, come avesse lavorato a cavar pietre con gli operai della strada; e tutto le era, o le sembrava indifferente, inutile, vano. Il rimbombo delle mine era cessato, e con ciò le parve che Aroldo si fosse allontanato per sempre da lei, mentre invece i lavori della strada procedevano verso il paese, e affacciandosi al muricciuolo ella poteva vederli.
Un giorno ritornò l’operaio al quale ella cuciva e rammendava la modesta biancheria, e le disse che Aroldo, al contrario di quanto ella sperava, era sempre in paese, da quella tale. Faceva chilometri di strada, e perdeva le notti per andare a trovarla: e spendeva i suoi risparmi per farle regali onde la gente non credesse interessato il suo attaccamento.
— In fede di Dio, pare stregato. È magro come un’aringa, vecchio peggio di me. Quella tale però è furba; gli si è finora negata, per farlo istupidire di più. E così certo, l’andrà a finire; che in ultimo partiranno assieme.
Fredda e ostile, eppure con un vago sollievo, ella disse:
— Buon viaggio; e buona fortuna.
E ogni volta che il ricordo, o la tentazione, come diceva lei, del giovane forestiero le tornava in mente, e spesso in modo quasi tangibile, gonfio di angoscia e di gelosia, cercava di schiacciarlo, come si schiaccia un insetto molesto; ma l’insetto rinasceva più vivo e pungente, ed ella ne era tutta tormentata. Non aveva più voglia di pregare; le avemarie le uscivano di bocca appassite, mentre il suo pensiero vagava lontano: non mangiava, dimagriva, desiderava chiudersi sempre più nel suo cerchio di morte e svanire come le piccole nuvole d’estate.
La madre si arrabattava a prepararle buoni cibi dolci, frollate e zabaioni; ella lasciava tutto intatto e mangiava cipolle aspre e pomidoro crudi.
In luglio c’era la festa del patrono della piccola città: San Cirillo martire. I contadini avevano già raccolto l’orzo, i pastori venduto la lana e i vitelli, la festa, quindi, che durava tre giorni, fra scampanii, processioni, fuochi artificiali, vendita di vino e di gelati, diventava una piccola baldoria, e tutti andavano a gara a far bella figura: poiché non era gente tirchia, anzi i più poveri diventavano, per l’occasione, più spendaccioni. Dalla strada nuova e da quelle vecchie, su e giù per i monti e le valli, arrivava gente a cavallo e a piedi; ospiti e pellegrini; gente, anche questa, che aveva voglia di divertirsi per commemorare il martirio del Santo.
Fu così che arrivò anche comare Maria Giuseppa, e con fastidio, se non con paura, Concezione vide, rimorchiato dalla fiera donna, un giovine a cavallo, vestito bene, con un costume quasi sportivo: giacca con cinta, pantaloni messi dentro le ghette di panno grigio, berretto nuovo, pure grigio, a visiera, che ombreggiava un viso sanguigno, glabro, dai lineamenti di statua greca: anche la bocca era bella, sporgente, sensuale, gonfia di sangue: ma gli occhi, fermi sotto le sopracciglia nere, una più alta e più folta dell’altra, erano cupi, rotondi, di un marrone torbido, con la sclerotica venata di rosso: sembravano quelli di un cane che sta per arrabbiarsi.
Anche Giustina, andata al cancello, sentì con un certo sollievo che gli ospiti non si sarebbero fermali da loro: andavano da un altro conoscente, in paese, e sarebbero tornati in visita nel pomeriggio. Concezione si era nascosta, e pensò di fingersi malata per sfuggire alla persecuzione: e malata davvero si sentiva, di caldo, di noia, di tristezza. Comare Maria Giuseppa aveva lasciato una scatola, con una torta di miele, ornata di fiori e uccellini di zucchero e di carta dorata; ed ella propose di mandarla a Serafino; ma intanto la mise dentro la cassa, sopra la famosa coperta che le dava una funebre melanconia ogni volta che ne sentiva l’odore della lana tinta con colori vegetali, e le ricordava il Santo Sepolcro. Poi si fece coraggio, dicendo a se stessa che bisognava pur essere gentile con quei due per riguardo alla madre, e per le antiche leggi dell’ospitalità; però, con la scusa che aveva mal di denti, si camuffò da vecchia, con un fazzoletto nero tirato sugli occhi e avvolto bene fin sulla bocca; si guardò nello specchio, e si sarebbe sentita soddisfatta della sua maschera, se gli occhi non fossero apparsi, in quella cornice monacale, più grandi, belli di tutto il mistero della sua anima triste e in esilio sulla terra. Abbassò le ciglia, e fece le prove per nascondersi meglio, per sfuggire all’agguato malefico; ma a misura che l’ora passava sentiva un’oppressione, un veleno di odio contro quella pazza di comare Maria Giuseppa e del suo degno nipote. Andò a cogliere, per l’altare, un mazzo di oleandri rosa, dell’unica pianta che era nata spontanea in fondo all’orto, e s’incantò a berne come un liquore amarognolo il loro profumo. Era un profumo che pareva venisse di lontano, dal fiume, dalla valle, dalla fanciullezza di lei: e i ricordi che ella credeva di aver definitivamente scacciato, e che se ne erano andati via come uccelli da un luogo ove non trovano più acqua né nutrimento, le risalirono quasi rapaci dal cuore. Sì, l’oleandro era lì da molti anni; ella lo aveva conosciuto fin da ragazzina, con tutte quelle foglie che sembravano lancie verdi, che si arrugginivano al sole; e i fiori di un rosa vivo, piegati verso il muricciuolo sopra la valle, come ad ascoltare con nostalgia il rumore dell’acqua lontana dalla cui vicinanza anch’essi erano stati esiliati. Ella stava, in quel tempo, piegata ore ed ore sul muricciuolo, all’ombra della pianta fiorita, ad ascoltare, senza saperlo, le voci del suo passato, del suo sangue, della sua stirpe appassionata e sognante; sognante anche nelle sue crudeltà e nelle sue miserie: ed ecco la figura del ragazzo di bronzo, con gli occhi di leopardo in amore, che vien su fra le erbe e le pietre, agile e silenzioso, la bocca e le gengive in colore degli oleandri, l’alito amarognolo e fresco come il loro; e la chiama sottovoce, invitandola a saltare il muricciuolo e a nascondersi con lui fra i cespugli, con le lucertole accoppiate e le bisce freddolose.
Se ella avesse davvero dato ascolto a lui e alle voci della natura, egli non avrebbe rubato, non si sarebbe impiccato per lei; e forse il male che adesso la rodeva non sarebbe venuto. Ma lei era ricca, del denaro di rapina dei suoi avi, e la maledizione dell’oro la perseguitava: negli occhi dello scemo aveva intraveduto questo castigo demoniaco, e gli occhi del ragazzo adesso le ritornavano alla mente come quelli di un arcangelo che ella aveva mandato all’inferno.
— Dio, Dio, liberami dal male, — disse ad alta voce; poi andò a mettere i fiori sotto la Madonnina impassibile, che pareva avesse solo cura di non lasciarsi scivolare di grembo il bambino irrequieto.
Nonostante il caldo di fuori, la chiesetta era fresca, sempre col suo odore di cantina misto a quello delle erbe aromatiche del ciglione sotto la finestruola socchiusa.
Concezione si avvicina a quest’apertura e vede la valle rocciosa, coi monti calcarei all’orizzonte, che sembrano ancora bianchi di neve. Il sentiero donde sono saliti Maria Giuseppa e lo scemo nipote, serpeggia come il letto di un torrente asciutto, si perde fra le macchie di ginepro, ha qualche cosa di ambiguo, di brigantesco, che fa pensare al passaggio sotterraneo accennato dal flebotomo fantasioso. Eppure le piacerebbe di scoprirlo, questo passaggio, se non altro per nascondersi in caso di bisogno: e si aggira per la chiesetta, premendo qua e là col piede il pavimento polveroso: guarda anche intorno e sotto l’altare, tasta le pareti; infine si fa rossa e si vergogna, poiché le sembra che la Madonnina, dall’alto della mezza luna, la guardi con fredda ironia. Come può essere, Maria Concezione, stolta creatura, che io resti quassù, sopra un pozzo colmo di peccati mortali? Oh, no, me ne sarei andata da un pezzo; e tu, stolta, va, torna al tuo lavoro, smetti le tue oziose fantasticherie.
Ed ella tornò nella casetta, preparò le sedie, il caffè, i biscotti, per le visite: desiderò che venissero anche madama Peperona e le altre mendicanti, per far loro l’elemosina; spazzò e innaffiò davanti alla casa, rincorse e richiuse nel recinto una gallina che ne era evasa e vagabondava stolta come lei. Giungevano dall’abitato i suoni delle campane, gli spari della gara di tiro a segno, musiche lievi di fisarmonica: ma parevano irreali, come provenienti da un paese che non esisteva se non nella fantasia di lei, come i suoni che produce il ronzìo delle orecchie malate. Intorno non si vedeva nessuno, e la chiesetta pareva perduta nella solitudine più aspra dei monti. D’un tratto però ella ebbe come una allucinazione, o meglio le parve di sognare uno dei suoi soliti sogni. Un uomo vestito in colore del granito, stava seduto appunto su un macigno sopra l’orto, e quasi vi si confondeva: pareva dormisse, o fosse una delle parvenze illusorie che si disegnano sui profili delle rocce o sulle nuvole. Nuvole non ce n’erano, sebbene il cielo fosse lievemente velato dai vapori del caldo, di un color lilla striato di rosso. L’uomo teneva le mani strette fra le ginocchia, e la testa, nascosta da un cappello grigio, china sul petto. Che faceva lassù, solo, quasi dominando il paesaggio come un padrone che vigila la sua terra? Pareva fosse fuggito dal chiasso della festa, ma che i rumori, le musiche, il suono delle campane, lo addormentassero come un bambino inquieto. Concezione lo riconobbe, più che altro, dal suo turbamento. Era Aroldo. Ed ebbe paura che comare Maria Giuseppa e il nipote lo vedessero e lo giudicassero male. Avrebbe voluto correre su a svegliarlo, a pregarlo di andarsene; ma con che diritto? E inoltre aveva paura di accostarlo: tutto, quel giorno, la opprimeva, le dava un senso di angoscia come quando si avvicina un temporale estivo: poi alzò le spalle: forse, sì, era meglio che quei due lo vedessero, e pensassero male di lui ed anche di lei: così avrebbero finito di molestarla.
Anche Giustina però si era accorta di lui e senza dir nulla uscì sul sentiero che saliva al monte: il sentiero passava sotto i macigni sui quali stava Aroldo, ed ella, che aveva buone gambe e forte cuore si arrampicò fin sotto il selvaggio piedestallo che serviva da trono al sentimentale forestiero. Di lassù ella poteva vedere la strada che va al paese; e sospirò; poiché anche lei aveva paura che, accorgendosi della presenza di Aroldo, la gente chiacchierasse, e sopra tutto che le dicerie dei maligni arrivassero ai Giordano, sui quali nutriva ancora qualche speranza. Di comare Maria Giuseppa e del nipote anche lei non era entusiasta, ma giovava che anch’essi non vedessero Aroldo nei dintorni della chiesetta. Chiamò quindi il giovane, dapprima sottovoce, poi più forte: arrivò fino all’orlo del macigno, e vide che alle spalle del dormiente, in un incavo della roccia, stava una chitarra che pareva dormisse anch’essa, capovolta, come una tartaruga giallastra. E se avesse saputo di letteratura, la buona Giustina avrebbe paragonato il giovine a un trovatore vagabondo, che dopo aver attraversato le brune selve dei monti, si riposasse prima di riprendere il suo estroso viaggio. Ma ella pensava piuttosto alla riputazione della figlia, e non arrivando col braccio a toccare Aroldo, prese con cautela lo strumento e lo allungò verso di lui. Vibrarono le corde, e questo gemito scosse l’uomo che, più che da sonnolenza, pareva colto da incantesimo. I suoi grandi occhi azzurri, cerchiati di ombra, fissarono la donna senza riconoscerla: ed anche lei stentava a rivedere in lui il fresco ragazzo di pochi mesi avanti: era scarno, come risucchiato da una malattia: le labbra grigie, i capelli, già una volta morbidi e dorati, corti e ruvidi come la stoppia falciata: infine, essendosi egli sporto in avanti, ella sentì che puzzava tutto di tabacco di pipa e d’acquavite: e con vero dolore si accorse che egli era completamente ubbriaco.
Con impeto superstizioso pensò anche lei alle maledizioni della bastarda del marito morto: ecco che ella aveva appestato il giovane, solo perché egli amava Concezione: lo faceva morire lentamente, ed egli avrebbe finito con lo sfasciarsi come un avanzo di barca abbandonata sulle onde, e perdersi anche davanti a Dio.
Quasi inginocchiandosi disse:
— Figlio, figlietto caro, non mi riconosci? Sono la madre di Concezione.
Egli sbadigliò; lasciando poi la bocca aperta quasi non potesse più richiuderla: pareva dicesse: — E a me che importa, di voi e di questa Concezione? Non vi conosco. Lasciatemi in pace: stavo così bene.
— Stavo così bene, — brontolò alle insistenze di lei, con la voce vaga degli ubbriachi. — Non mi rompete le scatole: andate via, vecchia ruffiana.
— Figlietto mio, — ella insisté con angoscia, — vieni giù, mettiti almeno qui sotto, all’ombra. Possono vederti, possono rubarti il portafoglio: c’è tanti vagabondi in giro, venuti per la festa.
Istintivamente egli si toccò la giacca, per assicurarsi che il portafoglio c’era, e l’idea che potessero rapinarlo parve convincerlo a scendere dal macigno, scivolando giù malamente e logorandosi i pantaloni: senza l’attenzione di Giustina sarebbe caduto facendosi del male; ella lo aiutò con pazienza e forza, tirò giù la chitarra, e non fu tranquilla se non quando lo vide sdraiato sull’erba sotto le rocce, invisibile dalla parte dell’orto e del sentiero. Gli mise accanto lo strumento, e decise di tenerlo d’occhio perché non lo derubassero davvero.
— Concezione, — disse sottovoce, tornando a casa, — c’è là dietro, quello sciagurato, ubbriaco morto, che non connette più. Che si deve fare?
Neppure lei lo sapeva. Aspettare che gli passasse la sbornia; aspettare che qualche ragazzo si avanzasse fino alla chiesetta e pregarlo di andare a chiamare il compagno di Aroldo perché sorvegliasse il disgraziato e lo riaccompagnasse a casa: non c’era altro da fare. Ma nessuno passava: tutti erano alla festa, attirati come le api dall’odore del vino e dei dolciumi: anche gli ospiti si facevano aspettare e il sole già si arrossava, spogliandosi dei suoi raggi incandescenti. Una pace quasi tetra cadeva col tramonto: le montagne calcaree si coloravano come illuminate da un incendio, mentre l’ombra calda dalla valle saliva di roccia in roccia, dalla parte dell’orto, e pareva volesse rifugiarsi nei boschi di querce per passarci la notte. Il profumo del tasso si mischiava a quello dell’oleandro, con una dolcezza di droga aromatica che dava alla testa; e davanti allo spiazzo inaffiato vaporava una improvvisa frescura che ricordava a Concezione i gelati dei venditori ambulanti. Col pensiero sempre rivolto allo sciagurato ubbriaco, e il timore che egli si riavesse e venisse giù magari a farle una scena imprudente, aspettava gli ospiti e sentiva crescere il suo disgusto e il suo odio per loro.
Tutti, del resto, tranne la madre, le pareva di avvolgere in questo sentimento inquieto e cattivo: perché non la lasciavano in pace?
Sedette stanca sulla panchina, mentre la vecchia, seguita dal gatto come da un cagnolino, inaffiava con parsimonia, poiché l’acqua del pozzo era già scarsa, i pomidori fragranti. — Tornare indietro, — sospirava Concezione, — a quelle sere calde piene di tentazioni e di illusioni, della prima fanciullezza! Dare ascolto al fischio del ragazzo nero, sotto il muricciuolo ancora rosso di tramonto; fuggire con lui, peccare con lui, amare, soffrire, aver figli e lavorare per loro! L’infermiera del maledetto ospedale le aveva detto che se avesse allattato, il male non le sarebbe venuto; e il ragazzo con gli occhi di stella nera non avrebbe battuto moneta falsa e non si sarebbe impiccato come Giuda.
Però, nulla si sa mai di preciso, nella vita: via, andate via, cattive ricordanze, inutili rimpianti, tentazioni scure; via, coi pipistrelli che svolazzano come pezzi di carta bruciata, sopra il tetto della chiesa.
Si faceva tardi; forse quei due, ammaliati scioccamente dalla festa, non sarebbero per quel giorno più venuti; e quell’altro, là dietro le pietre, addormentato come una biscia, avrebbe passato lassù la notte, e impedito anche a lei di dormire tranquilla.
Irritata, chiamò la madre.
— Io direi di cercare di svegliarlo, quello stupido: se lo trovano lì può avere delle noie.
— Aspettiamo un altro poco, alle volte non sopraggiunga comare Maria Giuseppa.
— Maledetta sia, e con lei il suo scemo. Uffah, uffah!
Si sventolava sul viso la cocca del grembiale: avrebbe voluto andarsene a letto e mettersi nuda fra le lenzuola fresche. Col cadere della sera il caldo aumentava: non si moveva un filo d’erba; le pietre esalavano un calore di brage coperte; e ad accrescere questa oppressione ecco apparve in cima al monte una fiamma cremisi; la luna sorgente.
Al suo chiarore, con uno scalpitìo di cavallo, arrivarono finalmente quei due: a dire il vero il nipote camminava con passo elastico, poiché aveva le scarpe coi tacchi di gomma e la sua andatura era istintivamente felina, come di giovine belva che insegue la belva con la quale vuole accoppiarsi. Concezione capì subito questo istinto animalesco di lui verso di lei; lo capì subito, al solo vedere come il giovine si volgeva a chiudere il cancelletto di rami come per tentare di precluderle lo scampo: e poi dal modo con cui egli la guardò tutta, avidamente, dalle gambe al seno, fermandosi lì con occhi di vampiro. Ebbe voglia di gridargli: — Disgraziato, tu guardi i fiori della morte.
Avrebbe voluto fargli paura, come lui ne faceva a lei: pensava: — Se questa bestia feroce scopre Aroldo, è capace di schiacciarlo davvero come una biscia.
E appunto per paura, cercò di essere gentile e allegra: insisté perché gli ospiti entrassero dentro, nella camera ripulita e ordinata per l’occasione; infine chiuse la porta con la scusa che fuori c’erano le zanzare. Ma si accorse che il giovine, che era stato a farsi aggiustare e anche profumare i capelli neri lucenti, si guardò dapprima nello specchio poi non cessò di fissare il letto con gli occhi torvi venati di sangue: e quando andò a prendere in cucina la coccuma del caffè, ella digrignò i denti per il disgusto e la rabbia.
Si parlò della festa; comare Maria Giuseppa insisteva perché il giorno dopo la Concezione andasse con loro a vedere la processione e poi i fuochi artificiali; per sedurla prometteva di condurla a sedersi ad uno dei tavolini del Caffè, sul marciapiede del Corso, a prendere il gelato, — quello vero, non quello di acqua di pozzo e di limone guasto che distribuivano i gelatai ambulanti.
— Poi ti riaccompagneremo qui, con questa bella luna che pare un fuoco di San Giovanni: e saremo tutti contenti. Parla, Costante, — si rivolse al nipote, — invitala anche tu.
Egli fece vedere i suoi bellissimi denti, che al lume della lucerna ad olio parevano di porcellana; ringhiò, si portò un pugno alla tempia. Finalmente disse:
— O Maria, o pumh!
— Che vuol dire? — domandò Giustina, mentre comare Maria Giuseppa rideva con un nitrito di leonessa. Non rise però Concezione quando le fu spiegato quello che il «ragazzo» con quel gesto e quelle parole intendeva significare.
— Intende significare che se non avrà Maria Concezione si sparerà.
E furono le sole parole con le quali egli esprimeva la bestiale passione che la zia, con le sue promesse e le sue suggestioni, gli aveva inoculato nel sangue per la povera Maria Concezione.
Per fortuna se ne andarono presto, senza aver accettato l’invito di tornare il giorno dopo a prendere un boccone con le donne. Giustina li accompagnò un tratto di strada, verso il paese, mentre Concezione s’era rimessa a sedere sulla panchina illuminata dalla luna.
C’era, sì, qualche zanzara, ma innocua; i grilli cantavano e il loro vibrante stridìo si fondeva col profumo del tasso e dell’oleandro e col chiarore della luna tremolante su ogni foglia. A Concezione doleva il cuore: non volle rientrare a cena, anzi rispose male agli inviti insistenti della madre; e questa la irritò maggiormente quando, dopo aver mangiato, uscì fuori di nuovo e cominciò a frugarsi i denti.
— Andiamo a letto, figlia, e chiudiamo bene la porta, — disse dopo un momento. — Chi sa se quel disgraziato è ancora là dietro, o si è svegliato e se ne è andato via.
— Speriamo sia crepato, lui con tutti i suoi pari.
— Speriamo di no, — insisté pacatamente la madre. — Ad ogni modo, Concezione, è meglio andare a letto e chiudere bene la porta.
— Ma neanche per sogno: non ho voglia di dormire; e non ho paura di nessuno, anche se venissero per ammazzarmi.
La madre si fece il segno della croce, ma stringeva fra le dita il fuscellino per i denti, e Concezione s’irritò ancora di più.
— Fate una bella cosa, mamma: andate voi, a letto: io starò qui un momento ancora, finché non mi si calmano i nervi. Non è la prima volta.
Alzò la voce e tirò accanto a sé un randello che stava appoggiato al muro: la madre ebbe l’impressione che volesse bastonare qualcuno; poi si mise a ridere.
— Hai ragione, di arrabbiarti, anima mia. Comare Maria Giuseppa è matta da legare, e del suo nipote può farsene un salame o una frittata: non pigliartela così a cuore. — Ma l’ira di Concezione era contro quell’altro, l’ubbriaco: avrebbe voluto andare a svegliarlo a colpi di randello, cacciarlo via dai dintorni come la faina che sta in agguato contro il pollaio. Va, sciagurato, torna dalla tua donnaccia: che sei venuto a far qui, all’ombra santa della Madonnina? Va, maledetto forestiero: e maledetta sia l’ora che sei venuto a farmi le tue commissioni; e chi mi ha insegnato a cucire roba da uomo.
Le venne in mente quella specie di maestra dell’ago e delle forbici; era una bellissima donna, che viveva anche lei sola in una casetta appartata ricinta da un cortiletto con alti muri. Si diceva che un uomo ricco, ammogliato e con figli, fosse il suo amante. Un giorno la donna morì: gli eredi abbatterono la scaletta della casa, per certi restauri, e sotto vi trovarono le ossicina di neonati, probabilmente soffocati dalla madre.
— E pareva una santa, e parlava evangelicamente, come un predicatore dall’altare. Maria Vergine, abbi pietà di noi; prega per noi tutti peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. E prega, sì, anche per quello sventurato che dorme sotto le pietre.
Cominciò a recitare molte avemarie, in modo che le venne sonno; allora pensò di contentare la madre e andare a letto anche lei: la Madonnina avrebbe sorvegliato Aroldo. Ma quando sentì la madre russare, si levò le scarpe, camminò come una sonnambula, aprì la cassa e ne tirò fuori la coperta che le aveva regalato quella pazza da legare di comare Maria Giuseppa. Dalla cassa usciva l’odore dello spigo e della torta di miele; Concezione fu per prendere anche questa, ma aveva le mani impicciate con le scarpe e la coperta, e lasciò ricadere il coperchio. Le pareva di sognare: un sogno lucido e preciso, di quelli che si delineano più vivi della realtà.
Uscì, ma non dalla cucina, della quale anzi aveva sprangato la porta: entrò dapprima nella sagrestia, illuminata dal chiarore arancione della luna sopra la finestrina alta, e si rimise le scarpe; poi entrò nella chiesetta, e al barlume della lampadina ad olio sempre accesa in una nicchia, andò giù fino alla porta e la socchiuse. Un’ondata di canti di grilli la investì; sullo spiazzo la luna stendeva un drappo d’argento, e all’orizzonte il cielo aveva ancora come un riverbero dei fuochi della festa.
Ci si vedeva come all’alba: sul terreno si distingueva l’ombra di ogni stelo, di ogni sassolino; pareva che ogni cosa si fosse denudata, coi vestiti stesi davanti, per godersi la frescura della notte. Ed ella camminava cauta, per non svegliare neppure un filo d’erba, per non disturbare il sogno quasi allucinante della notte meravigliosa: e quando, passata la chiesetta, sfiorò un sasso ricoperto di una peluria di musco, trasalì come nel toccare un animale assopito. Aveva ancora il fazzoletto intorno alla testa, con la bocca coperta, e le pareva di sentire davvero un aspro male di denti: inciampò, fece un po’ di rumore, e le valli le rintronarono intorno come ancora percorse dallo scoppio delle mine. Ma si fece coraggio: dopo tutto andava a fare un’opera buona, ad assicurarsi che quello là, l’orfano, il figlio di nessuno, l’uomo senza terra e senza pace, fosse vivo o morto. Riuscì facilmente a scovarlo, con la chitarra che luccicava alla luna: tutti e due, l’uomo e lo strumento, vigilati anch’essi dalle loro ombre. Più che altro, essendo il viso di Aroldo coperto dal cappello, ella riconobbe questo cappello, e le scarpe, e una mano che sembrava quella di un morto, posata anch’essa sul guanto della sua ombra.
Una pietà prepotente, quasi selvaggia, come quella che spinge anche gli uccelli di rapina ad aiutare e cercar di salvare il loro simile in pericolo, le sciolse e raddolcì il sangue inacidito: se lo sentì scorrere come un vino generoso, dai piedi alle orecchie; ebbe desiderio di inginocchiarsi presso il giovane, scuoterlo dal suo cattivo sonno, dirgli:
— Senti, Aroldo; siamo entrambi due infelici, ma se tu ne hai la forza, possiamo vivere come fratello e sorella, come gli uccelli della stessa tribù, che sono troppo vecchi per accoppiarsi ancora.
Ma aveva abbastanza conoscenza degli uomini, ed anche di se stessa, per non abbandonarsi alle sue romanticherie. Ad ogni buon fine, poiché aveva portato la famosa coperta per coprirne Aroldo, difenderlo dall’insidia malarica della notte, dagli insetti, da qualche falco che all’alba poteva piombargli addosso e cavargli un occhio, la distese su quel corpo immobile e freddo, avendo cura di metterla alla rovescia, dove il colore si confondeva con quello delle pietre, del musco, delle erbe intorno; e pensò ancora una volta al Santo Sepolcro, con un Cristo momentaneamente morto, che però sarebbe presto resuscitato.
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Anche il primo pensiero della madre, appena si alzò, fu di andare a vedere se il disgraziato era vivo o morto. Poteva essere l’una o l’altra cosa, poiché quando lei andò ad esplorare il luogo lo trovò deserto, e neppure l’erba, che l’alba aveva risollevato come un bambino dormiente, conservava tracce di lui. Meglio così: ed ella tornò alla sua diletta caffettiera, alle sue care galline, che già annunziavano al mondo di aver fatto l’uovo. Adesso era Concezione, che pareva caduta in un sopore letargico, come nella malattia del sonno; e quando la madre andò a chiamarla, a sole già alto, rispose con un mugolìo lamentoso, poi si riaddormentò.
Era il giorno centrale della festa di San Cirillo martire, e poiché Serafino, occupato nelle funzioni della Cattedrale, non poteva venire alla chiesetta, Giustina avrebbe voluto recarsi in paese a sentire la messa. A dire la verità, era curiosa anche di vedere come andavano le cose laggiù; a dare un’occhiata ai banchi dei rivenditori, alla folla dei forestieri, all’albero di cuccagna con in cima, dondolanti, appesi ad un cerchio di legno, i frutti favolosi dei formaggi, dei salami, dei pacchetti e della borsa piena di quattrini, premio al vincitore della scalata.
Con la stessa piacevole ansia con la quale ella si recava alla festa mezzo secolo avanti, si vestì accuratamente, si mise lo scialle buono da vedova, e uscì quasi andasse a un appuntamento furtivo, chiudendo dentro casa Concezione e il gatto. E la dormiente sentì subito di esser sola, con un misterioso senso di paura e d’angoscia; balzò dal letto, si vestì, pronta a difendersi da qualche pericolo. Ma se c’era un giorno di quiete inalterabile, era proprio quello. Solo, una nuvola che pareva un cuscino di raso bianco, si appoggiava con dolce pigrizia alla cima più alta del monte: più tardi, mentre i rintocchi delle campane arrivavano dal paese, smorzati dall’afa della giornata caldissima, la nuvola si mosse, si allargò, si lacerò come un sacco dal quale uscirono e si sparsero per tutto il cielo bluastro stracci che parevano il bucato di una povera famiglia di zingari.
Solo quando tornò la madre e riaprì la porta, Concezione si sentì più sicura: come tanti anni prima, Giustina le portava una tavoletta di torrone, ed ella cominciò a sgretolarlo coi suoi forti denti di beduina: e fu contenta quando sentì che nella folla, fra tanti cappelli e cappellini e berretti e scialli, non si vedevano il fazzoletto a fiori e il berretto a visiera di comare Maria Giuseppa e del suo degno nipote.
— Ma che hai fatto della sua coperta, anima mia? — domandò la madre, rimettendo i vestiti nella cassa.
— L’ho messa in fondo, perché mi dava fastidio vederla.
— Questa torta, poi, bisogna tirarla fuori: altrimenti fa la muffa: e poi mi ha imbrattato di miele la roba, e ci andranno dentro le formiche.
La torta fu tirata fuori; Concezione la portò nell’armadietto della sagrestia; e siccome l’armadietto non si chiudeva bene vi entrarono le mosche e le vespe, festeggiando a modo loro il santo martire Cirillo. Nel pomeriggio, afoso e adesso completamente annuvolato, mentre Concezione sudava poiché s’era rimessa intorno alla testa e al mento il fazzoletto di lana, per la commedia del mal di denti, un fulmine attraversò l’aria come una cometa, con una grande coda di fuoco; e non subito ma quasi dopo averci pensato bene, un tuono formidabile fece tremare la chiesa e le pietre intorno. Giustina corse a rifugiarsi ai piedi della Madonnina, seguita dal gatto impaurito. Concezione invece, d’un tratto come alleggerita da un peso, corse fuori a raccogliere sul viso e sulle mani aperte, i primi goccioloni di pioggia. Oh, così, quei due non sarebbero più venuti: piovi, piovi, buon Dio; San Cirillo glorioso, sferra ancora saette e tuoni, allaga la strada, manda in giro gli arcangeli del paradiso a far stare a posto i diavoli della terra. E infatti venne giù un acquazzone odoroso di terra, di stoppie, di pietre, seguito da un’acquerugiola sorniona che non finiva mai. Fu per Concezione la vera festa; poiché quei due non si fecero vedere. Venne solo il chierico sbilenco, con un ombrello sgangherato che pareva un uccellaccio con le ali ferite; disse che Serafino, se le donne ne avevano piacere, sarebbe venuto il giorno dopo a celebrare la messa; annunziò che i fuochi d’artificio erano rimandati alla sera dopo e che la pioggia impediva la gara dell’albero di cuccagna e le corse dei barberi: tutte notizie che per lui e per Giustina erano più importanti di quelle delle prime pagine dei giornali. E quando Concezione gli consegnò la torta per portarla a Serafino, egli non esitò a leccarla tutta intorno, sebbene qualche vespa vi fosse rimasta appiccicata come ad una carta insetticida.
Vennero, alla messa del giorno dopo, comare Maria Giuseppa, e il signorino Costante, tutto azzimato e, parve a Concezione, anche incipriato; — era stato quel burlone del barbiere a ridurlo così: — ma adesso c’era chi poteva proteggerla e difenderla; c’era Serafino, al quale ella, mentre gli serviva il caffè in sagrestia, si rivolse fervidamente.
— Quello scemo mi fa schifo e paura: e quella tarantola della zia lo stesso. Aiutami a liberarmi da loro, Serafino: tu solo puoi farlo; e lo farai.
Sotto la sua fragile corazza di angelo, il pretino chiudeva un’anima di guerriero: intese subito il terrore fisico e morale di Concezione e decise senz’altro di affrontare i nemici di lei. Finché si trattò di stare in buona compagnia, nella cucina delle donne, si mostrò gentile e umile, anzi quasi intimidito dalla gigantesca presenza del giovinotto, il quale, del resto, non faceva che esporre i denti bianchi minacciosi; ma quando se ne andò, e capì che anche gli altri due, non invitati a restare, dovevano ritornare in paese, li aspettò nella strada, camminando lentamente, col breviario aperto fra le mani, dopo aver mandato avanti il chierico malizioso.
Sentì il loro scalpitare dietro le sue orme, ed ebbe anche l’impressione che lo scemo avesse qualche cosa di bestiale, fra di satiro e di centauro. Bisognava salvare Concezione.
Il centauro andò avanti: non sembrava contento, stringeva i pugni e continuava a mostrare i denti con una smorfia simile appunto a quella dei cavalli indomiti quando rodono il freno: la donna invece si fermò a fianco del pretino e guardò curiosa nel libro nero col taglio rosso che egli aveva chiuso, tenendoci però un dito dentro per segnare la pagina interrotta. Curiosa ed anche un po’ turbata: poiché le antiche superstizioni del suo paese dicevano che i sacerdoti, per mezzo dei libri sacri, potevano fare scongiuri, lanciare scomuniche, maledizioni, malanni; guarire gli infermi, esorcizzare gl’indemoniati, incantare le bestie, allontanare le tentazioni; infine possedevano, volendolo, una potenza divina e infernale nello stesso tempo. E quel pretino, che pareva da gioco, fatto di cera, colorito un po’ sulle guancie e sui capelli appunto come le bambole di cera, e che sembrava, in proporzione a Costante lo scemo, uno di quegli omettini che vengono disegnati accanto ai tronchi di certi alberi millenari per farne risaltare la grandezza, le destava una paura religiosa, simile a quella di certi idoli megalitici che esistevano sull’altopiano roccioso delle sue terre, e ai quali si attribuivano virtù favolose, come, per esempio, quella di ingoiarsi i fulmini come spaghetti. Quasi affascinata, fu lei stessa ad entrare nell’argomento di Concezione.
— Io voglio un bene dell’anima a quella creatura: ma è stramba; pare quasi affatturata. Vossignoria, — ed egli non capì s’ella parlasse sul serio o per scherzare, — dovrebbe coi suoi libri, farle qualche scongiuro.
Egli si mise il breviario sotto il braccio, quasi per nasconderlo ai sacrileghi occhi di lei; e guardando davanti a sé, improvvisamente fiero, disse con voce rude:
— Intanto, i libri sacri bisogna rispettarli: sono la voce di Dio. Maria Concezione è una donna seria, anche troppo saggia, per la sua età. Certo, non gode buona salute, ma la sua anima è sana e gagliarda.
— Oh, sì; ed io le voglio un bene da non dirsi; più che a una figlia. E io vorrei...
— Voi, carissima, siete anche voi una brava donna, forte e generosa: forse vi manca solo un po’ di religione; e avete, inoltre, certe fissazioni che a voi non si convengono: questa, per esempio, di pretendere di voler bene a Concezione, e intanto desiderarle e tramarle una infelicità senza rimedio.
— Io? Signor prevosto!
— Io non sono prevosto: e adesso vi parlo da semplice cristiano: lasciate in pace la povera creatura.
Essa fa il suo dovere; assiste la madre, vive, si può dire, per la madre: e, quando può, fa opere di pietà. Non domanda altro. Lasciatela in pace.
La faccia accesa della donna si smorzò: lagrime di rabbia, di umiliazione, ma anche di tenerezza, le velarono gli occhi. Non riusciva a capire come ella volesse il male, l’infelicità di Concezione; lei che era disposta a lasciarle la sua roba, la sua casa, persino il suo letto. E lo disse: ma camminando sempre a lenti brevi passi, Serafino si volse e la fissò in viso.
— Va bene, — disse; — voi potete anche farlo, quando sarà l’ora; ma non pensate, neppure per sogno, che nel vostro rispettabile letto Concezione possa dormire con vostro nipote. — Ella spalancò la bocca, mostrando i forti denti quasi come faceva lo scemo.
— Ma perché?
— Ma possibile, donna, che non intendiate? Anzitutto perché vostro nipote non dovrebbe mai sposarsi, né con Maria Concezione né con altra donna della terra: da lui non possono nascere che figli degenerati, forse peggiori di lui: e poi anche perché Concezione non può e non vuole e forse anche lei non deve sposarsi. È malata, volete capirlo, sì o no? E anche i suoi figli sarebbero infelici.
— Di questo passo nessuno si può sposare, in questo mondo. Tutti, più o meno, abbiamo qualche malanno: e tutti, infine, prima o dopo, dobbiamo morire. Quindi...
— Santa donna, voi parlate da vera zia di vostro nipote.
Allora ella s’inviperì.
— Dica piuttosto, vossignoria, che Concezione ha un debole: ha un debole per gli uomini di poco conto, per non dire peggio. Sappiamo la storia della sua fanciullezza; e passi. Quando le donne sono molto giovani sono tutte matte. Ma adesso c’è quell’altro, quel forestiero con gli occhi di gatto, spiantato e puttaniere, scusi la parola: gira intorno a Concezione perché vuole i quattrini di lei; le gira intorno come la vespa che si finge farfalla. Anche avantieri fu visto girare intorno alla chiesa, con un piffero, ubbriaco morto: tutti lo sanno. Lo hanno raccontato anche al mio Costante, perché al mondo c’è molta gente cattiva, che si diverte a tormentare anche le anime innocenti: e il povero mio ragazzo si rode, è geloso, è furibondo, sebbene non lo dimostri: ma se gli capita sottomano il forestiero lo ammazza come una pulce.
Il povero innocente, che aveva orecchie da volpe, rallentò anche lui il passo, strinse i pugni, cominciò a tremare. D’un tratto si fermò, si volse a Serafino, e, con gli occhi rossi d’ira, portandosi un pugno alla fronte, mugolò:
— O Maria o pumh!
Questa volta la zia non rise; mentre Serafino prendeva a forza l’altro pugno di Costante: e lo tenne fra le sue mani come un pomo duro. Invano lo scemo cercò di liberarsi: il pretino non mollava. Misurandosi col gigante disse:
— In nome di Dio, fanciullo, manda via da te la tentazione.
Colta da un brivido la donna si fece il segno della croce: e fu davvero come uno scongiuro, come l’esorcismo di un indemoniato. Costante lasciò cadere l’altro pugno, si afflosciò: il suo viso bellissimo parve quello di un angelo ribelle perdonato da Dio.
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Essi partirono la mattina stessa, senza tornare dalle donne. La festa era stata un pretesto per far conoscere Costante a Concezione; ma la zia dovette pentirsene, poiché egli, passata la chiesetta, non fece altro che volgersi indietro, affascinato, poi quando s’inoltrarono nella valle chinò la testa sul petto e gli venne un singhiozzo così forte e insistente che comare Maria Giuseppa ebbe desiderio di battergli una mano sulle spalle come ai bambini ingozzati. Così, per il momento, e più che altro per paura di Serafino e della sua occulta potenza, ella pensò di lasciare in pace Concezione: c’era tempo avanti, e non si sa mai quello che può succedere in avvenire.
Era tuttavia destino che Concezione non dovesse aver pace tanto presto. Ed ecco l’ultima sera della festa, mentre lei e la madre guardavano dalla muriccia dell’orto i lontani fuochi artificiali che ricamavano il cielo di comete, di ruote di perle, di favolosi fiori incandescenti, e fin lassù, nell’eremo delle due donne arrivavano, fra lo scoppiar dei razzi, i gridi della folla e le musiche pazze delle fisarmoniche, un uomo con un cappellaccio che faceva aureola al viso rosso dorato dalla luna, si avvicinò al cancelletto e fischiò.
— Oh, — dice Concezione, subito allarmata, — è il signor Bartoli, il compagno di Aroldo. Non verrà a cercare le sue camicie, a quest’ora. Mi sembra anche lui brillo.
La madre andò a vedere, ma non aprì il cancello, fermato già da una catenella e un lucchetto arrugginiti. L’uomo, infatti, puzzava di vino; ma aveva gli occhi buoni, beati, umidi di tenerezza come due rugiadose pervinche. E il suo sorriso si poteva paragonare solo a quello dei lattanti, quando succhiano e poi si staccano dal seno materno: eppure la donna non aprì. Aveva anche lei, da qualche giorno, paura di tutto: la rottura poi, almeno apparente, con la sua antica comare Maria Giuseppa, le causava un vago malessere, un presentimento di dispiaceri più grossi.
Il Bartoli domandò, con voce sommessa e balbuziente:
— Dov’è quello scimunito?
— Chi?
— Chi può essere se non Aroldo?
— E chi l’ha visto? È da mesi che non lo si vede.
— Tach, tach! — egli disse, pizzicando come corde i ramicelli del cancello. — Ditemi dov’è. È dentro?
— Ma lei è matto. Perché poi il signor Aroldo debba essere dentro casa nostra non so. Ha commesso forse qualche cosa, per nascondersi?
— Ha commesso questo, che il matto è lui. — Si toccò la fronte, parve sdegnarsi, poi tornò a sorridere. — E da tre giorni che non lo si vede più: oh, sì, io però l’ho veduto che veniva da queste parti. Avevamo bevuto assieme, e lui aveva la sua brava chitarra, e diceva di voler fare una serenata. Ma va all’inferno, gli dissi io, tu e le donne: perché solo per le donne si fanno le serenate. E lui è venuto da queste parti; e adesso dov’è?
— Ma lei è matto, ripeto: noi non l’abbiamo né veduto né sentito. E la nostra casa non è un’osteria, per alloggiarvi gli ubbriachi e i loro strumenti.
Allora il Bartoli, con una voce di galletto arrabbiato, chiamò:
— Signora Concezione, è pregata di degnarsi di venire qui.
Ella si avvicinò, cauta, severa, ascoltò l’uomo, lo pregò di abbassare la voce.
— Senta, — disse infine, con un certo disprezzo, — se lei crede che il suo compagno sia qui, lo venga a cercare coi carabinieri.
Tirò via la madre, che tremava alquanto, facendola rientrare in casa: e là, mentre il Bartoli se ne andava brontolando e barcollando, cominciarono a commentare il fatto. Un dubbio vago, ma già tinto di spavento, le turbava entrambe. Che Aroldo, se veramente non era tornato all’accampamento dei lavori, e neppure nella stamberga dove alloggiava in paese, avesse subìto qualche dispetto, — diciamo così per il momento, — da parte di Costante lo scemo: o anche dai Giordano. Tutti ce l’avevano con lui; ma in che modo potevano averlo costretto a nascondersi in qualche posto, a non lasciarsi più vedere in giro? Disse la madre, sottovoce, come fra sé:
— Che l’abbiano ucciso?
— Ma no, mamma, non dite sciocchezze: non esageriamo; e poi, infine, che ce ne importa?
La madre trasalì: le parve di sentire passi e rumori nell’orto: e voleva uscire di nuovo, ma Concezione la trattenne con forza proterva.
— Basta con queste storie, mamma: adesso ne sono stufa. Sono proprio stufa. Perché vengono tutti a molestarci? Noi non cerchiamo nessuno, non diamo fastidio a nessuno. Abbiamo, sì o no, la coscienza pulita? Sì: e dunque state ferma e tranquilla, mamma; tutto passerà. — Ma non era tranquilla neppure lei, e i rumori che realmente si sentivano, ed erano gli scoppi dei razzi e la loro eco nella solitudine, le sembravano fucilate fra gente nemica e selvaggia intenta solo a odiarsi e distruggersi. Costrinse la madre ad andare a letto, ed ella si mise a leggere il suo libro di preghiere popolato d’immaginette sacre che, più che le parole stampate, le tenevano onesta e santa compagnia. Alcune le aveva fin dalla sua infanzia; ecco quella della sua prima comunione, con un bel puttino grasso che accarezza un agnellino bianco, in mezzo a rose e margherite: ecco l’ultima, quella che le ha regalato una suora dell’ospedale, con la deposizione di Cristo, fra un gruppo di donne che sembravano eroine dolorose di teatro: Cristo che ha tanto sofferto, che è stato umiliato, che ha dovuto mostrare alla folla inumana la sua nudità, che ha sentito la cancrena spandersi dalle sue piaghe alla sua carne giovine e pura, e non si è lamentato, mentre noi ci lamentiamo se nel cogliere una rosa ci punge una piccola spina.
Rimase alzata finché i rumori lontani e vicini si spensero, e solo ritornò a galla, con un tremolìo argentino che pareva quello della rugiada sull’erba, il canto dei grilli. Allora anche lei andò a letto, si stese silenziosa accanto alla madre che russava, e in quel russare tranquillo, che non le dava noia poiché da lunghi anni ci era abituata, le parve di sentire il borbottare di una fontanella montana. Sì, la madre era tranquilla: la sua coscienza pura come l’acqua di sorgente. E anche lei si sentiva in pace con se stessa e con gli altri, almeno per gli avvenimenti di quei giorni; e se il dolore e la morte erano di nuovo vicini a lei, li offriva in espiazione dei suoi errori passati.
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Trascorsero tre giorni: il caldo era grande, ma fermo, quasi piacevole, come un bagno a vapore: si suda, ma non si ha paura di sudare: dopo, la pelle rimane fresca e purificata dal benefico lavacro. Specialmente alla sera, dopo che Giustina aveva inaffiato il piccolo spiazzo e la fila dei pomidoro che odoravano come piante tropicali, una pace veramente religiosa, da antico eremitaggio, regnava intorno alla chiesetta. La luna calante ricordava quella ai piedi della Madonnina, e le costellazioni l’accompagnavano nel suo viaggio come principesse al seguito di una regina.
Le due donne sedevano sulla panchina, e la vecchia, con le mani sotto il grembiule, sgranava il suo rosario. Concezione no, non aveva più voglia di pregare: le pareva che non avesse più nulla da chiedere: e non sapeva più le preghiere: le bastava scaldarsi al fianco della madre, come nelle notti lontane dell’infanzia, quando tutto il suo mondo era quel fianco onesto e protettore. Che ci vuole, per vivere? Tanto poco: un alito, una parola buona, un odore di orto, la speranza, anche senza stare a chiederlo e richiederlo con parole indifferenti, del Regno di Dio, che un giorno o l’altro, sia pure con la pace della morte, deve pur venire. Ed ella s’immaginava questo Regno come un orto sempre fresco, sempre tiepido, senza zanzare; una panchina, contro un muro illuminato dalla luna, lo spirito della madre accanto al suo, per l’eternità. Tentava d’immaginare anche la presenza del padre; ma non le riusciva: gli spiriti degli altri avi più lontani ancora, sebbene ella li assolvesse dei loro presunti delitti. Ed ecco, invece, d’un tratto, pare che le anime disperate degli avi birbanti tornino in questa terra a smuovere la pace delle due donne innocenti. E una mattina torrida, afosa, con un cielo velato come di una garza medicinale: soffi infernali di scirocco portano polvere e avanzi di stoppie bruciate fino allo spiazzo della casa. Per salvarsi da tutta quest’immondezza, Giustina ha chiuso la porta, e poi va ad aiutare Concezione a rifare il grande letto. D’un tratto si sente bussare: colpi discreti ma insistenti, finché Concezione non va ad aprire, allarmata, e spalanca gli occhi nel vedere un personaggio impressionante. Ha una divisa scura, con strisce rosse, un berretto analogo, a visiera; il viso è piacevole, quasi bello, paffuto, roseo e fresco, tagliato però da due baffoni, neri come code di gatto nero irritato; sembrano appiccicati sotto il naso corto per far paura alla gente. Gli occhi neri e grandi, volontariamente corrucciati, accrescono questa impressione. Nel vedere l’effetto inevitabile sul viso pallido di Concezione, fece una smorfia, ma per nascondere un sorrisino di beffa; e si presentò, parlando con voce cadenzata che pareva anch’essa burlesca.
— Sono il brigadiere dei carabinieri: avrei bisogno di una informazione.
Ella era incerta se farlo entrare o no, quando sopraggiunse la madre che capì subito di che si trattava, e parlò in punta di forchetta:
— Entri, la prego; vossignoria si accomodi; scusi la povertà del luogo.
— Ecco, — egli dice, entrando, ma non accomodandosi, né badando alla povertà del luogo, — si vorrebbero avere notizie di un certo Aroldo Aroldi, operaio dell’impresa stradale.
D’impeto, Concezione protestò:
— Che ne sappiamo noi?
La madre, invece, col cuore, sì, turbato, ma forte della sua coscienza pulita, domandò:
— È permesso sapere il perché?
— Da sei giorni il giovinotto è scomparso; e l’ultima volta fu visto dirigersi da queste parti.
— È vero, — risponde risoluta la madre, — lo abbiamo veduto anche noi, sei giorni fa, seduto su un masso qui sopra la strada del monte. Era ubbriaco. Io andai a dirgli che non stava bene in quel posto, che poteva addormentarsi e farsi rubare il portafoglio. Egli mi rispose male: tuttavia lo aiutai a scendere e sdraiarsi all’ombra: dopo non l’abbiamo più veduto, né saputo nulla di lui.
Concezione taceva: tuttavia era verso di lei che l’uomo della legge guardava, e con una strana melodia gutturale nella voce calma, riprese:
— Che egli, il giovinotto, aveva da molto tempo fatto la vostra conoscenza? E per quale ragione?
Concezione rispose trucemente:
— Io lavoro in biancheria da uomo, e tutti gli scapoli del paese, quelli che non hanno famiglia specialmente, ricorrono a me: mi portano la stoffa, io prendo le misure e confeziono la roba.
Il brigadiere, scapolo, senza famiglia, fu dentro di sé colpito gradevolmente dalla notizia, tanto più che gli occhi di Concezione, seri e limpidi nonostante la sua fierezza, anzi, appunto per la sua fierezza, lo fissavano quasi sfidandolo: e nel parlare le si vedevano tutti i denti bianchi e puliti come quelli di una fanciulla di quindici anni.
— Ah, lei cuce? A mano o a macchina?
— A mano, a mano: la roba viene più precisa e non si strappa mai.
— Allora, questo giovinotto, questo Aroldi, è venuto per questo?
— Appunto, — confermò Concezione, mentre la madre ammirava tremebonda la perspicacia del funzionario; — è venuto, sarà un anno, quando si cominciavano i lavori della strada. Voleva anche alloggio, da noi, ma noi non abbiamo posto e siamo donne sole. È tornato parecchie volte, fino a qualche mese fa: dopo, non abbiamo saputo più nulla di lui.
Il brigadiere però ne sapeva di più.
— Qualcuno afferma che l’Aroldi e lei, signorina, fossero fidanzati.
— Non nego, — dice recisamente Concezione, lusingata da quel serio «signorina» — non nego che il signor Aroldi mi facesse un po’ di corte; ma io non badavo a lui. Né a lui né ad altri.
Subito si pentì di questa inutile aggiunta, tanto più che il brigadiere aggrottava le foltissime sopracciglia, e sebbene non gli riuscisse a perfezione, fingeva di essere torvo, sicuro del fatto suo. Nel guardare Concezione non gli passava neppure per la mente che ella fosse colpevole o almeno responsabile della scomparsa di Aroldo; ma qualche cosa a proposito ella pur doveva sapere e bisognava a tutti i costi farla parlare: per il prestigio dell’arma benemerita.
Fu lui che cominciò a dire qualche piccola inesattezza:
— Informazioni precise ci dicono il contrario di quello che lei afferma. E cioè che il signor Aroldi ha sempre frequentato questi dintorni; che veniva qui anche di sera, e che lei...
— Non è vero! Gl’informatori sono per lo più gente poco scrupolosa, interessata a fare pettegolezzi.
— Mi faccia qualche nome.
— No, io nomi non gliene faccio: lei li conosce meglio di me.
— Signorina! — egli esclama severo, per richiamarla all’ordine e al rispetto che gli erano dovuti; ma Concezione aveva già capito con chi aveva da fare; e voleva difendersi, anzi vendicarsi di tutti coloro che la molestavano.
— Sissignore; c’è gente che si diverte a disturbare anche le povere donne come noi. Io e mia madre si vive qui come già sepolte, lontane dal mondo, senza chiedere nulla ad anima viva: eppure non siamo lasciate in pace. Si metta bene in mente, signor brigadiere, che né io né mamma sappiamo nulla del fatto per il quale lei si è disturbato a venire qui: questa è la verità; il resto è in mani di Dio.
— Lei dimentica, signorina, che io posso darle anche il fermo.
Ella si mise a ridere: tese le mani lunghe e pallide e disse con calma:
— Mi metta pure le manette: ce le ha?
Anche il viso di lui si rischiarò, divertito: e la madre, allora, credette di intervenire di nuovo.
— Sa cos’è? Quel ragazzo diceva sempre di voler partire, di andare in America in cerca di fortuna. Anzi diceva di aver già qualche proposta favorevole. Sarà partito senza dirlo a nessuno.
Ma l’uomo scuoteva la testa, poiché la denunzia della sparizione di Aroldo era venuta appunto da parte dell’impresa stradale: e lo scomparso non aveva denaro né passaporto; era inoltre diligentissimo, nel suo lavoro, scrupoloso nel contratto con l’impresario, fedele ai compagni, leale e sincero.
Nonostante il suo tono quasi insolente, Concezione si sentiva il cuore gonfio; pensava al passaggio sotterraneo, forse conosciuto da qualche malvivente, e nel quale, forse, s’era chiuso qualche nuovo truce mistero. Nello stesso modo però, il segreto dei suoi sospetti doveva, almeno per il momento, restare chiuso nella sua anima: anche per salvare la memoria degli avi.
Il brigadiere riprese:
— Nel mondo si sa tutto, cara signorina; è l’aria stessa che spia e porta in giro le cose. Dunque, si sa che lei e il signor Aroldi erano quasi, diciamo pure così, fidanzati: un bel momento, brutto per lui, il progetto andò a monte. Allora l’Aroldi fu visto cambiare tenore di vita: andò dalle femmine, andò all’osteria: adesso non si sa di preciso dove sia andato. E bisogna saperlo, e al più presto. E lei non faccia quegli occhi di colomba; ella sa qualche cosa, ed è suo dovere di informare la giustizia.
Ella incrociò le braccia; si toccò il petto, pensò che il primo giudice di ogni azione umana è Dio: fece quindi un fulmineo esame di coscienza, si sentì innocente, e non volle accusare nessuno.
— Le giuro come se fossi in tribunale che io non so darle indicazioni precise, signor brigadiere.
— Sospetti ne ha, però.
— Se li ho me li tengo; non posso accusare anima viva, non so nulla di quanto può essere accaduto: neppure se mi mette sul fuoco posso dire altro.
Allora egli si volse alla madre; ma ormai anche lei sapeva la condotta da tenere: e non fu possibile farle pronunziare una parola di più di quelle dette da Concezione.
Tuttavia entrambe si sbigottirono quando il brigadiere le invitò ad accompagnarlo al posto dove s’era visto Aroldo dormire ubbriaco; e dovettero seguirlo a malincuore.
Il vento soffiava forte, sollevava le sottane di Concezione, ed ella si accorse che, nel guardarle le gambe, il brigadiere lasciava scorgere che anche lui era un uomo del mondo come tutti gli altri. Piegata a stringersi le vesti, dopo essersi legata bene sotto il mento il fazzoletto, che, in quei casi, le serviva sempre da mezza maschera e da riparo, si affiancava alla madre e le toccava le sottane per avvertirla di essere cauta. E cauta la donna procedeva per il sentiero fra i sassi e le rocce sulle quali il muschio, al brivido del vento, aveva riflessi di felpa: nessuna traccia dello scomparso appariva; solo si vedevano, fra l’erba, come delle bacche nere, da evitarsi, poiché erano il segno del passaggio di un branco di capre.
Il brigadiere s’inerpicò, un po’ pesante ma intrepido, sui massi dove Giustina gli disse di aver veduto Aroldo: esplorò i dintorni con gli occhi che parevano lenti di binocolo; difese le ali dei suoi baffi dagli sbuffi impertinenti dello scirocco. Nulla: il monte, le valli, la chiesa, le strade, il profilo nero dentellato del paese, tutti assorti nel vento, non gli dicevano nulla; né alla fantasia, né ai fini per i quali si affaccendava.
In fondo, se non fosse stato per il prestigio dell’arma benemerita, e per il suo dovere, non gli sarebbe importato gran che dello scomparso: ma col suo grezzo istinto di uomo della legge e dell’ordine, sentiva che Concezione si burlava di lui, e voleva spuntarla.
Scese, palpò le pietre, si piegò a osservare per terra: e qualche cosa finalmente scoprì: come un filo di sangue rivelatore, una trama rossa si allacciava a uno stelo di avena selvatica: era più esile di un filo di ragno, eppure potente come una corda alla quale attaccarsi in caso estremo. La prese, l’allungò delicatamente fra il pollice e l’indice di una mano e dell’altra, come un capello, la mise davanti agli occhi di Concezione. Ella non batté ciglio; ma dentro la bocca chiusa si sentì tremare i denti. Era, sì, una trama della famosa coperta: ma, infine, che importava? Ella aveva fatto un’opera di carità a coprire l’ubbriaco, perché doveva tremarne? Eppure ne tremava. Sentiva che Aroldo doveva essersi fatto del male, come quell’altro, ed era l’antico rimorso che si aggiungeva a questo.
— Sono fili che portano gli uccelli — disse la madre, convinta; e il bravo signor Calogero mise la trama nel suo portafoglio, pensando che quel semplice filo poteva guidarlo lontano.
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Poi venne Pietro Giordano. Adesso che il posto era vacante, anzi, in macabra apparenza vuoto, egli poteva tentare di nuovo. Il fatto è che lui si era innamorato forte di Concezione, quella strega dagli occhi di fata: e se contava sui dieci mila scudi di lei ci contava in modo egregio, cioè per il benessere della loro futura famiglia. Si mutavano magicamente in porci, vacche, pecore, quei dieci mila scudi; ed egli li vedeva camminare, pascolare, accoppiarsi, moltiplicarsi evangelicamente.
Sedette su un ceppo che era sullo spiazzo, e cominciò col dire una bugia. Disse che lo mandava Serafino, per sapere quanto c’era di vero nelle chiacchiere correnti a proposito della scomparsa di Aroldo.
Irritata, Concezione rispose male. Che ne sapeva lei, che gliene importava? Forse lo stesso Pietro era meglio informato. Ed egli aggrottò le feroci sopracciglia.
— Che vuoi dire con questo? Che lo abbia ammazzato io?
— Tutto può darsi.
Egli si piegò fino a stringersi i piedi con le mani; un ringhio di cane bastonato gli uscì dal petto ansimante. Ella ebbe paura. Oh, come questi uomini bestiali venivano a darle la caccia, rendendola davvero simile alla cerbiatta presa di mira nel suo covo!
— Pietro, non ti ho voluto offendere: scherzavo.
— Non si scherza su queste cose, donna! Basta una parola ad accendere un fuoco distruttore. Non solo, ma ti dirò che, se tu vuoi, se tu me lo comandi, io posso giovarti in questa brutta faccenda; cioè scovare la verità.
Ed ella ebbe uno slancio, il desiderio di afferrarsi a lui: ma si riprese subito. La brutta faccenda, disse, la interessava solo fino a un certo punto: toccava a chi di dovere scovare la verità. E poi ella riteneva che il forestiero fosse scomparso di sua piena volontà, per sottrarsi, beato lui, appunto alle chiacchiere e ai fastidi di questo maledetto paese. Pietro le diede ragione.
— In quanto a questo è proprio vero. Io sono contento quando me ne sto con le mie vacche, che mi vogliono bene e non chiacchierano e fanno il fatto loro. Non verrei mai in paese, perché ogni volta mi si piena il cuore di pietrisco e di spine.
— E allora perché sei venuto?
— Anzitutto per affari miei: e ti giuro che non sapevo nulla di quelli del forestiero. Ma subito hanno cominciato a stuzzicarmi, a dirmi che tu quasi quasi sei contenta di esserti liberata di lui. Allora ho pensato...
Ella afferrò un sasso e lo scaraventò contro di lui: lo colpì al ginocchio: ed egli ne provò dolore, ma con beatitudine: anzi tornò a piegarsi, raccattò il sasso, lo tenne nel pugno come una cosa preziosa.
— Hai ragione, — ripeté; — tu non avevi impegni, con lui; tu non ti leghi con nessuno: e fai bene. Però, dimmi, cosa farai, bella, quando sarai vecchia?
— Quello che fanno tutte le vecchie, bello. Mangerò pane bagnato, pregherò, aspetterò la morte. Ma io non arriverò, ad esser vecchia — aggiunse, come parlando a se stessa, — morrò ancora giovane, e forse fra non molti anni.
— Bumh! Adesso vuoi farmi piangere. E i soldi, a chi li lascerai?
— Questo è un affare che mi riguarda: e poi, soldi io non ne ho: è tuo nonno che ha messo in giro questa fanfaluca.
— Meglio, — disse Pietro con gli occhi accesi. — Così, se io ti dico che sono cotto di te, ma cotto bene, sai, come una pera al forno, così mi crederai. C’è anche mio fratello Paolo, che ti chiama in sogno: ma io ho parlato chiaro: fratello, ti voglio bene come agli stessi miei occhi, ma in queste faccende bisogna intendersi: il primogenito sono io; e se non la senti con le buone la sentirai con i pugni. Infatti egli ha cominciato a ringhiare: allora gli ho dato davvero una scarica di pugni, per fargli capire una volta per sempre che non siamo i fratelli siamesi, da andare assieme a letto con una donna. Egli mi tiene il muso, ma io me ne infischio; ed ecco perché sono venuto qui solo.
— Mi dispiace, Pietro, che per causa mia ci siano questioni fra voi; ma, te lo ripeto, voi fate come quei pastori che litigarono per via delle stelle: la sai, la storia? Stavano, i due bravi giovanotti, coricati a pancia in su, in una bella notte stellata: uno diceva: vorrei avere un prato grande come il cielo: e diceva l’altro: ed io vorrei avere tante pecore quante stelle vedo. — E dove le pascoleresti? — domandò l’altro. — Nel tuo prato. — Ma io non intendo dartene il permesso. — E così vennero a parole, e poi a botte.
Ma Pietro non aveva voglia di ridere.
— Eppure tu mollerai, Maria Concezione, ti assicuro che mollerai. Perché io sono giovane, forte e testone: quando mi metto una cosa in mente, non c’è Cristo che me la leva. Ti farò la corte per venti o trenta anni: e tu mollerai.
— Salute! — ella rise, veramente lusingata e divertita. — Basta che tu non dia fastidi.
— Questo si vedrà, — egli disse, alzandosi dal ceppo, al quale diede una pedata. Si era fatto torvo, acceso dal desiderio di assalirla, baciarla, morderla in viso; ma ella si difese con astuzia femminile.
— Bada a te, ragazzo: non fare sciocchezze; altrimenti t’incolpano di aver fatto sparire tu il forestiero.
Pietro ebbe un lieve sussulto: e Concezione sospettò anche di lui.
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L’ombra dello scomparso si ingrandì e incupì ogni giorno di più, come quelle che si allungano al tramonto. Venne in persona un Commissario di pubblica sicurezza, interrogò le donne con lo stesso risultato del brigadiere: si fece un sopraluogo al posto dove Aroldo era stato veduto l’ultima volta, si minacciò Concezione di arresto. Poi di nuovo silenzio.
L’estate seguiva il suo corso lento e soffocante. Da tanto tempo non pioveva, e il pozzo delle donne era quasi secco. La madre faceva chilometri di strada per provvedersi d’acqua, e Concezione avrebbe avuto paura a star sola, se di continuo non fosse arrivata qualche innocua persona a farle compagnia.
Anche il vecchio flebotomo era diventato un assiduo frequentatore del luogo: però non finiva mai di parlare dello scomparso, non senza una certa ironia: pareva lo divertisse molto la strana avventura: e del resto tutti gli sfaccendati ne parlavano; le donne tenevano i bambini chiusi in casa per paura che venissero rubati. La gente tranquilla era convinta però che il forestiero, munito di passaporto, come si venne a sapere, e forse anche di soldi, se ne fosse andato per i fatti suoi.
Il «dottore» esasperava Concezione, anzi riusciva qualche volta a suggestionarla e impaurirla, tessendo tutto un suo speciale processo sul misterioso avvenimento.
— La cosa deve essere andata così: quel badalucco era maggiormente rimbecillito dalla passione per te, e più ancora dal succhiamento vampiresco della graziosa Maria Pasqua. Lo sanno tutti che razza di pipistrello è quella lì: uccello mammifero, progenie del diavolo. Le piacciono i denari, i bei giovanotti; e niente figli, né maschi né femmine. Pare le piaccia anche il vino; e il rosolio. Come certi vampiri di America, che nella stagione tropicale piombano sul collo dei cavalli accaldati, e con le ali fanno vento alle loro vittime, in modo che queste sentono un certo refrigerio e si lasciano dissanguare con piacere, così fa quella sirena con i suoi adoratori. Si è bevuta il sangue di Aroldo, — bel nome, da trovatore; e non gli mancava neppure la mandola; — e quando il biondo ragazzo ha tentato di consolarsi, oltre che con la musica, col vino e l’acquavite, è andato sempre più giù. Quando era ubbriaco raccontava le sue pene per te, ohé, per te, signora Maria Concezione; e alcuni ne ridevano; altri lo ascoltavano seri e lo pedinavano; e questi, probabilmente, son quelli che lo hanno fatto sparire come una nuvola al tramonto.
— Ma chi, ma chi, per amor di Dio? Lo dica, dottore lei è con me come quei vampiri d’America!
— Magari! Mi rifarei davvero il sangue, se tu mi lasciassi succhiare la tua dolce nuca. Perché tu, amica mia, tu il sangue ce l’hai, e caldo, bollente, sebbene tu finga il contrario. Beato chi riuscirà a succhiartene solo una stilla dalle labbra.
E tendeva la mano tremula, con quelle sanguisughe delle vene, simili a quelle che un tempo egli applicava ai malati; ma Concezione era lesta a scostarsi, con ripugnanza indicibile, e aveva più paura di lui che di tutti gli altri suoi spasimanti messi assieme. Eppure, come i bambini nelle sere tristi d’inverno, rabbrividiva di piacere angoscioso quando egli riprendeva a raccontare le storie del passaggio sotterraneo, e concludeva, ma scherzando, che anche Aroldo era stato attirato là dentro e forse vi stava ancora, con la sua chitarra, come un uccello in gabbia.
Allora ella protestava; tuttavia ripetendo con dolore la sua vana domanda:
— Ma chi? Ma chi può essere stato?
— Tu lo sai meglio di me, capricciosetta.
— Lasci gli scherzi, dottore. E mi faccia il piacere, se ne vada, e non parli così in altri posti.
Egli fingeva di obbedire: s’inchinava, se ne andava, dignitoso, lasciandola in grande agitazione.
Le sembrava di impazzire: la figura di Aroldo le stava sempre davanti, viva, palpabile, coi begli occhi mesti e le labbra protese per baciare: e adesso che non c’era più, che non ci sarebbe stato mai più, ella sentiva di amarlo, di desiderarlo, con tutto il suo sangue davvero incandescente; non solo, ma le sembrava che l’unica ragione di vivere, adesso, per lei, non era più l’affetto per la madre, ma questo amore per lui.
— Se riapparisse! Se tornasse! Mi darei a lui, senza pensare ad altro: mi stringerei a lui, fino ad essere un solo corpo col suo: così, così.
E si mordeva le labbra per lo spasimo; si buttava sul letto piangendo, abbracciata all’ombra del nulla.
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Tornò, una sera di luna, il brigadiere. Disse subito, con la sua voce gorgogliante di fontana:
— Non si spaventi, signorina: sono entrato così, per caso, poiché passavo di qui per certi affari.
È vero che di affari, per personaggi come lui, ce ne sono in tutti i più disparati angoli del mondo: dovunque cerca di nascondersi il diavolo con tutte le sue invenzioni maligne: ma infine, da quelle parti della chiesetta, protetta dalla Madonnina, il male aveva adesso, dopo la morte degli antenati, poca presa: anche il fatto di Aroldo ancora non si poteva giudicare chiaramente. Ad ogni modo Concezione aveva la segreta vanità di credersi più furba del brigadiere, e si mise sull’attenti, gentile però, fino al punto di domandare se una tazza di caffè era gradita.
— Graditissima; tanto più se preparata dalle sue belle mani.
Le mani di Concezione non erano belle, nel senso comune della parola, ma piene di espressione, brune, pallide, nervose, con le unghie corte pulite e di loro natura rosee e lucenti: ella se le guardò, parve loro sorridere; e le mani le risposero che l’uomo era lì per lei.
Anche questa volta era sola in casa, essendo la madre andata in cerca d’acqua: mise la caffettiera sul fuoco e preparò il vassoio.
Egli ne seguiva i movimenti composti, con uno sguardo umido di tenerezza quasi paterna: aveva saputo molte cose, in quei giorni di investigazioni: fra le altre dei denari depositati alla banca: e un’aureola lievemente dorata stava bene intorno alla testa di Madonna copta di Concezione. Ma anche lui voleva essere furbo: galante, sì, ma furbo.
— Ben gentile, ben gentile, signorina. Ottimo, questo caffè: è il primo caffè squisito che bevo in questo paese.
— È da molto in questo paese? — ella domandò, sedendosi davanti a lui, ma a rispettosa distanza.
— Sei mesi, circa. E, dico la verità, ci sto benissimo. Non è poi un covo di birboni, per non dir peggio, come me lo avevano dipinto; forse, — aggiunse, fra il vanesio e il beffardo, — per lusingarmi a venirci. È gente per bene, invece, tranquilla, laboriosa. Il peggio sono i paesetti dei dintorni, specie quelli di montagna: l’aria fina, bisogna riconoscerlo, aguzza le fantasie, e i nostri bravi montanari non sempre sono disposti a fantasticare imprese cavalleresche. Si pungono fra di loro, e quando possono, scendono nella valle in cerca di avventure. Ma lei, signorina, li conosce forse meglio di me. Sono stato l’altro giorno lassù, — col cucchiaino indicò attraverso la finestra un vago punto lontano, — ed ho conosciuto dei bei tipi: fra gli altri la signora Maria Giuseppa Alivia: anzi mi ha detto che è molto amica sua e della signora Giustina.
— Ah, — fa Concezione, con distratta sorpresa: poi pare ricordarsi; — ah, sì, la conosciamo: è un tipo strambo davvero, ma buona, generosa, schietta.
— È stata lei ad attirarmi a casa sua, per mezzo di un comune amico; e con la vanità propria delle ricche paesane selvatiche mi ha fatto vedere tutto il suo castello e i tesori che contiene; anche le provviste, anche la roba che tiene nelle casse. Divertente, non lo nego. Ha, la signora Maria Giuseppa, per lo meno un centinaio di paia di lenzuola, e una cinquantina di coperte da letto, tessute forse fin dal tempo in cui Berta filava. Anzi, mi fece sapere che una di queste coperte l’ha regalata a lei, signorina Concezione, per augurio di prossime nozze. (Concezione, nonostante tutta la sua religione, imprecò fra di sé contro quella cavalla pazza di comare Maria Giuseppa.) C’era anche il marito, il signor Battistino Alivia, un bonaccione che sputava, ridacchiava, beveva, faceva bere e poi tornava a sputare: la moglie dice che lui non apre mai bocca per fare altro; eppure, quando mi sedetti accanto a lui mi domandò a bruciapelo: come è andata la faccenda del forestiero scomparso? Non lo avranno ricattato, per caso? — Capirà, signorina, io non potevo parlare: però la signora Alivia intervenne e ne disse una grossa. Disse: il forestiero è stato certamente fatto sparire da qualche pretendente di Maria Concezione.
— Di chi?
— Suo, signorina.
— Mio? — ella gridò: e spalancò gli occhi, che parvero quelli di una serpe calpestata. E, davvero inviperita, stanca di tutte quelle maligne e malvage allusioni, disse:
— Del resto, fra i miei pretendenti c’è anche Costante Alivia, lo scemo nipote della signora Maria Giuseppa.
Si pentì subito, ma troppo tardi: il brigadiere aveva deposto la tazza sulla tavola accanto; e ficcata poi una mano in tasca, con le grosse dita dai polpastrelli sensibili, palpava un involtino di carta, dentro il quale c’era il filo trovato fra l’erba dove Aroldo aveva smaltito la sua sbornia; e quel filo, sebbene così bene avvolto, gli dava come una scossa elettrica, poiché egli aveva osservato che il colore e la trama di esso corrispondevano perfettamente a quelli di alcune coperte della signora Maria Giuseppa: e da uomo di giustizia, ma anche da uomo sensuale e malizioso, ricostruiva a modo suo gli avvenimenti di quella famosa notte. Aroldo aveva l’appuntamento con Concezione: ella vi era andata, si era coricata sull’erba col giovane amante, e per varie ragioni di decenza aveva portato con sé la coperta quasi nuziale. Questa fantasia lo eccitava, ne svegliava altre, lo rendeva quasi felice.
— Ah, — disse bonario e sornione, — anche il signor Costante! Insomma, quanti pretendenti ha, lei? Vediamo un po’.
Ma Concezione gli mostrò i denti ringhiosi, come aveva veduto fare appunto allo scemo.
— Sì, — disse, — e poi lei me li mette tutti in gattabuia.
Egli riprese a raccontare della gita al paesetto di montagna, senza naturalmente dire che c’era stato appunto perché denunzie anonime gli avevano fatto sapere che Costante lo scemo, nei giorni della festa, ubbriaco come gli altri, nonostante la sorveglianza della zia, aveva espresso propositi di morte contro il forestiero che gli voleva portar via Concezione: e tutto, l’andata al paese, l’incontro con l’amico comune con gli Alivia, la visita alla casa di questi, tutto era prestabilito e bene ordinato; e gli pareva anche ben riuscito.
— Sono gente curiosa e primitiva, quelli del paesetto: in una casa ho veduto una specie di culla, fatta con una scorza di sughero, attaccata per quattro funi a una trave: e in quest’amaca di selvaggi ci stava un bel bambino. Per salvarlo dai topi, dai vampiri e dal porco, — disse la madre, che macinava ghiande abbrustolite per fare il caffè. E la chiesa? Diroccata del tutto: eppure le vecchie ci vanno a pregare lo stesso; e la signora Alivia, che spende migliaia di lire per liti di pochi centimetri di terra, non pensa a restaurare l’altare.
Visto il silenzio freddo ma attento di Concezione, egli riprese:
— Ho conosciuto anche il suo baldo pretendente, questo signorino Costante, che non fa nulla tutto il giorno, appoggiato con una spalla al muro dell’osteria; non sapendo altro che fare, gioca alla morra con la sua ombra. È un bel ragazzo, però, un pezzo di ragazzo che pare un toro. Lei se lo dovrebbe sposare, signorina; potrebbe fare molto bene al miserabile luogo.
Concezione lo fissava torbida e gelida come la neve calpestata; aveva già capito ogni cosa, e la sua furberia se n’era andata, per lasciar posto di nuovo a un’angoscia profonda. Oh, no, ella non voleva far male a nessuno; fosse stata anche indiscutibile la colpabilità dello scemo, ella non avrebbe aggiunto una sillaba per aggravarla. Ma neppure difenderlo poteva: quindi stava zitta; e l’arrivo della madre, con la brocca grande sulla testa e due piccole una per mano, le portò un doppio refrigerio. Le tolse la brocca di testa con ambedue le mani ardenti, la depose sulla panchina e si piegò a bere come da una fontana; poi, mentre Giustina andava a calare le due brocche piccole nel pozzo, legate per le anse a una corda, perché l’acqua vi restasse fresca, ella tornò a sedersi davanti al brigadiere e, senza quasi sentire oltre quello che egli diceva, aspettò con pazienza che finisse e se ne andasse.
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Andavano, venivano, sostavano dalle due donne, uomini, vecchi, ragazzi, paesani, borghesi. E tutti tiravano fuori l’argomento del forestiero scomparso. Il luogo non era mai stato così frequentato. Lo spiazzo della chiesetta, in quei lunghi crepuscoli estivi, con quel brivido di fresco che veniva giù dai monti, e la luminosità degli orizzonti aperti in fondo alle valli, che poteva anche dare l’illusione del mare, era la mèta di tutte le passeggiate serotine degli sfaccendati del paese. Alcuni sedevano sulla muriccia intorno allo spiazzo, altri proseguivano nei dintorni; e ancora si andava a vedere dov’era sparito ingoiato dal terreno o rapito da qualche orco delle grotte montane, il giovane forestiero, la cui figura cominciava a prendere una tinta leggendaria e unirsi così alle altre del quadro che aveva per sfondo il paesaggio primitivo e le sfingi di granito delle grandi rocce.
Qualche volta Giustina usciva a prender parte alle conversazioni senza mai perdere la prudenza e la misura delle parole. Concezione invece, anche se la gente entrava nell’orto o in casa, si nascondeva col suo lavoro dietro la tettoia, aspettando che tutti se ne andassero. Le pareva che ad abitare in una popolata casa di città si sarebbe stati più soli che in questo luogo detto per ironia della solitudine.
Dal brigadiere non aveva ricevuto più visite, ma sentiva che egli non si rassegnava, che continuava le sue investigazioni; e questo non le dispiaceva: desiderava anche lei conoscere la verità, anche fosse una verità crudele: solo così avrebbe potuto calmarsi e riprendere l’antica vita. Fece un voto alla Madonna:
— Se egli torna, se è vivo e salvo, spenderò metà dei miei denari per abbellire la chiesa.
Intanto avrebbe voluto spenderli per fare ricerche per conto suo; ma non osava parlarne con nessuno; non si fidava di nessuno. Quando la madre era assente, ella scivolava furtiva nella chiesetta, ne tentava uno per uno i mattoni, batteva sul pavimento, faceva buchi, avendo poi cura di chiuderli col cemento; si sollevava sudata e anelante, stringendosi la testa fra le mani.
— Sono pazza; lo so, sono pazza, — gemeva ad alta voce; ma non desisteva dalle sue vane ricerche.
Avrebbe voluto confidarsi almeno con Serafino, sotto il sigillo della confessione, ma anche lui, lui più degli altri, le destava diffidenza e quasi ripugnanza. Lo vedeva per la prima volta nel suo vero aspetto di uomo debole, malato, esaltato: che aiuto poteva darle? E quando si accorse che questa sua disperazione intaccava la sua fede religiosa ne provò un terrore freddo e duro, come se un pericolo soprannaturale, più spaventoso di quello del suo male, la minacciasse. Sognava, in quelle notti chiare di fine estate, che due lune si rincorrevano in cielo; si azzuffavano, si frantumavano: la terra si riempiva di pezzi di oro giallo, sui quali non si poteva più camminare; e la gente moriva di fame e di sete. Di oro si colorava davvero la natura: cadono le foglie del fico, carnose e rattrappite come mani stanche di lottare; cadono le foglie del salice, che corrono sull’erba come lucertole lucenti al sole; quelle della vite si accendono come fiamme, e i grappoli sono assaliti da vespe pur esse d’oro. La sera comincia a far fresco, e la gente non viene più a passeggiare fino alla chiesetta. Meglio così. Concezione preferisce, non da adesso, l’inverno all’estate: d’inverno i desideri si smorzano, i sensi si attutiscono come la terra in riposo; la compagnia del fuoco vivo ricorda la compagnia dei cari morti. E già il ricordo del forestiero biondo si confondeva con quello del ragazzo bruno: forse i loro spiriti correvano assieme, con le nuvole, sulle cime dei monti, giocando come fanciulli nel giardino dell’eternità. Così ella, un po’ visionaria, confondeva la terra col cielo; e a volte amava figurarsi che quei due spiriti, gli spiriti di quei due che da vivi avevano conosciuto il sapore della sua bocca, stessero accanto a lei, parlando dei loro affari. Uno raccontava i progetti che aveva fatto, di un viaggio per fondare una città lontana, l’altro raccontava tranquillamente come era riuscito a impiccarsi.
Concezione non li scacciava: non si scacciano gli spiriti, ma qualche volta, nella sua lucida e innocua allucinazione, le pareva che quei due finissero col questionare. Aroldo, il mite, accusava il violento suo predecessore di aver rovinato Concezione con le sue prepotenze, la sua sensualità, l’offesa alle leggi umane e divine; l’altro ribatteva:
— E tu l’hai rovinata peggio di me con le tue minchionerie.
Ella si scuoteva, tentando di ridere di se stessa e delle sue fantasticherie: perché, in fondo, non le mancava un certo umano senso di attesa, di cambiamento di situazione, di un fatto, insomma, che dovesse smuovere quella calma gelida e paludosa che le stagnava intorno: quell’istinto di attesa che non manca neppure ai vecchi e ai malati; e invano pensava che se la vita dovesse cambiare anche per lei, non poteva che cambiare in peggio: la speranza le luceva in fondo al cuore, come un gioiello, se pur rubato, nascosto in fondo a un pozzo.
Ed ecco un giorno arriva comare Maria Giuseppa, con un viso scuro e torvo come la giornata d’inverno: non ha dimenticato di riempire la bisaccia, ma questa volta non la scarica in casa delle ospiti; e neppure fa entrare il cavallo nell’orto assiderato, lasciandolo fuori del cancello, quasi per subito ripartire. Deve avere qualche grossa causa da discutere in Pretura o in Tribunale; qualche intruglio più torbido e complicato degli altri.
— Sì, — disse con arroganza, sollevando la gamba con lo sprone come fa il gallo irritato, — me l’avete combinata bella. Quel disgraziato, quell’idiota, quell’animale di mio nipote Costante, è stato arrestato sotto l’accusa di aver ammazzato e nascosto il forestiero.
Concezione ribatté, pronta e sdegnosa:
— Che ci abbiamo da vedere noi?
— Maledetta sia l’anima mia; e che ci hai da vedere tu, se il forestiero bazzicava da queste parti per i tuoi occhi? Se sei stata tu a lusingarlo e attirarlo. — In sua coscienza Concezione sapeva che era così, ma non poteva confessarlo. Si fece livida e disse:
— Misurate una buona volta le vostre parole. Non potete che far del male a vostro nipote, se pure si può fargli più male di quello che Dio gli ha fatto. E riguardo alle mie azioni, sono venuta io a raccontarvele? Vi ho forse mai dato confidenza, e neppure dato ascolto?
— È questo, appunto, maledetta sia l’anima mia. Se tu procedevi da donna saggia, (senti chi parla, dice fra sé Concezione); se davi ascolto ai miei consigli, le cose non sarebbero andate così: si sarebbe tutti contenti, adesso, non tra le granfie della giustizia e del diavolo.
Si fece il segno della croce, non si sa contro la giustizia terrena o il diavolo; ma intervenne, calma e poco allarmata, comare Giustina:
— Infine, sedetevi, e prendete almeno una tazza di caffè. Tutto si aggiusta col tempo e col denaro. E raccontateci come sono andate le cose.
— Sono andate così: mio nipote, appena ha veduto Concezione, se n’è innamorato pazzamente, stoltamente. (E come poteva fare, in altro modo? — pensa Concezione.) L’avete sentito, del resto; non faceva che ripetere: o Maria, o mi sparo. Poi il pretino, quel pretino di sputo (adesso che era lontano, col suo libro, ella poteva permettersi di parlare così), lo ha calmato: lo ha come sciolto dalla tentazione: ma un’altra fissazione gli è venuta, all’idiota Costante; quando cioè ha sentito l’affare del forestiero si è messo in mente, e vantato con tutti, di averlo ucciso e nascosto lui. Così hanno finito con l’arrestarlo. Adesso è qui nelle carceri, e bisogna che io gli cerchi un maledetto avvocato.
— Ma la verità, qual è?
— La verità è che egli è innocente come un asino che è. Tocca a me, adesso, tribolare, spendere, perdere il sonno e la salute.
Concezione fu per dirle «bene vi sta», ma rassicurata dall’accento stizzoso e non dolente della donna, che in fondo forse aveva piacere di darsi da fare con gli avvocati e i giudici, pensava che lo scemo doveva essere senza dubbio innocente e le cose si sarebbero appianate presto. Si ribellò dopo, alle pretese di comare Maria Giuseppa, che voleva essere accompagnata da lei, da Concezione in persona, presso l’avvocato, per affermare l’innocenza di Costante.
— Ma voi siete matta. Io non so nulla, e abbastanza ho avuto ed ho noie per questo affare.
— E allora ti conduco qui l’avvocato. Tu devi assolutamente parlargli, tu devi salvare uno che è in pericolo di morte per te. Tu sei la causa di tutto, e non ti devi sottrarre alla tua responsabilità.
Questa era la logica di comare Maria Giuseppa. Ella tirò fuori anche gli articoli del Codice penale contro i subdoli istigatori di reati, le testimonianze reticenti, i taciti incoraggiamenti a mal fare; e dopo altre insistenze, minacce e pugni sulla tavola, andò via pestando i piedi e promettendo di ritornare con l’avvocato e, occorrendo, con svelti testimoni. Ci sarebbe stato da ridere, se Concezione avesse almeno avuto chi difenderla: ma si sentiva sola, smarrita, in preda a una fatalità davvero diabolica.
Non c’era che da nascondersi: e il passaggio sotterraneo sarebbe stato adesso molto utile per lei. Spinta da una specie di mania, nonostante le assicurazioni e i conforti della madre, sgattaiolò fuori dell’orto e andò verso il sentiero della montagna, dirigendosi al punto dove Aroldo era scomparso. Quasi l’istinto morboso dei delinquenti che tornano sul luogo del loro delitto, la guidava.
L’erba rinasceva fitta, quasi nera, all’ombra delle rocce, e anche il muschio, su di queste, prendeva il colore delle vegetazioni invernali, di un verde bruno giallognolo: ed era alto, denso, come se le pietre si rivestissero di pelo più fitto per resistere al freddo.
Il sole era tiepido, ma l’aria fredda, d’una rigidità cristallina: i corvi avevano fatto la prima comparsa, annunziando col loro gracchiare non solo la cattiva stagione ma qualche cosa d’indicibilmente triste: pareva venissero dalle terre ove il gelo è perenne, le notti eterne, e portassero con loro, spandendola come un seme di morte, una funebre disperazione. E anche su, in certe forre dei monti, nonostante la giornata chiara, fumava qualche principio di nebbia: anche lassù, gli spiriti della solitudine avevano già acceso i loro fuochi invernali.
Concezione sentì i piedi inumidirsi, ma continuò a salire: ecco il posto dove Aroldo si era seduto, con la sua chitarra, il suo amore e la sua sbornia: di lassù si vedeva tutta la strada che conduce al paese e il profilo di questo, affacciato alla valle, con la torre della cattedrale e quella delle carceri, avanzo di una antica rocca, che quasi si rassomigliavano. Le parve di vedere, nel cortile della prigione, lo scemo Costante, beato del delitto che credeva di aver commesso; e ne provò rabbia: ma proprio in quel momento sentì che il suo primo dovere non era quello di fuggire, di sottrarsi a tutti quei dolorosi pasticci, ma di aiutare gli innocenti, di salvare i deboli. Il panorama della sua coscienza le appariva d’improvviso diverso del solito, come quello delle valli e del paese visti dall’alto; triste, sì, vibrante di voci sinistre, ma chiaro e trasparente nella sua durezza.
Bisognava fare il proprio dovere: dire quello che sapeva della verità; caricarsi della sua parte di responsabilità. Ridiscese, quindi, riprese il suo lavoro, aspettò con cuore fermo gli avvenimenti. Ma comare Maria Giuseppa tornò sola, con la bisaccia vuota, col viso cascante. L’avvocato l’aveva accolta quasi con beffa, consigliandole di lasciare in pace Concezione e di non far chiacchiere.
— A me però, è venuta un’idea, — disse sottovoce. — C’è quel pretino giallognolo, che sembra una piccola volpe addomesticata, che ha dimostrato di avere un potere quasi magico verso Costante non si potrebbe mandarlo a parlargli, nelle carceri, perché lo induca a non dire più corbellerie, a non proclamarsi colpevole, a rimetterlo insomma nella via della salvezza? A me, oggi, non hanno permesso di vedere il ragazzo; ma se il pretino dice di volerlo confessare, lo lasciano entrare di certo. Gli farò un regalo; gli manderò tre libbre di miele e due forme di cacio fresco.
Senza smettere di lavorare Concezione disse:
— E perché non andate voi stessa a dirglielo?
— Perché credo che tu abbia più potere su di lui. Anche lui è innamorato di te; e di lui tu puoi fidarti.
Nonostante le nuove induzioni di comare Maria Giuseppa, Concezione pensò che forse davvero Serafino poteva fare qualche cosa per lo scemo. Ma era poi innocente davvero, lo scemo? Ella non sapeva: non era più sicura di nulla. Ad ogni modo scartò presto l’idea di rivolgersi a Serafino, poiché il chierichetto arrivò con cattive notizie di lui. S’era dovuto mettere a letto, il pretino, poiché i primi freddi, gli strapazzi religiosi ai quali egli non si sottraeva mai, alzandosi all’alba per la messa, facendo lezione di catechismo ai ragazzi e alle donne, avevano riaperto il vuoto dei suoi polmoni: aveva vomitato sangue, e adesso giaceva esausto nel suo lettino di vergine martire, tormentato, più che dal suo male, dall’impotenza a proseguire la sua opera di bene.
Concezione si sentì anche lei ripresa in quel cerchio di dolore e di morte. Che poteva fare? Ricominciò a pregare. «Signore, sia fatta la volontà tua»; e ricadde in un senso di attesa, come chi è caduto in fondo a un burrone e spera, pur con le ossa rotte, in un aiuto sovrumano.
E un filo di speranza le arrivò proprio da chi meno se l’aspettava: dal signor Calogero, che venne verso sera, quando già anzi faceva buio, ed era vestito in borghese, con la cravatta azzurra, i polsini bianchi inamidati che gli arrivavano fino alla metà delle mani. Gli occhi brillavano nel viso colorito; sembrava un mercante di campagna, vestito a festa, che spera in ottimi affari. Concezione sentiva per lui una certa simpatia: quella simpatia che tutti i veri galantuomini ispirano alla gente onesta; ed ella sentiva in lui l’uomo buono, semplice, cordiale, pur senza riuscire a spiegarsi perché egli avesse scelto quel suo ingrato mestiere: ma poi pensava che appunto per il mestiere dell’uomo di giustizia occorrono le virtù del signor Calogero, e aveva fiducia in lui.
Egli cominciò col dire al solito l’ingenua bugia che era passato di lì per caso, ed entrato per sapere se Concezione aveva saputo più nulla di Aroldo. Così, in via privata, da amici, ella poteva parlare con confidenza. Ma ella spalancò gli occhi e si sentì battere il cuore.
— Ma come, notizie? Se ho saputo che hanno arrestato Costante lo scemo, con l’accusa che abbia ammazzato e nascosto lui il forestiero?
— Questo non significa niente. Gli idioti sono sempre stati così, fin dalla creazione del mondo. Non era un idiota lo stesso Adamo? E se il signor Costante prova gusto a farsi credere un eroe, per piacere a lei, signorina, che ci vuol fare?
Ella scrollò la testa, seria: egli proseguì, abbassando la voce:
— Del resto non è lui solo il semplice, il visionario, qui intorno. Ce ne sono altri, creda: è un male che si comunica, nei luoghi solitari, dove tutto pare quieto e invece è un subbuglio peggio che nei centri abitati. Ebbene, c’è un altro suo adoratore, signorina, e in apparenza molto più in gamba dello scemo, uno che pretende di aver veduto il signorino Aroldo su nei boschi della montagna. Si aggira sparuto e lacero, come un animale inseguito, e dorme nelle grotte, e mangia quello che gli danno per elemosina i pastori di porci.
— Ma sono tutti pazzi? — ella gridò: e le parve che il mistero della malattia mentale accennata dal brigadiere, si comunicasse pure a lei; ma in fondo provò un senso di sollievo. Aroldo vivo! Fosse anche svanito di mente; lo prendessero pure, come una lepre, e lo portassero al manicomio; tutto andava meglio che s’egli fosse morto di mala morte e seppellito in terra non consacrata.
Il brigadiere sorrideva, con due solchi beati intorno alla bocca: e non si stancava di guardarla, di godersela quasi, così smarrita e trepida davanti a lui, contento di tormentarla e consolarla nello stesso tempo.
Contando con l’indice della mano destra le dita della mano sinistra, disse:
— Sì, tutti pazzi. Pazzi per colpa sua. Vuole che gliene conti cinque o sei?
E nominò i Giordano, lo scemo, Aroldo, il dottore, e, infine, scoppiando a ridere, il signor Calogero.
— Ma vada, ma vada, — dice Concezione, presa anche lei da una improvvisa allegria. — È un grande burlone, lei, e mi fa meraviglia che lo abbiano messo a quel posto.
Allora egli si sollevò, fiero, austero, sporgendo il petto che pareva imbottito; i suoi baffi si drizzarono, come quelli di un gatto arrabbiato. La sua voce gorgogliante parve quella di un torrente.
— Nessuno al mondo sa stare al suo posto come io al posto mio. E ringrazi il cielo, che lei sia stata a dirmi queste parole mentre io indosso questi panni. Capito?
Impaurita, ella chinò la testa, decisa a non più parlare con confidenza: non domandò scusa, e questo forse piacque al bravo uomo, sembrandogli che le avesse impartito una lezione di dignità. Il discorso però prese un altro tono: egli tornò ad essere l’inquisitore, e insisté s’ella veramente non avesse saputo nulla di Aroldo.
— Nulla.
— E sa chi ha messo in giro la voce che il signor Aroldo fa la vita del bandito?
— Non lo so.
— Posso dirglielo io: sono i signori Giordano. Lei non li ha più veduti?
— No.
Ella, veramente, avrebbe voluto insorgere; dire che i Giordano, se mai, avrebbero fatto meglio a occuparsi dei fatti loro e pensare al povero Serafino che se ne andava all’altro mondo; ma non aprì bocca, non sollevò gli occhi. Ed anche così piacque all’uomo, che tornò a volerle bene ed a provarne quasi pietà. Era sola, era assediata «come una cerbiatta nella sua tana»; egli avrebbe voluto difenderla, poiché questo era anche il suo dovere.
— Per conto mio non credo molto a quella diceria insulsa: quei Giordano, vecchi e giovani, sono gente di fantasia, e finiranno col buscarsi anche loro qualche guaio: ad ogni modo è bene tener conto di tutto: e se vengo qui a molestarla, signorina, è nel suo interesse. Bisogna che questa faccenda sia definita subito, nei riguardi di tutti. E lei deve mettersi di buona volontà a coadiuvare l’opera della giustizia; è anche un atto di buona coscienza.
Allora anche Concezione si commosse; era appunto quello che lei avrebbe voluto fare, ma nulla le risultava di positivo, e la buona coscienza le suggeriva di non esprimere inutili sospetti. Tuttavia disse che realmente Aroldo era stato molto innamorato di lei, che ella lo aveva respinto per ragioni sue personali, e che la notte prima della scomparsa di lui, lo aveva realmente e pietosamente coperto col drappo di Maria Giuseppa.
Poi arrossì, fece uno sforzo e disse del passaggio sotterraneo. Con sorpresa vide che il brigadiere rideva.
— Vecchie leggende, signorina. Fioriscono dappertutto, dove si trova una chiesetta campestre, una torre, una rovina. Qualche volta esistono davvero, questi passaggi sotterranei, ma nei veri castelli; qui, creda a me, non c’è nulla. I suoi riveriti antenati avevano bene a loro disposizione grotte e labirinti naturali, per non mettersi a raspare la terra. Ad ogni modo, sulla partenza dell’Aroldi per altri lidi, io ho i miei bravi dubbi; al momento della scomparsa egli non aveva che pochissimi denari, e se si fosse avviato a piedi a quest’ora lo si saprebbe. Io ritengo piuttosto... Mi dica tutta la verità: lei proprio non ha parlato con lui, sebbene ubbriaco, la sera prima della scomparsa?
Ella lo fissò, rapida, con occhi selvaggi: capiva; scrollò la testa, non rispose. Egli riprese.
— Per un momento ho creduto anch’io alla colpabilità dello scemo Alivia: tutto può essere possibile. E mi sono affannato a seguire le tracce di un semplice filo della coperta: ma, interrogato l’Alivia, mi sono quasi convinto che è stupidamente innocente: e la signora Maria Giuseppa ha trovato per lui, non uno ma cento alibi. Sebbene neppure con quella gente ci sia da fidarsi. Bisogna cercare un altra pista, ed io la fiuto già, e, volendo, scoverei subito, fra un quarto d’ora, il giovinotto. Non lo faccio per un riguardo a lei, sì, proprio a lei, Concezione.
Era la prima volta che egli la chiamava col solo suo nome, con accento quasi paterno; ella ebbe voglia di piangere, di baciargli la mano; si contentò di sorridergli, e questo fu per lui il miglior compenso.
— Ascolti, Concezione: qui non si tratta di delitto né di alcuna delle fantasie messe in giro dalla gente curiosa ed eccitata. Scovare con mezzi, dirò così, pubblici, il disgraziato giovinotto, sarebbe per questo paesetto, uno scandalo che ricadrebbe tutto a ridicolo scapito di noi che lo cerchiamo da tanto tempo, e a danno suo, signorina. Bisogna che l’Aroldi parta di nascosto, scriva dalla prima stazione che gli capita, e così tutto finisce tranquillamente. Ma una sola persona può persuaderlo a far questo: e lei sa chi è.
— Ma perché, ma come ha fatto a nascondersi per tanto tempo? Chi gli ha dato da mangiare? Mi dica, mi dica. — Egli la guardò fisso: e d’un tratto ella si morsicò la nocca dell’indice.
Aveva capito. E un impeto di gelosia le morse il cuore, come i suoi denti avevano morsicato il dito: poi si fece livida, di rabbia e quasi di vergogna. Vergogna per quel disgraziato, indegno di lei, vergogna per aver sofferto per lui, per aver tanto fantasticato, tanto inutilmente essersi abbassata e umiliata. E ora toccava a lei salvarlo? Oh, no; che egli si sprofondi nelle sue tenebre e nel suo fango, che egli vada all’inferno vivo e sano.
— Faccia pure lo scandalo, — disse al brigadiere, — io non mi muovo.
Egli la fissava, coi suoi occhi rotondi e lucenti come diamanti neri. Disse, lentamente:
— Quella notte l’Aroldi, smaltita la sbornia, scese al paese e andò in una casa. Là prese un coltello e si tagliò le vene dei polsi. Fu nascosto in un pagliaio, salvato a stento; aveva perduto quasi tutto il sangue. Adesso è ancora lì, ma tenta sempre di rifare la brutta faccenda. Bisogna salvarlo sul serio e farlo partire. Ha capito, adesso, Concezione?
Ella aveva capito: ma domandò tempo per decidersi.
— Torni domani sera, — disse: — mi lasci pensare: adesso sono troppo stordita.
~
O venuto per conto suo, o per suggerimento d’altri, il giorno dopo tornò il dottor flebotomo; aveva il pastrano, puzzante di benzina, tutto bene attillato e abbottonato, i guanti con le dita bucate, il bastoncino da zerbinotto: e un’aria furba nel viso di pera grinzosa e bacata. Anche gli occhi, insolitamente vivi, parevano messi a nuovo da una ripulitura di benzina. Concezione capì subito che anche lui sapeva il segreto di Aroldo; ma non volle stuzzicarlo, aspettando che egli parlasse da sé. E nell’offrirgli il caffè coi biscotti osservò che questa volta egli non aveva urgente bisogno di nutrirsi: doveva quindi aver già mangiato, in qualche posto, o ricevuto denari.
— Come s’è ringiovanito — ella disse, per lusingarlo e farlo parlare. — Che ha fatto? È innamorato?
— Se mai, questo è da molto tempo prima d’oggi. Sono stato sempre innamorato, fin dall’età di un anno.
— Della balia?
— Proprio della balia. Raccontava mia madre che avevo appena una settimana e già, quando la donna veniva, poiché non era fissa in casa, io ne sentivo il passo e aprivo la bocca come un uccellino. E quando crebbi, in verità, me ne innamorai proprio: era una bellissima donna, perbacco, bruna, alta, con certe trecce simili a quelle delle antiche damigelle che le lasciavano pendere dalla finestra perché l’amante vi si potesse arrampicare.
Concezione rise tanto che dovette piegarsi per smettere: e nell’atto si ricordò del suo male e s’irrigidì: che le importava, infine, di tutto questo? Del vecchio, dal quale aspettava notizie più precise di quelle che sapeva, e dello stesso Aroldo, ora che lo sapeva vivo e salvo?
Ma era il dottore stesso che voleva chiacchierare.
— Sono stato a visitare il povero Serafino. Non che ci sia andato di mia spontanea volontà, poiché io non uso cercare i malati; ma fatto chiamare da lui. È davvero in uno stato pietoso, ed ha pochi giorni di vita: il suo spirito è vivo, però, vivissimo, come una fiamma che sta per spegnersi e divampa più alta, pronta al volo nel nulla. Si direbbe che egli è felice: e lo è infatti, poiché sola cosa veramente bella, dopo l’amore, come dice un poeta, è la morte. Abbandonare il nostro corpo schifoso e volarsene fra le cose grandi, pure, eterne. Ecco. Io non credo nel così detto Iddio, ma, insomma, morire è rientrare nella gioia dell’universo. Serafino, dunque, si preoccupa della sorte di Costante Alivia; dice che è innocente, e che lo tengono al fresco, anzitutto perché lo scemo ci prova gusto, e poi per un certo lustro della polizia, che lo rimetterà in circolazione appena si avranno notizie dell’Aroldi. A questo scopo, Serafino dice che tu potresti giovare a tutti e mettere una buona volta fine a questa tragicommedia.
— Io?
— Tu, sì, cara. Nessuno meglio di te sa che quell’idiota è innocente.
— Lo sarà, ma come provarlo? Può farlo lei, dottore, meglio di me: lei che forse conosce dove si nasconde il signor Aroldi.
Il dottore mandò in aria il bastoncino, lo riprese, non rispose. Con voce seria, ella continuò:
— Però nessuno più di me desidera che tutte queste storie abbiano fine: voglio ritornare tranquilla; e vorrei che anche il povero Serafino se ne andasse tranquillo. Per lui, dunque, ed anche per sgravio di coscienza, sono disposta a fare quanto lui mi consiglierà.
Il dottore piegò la testa, appoggiò il mento al pomo del bastoncino.
— Senti, — disse, — io vado adesso a fare una piccola passeggiata: intanto ritornerà tua madre; poi verrò a prenderti e andremo assieme da Serafino.
— Non posso, fino a stanotte: aspetto prima una persona.
Così tutti erano d’accordo perché la «storia» finisse nel miglior modo possibile. E quando ripassò il brigadiere ella disse che era pronta a tutto, senza nascondergli che anche il povero Serafino desiderava vederla e darle qualche consiglio.
Egli parve contrariato, anzi un po’ geloso; ma si trattava di un moribondo, e diede il permesso di andarlo a visitare.
— Però lei deve promettermi, signorina, che non farà nulla, senza prima consultarmi. Troverò io il modo di farle avere un colloquio col signor Aroldi, e provvederò io alle spese per la partenza di lui: domani mattina sarò di nuovo qui.
Ella promise; e quando tornò il dottore si avvolse bene nello scialle e si allacciò forte le scarpe, quasi si trattasse di un lungo viaggio.
Era una notte tiepida e chiara; la luna piena sorgeva dai monti, grande e limpida e come nuova: al suo chiarore i boschi rilucevano di riflessi argentei, come una cascata pietrificata: anche la strada, davanti al dottore e a Concezione, pareva il letto asciutto di un torrente, col profilo del paese, in fondo, staccato sul cielo turchino, e con tanti fili di fumo, eguali, lucenti come canne d’organo: una vera notte da presepio, o da incantesimo, con l’odore umido dell’acanto e del lapazio, e qualche fiamma che si accendeva e si spegneva nelle lontananze azzurrognole della valle come quella dei fuochi fatui.
— E il braccio, dunque, non me lo dai? — disse il dottore, che era lui a stringersi a Concezione per paura d’inciampare. — Ti racconterò una storia. Una notte di luna, come questa, sono passato di qui con una donna: non era una passeggiata d’amore, no; figurati che fra me e lei avevamo circa un secolo d’età: ed io avevo trent’anni: fa il conto dunque. E andavamo, sì, ad un appuntamento: il figlio della donna era un latitante, un omicida, e moriva miserabilmente di carbonchio, in un nascondiglio sopra la vostra chiesetta, press’a poco fra le rocce dove è scomparso il signor Aroldo. Io avevo curato il malato, ma troppo tardi ero stato chiamato: adesso egli moriva, e non voleva il prete, non voleva che rivedere sua madre. Si arrivò al posto; la donna sedette accanto al figlio, per terra, e gli prese la mano. Non si dissero una parola; rimasero così circa un’ora, finché io dichiarai che era tempo di finirla. La vecchia si alzò; e vidi una cosa inaudita: il malato aveva ripreso un colore naturale; sedette, domandò da bere. Riaccompagnai la donna a casa sua ed ella neppure mi ringraziò. Il giorno dopo il malato, miracolosamente guarito, tornò su fra i cinghiali e le pietre; la vecchia fu trovata morta, per una misteriosa infezione al sangue. Capisci: con la sua volontà, con la sua potenza d’amore, ella aveva assorbito il veleno dal corpo del figlio; e lo aveva salvato.
Concezione rabbrividì: le parve che quella fosse una delle solite invenzioni del flebotomo, eppure rabbrividì. Se non esistessero di queste invenzioni, forse il mondo andrebbe ancora più male di quello che va.
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Serafino giaceva in un lettino che sembrava una culla: e lui un povero piccolo angelo di cera a cui avessero strappato le ali e si sciogliesse gradatamente in freddo sudore. Tutto intorno pesava un silenzio funebre; poiché la casetta dei Giordano aveva qualche cosa di misterioso, come un rifugio di gente che si vuol nascondere a tutti i costi: un muro quasi più alto della stessa abitazione, ricingeva il cortiletto sassoso, ed era tutto rivestito di erbe grasse e incoronato da un barbarico diadema di frammenti di vetro che al riflesso della luna sprizzavano ironiche scintille verdi rosse e gialle di pietre preziose: mentre la casetta, piccola e scura, con porticine, finestruole e sportelli non uno simile all’altro, sembrava una dimora di nani e folletti, anche a giudicarne da un fico contorto, dal quale cadevano le grandi foglie nere accompagnate da strani pigolii di uccelli fantastici. La figura della madre di Serafino rassomigliava a quella della madre di Concezione, ma con un aspetto tragico, del resto giustificato dallo stato doloroso del figlio: aveva accolto in perfetto silenzio i due visitatori, facendoli entrare non, come si usava, nella cucina ospitale, ma in un andito freddo e oscuro e di là su per una scaletta di pietra tutta a una rampata. L’uscio della camera di Serafino era aperto, e ne usciva un odore misto di chiesa e di farmacia: una piccola lampada ad olio, sul cassettone col ripiano di legno, illuminava un quadretto con una Madonna anch’essa notturna e quasi velata di nebbia; ma sopra, sulla parete bianca, un Crocefisso di metallo dorato brillava come una spada.
Concezione si avvicinò quasi di slancio al lettino bianco, e vide i grandi occhi di Serafino spalancarsi simili a quelli di un fanciullo che si sveglia da un sogno: il suo viso di alabastro giallognolo pareva illuminato dalla luna; era una luce interna, che si colorì d’una lieve tinta azzurra, quando il malato riconobbe Concezione; ma la bocca era amara, e le labbra tumefatte pareva serbassero il sapore e il colore nero del sangue vomitato. Senza voce, scuotendo qua e la sul guanciale la testa come per liberarsi da un involucro molesto, fece a Concezione cenno di sedere. Ella sedette; e si accorse che li avevano lasciati soli.
— Sono venuta, — disse senz’altro, per non affaticarlo, — per sapere che cosa devo fare.
E si piegò su lui, come parlando in confessione. Ma con sua meraviglia la voce di Serafino risonò alta: una voce ch’ella però non gli conosceva, come venisse di lontano, da una profondità di burrone.
— Ascolta: c’è un uomo, un cristiano, che ha corso il più grave pericolo che una creatura di Dio possa correre: quello di perdere l’anima. Tu devi salvarlo; il pericolo è sempre grave.
— Lo so: egli ha tentato di uccidersi.
— Sì, ma questo non basta ancora: la donna, che lo nascose, più che per pietà per non aver noie con la giustizia; che lo ha coperto di paglia come la neve perché non si sciolga; che ha chiamato e pagato il flebotomo per curarlo e salvarlo, adesso pretende da lui una ricompensa adeguata. Vuole che partano assieme, che emigrino come gli uccelli, ma senza sposarsi; poiché ella vuole la sua libertà, pur tenendo nel pugno quella del disgraziato: e questo, Concezione, è il pericolo maggiore. Bisogna che egli parta solo, che fugga solo. Un primo passo è fatto: egli è qui, adesso, in casa mia; bisogna che tu lo veda.
Ella piegava la testa, avvilita: aveva paura di veder Aroldo: e ora che lo sapeva vivo, salvo, le pareva di non provare più passione per lui.
— Ma perché non lasciarli andar via assieme? Finiranno con lo sposarsi, come tanti altri, che prima sono stati amici...
— Tu non sai, figlia mia. Hai tu pure commesso qualche errore, ma non conosci la vita. Aroldo questa sera è potuto uscire inosservato dalla sua tana, perché la donna s’intratteneva con un altro uomo. Donne così non si possono sposare, da un uomo che deve salvarsi l’anima. E poi, fosse egli innamorato di lei: l’amore, purifica tutto. Ma egli pensa ad un’altra; e per quest’altra solamente ha commesso tante pazzie.
— Ma neppure io posso sposarlo.
— Io non ti dico di sposarlo: ti dico di farlo partire. Tu sola puoi rianimare il suo coraggio, salvarlo dalla disperazione.
Ella si torceva le mani, disperata più di Aroldo: infine si decise, poiché bisognava pur finirla e bere fino in fondo il calice amaro.
— Gli dirò tutto: gli dirò che un male terribile mi separa da lui e da tutto il resto del mondo.
— I mali e i beni stanno in mano di Dio, — riprese Serafino; ma adesso la voce si era abbassata, come una fiamma che si spegne. — Anche io ho un male terribile, eppure sono contento, poiché è una prova che Dio ha voluto mandarmi sulla terra. Adesso sto per entrare nel suo Regno, e sono contento. Così sarà di te, se farai il tuo dovere, se spargerai il bene intorno a te. Adesso si tratta di salvare un’anima. Va.
Ella si alzò: la sua ombra coprì il letto, attraverso il corpo di Serafino: ed egli sollevò le braccia, le abbandonò sull’ombra e parve accarezzarla.
— Sono proprio contento, — sussurrò; e chiuse gli occhi; adesso che aveva compiuto l’ultima opera buona, aveva l’impressione di potersi addormentare come un viandante stanco, sull’erba, all’ombra di un albero.
Concezione uscì in punta di piedi, scese a tastoni la scaletta: le pareva di sognare, di camminare tra fantasmi. E invero sembra pure lui un fantasma, l’uomo seduto davanti al fuoco della fumosa cucina. Ella lo riconobbe dal vestito grigio, lo stesso che egli indossava nei giorni che andava a visitarla, ma logoro, largo, floscio, come fosse stato anch’esso malato. Una sciarpa dello stesso colore avvolgeva il collo di Aroldo; collo diventato sottile come quello di un uccello pelato; e dello stesso colore era anche il viso scarno, con gli occhi fissi e stanchi; ma quando ella gli posò una mano sulla spalla, egli parve svegliarsi da un triste sogno: le mani gli tremarono, gli occhi ripresero luce, sebbene luce di lagrime.
E la madre di Serafino, e il flebotomo, che, seduto accanto alla tavola beveva di tanto in tanto da un boccale pieno di vino, sparirono di nuovo, in silenzio. Concezione sedette accanto al forestiero.
Forestiero, sì, le sembrava, come la prima volta che lo aveva veduto; non più l’Aroldo che ella sognava quell’estate, in un delirio di amore; la passione della sua carne era caduta, come cadevano le foglie; e a vederlo così smorto e invecchiato, lungo e fragile come una canna, ne sentiva quasi una ripugnanza fisica: ma il cuore le batteva egualmente, di un sentimento simile alla tenerezza destata da una musica lontana, vaga, inafferrabile, che fa piangere di tristezza e assieme di gioia: e che si vorrebbe precisare, sentirne bene il significato, e non si può, come non si possono prendere gli uccelli a volo. Le tornarono in mente le donne povere che venivano alla sua casetta per chiedere l’elemosina e scaldarsi al fuoco del suo camino e della sua pietà: anche Aroldo era diventato un bisognoso, più bisognoso di quelle; ed ella sentiva la gioia di potergli fare un po’ di bene: dopo averlo spogliato e martoriato, è vero, ma non per colpa sua.
— Aroldo, — disse subito, — devo domandarti perdono di quanto ti è accaduto. Credi, la colpa non è mia: e quando ti avrò detto la verità, vedrai che la colpa maggiore è stata appunto quella di non avertela detta subito. Ti dissi che ero malata, ma non di che male. È un male che, come la lebbra, come la tisi, è finora inguaribile; e, dicono, si trasmette ai figli. Peggio di ogni altro ostacolo, dunque, per chi ha coscienza, separa quelli che si amano. Quando ti ho conosciuto, non sapevo di averlo: ecco perché, dopo, mi sono comportata con te come una donna capricciosa e volubile. C’è una specie di vergogna a parlare di certi mali, a mostrare le intime piaghe del corpo: io ho avuto questa vergogna, dimenticandomi che Gesù fece delle sue piaghe le lampade che illuminano il mondo più del sole e le stelle. Ecco tutto.
Aroldo si piegò: coi gomiti sulle ginocchia e il viso fra le mani parve un bambino che volesse nascondersi: ma Concezione si accorse che egli piangeva. Lo lasciò sfogare, perché sapeva che le lagrime sono il farmaco più efficace per un grave dolore. Lo sapeva, sebbene a lei non riuscisse mai di piangere. E grave era il dolore dell’uomo, anch’esso inesprimibile a parole; rassomigliava a quella musica che Concezione sentiva salirle dal cuore, come dalle profondità delle valli, nei giorni del suo primo amore, aveva sentito la voce stessa della vita risonare nel mormorio dell’acqua, delle erbe, del vento: ma il pianto dell’uomo era una musica, ancora più profonda e potente delle musiche e delle canzoni d’amore: era la voce del mare in tempesta, che ingoia i pescatori poveri e innocenti; quella del fulmine che spacca gli alberi puri; quella dei bambini violati e uccisi da mostri umani; quella dei mali che Dio manda agli uomini per far loro gustare, in ultimo, come un premio inestimabile, il sonno della morte: era la voce del dolore.
Poi il giovane tentò di ribellarsi; si sollevò, anche lui vergognoso del suo pianto, e disse con voce rauca:
— Guarirai, Concezione. Si troverà qualche rimedio. Se hai fede, guarirai. Ricordati quella predica di Serafino, nella chiesetta...
— Il fanciullo è guarito, sì, perché Gesù lo ha voluto. Ma anche lui, poi, è morto, il fanciullo: da quasi duemila anni è morto, eppure è ancora vivo e gioca accanto a noi. E anche noi guariremo, Aroldo, con la volontà di Dio, dopo la nostra morte. E adesso, senti, bisogna appunto parlare della vita eterna. Tu, Aroldo, sei più malato di me; è la tua anima, che è malata; e bisogna salvarla. Tu devi andartene da questo paese, ma solo, senza più rivedere quella donna. C’è chi ti aiuterà a fuggire. E di me puoi stare tranquillo, perché io penserò sempre a te. Come ad un fratello, — aggiunse, per non riprendere la via delle illusioni.
— Perché devo fuggire? Da quella donna non tornerò più, ne puoi stare certa, né lei verrà a portarmi via sulle sue spalle. Del resto, tu puoi averlo bene immaginato: io andavo da lei per farti oltraggio e dispetto: il più grave dispetto che io potessi farti. Se fossi andato per amore non avrei fatto quello che ho fatto. E lei ne profittava, perché nel cuore ha per te l’odio di Caino: e anche lei non ne ha colpa.
— Nessuno ha colpa dei proprî mali; ma è meglio evitare le tentazioni.
Egli si batté un pugno sul ginocchio e riprese, alzando la voce:
— No, non me ne vado. Perché ho commesso una debolezza devo essere sempre debole? S’impara più dai propri errori che dalle proprie virtù.
— Il brigadiere...
— Io me ne infischio, del brigadiere. La cattiva figura l’ha fatta lui, ed io non ci posso niente. Che ha da rimproverarmi? Sono stato malato: adesso sto meglio: domani tornerò a presentarmi all’impresario e, se mi vuole, riprenderò il lavoro. E se no, cercherò altrove; tornerò a fare l’arrotino, se occorre, e penserò a mia madre come fosse ancora viva e ancora dovessi aiutarla; e questo, sì, davvero, mi salverà dalle tentazioni.
— Anche Serafino desidera che tu te ne vada.
— No — egli grida; poi torna a piegarsi, come spaventato dalla sua voce. — Perché devo andarmene? Quella donna non esce mai di casa sua, ma venisse anche a cercarmi per le strade saprei metterla a posto. Io le sono riconoscente di quanto ha fatto per me, e se ella un giorno avesse bisogno la aiuterei anch’io; ma come da buoni cristiani e null’altro. Ma ti giuro, Concezione, ti giuro sulla memoria di mia madre, io non tornerò più in casa sua con scopi disonesti. E neppure in casa tua verrò più: te lo prometto: a meno che tu non mi richiami. Poiché...
— Poiché? — ella domandò, di nuovo inquieta e triste.
— Ascolta, Concezione. Ti devo dire tutto. Il dottore mi curava, dunque, di nascosto. È abile, a queste cure segrete, perché, lo dice lui stesso, ci è abituato. Diceva: ecco però che cosa mi tocca di fare: io che cavavo sangue, devo cercare di rimetterne nelle tue vene di scimunito. Bisognerebbe fare una trasfusione di sangue, ed io sarei capace anche di questo, meglio che quegli asini dell’ospedale; ma dove trovare il cristiano che ti dia il suo sangue? Si potrebbe provare con quello di una pecora; ma già tanto pecora lo sei. Allora quella donna offrì il suo; bisogna riconoscerlo: è generosa, quando occorre, generosa come un brigante. Anche queste sono parole del dottore. Ma io non accettai. Anzi avevo voglia di ricominciare, di finirla; e se non ritentai la prova di morire, fu però, credi, per riconoscenza verso la mia ospite, perché non volevo crearle noie con la polizia; e anche seppellirmi di nascosto non poteva. Ma di muovermi non mi riusciva, perché ero debole da non reggermi in piedi, ed ella vigilava la mia prigione. Pensavo: ci sarà tempo; e appena potrò me ne andrò in qualche luogo solitario, dove possano trovare la mia carcassa spolpata dagli avvoltoi. Ma veniva il dottore e mi faceva sorbire per forza certi suoi intrugli che mi rinsanguavano; credo mi facesse bere sangue di bue appena scannato; e mi faceva mangiare tanto fegato crudo e tante uova che mai più in vita mia tornerò ad assaggiare fegato e uova. La cura migliore la sapeva lui, però: e quando la donna ci lasciava soli, egli mi parlava di te. Stavamo al buio, perché egli veniva di sera, e solo un po’ di chiarore scendeva da un abbaino del pagliaio. Io non capivo perché la donna, che non possedeva né cavalli né buoi, tenesse un pagliaio: me lo spiegò appunto il dottore: ella lo aveva messo su per nascondere, qualche tempo prima, un suo amico latitante: e tanto bene lo fece, che anche quella volta l’uomo riuscì a star lì in sicurezza tutto un inverno: poi si stufò, e anche lui preferì scappare e nascondersi all’aria libera della montagna. Il dottore, dunque, mi portava tue notizie; mi raccontava che tu pensavi sempre a me, che mi volevi bene, che ti consumavi per me.
— Che ne sapeva, lui, il vecchio pasticcione? — ella protestò: ma arrossì, poiché quella era la verità.
— Lo sapeva, lo sapeva. Certe cose non si possono nascondere; e dove c’è fumo c’è fuoco. A me sembrava di fare un sogno: e, del resto, nel dormiveglia continuo in cui la debolezza mi gettava, sognavo sempre di te. Ma era piuttosto come un’allucinazione. Venivi, ti sedevi sulla paglia, accanto a me, e non parlavi; ma mi guardavi, e i tuoi occhi erano così luminosi che il pagliaio sembrava rischiarato dal sole. Io, che avevo sempre freddo, mi scaldavo. E così, piano piano, per questa magìa più che per altro, non ho più pensato a morire. Adesso...
— Adesso?...
— Le cose si sono capovolte. Adesso sei tu che dici di essere malata, o almeno di aver paura di ammalarti gravemente. Speriamo che così non sia: Dio può fare miracoli, ed io pregherò giorno e notte per te. E se vuoi essere lasciata da me tranquilla lo sarai. Ma se tu, che Dio non voglia, dovessi ammalarti davvero, e vorrai chiamarmi, sarò ai tuoi piedi come un cane; e ti guarderò come tu mi guardavi nel sogno; sono certo che la luce dei miei occhi ti farà guarire.
Ella sorrise, col suo sorriso bianco e triste.
— Sono fisime del dottore, Aroldo: egli racconta bene le sue fole. Ma la vita non è una fola.
— Eppure, — disse Aroldo, imitando il sorriso di lei, — se il nonno Giordano pensasse che noi due siamo qui, seduti al suo focolare, crederebbe anche lui di sognare.
— E correrebbe giù con un bastone, per mandarci via a furia di botte. Meglio dunque andarcene presto di nostra buona volontà. Prima io, poi tu. Ma insisto prima nel desiderio comune: devi andare lontano: anche Serafino è disposto a provvedere al tuo viaggio, finché non hai trovato lavoro.
Egli volse il viso verso di lei: ed era un viso livido e duro, che ella non gli aveva mai veduto.
— Ecco che tu mi offendi, Concezione; tutti, mi offendete. Ed è giusto, perdio: ho fatto quello che solo gli uomini vili possono fare. Ma forse ho fatto anche bene: il mio sangue si è cambiato. Il dottore dice che qui da voi i bambini, e anche qualche adulto, mordono il fegato ancora caldo e fumante della bestia appena squartata, per diventare coraggiosi. E mi ha nutrito di fegato crudo e di sangue di bestia: quindi sono diventato un po’ forte pure io: forse un po’ bestia anch’io, ma forte e coraggioso, anzi selvatico. E non accetto l’elemosina di nessuno. Da domani ricomincio a lavorare: spaccherò le pietre, soffrirò la fame, dormirò per terra. Ma l’esser povero non vuol dire essere miserabile. Accattone non sarò mai. Mai. Mai.
Le sue parole cadevano lente, miti, ma ferme, inesorabili: e Concezione, in fondo, ne era contenta e orgogliosa: sentiva che il ragazzo d’ieri s’era fatto uomo, come un soldatino che è stato alla guerra, e adesso aveva preso davvero qualche cosa della razza di lei: tenace nell’odio e nel male, ma anche nell’amore e nel bene.
— E allora salutiamoci: e che Dio ci accompagni.
Si alzò; non gli tese neppure la mano: ed egli non si mosse.
~
La luna si era alzata sul cielo chiarissimo: sarebbe parsa una notte di estate, senza i rami già spennacchiati degli alberi e il suono del torrente sul fianco del monte.
Davanti al cancelletto aperto, Concezione notò che doveva essere venuto qualcuno, durante la sua assenza, ma non s’inquietò.
— Dev’essere quella matta di comare Maria Giuseppa. Essa viaggia anche di notte, come le streghe.
— O come le fate, — disse il flebotomo. — Chissà quanta roba buona ha portato. Dì un po’ Concezione, non mi inviteresti a cena, per caso?
— Si figuri! Ma lei non avrà paura a tornarsene solo?
— Sono da meno di una donna io? Eppoi l’arma ce l’ho anch’io: ho la lancetta per cavar sangue, e se l’altro giorno un ciabattino ha potuto uccidere un ladro con la lesina, posso anch’io difendermi dai miei nemici. Ma lasciamo adesso le storie tristi: che buon odore esce dalla tua cucina!
Piegata sul focolare, la vecchia infatti arrostiva allo spiedo una salsiccia grassa e odorosa: altre salsiccie fresche, stavano sulla tavola, e circondata da quei rosei e bruni serpenti innocui, si ergeva una Madonnina di gesso, di quelle che vendono i merciai ambulanti. Sì, si capiva benissimo che c’era stata comare Maria Giuseppa Alivia.
— Non è scesa neppure di cavallo, porgendomi solo un involto coi salumi e questa statua, che teneva in arcioni come un bambino. Dice di aver avuto notizie che domani mattina Costante sarà scarcerato, ed essa è venuta a prenderlo. È andata via spronando il cavallo come alla corsa dei barberi.
— Purché domani il suo leggiadro nipote non cerchi di ammazzare davvero il suo rivale: questi però potrà dirgli: tu ammazzi un uomo morto.
— Non tanto, — fu per protestare Concezione, ma lasciò correre.
Il flebotomo era allegro in modo insolito; sembrava persino ringiovanito. Gli pareva di essere il personaggio centrale della vicenda finita, almeno per il momento, con sollievo di tutti. Non s’illudeva che il giorno dopo la vita sarebbe ricominciata lo stesso, con piccole e grandi tribolazioni per chi è ancora vivo e alle prese col prossimo; la vita è un’avventura che finisce solo con la morte; ma intanto egli, dopo anni d’ingiustizia, di abbandono e di miseria, aveva ancora goduto un poco del l’antico prestigio, dell’intrugliarsi in un avvenimento non ordinario, di aver in qualche modo cooperato al bene dei suoi fedeli clienti.
Chiuse la porta, s’avvicinò alla tavola, fiutò le salsiccie e sollevò la statuetta che, sebbene alta quasi mezzo metro, vuota dentro, era leggera come una bambola. Poi sedette accanto al fuoco, tentando di calmare la curiosità di Giustina raccontandole solo una parte dell’avventura di Aroldo.
— Quella notte, col dormire all’aperto, col caldo della sbornia che ci aveva addosso, s’è buscato una pleurite ostinata e lunga: s’è rifugiato, ancora brillo, da Maria Pasqua, e a lei non è parso vero di sequestrarlo e tenerlo prigioniero, con la speranza di far poi di lui quello che le piaceva. Bisogna compatirla: è anche lei una creatura infelice e squilibrata: sola, in questo schifoso mondaccio, perseguitata nella sua tana come una volpe immonda. E non dico che della volpe non abbia gli istinti: ma anche lei discende da certa gente; con la differenza che non è stata proprio colpa sua ad esserlo.
Questa volta, perché la madre non venisse oltre mortificata, Concezione credette bene d’intervenire.
— Lasciamola stare: adesso tutto è finito.
Intanto apparecchiava la tavola: poi portò la statuetta in chiesa. Solo il chiarore della lampadina illuminava il luogo triste e freddo; ma Concezione, inginocchiata sul nudo pavimento, ricordava le parole di Aroldo: «i tuoi occhi, nel buio, erano luminosi, tanto che il pagliaio pareva rischiarato dal sole».
Ed ecco che adesso le parevano tali; di una luce inestinguibile, che le saliva dall’anima; che neppure quando li avrebbe chiusi per sempre, si sarebbe spenta.
fine