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va per me un avvenire felice. Sì, e feci prima l’arrotino, morta lei, con un impresario, anche allora; un cieco, che possedeva solo la macchina d’arrotare, e mi accompagnava, e controllava il lavoro come neppure nella nuova città, laggiù, lo controllerà il nostro ingegnere. Si andava da un paese all’altro, e specialmente d’estate, il lavoro c’era. Falci, forbici, scuri; e coltelli per le donne che fanno la pasta in casa e tagliano i salami a fette fini, per i ragazzi. Ci scappava qualche fetta anche per noi, con un po’ di polenta, nelle aie benedette. La gente è buona lassù, ma verso le risaie è anche povera; c’era allora molta miseria. Si dormiva dove ci si trovava; ed è in quel tempo che ho imparato a cacciare le bisce, e far la pelle dura per le zanzare. Poi, una volta, siamo capitati in un paese dove si era incendiata una casa: il padrone voleva ricostruirla subito, intanto che il tempo era buono, e racimolava tutti gli operai disponibili del luogo.

Ma quasi tutti erano occupati perché si costruiva una diga: e così ebbi la proposta di fare da manovale. Il padrone della casa incendiata e il mio impresario mi disputarono: io ero stanco della vita randagia, e delle angherie dell’arrotino, che spesso mi lasciava senza mangiare; poi avvenne una cosa strana: la padrona della casa aveva co-