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Adesso se ne tornava a casa, tutta avvolta e imbacuccata in un lungo scialle nero, che rendeva più sottile la sua persona alta, e più scuro il suo profilo di beduina; rasentò il muro del giardino dell’ospedale, poi il muro più basso di un orto piantato quasi tutto a cavoli con il grosso fiore lunare, e sboccò subito in una strada campestre, sfossata e pietrosa, che andava verso i monti vicini. Tutto le sembrava diverso del come lo aveva lasciato; e lei stessa era diversa, vuota e, le pareva, con un odore di morte nelle vesti; odore che non l’avrebbe lasciata mai più.

Eppure si sentiva contenta; di camminare, di respirare, di aver fame, di voler bene a sua madre, alla sua casa, persino al gatto: gioia di vivere.

In quei giorni aveva piovuto abbondantemente, dopo una lunga siccità. La terra era nera, così che in certi punti sembrava cosparsa di fondi di caffè; ma dai lati della strada, fra i due ciglioni che scendevano in chine lente alle valli del Birchi e del Capro, due fiumiciattoli adesso appena ingrossati dai torrenti ravvivati dalle ultime piogge, vi risaltavano meglio i massi di granito quasi argentei, picchiettati di scintille nere, che affioravano come scogli fra l’erba umida lunga e scura simile alle alghe. Tutto d’altronde ave-