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seppellirmi di nascosto non poteva. Ma di muovermi non mi riusciva, perché ero debole da non reggermi in piedi, ed ella vigilava la mia prigione. Pensavo: ci sarà tempo; e appena potrò me ne andrò in qualche luogo solitario, dove possano trovare la mia carcassa spolpata dagli avvoltoi. Ma veniva il dottore e mi faceva sorbire per forza certi suoi intrugli che mi rinsanguavano; credo mi facesse bere sangue di bue appena scannato; e mi faceva mangiare tanto fegato crudo e tante uova che mai più in vita mia tornerò ad assaggiare fegato e uova. La cura migliore la sapeva lui, però: e quando la donna ci lasciava soli, egli mi parlava di te. Stavamo al buio, perché egli veniva di sera, e solo un po’ di chiarore scendeva da un abbaino del pagliaio. Io non capivo perché la donna, che non possedeva né cavalli né buoi, tenesse un pagliaio: me lo spiegò appunto il dottore: ella lo aveva messo su per nascondere, qualche tempo prima, un suo amico latitante: e tanto bene lo fece, che anche quella volta l’uomo riuscì a star lì in sicurezza tutto un inverno: poi si stufò, e anche lui preferì scappare e nascondersi all’aria libera della montagna. Il dottore, dunque, mi portava tue notizie; mi raccontava che tu pensavi