Senio
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SENIO
ROMANZO
quinta edizione
MILANO, 1893
libreria editrice galli di c. chiesa e f. guindani
LIPSIA - F. A. Brockhaus; NAPOLI - E. Anfossi
LONDRA | BERLINO | VIENNA |
David Nutt, 270, Strand | A. Asher e C. | F. A. Brockhaus |
13, Unter den Linden
PARIGI, Veuve J. BOYVEAU, 22, Rue de la Banque
diritti di traduzione riservati.
— Grazie.
Pronunciando questa parola a fior di labbro, coi denti stretti, la signora attraversò il vagone che lo sconosciuto aveva sbarazzato dalle valigie per farle posto e andò a sedere nell’angolo di destra, abbassando quasi subito il lungo e fitto velo di lutto che le scendeva dal cappello; non prima però che un rapido sguardo investigatore s’incontrasse con lo sguardo del suo compagno di viaggio, il quale era un giovinotto sui ventisei anni, aitante della persona e bello in volto. Un po’ massiccie, un po’ quadrate, le sue spalle nascondevano il difetto di origine nella grazia giovanile dell’età e nel vestire elegante e severo. Se certi piccoli segni all’attaccatura delle mani, del collo, delle orecchie tradivano in lui l’atavismo volgare, se la sua fisionomia mancava di ciò che propriamente caratterizza la razza, c’era in compenso tanta regolarità artistica ne’ suoi lineamenti ed aveva una fronte così intelligente che nessuno poteva non dirlo bellissimo e simpatico. I suoi occhi chiari e freddi avevano la trasparenza di uno zaffiro di tinta pallida, più celeste che azzurra. Sotto i capelli e la breve morbidissima barba che s’indovinavano di tipo biondo, ma tendenti ad abbrunirsi, la pelle solida e sana spiccava coll’attrattiva inimitabile di un temperamento perfettamente equilibrato. L’insieme della fisionomia non aveva una caratteristica speciale, ma era dolce e severa al tempo stesso e sopratutto calma.
Nè questa calma si smentì per lo sguardo scambiato con la signora, benchè fosse uno dei più profondi sguardi che possano correre fra due sconosciuti: uno di quegli sguardi che sembrano dare le rivelazioni dell’anima nello scatto improvviso di due simpatie. Ma appunto all’istante dell’urto, la signora abbassò il velo e si compose quietamente nel suo cantuccio, coi piedi giunti e posati sul calorifero, le mani abbandonate in grembo, una dentro al manicotto, l’altra stretta con una linea di squisita eleganza nel piccolo guanto di pelle svedese. Nello stesso momento gli occhi del viaggiatore si staccavano da lei naturalmente, conservando la loro limpidezza fredda di pietra preziosa.
Passarono cinque minuti nell’attesa di nuovi viaggiatori che non vennero. Allora l’impiegato della ferrovia chiuse lo sportello, la macchina fischiò, il treno si mosse.
L’immane mostro di ferro e di fuoco correva con una velocità massima attraverso l’appennino ligure; la corsa era tanto rapida che sotto i suoi piedi roventi la neve non si squagliava neppure. La gran massa infuocata passava sopra una strada di ghiaccio, fra due pareti di ghiaccio, sotto un cielo da cui la neve cadeva fitta fitta, picchiettando l’aria di puntine gelate. Dalla campagna deserta nessun grido rispondeva al sibilo della locomotiva; sui fianchi della montagna i sentieri divenuti impraticabili, erano visibili appena come cicatrici di antiche ferite; la Scrivia, precipitando fra i nudi sassi, faceva echeggiare nel silenzio della valle il suo muggito di belva eccitata.
In conseguenza di un uragano scatenatosi il giorno prima, la ridente catena dei Giovi si era trasformata in un paesaggio nordico di austera bellezza. L’azzurro, il verde, il roseo dei fabbricati, questi tre colori che danno la nota festosa alla regione ligure, erano scomparsi sotto una strato uniforme di bianco: le case tutte chiuse, le stazioni spopolate, come accade ne’ paesi non avvezzi a un improvviso rigore di clima, contribuivano ad accrescere l’alta poesia del paesaggio, che una luce uniforme, pur essa bianca, sembrava avvolgere in una cristallizzazione.
Quella natura morta, riposante nella sua pace di cadavere sotto il lenzuolo della neve, formava un contrasto violento colla attività e col calore del treno spinto da una forza che dominava gli elementi, attraverso tutti gli ostacoli, verso una meta sicura.
Il giovane viaggiatore, nell’angolo del vagone opposto a quello della sua compagna, si interessava vivamente a questo contrasto di due potenze, prendendosi la sua parte di vittoria. Egli entrava allora nella vita per la porta maggiore della bellezza, della salute, dell’intelligenza; aveva tutto il diritto di schierarsi dalla parte dei trionfatori.
Apparteneva ad una famiglia di contadini, che a furia di energia e di lavoro s’era tolta dalla infima condizione nativa per collocarsi a fianco della borghesia.
Suo nonno vangava e zappava in maniche di camicia, coi piedi scalzi, le mani incallite nei più duri lavori. Suo padre, già un po’ dirozzato, portava stivali e, sapendo leggere e scrivere correttamente, teneva un’azienda abbastanza importante. — Bellissimo uomo, aveva sposato una fanciulla di condizione superiore alla sua, una dolce creatura che aveva dato al figlio i suoi occhi celesti. Padre e madre erano morti mentre egli era ancora fanciullo; ma Senio ricordava il profilo severo del padre, il suo piglio risoluto di lavoratore e d’uomo d’azione, rigido, inflessibile, testardo; di quella testardaggine inveterata dei contadini che può essere tanto un elemento di forza, quanto di danno, a seconda dei casi. Egli si era piegato molte volte alla dispotica autorità paterna, ma piegandosi ne aveva pure assorbito i germi e fatta sua la immensa forza, la facoltà di resistere a tutta oltranza. Questa rudezza campagnuola, questo sapore di agresto, che la terra sembra comunicare a’ suoi lavoratori, gli erano rimasti nel sangue.
Dal lato materno Senio aveva un lungo ordine di antenati burocratici, gente ordinata, positiva, fredda, dove l'immaginazione non aveva mai fatto presa, e se nel quadro de’ suoi parenti la figura della madre delineavasi più gentile, era però una figura evanescente, concentrata tutta nella sua gloria domestica e nella poesia d’una fine immatura.
Ma quali avessero potuto essere le influenze dirette de’ suoi genitori, Senio non aveva avuto il tempo di subirle. Orfano, a dieci anni era stato messo in collegio e per la necessità delle cose costretto a procurarsi da sè la propria esperienza, la quale non fu per allora nè dura, nè incresciosa, poiché egli era dotato di tutto quanto occorre per farsi amare. Il suo ingegno vigoroso gli rendeva facile lo studio: la buona salute lo conservava ilare sempre, pronto ai giuochi ed alle lotte coi compagni; il suo bel volto attirava le simpatie, la sua forza lo faceva rispettato, il suo carattere, sempre eguale, non gli creava nemici.
Fin dalle prime classi egli si era conquistata l’ammirazione dei condiscepoli che dicevano di lui: Senio riesce in tutto ciò che vuole.
Riusciva infatti nelle cose più disparate nella matematica e nel ballo, nelle lingue e nella scherma, così agile d’ingegno come di muscoli; albero possente che cresceva nelle migliori condizioni di semente e di terreno. Il suo stesso aspetto un po’ rude, francamente popolare, gli giovava, allontanando da lui l’apparenza di una superiorità troppo visibile, di quella delicatezza raffinata che indica l’aristocratico e che, se ispira qualche simpatia, suscita del pari molte invidie.
Egli era veramente il figlio dei campi. Nelle sue vene scorreva un sangue rimasto puro nelle aspre lotte del lavoro, e nel quale non s’era mischiata nessuna corruzione, nè la nevrosi avrebbe saputo annidarsi.
Guardava in faccia l’avvenire con la baldanza di un giovane atleta, fidente nelle proprie forze. La vita gli serbava un tesoro di godimenti, di misteri, di scoperte, un campo infinito di ricerche e di sorprese: spinti dalla curiosità, sensi e pensiero erano in lui pronti all'attacco, felici nella stessa aspettativa, con la deliziosa trepidazione di veltri che fiutano la caccia.
La parola dolore non chiudeva per Senio alcun significato positivo. Non aveva mai sofferto ed era ben deciso a non soffrir mai. Che cosa avrebbe potuto prendere su di lui un tale impero? La morte de’ suoi genitori era troppo remota, perchè egli avesse ancora a rammaricarsene, e non soffriva della mancanza di una famiglia, perchè l'anima sua non era portata al sentimentalismo degli affetti; per tutto ciò poi che era cura materiale e per dargli la soddisfazione di mostrare ai compagni che una famiglia l’aveva, c’era Corinna. Corinna, la sua vecchia sorella, che gli preparava per l'inverno delle buone calze di lana a righe rosse e nere e delle cravatte fantastiche, ritagliate in ogni genere di stoffa: orléans, piquet, lévantine, surah, tibet: accompagnate da lettere interminabili dove la scienza e la filosofia si fondevano in un attaccamento da cieco per il suo cane.
È certo che Senio non si era mai soffermato a riflettere che se Corinna avesse preteso la sua quota della modesta sostanza paterna, non gli sarebbe rimasto tanto da mantenersi in collegio. Ma, poiché ella aveva fatta la volontaria rinuncia, era giusto che egli ne godesse.
D’altra parte Corinna con la sua faccia di uomo mal sbarbato, col suo corpo angoloso, quantunque avesse appena quarant’anni, gli era sempre apparsa come una creatura senza sesso e senza età, per cui nessuna legge naturale esistesse fuorchè quella di adorare l’unico fratello. Il fanciullo che succhia avidamente il seno materno pensa forse a quante sofferenze hanno preparato quel latte? Il selvaggio che strappa i rami agli alberi, le ova ai nidi, e alla volpe i volpicini per ripararsi e per nutrirsi, si preoccupa forse della sottile rete d’amore che ha infranto? Senio era un fanciullo ed un selvaggio. Nello sviluppo potente di tutte le sue facoltà, un istinto ingenuamente egoistico faceva sì che egli le dirigesse ad un unico scopo — Vivere! — e vivere, naturalmente, voleva dire cercare la felicità.
Ma non aveva neppur bisogno di affaticarsi per ciò; non era essa alla portata della sua mano sotto tutte le forme? Egli secondava un istinto elevato, poichè la cercava anzitutto nelle soddisfazioni della mente, e questo bastava alla sua coscienza. Certamente non avrebbe commesso lo sbaglio di fondare la felicità nell’amore di una donna. Le donne entravano poco nella sua vita e nulla affatto ne’ suoi pensieri. Certi brevi periodi che i suoi amici, parodiando un motto celebre, chiamavano il quarto d’ora di Senio, era tutto quanto egli concedeva al sesso inferiore. Sotto questo aspetto più che mai era degno discendente de’ suoi avi.
E neanche allora, nella vicinanza obbligatoria della breve carrozza, nella lunga solitudine attraverso la neve, Senio era più disposto del solito ad occuparsi sentimentalmente della leggiadra incognita.
Leggiadra era e giovane. Questo egli aveva visto al primo colpo d’occhio; anzi, in quel primo colpo d’occhio, lo aveva sorpreso uno sguardo subitamente acceso, quasi la rivelazione di una luce non mai vista in altre pupille, e simile a certi bagliori che scaturiscono improvvisamente da una nuvola squarciata e che i due lembi, subito riunendosi, nascondono nello stesso istante. Il velo nero che la signora aveva abbassato era stato la nuvola di quel raggio; ma come Senio non sarebbe andato in cielo a separare la nuvola, così non fece nulla per vedere rialzato il velo.
Egli era tutto intento al magnifico panorama dell'Appennino e al treno che correva sulle due rotaie scintillanti. Non era questa una bella similitudine del suo avvenire? Andar sempre avanti e senza ostacoli!
La parte migliore del suo essere, l’intelligenza, provava una acuta voluttà a pensare quante cose sa vincere l’uomo. Il primo uomo che inforcando un cavallo avrà gridato ben alto e ben forte la sua vittoria sugli animali, non sapeva ancora che di vittoria in vittoria la razza orgogliosa sarebbe giunta a trionfare del ferro e del macigno, dell’acqua e del fuoco.
Ma perchè tale gioia, fino ad un certo punto puerile, prendeva Senio in quell’ora? Non aveva mai viaggiato? Al contrario; tornava da un lungo viaggio all’estero, ebbro di tutte le belle cose vedute, delle cognizioni acquistate; ma appunto in confronto agli altri viaggi questo, che lo riconduceva in patria, gli sembrava una presa di possesso, un’entrata trionfale ne’ suoi futuri dominî; questo veramente lo persuadeva di essere giunto alla meta.
Vent’anni della sua vita erano già trascorsi, il primo periodo, il più inconcludente. Ora cominciava la vera vita, che gli avrebbe data la misura delle sue forze mettendolo a fronte con gli uomini e col destino.
Tutti i suoi ideali stavano per prendere corpo e movenze, gli venivano incontro, gli tendevano le braccia quasi invitandolo, chiamandolo, sorridendogli con un sorriso che non aveva ancora precisione di forma, nè portata sicura d’espressione. Ma questa indeterminatezza delle gioie che lo aspettavano, questo fluttuare indeciso del desiderio prossimo alla meta e tuttora ignoto, quest’ultimo velo trasparente e virgineo, questo era appunto il gran fascino.
Quando aveva preso la sua laurea di legge, portato in trionfo dalla scolaresca ed accolto da Corinna con un verso latino che gli profetizzava la gloria futura, egli aveva avuta la prima idea di questo viaggio. Come trattenere nella piccola casa, nel piccolo paese e neppure in una metropoli, l'irrompente vitalità che lo trascinava? Altri mondi, altri cieli, altra gente chiedeva l’anima sua avida di conoscere tutto, di assorbire nuove forze.
Le difficoltà pecuniari, che avrebbero potuto mettere un ostacolo al viaggio, furono subito vinte da Corinna, senza che egli dubitasse neppure di dovere il suo piacere a molti piccoli sacrifici. Ella li compiva così serenamente. La sua onesta faccia mal riuscita era la sola che, tornandogli alla memoria, avesse potuto interessare Senio durante l’assenza — interessarlo con quella continuità di pensiero, non formulato ma vagante, che è propria dei placidi e sicuri affetti. Egli sapeva che avrebbe trovato sempre, in qualunque tempo, in qualsiasi circostanza, la rozza mano di sua sorella tesa per lui, il suo gran cuore pronto a riceverlo. Ed era un’altra gioia aggiunta alla sua vita. Mettendo piede sul primo vagone italiano aveva mormorato tra sè, due volte, con molta dolcezza: Cara, cara Corinna!
Nessuno si sarebbe immaginato, all’udirlo, che l’espressione amorosa uscita dai labbri di quel bellissimo giovane fosse rivolta ad una povera zitellona quarantenne.
Insieme a Corinna, un’altra persona occupava il cuore di Senio; e se per poco i suoi entusiasmi davanti all’Appennino nevoso si assopivano, era per far posto alle due immagini delle persone che egli amava: sua sorella e l’amico Stefano.
Compagni fino dai primi banchi del ginnasio, essi presentavano un esempio perfetto dell’unione dei dissimili, Stefano discendeva da una famiglia di artisti; aveva la tempra sensibile che si acquista negli amori coll'ideale e serpeggia in certe generazioni col fremito di una corda che vibra ancora quando la musica è cessata: sono le famiglie che danno successivamente un pittore, un poeta, un missionario, una donna che muore d’amore o che si fa monaca.
Stefano era bello in un modo tutto diverso da Senio; propriamente parlando non era bello; la statura troppo alta, le spalle strette, la carnagione olivastra, un non so che di incompleto, di squilibrato. Pure i grandi occhi neri che scintillavano in quel volto assorbivano così bene l’attenzione che nulla più si vedeva del resto e piaceva.
Senio si era affezionato a lui in una circostanza cavalleresca, difendendolo da tre o quattro monelli che lo avevano assalito approfittando della sua timidezza. Erano allora due fanciulli; ma Senio, quantunque più giovane, robustissimo, ardito, ridendo della facile vittoria; e Stefano commosso, riconoscente fino alle lagrime.
Da quel giorno non si lasciarono più. L’amore dello studio li univa definitivamente, rivali onesti e schietti, fatti più intimi dalle lotte comuni, dalle sconfitte divise, dalle leali vittorie cui non si mesceva ombra d’invidia. Nobili d’animo entrambi, con un blasone egualmente ricco d’intelligenza, proseguivano fianco a fianco nello splendido sentiero della giovinezza.
I successi tuttavia non erano pari. Senio più bello, più robusto, più largo di mente, più duttile a qualsiasi insegnamento, più tetragono agli urti, sembrava precedere il compagno; e questa superiorità che per un’anima bassa sarebbe stata sorgente di odio, era nuova fonte di amore per Stefano, che ritrovava nell’amico il maestro.
Stefano poi, sensibilissimo, bisognoso d’affetti, si dava senza chiedere; si profondeva per il bisogno che hanno certe anime di riempire le anime altrui, di fecondare, di alimentare, così come i fiumi che scorrono portando a traverso immense regioni il germe delle loro forze vitali, dandosi al prato, alla sponda, al campo, alla valle; dandosi pure all’arida sabbia che tutto riceve e nulla rimanda.
Gli ideali dei due amici erano affatto opposti. L’obbiettivo di Stefano si limitava alla casa, alla famiglia, al dovere; quello di Senio affermavasi con minor precisione. Guardava il mondo senza sgomentarsi della sua ampiezza, senza sentire il desiderio carezzevole di un nido. «Sei più forte di me — diceva Stefano — io capisco che solo non potrei vivere.»
E Senio sorrideva sdegnosamente, sembrandogli così bello l’esser solo, solo contro tutti, al di sopra di tutti!
Non era stato senza una certa pietà di uomo superiore che egli aveva visto Stefano abbandonarsi a un vero e profondo amore per una fanciulla e sposarla appena terminati gli studi, appena avuto il posto di medico condotto in uno di quei paeselli dell'Appennino ligure, dove egli andava appunto ora a sorprenderlo, dopo un anno di lontananza, rubando un paio di giorni all’aspettativa di sua sorella.
In fin de’ conti, se Stefano trovava la sua felicità nell’essere marito e padre, nessuno aveva il diritto di contestargliela.
La felicità — pensava Senio — è una cosa che ci riguarda così intimamente ed esclusivamente che neppure un padre può dire a suo figlio: «Tu sarai felice in tale piuttosto che in tal altro modo.» Nessuno può darci la felicità tranne noi stessi; siamo i soli interessati in ciò. Chi meglio di noi può sapere quello che ci occorre?
E se egli, Senio, non aveva bisogno di nessuno; se non cercava nessuno, perchè avrebbe impedito a Stefano di seguire la propria inclinazione? Non vi sono in questo mondo i soldati, i preti, i frati, i poeti, gli astronomi e quelli che fabbricano dei bastimenti coi noccioli delle pesche?
A questo punto de’ suoi pensieri Senio si risovvenne della compagna di viaggio, e la guardò.
Non aveva cambiato di positura; sempre i due piedini giunti, posati sul calorifero, sempre le due manine abbandonate in grembo con una posa stanca, come di persona che soggiaccia al destino.
E quale destino gravava su di lei che appariva tanto giovine e tanto vezzosa sotto il suo velo da lutto?
Era mai possibile che fosse un lutto eterno a venticinque o ventisei anni al più?
Gli balenò per un istante la tentazione di rivolgerle la parola: chiederle il permesso di aprire un vetro, di abbassare una cortina, qualche cosa di simile... Ma a quale scopo? Oramai il viaggio era presso al termine. Avevano passato tre ore chiusi in pochi metri di spazio, respirando la stessa aria, vedendo lo stesso paesaggio, ascoltando i medesimi suoni, balzando insieme ad ogni scossa del treno, fermandosi, correndo, rabbrividendo nello stessa punto, per la sensazione identica, con un battito simultaneo dei cuori; così vicini eppure tanto lontani.
Senio convenne che anche questa volta, come tutte le altre, il partito più saggio era di godere serenamente la vista di una donna leggiadra, osservandola col sentimento obbiettivo che ci fa guardare un bel quadro o un bel paese.
È simpatica — concluse — ed avendo in quel momento cavato fuori l'orologio, si avvide che ben poco doveva mancare alla fermata, per cui incominciò lentamente i suoi preparativi; ritirare la valigetta dalla reticella, abbottonare il soprabito, mettere un guanto che era stato tolto ed avviare tutto il corpo a quei movimenti di sollievo, che accompagnano il levarsi in piedi di ogni persona giovine dopo una lunga seduta.
Quando il treno si fermò, la stazione apparve dalla parte opposta a quella di Senio. Egli dovette, per uscire, attraversare il vagone e passar davanti alla sua vicina, come già ella era passata davanti a lui entrando. Nell'inevitabile attrito si impigliò leggermente col vestito dell'incognita, fu obbligato a fermarsi un secondo; si scusò, si scusarono, ed ancora i loro occhi parvero cercare con uno sguardo intenso qualche cosa che doveva rispondere ad una misteriosa sensazione comune.
Ma il treno ripartì quasi subito. Senio stava allora presentando il suo biglietto all'impiegato e non se ne accorse neppure.
La piccola stazione, appena si fu aperta al viaggiatore che la attraversò frettolosamente, subito si richiuse con uno strepito di catenacci, con un rincasare rapido dei due o tre facchini inferraiolati fin sopra le orecchie. E nulla più apparve di abitato, di umano, di accessibile.
Il nevischio fischiava portato da un vento di tramontana, che riempiva l'aria di puntine ghiacciate. Nessuna porta, nessuna finestra aperta; ritirate le insegne delle botteghe, sospeso qualunque veicolo; le vie ingombre dalla neve caduta di fresco, alta, soffice, dentro cui si affondava a mezza gamba.
Ogni linea del paese era alterata; il campanile appariva più grosso, le case sembravano schiacciate sotto l’ampio mantello bianco; tutte le macchie, i rilievi erano spariti; smussati gli angoli, riempiti i vani, esagerate le proporzioni. E in mezzo a quel candore uniforme, l'uniforme silenzio di un paese disabitato. Nemmeno un cane, nè un mulo, nulla e nessuno; non un’ombra, non un suono. Bianco il cielo, bianca la terra, bianchi i muri come se la morte passando repentina sopra il paese lo avesse tutto ravvolto nel suo lenzuolo.
Soffocato, acciecato dalla neve, Senio si fermò ad un bivio, che gli presentava due strade egualmente impraticabili, egualmente mute. Davanti a lui, sul davanzale di una povera finestrella, un vaso di gerani dimenticato sembrava rabbrividire alla insolita bufera. Egli non era uomo da fantasticare sopra tali argomenti, ma senza ascendere a nebulosità sentimentali, il semplice aspetto di quella pianticella delicata esposta ai vento ed alla neve, sola cosa viva, solo essere che soffrisse forse nella nudità dell’abbandono, attirò per un istante la sua attenzione.
— Curioso paese! — esclamò poi, quasi subito, mentre due o tre faldine di neve gli entravano in bocca; per cui invece di esprimere ad alta voce i suoi pensieri, continuò dentro di sè: — Dove sarà la casa di Stefano? In quale morbida poltrona il sibarita sarà sdraiato intanto che io mi gelo in mezzo alla via più inospitale del mondo?
Nè tali riflessioni valevano a smorzare la gaia fiamma giovanile che gli ardeva in petto; anzi sorrideva più che mai all'idea dell'improvvisata che stava per fare al suo amico in una giornata simile, e vagheggiava di trarlo fuori all'aperto sfidandolo ad una battaglia di palle di neve, alla quale si sarebbe forse unita la giovane sposina. Sessant’anni divisi in tre erano ben fatti per affrontare qualsiasi gelo.
Tuttavia, dove troverebbe la casa dell'amico? L’idea di dar fiato a una tromba, di battere un tamburo o di suonare una campana gli sarebbe parsa la più semplice, data la possibilità di avere uno di tali strumenti a sua disposizione.
Intanto si era inoltrato a casaccio per una delle due vie, pensando che, alla fin dei conti, egli poteva credersi il re del paese. Il freddo che lo aveva sorpreso al primo momento, non lo molestava più; il vento lo divertiva; la neve gli sembrava buffa; la solitudine originale: — Come voglio ridere con Stefano! — esclamò ancora a voce alta, ingoiando un altro bioccolo di neve.
Qualche cosa si avanzava verso di lui, un uomo, evidentemente, quantunque la parte inferiore del corpo fosse sprofondata nella neve e la superiore coperta da un sacco che gli faceva le veci di cappello e di mantello, per cui nulla si scorgeva. Egli camminava, stretto nelle spalle, col capo basso, soffiandosi nelle mani.
— Amico, di grazia, fermatevi un momento.
La massa informe si fermò di mala voglia.
— Potreste dirmi dove abita il dottor Stefano Mordini?
— In fondo, a destra, l’ultima casa.
Una folata di vento portò via il ringraziamento di Senio, ma egli sapeva oramai da qual parte dirigersi.
In fondo alla via, a destra, una porticina dipinta di verde portava sopra una placca d’ottone, accanto al campanello, il nome del suo amico. Egli suonò subito, con impazienza, promuovendo un tintinnio baldanzoso che echeggiò di stanza in stanza; e siccome allo schiudersi della porta riconobbe l'alta figura di Stefano, balzò dentro a passo tragicomico, come usavano sempre nella loro cameretta da studente, mormorando in tuono di basso:
— Nous sommes conspirateurs... teurs!... teurs!
Sollevò poi il capo, sbarazzandosi del cappello, coll'occhio animato, il sorriso sul labbro, pronte le braccia all’amplesso; ma fece un passo indietro, colpito, meravigliato della faccia spettrale che gli stava davanti.
Era veramente Stefano l’uomo che egli vedeva pallido, emaciato, con delle rughe sulla fronte, l'occhio impietrito, quasi gli fossero piombati addosso dieci anni in una volta? Ritto sulla porta, che non si curava nemmeno di chiudere, il vento lo investiva per modo che i suoi capelli sembravano rizzarglisi intorno alla fronte, accrescendo la strana e penosa espressione della sua fisionomia.
— Stefano? — fece Senio.
Stefano chiuse la porta, strinse forte la mano dell'amico e senza parlare s’avviò per uno stretto corridoio al suo studio, dove entrò e dove Senio lo seguì sempre in silenzio.
— Ah! Senio — esclamò finalmente il giovane medico, lasciandosi cadere di peso sopra una sedia e nascondendosi il volto nelle mani.
Senio pure sedette senza aspettare l’invito. Egli si trovava per la prima volta in vita sua davanti al dolore e l'impressione gli riusciva oltre ogni dire penosa. Balzato improvvisamente dai suoi gai pensieri ad una tristezza di cui ignorava la causa, non gli riusciva di pronunciare una parola. Guardava l’amico come avrebbe guardato un essere d’un’altra specie, con maggior curiosità che compassione.
Passarono alcuni istanti d’ineffabile angoscia.
— Non sai nulla? — disse ancora Stefano.
— Nulla.
Su questa negativa Senio si alzò e andò a prendere la mano dell’amico, togliendogliela a forza dalia fronte. Scoperto così, il volto di Stefano fu invaso da un rapido rossore, al quale tenne dietro uno scoppio di lacrime. I due amici si abbracciarono.
La debolezza di Stefano non durò più oltre. Il suo maschio volto si ricompose, l'occhio divenne asciutto, la sua voce ferma.
— Sono solo! — esclamò.
— Tua moglie? —
— ......
— Malata?
— ......
— Morta?
— Non ho più moglie. Ella mi ha abbandonato.
Nessuna esclamazione, nessun gesto accompagnò queste parole. Senio se le sentì piombare nell'animo col tonfo grave di una pietra gettata in fondo ad un pozzo.
Ecco dunque come si faceva a soffrire. Quel giovane che egli conosceva pieno di vita e di entusiasmi, che aveva amato, che era stato amato, che sulle basi di un affetto profondo aveva fabbricato la sua casa, la sua felicità, tutto un avvenire sereno e dignitoso, gli stava ora davanti a guisa d’albero fulminato; ritto, ma senza fronde, senza rami, bruciato fino al midollo. Come avrebbe potuto vivere ancora? Non era mostruoso che un uomo potesse essere ingannato, tradito così? Un uomo come Stefano! l’onore, la lealtà stessa!
Invece di compassione per l’amico, una rabbia sorda si faceva strada nel cuore di Senio, rabbia contro l’occulto nemico, il dolore, che tiranneggia il mondo. Tutto il suo orgoglio si ribellava, la sua fibra potente di lavoratore si tendeva quasi nell’atto di slanciarsi contro l’ostacolo che oggi avea colpito Stefano, che domani avrebbe potuto colpire lui stesso.
E dire che una donna aveva diretto il colpo! Il debole che atterrava il forte. Ciò era più mostruoso che mai. Egli, quale rappresentante del sesso, si sentiva insultato dalla offesa fatta ad un altro uomo; egli sentiva di odiarla quella creatura seducente ed abbietta che si era fatta giuoco della più alta dignità umana. Il suo orrore pei vincoli femminili non poteva trovare una giustificazione più evidente. Lo scetticismo, salendo, si imponeva al criterio di Senio il quale si persuadeva sempre più essere l’amore un fomite di distruzione, una breccia aperta nella fortezza della sovranità virile, una inutile zavorra che bisogna gettare per salire più alto e più presto. Ma che fare intanto? Che cosa dire a quell'uomo che non doveva trovarsi in istato di ragionare? Fu Stefano che di nuovo ruppe il silenzio.
— Ci siamo ingannati — disse con la sua voca calda, un po’ velata.
— Ella ti ha ingannato! — esclamò Senio mettendo nella espressione del volto tutto lo sprezzo che gli ribolliva dentro.
— No — riprese Stefano con grande nobiltà — l'inganno fu reciproco. Quando la conobbi, quando l’amai per il suo sorriso infantile, per i grandi occhi di gazzella, ella non mi disse: «sono al di sopra di qualsiasi seduzione:» mi sorrise e mi guardò; non altro. Certo mi amava allora.
Senio fece un movimento con le labbra.
— So quello che vorresti dire — continuò Stefano. — Dovevo studiarla, conoscerla meglio... ed è per questo che ripeto: la colpa non è tutta sua. Oh! io l'amavo tanto!
Questa discolpa, questa ricerca della causa vera, lungi dall’appagare Senio lo irritava sempre più. — Stolido amore! — pensò.
Dopo un breve silenzio, Stefano che sentiva, parlando, alleviargli la pena, riprese:
— Tu lo sai, nevvero, come rimasi avvinto? Fu una sera di est ate, sotto il pergolato di tuberose nere, l’umile fiore dal profumo dolce che più d’ogni altro mi dava l’idea dell’amore come lo sognavo io. Ella ne staccò un ramoscello e me l’offerse chiedendomi: Vi piace? Perchè, in certi momenti, diamo noi tanta importanza alle più piccole parole?...
Tacque, improvvisamente, coprendosi ancora il volto con le mani; per cui Senio sentì una vampa di rossore salire al proprio volto, e non potendo più contenersi balzò in piedi e si diede a percorrere la stanza a passi concitati.
— Ti disturbo? Ti annoio? Dimmelo, parto subito.
— Resta.
In quel momento si udì all'uscio di strada un picchio leggero di mano che non arrivava all’altezza del campanello. Stefano corse fuori a testa nuda, in mezzo al vento, introducendo un ragazzetto di dodici anni circa, che si pose a gridare:
— Venga, venga subito, mio padre muore!
— Aspettami — disse Stefano staccando da un attaccapanni il cappello ed il cappotto.
— Come? Vai?...
— È il mio dovere. Aspettami.
Il suo sguardo era pieno di malinconia e la sua voce d’affetto. Senio lo vide uscire dalla porticina frettoloso, sui passi del fanciullo.
Una servetta dalla faccia attonita accorse chiedendo se il padrone fosse uscito. Senio rispose di sì.
— E lei è un suo amico? — chiese ancora la servetta.
— Sì, sono suo amico.
— Oh, non lo abbandoni!
La ragazza giunse le mani in atto di preghiera. Appariva sbigottita, meravigliata di quanto era occorso in quella casa e forse aveva una gran voglia di parlarne, ma aspettava di essere interrogata. Siccome però Senio se ne stava immobile, guardando la porta da cui era uscito l'amico, ella lo invitò a passare nel salottino, dove avrebbe acceso un po’ di fuoco. Senio si accorse allora di essere quasi gelato e la seguì volentieri.
— Questo era il salottino della signora — disse la servetta spalancando un uscio a cristalli; e, non potendo più trattenere il bisogno di uno sfogo, si pose a piangere.
Senio la lasciò sfogare in silenzio, sentendo benissimo che se avesse pronunciata una sola parola le confidenze sarebbero scoppiate senza ritegno. Con le mani in tasca, il colletto rialzato, battendo leggermente i piedi per il gran freddo, si pose ad esaminare i quadri del salottino; acquarelli graziosi fatti da Stefano, qualche paesaggio, delle fotografie aggruppate; e dei ricami sparsi, dei piccoli oggetti femminili qua e là.
Un tavolino di lavoro attrasse la sua attenzione; aveva il cassetto aperto e si vedevano dei gomitoli di lana rosa accanto a un ditalino d’argento.
— C’è ancora qui tutto tale e quale, come lo ha lasciato la signora. Questo è il ditale, queste le forbici, stava qui tutto il giorno e quando il padrone...
— Non dovevi accendere il fuoco? — interruppe Senio.
La ragazza balbettò una scusa ed uscì in cerca della legna.
Senio prese in mano il piccolo ditale, lo guardò minutamente, voltandolo da ogni parte, facendosi sempre più pensieroso. Lo aveva appena collocato al suo posto quando tornò Stefano.
— E così? — gli domandò Senio — il tuo ammalato?
— Sta meglio.
Senio osservò, che, pur cercando di padroneggiarsi, il suo povero amico soffriva più in quella stanza che altrove.
— Torniamo nel tuo studio?
— No, tu hai freddo... In questi paesi non si è abituati al rigore delle stagioni, e quando capita, nessuno vi è preparato. Scusami... non ho più testa per nulla...
La tristezza dell’abbandono circondava Stefano da ogni lato, usciva dai muri stessi della casa; sembrava essere quella, quella sola che formasse l'ambiente così gelido e inospitale. Per fortuna, la servetta venne ad accendere il fuoco senza che i due amici vi ponessero mente; ella sparse ancora qualche lagrima, gettò una o due occhiate a Senio per raccomandargli tacitamente il suo padrone e finalmente uscì chiudendosi dietro la vetrata.
Allora Stefano parlò, parlò a lungo. Disse come aveva vissuto fino all'ultimo nell'illusione di essere amato, come ella aveva saputo dissimulare, chi sa, forse soffrendo; lottando certamente.
— Perchè, vedi, — soggiunse cedendo alla foga generosa del suo animo — ella non era cattiva; quando credette di amarmi non conosceva nulla dell’amore, e quante volte avviene così! Cresciuta lontana dal mondo, nel rigore assoluto d’una famiglia ignorante, io fui il primo uomo ch’ella potè avvicinare, il primo che la guardò negli occhi e che le strinse la mano. Mi sembrava così bello allora tutto ciò. Una vergine pura, mia e solamente mia... È un errore, è un errore!
Egli parlava a intervalli, disordinatamente. Senio lo lasciava dire, giudicando che fosse meglio per lui, poiché preferiva considerare l’accaduto non come un tradimento, ma come una comune sventura, che si infervorasse in tale ragionamento trovandovi almeno un momentaneo sollievo.
— Come accadde, vuoi sapere, eh? — soggiunse Stefano dopo qualche istante di silenzio. — La verità è che non ne so nulla. Quest’estate venne in paese un giovane signore forestiero. Passava tutti i giorni davanti alla nostra casa; io non ebbi mai occasione di parlargli, non potevo pensare...
Si fermò col respiro affannoso. Aveva fidato troppo nelle proprie forze, ed ora il dolore lo vinceva strozzandogli le parole in gola.
— E che cosa intendi di fare adesso? — domandò Senio tentando una lieve diversione.
— Fra me e lei tutto è finito.
Come se questa dichiarazione pronunciata a voce alta gli avesse infuso un nuovo coraggio, Stefano si alzò. Coll'occhio fisso davanti a sè, le labbra strette, sembrava cercare la sua via lontano, al di là di quelle quattro pareti dove la grande illusione della sua giovinezza era stata assassinata.
— Fra me e il mondo vi sono ancora dei legami, poiché sono uomo fra gli uomini. Sento che devo vivere.
Nel grande occhio nero si accese d’improvviso l’ardore della battaglia. Egli puntò l’indice risoluto davanti a sè, ancora verso l’ignoto, ancora verso il futuro.
— Sì, vivere. E il primo dei nostri doveri.
Senio lo guardava ammirato e dubbioso. Non era quella una esaltazione prodotta dallo stesso dolore? Aveva egli una coscienza esatta della sua sventura o non si illudeva piuttosto, come si era illuso la prima volta, come devono fatalmente illudersi queste povere creature dal cuore sensibile e impetuoso? Credeva egli dunque ancora? Poteva credere? A che cosa? A chi? A sè stesso forse?
Un sorriso sardonico passò sulle labbra di Senio ed una impressione profonda, dolce e disgustosa ad un tempo, che poteva sembrare pietà, lo scosse finalmente, ma fu cosa di breve durata. Il bisogno di togliersi a quella tristezza si faceva strada in mezzo ad ogni altro sentimento. Egli provava un formicolío nelle gambe; il freddo gli era penetrato fin dentro le ossa. Guardando nel caminetto la fiamma recentemente accesa, e che non scaldava ancora, pensò per forza a quell'altra fiamma che era scomparsa, che non si riaccenderebbe più.
— Addio, — disse, balzando in piedi.
— Come, te ne vai?
— Sì.
— Parti oggi stesso?
— Corinna mi aspetta.
Non era vero. Egli se ne andava perchè soffriva.
— Non c’è nessuna corsa fino alle sette, puoi fermarti.
— Ho un affare in paese.
— Vuoi pranzare con me?
— Sono indisposto, non pranzo.
Anche Stefano si alzò. In piedi tutti e due provarono un momento di imbarazzo che poteva sembrare identico, quantunque avesse cause diametralmente opposte.
— Sicchè addio.
Il volto pallido di Stefano, così grave, così mesto, così nobilmente e dignitosamente addolorato, doveva restare impresso per molto tempo nell’animo di Senio. Egli sentiva fin d’allora che sfuggendo a un dolore, portava con sè il germe di un’altra sofferenza; ma lungi dal ritrarne coraggio per il presente, quel futuro malessere gli intorbidiva la schietta espansione dell’amicizia.
— Mi scriverai?... — mormorò debolmente.
— Sì, sì — disse Stefano a fior di labbro.
Attraversarono il piccolo corridoio; Stefano aperse la porticina dipinta di verde. Non avevano più parole nè Timo nè l’altro. Si strinsero la mano in silenzio, con molta forza. All’ultimo istante si abbracciarono.
Senio fuggì, piena la mente della visione di Stefano ritto in mezzo alla porticina, coi capelli sollevati dal vento, la fronte alta, gli occhi ardenti di lacrime represse.
Fatti pochi passi si voltò indietro. Egli era sempre là. Si salutarono allora attraverso il vento, attraverso la neve, con l’espansione dell’antico affetto. — A rivederci! — gridarono insieme. La via che voltava li separò.
Realmente il treno non partiva che alle sette; erano le cinque. Il tempo non cambiava affatto, neve e freddo, con raffiche impetuose che sollevavano turbini di ghiacciuoli.
Senio cercò poco meno che a tastoni un alberghetto, una misera osteria, dove potè ottenere a stento del pesce fritto e delle uova. Era una cameraccia bassa, affumicata, tutta piena di operai e di facchini che vi avevano cercato un rifugio contro la bufera. Secondo l’abitudine dei paesi caldi non si trovava in essa nessun mezzo di riscaldamento; la sola cosa che si avesse potuto fare era stata di chiudere usci e finestre.
Tutti quegli uomini bevevano e fumavano: qualcuno giocava alle carte, parlando in quel loro dialetto indiavolato, di cui un forestiero non capisce una parola; qualche altro, buttato sopra una panca, dormicchiava. Ammorbava l’aria un tanfo di petrolio e di tabacco, di corpi poco puliti, di giacche passate in mezzo alle esalazioni del sego e dell’acido solforico, attraversato tratto tratto, quando si apriva l'uscio dell’attigua cucina, da un odore acre di olio bruciato.
Senio mangiò in fretta, preoccupato, malcontento, nervoso; poi si fece dare un sigaro, l’accese ed usci. Ma che fare fuori? Il paesuccio era immerso nelle tenebre, le vie impraticabili.
Ripassò davanti alla casa di Stefano e sentì una stretta al cuore. Allungò il passo, gettò il sigaro, ne accese un altro, avviandosi lentamente verso la stazione della ferrovia.
Mancavano ancora tre quarti d’ora alla partenza. Gli sportelli erano chiusi; chiusa la sala d’aspetto; dietro i vetri della sua stanzetta si vedeva il Capo-stazione occupato a telegrafare.
— Se il signore vuol restar servito — disse l’inserviente presentandosi a Senio — le posso aprire la sala d’aspetto.
Nessun altro aspettava fuor che lui. Entrò, e l’inserviente dietro, gettandosi entrambi sopra una meschina stufa di ghisa appena tiepida.
— È orribile questa giornata. Pensare che siamo quasi in marzo! Per fortuna non ne abbiamo molte di simili. Si può dire che da otto o dieci anni non si vide un uragano come quello d’oggi.
— Siete del paese?
— Sì, signore.
— Piccolo paese, nevvero?
— Piccolo apparentemente; ha molte frazioni, molte dipendenze. Lo sa il nostro medico condotto quando gli tocca attraversare di notte queste colline... È una vita da cani anche la sua, ma tanto fa del bene.
Senio si sentì stringere il cuore. Disse:
— Ha molti meriti dunque?
— Un uomo come ce ne dovrebbero essere mille, eppure la sventura ha visitato anche lui... Tutti dobbiamo patire a questo mondo: è destino.
Dopo queste parole, dette in senso misterioso, l'inserviente si allontanò chiamato dai suoi doveri.
Senio rimase, aspettando il fischio del treno, sentendosi addosso come un peso enorme la lunghezza di quella giornata; uggiosa, fredda, triste giornata che sembrava avergli portato via qualche cosa della sua giovinezza e della sua forza.
Corinna aveva un metro e settantacinque di statura, un corpo quadrato, angoloso, dall’ossatura forte, che sembrava tagliato coll'accetta, e una faccia irregolare, sparsa di peli non abbastanza folti per darle l’originalità di donna barbuta, ma pur sufficienti per togliere alle sue guancie qualsiasi attrattiva femminile. Le mancavano poi della femminilità due affermazioni caratteristiche: la mano ed il seno. L’insieme della sua corporatura mostravasi più adatto a rivestire una corazza che ad accogliere i vezzi della donna, e la mano nerboruta allontanava l’idea delle carezze per sostituirvi il concetto di una forza virile, a cui rispondeva perfettamente l’espressione del volto.
Senio aveva preso qualche cosa della dolcezza materna, e dai parenti di sua madre una certa placidezza borghese, una tendenza all’ordine riconosciuto e costituito; ma Corinna era selvaggia dalla testa ai piedi, una selvaggia intelligente e istruita, che metteva al servizio delle nuove idee acquistate il sangue vigoroso della sua razza. Ella insorgeva prepotente contro i pregiudizi, senza esitazioni, senza pudori, senza preoccupazione di quel che ne direbbe la gente, fidandosi sempre nel suo criterio, non ascoltando altri eccitamenti che quelli del cuore.
Cresciuta sola, si era educata da sè. Ignorava quasi tutte le regole della creanza e non se ne curava; teneva la forchetta con la destra, rompeva le nocciuole coi denti, le noci con le mani; interrompeva le persone quando parlavano per dire la propria opinione e non c’era verso che, sbadigliando, volesse mettersi la mano sulla bocca. La sua presenza in società creava sempre qualche guaio: un vassoio rovesciato, uno strascico strappato; alla meno peggio qualcuno ch’ella dimenticava di salutare o che scambiava per un altro.
Per compenso aveva letto una quantità di opere teologiche, filosofiche e chirurgiche: erano la sua passione. Conosceva il francese, spiccicava un po’ il latino, e per lo meno i nomi e le opere dei principali scienziati li conosceva tutti. Con un disprezzo profondo dell'arte e della poesia — roba da fanulloni, ella diceva — dedicava tutto l’ardore della sua fantasia, che non era poco, agli studi positivi.
Amava Spencer, Darwin, Nordau, Schopenhauer, questa donna dalle dita callose che risciacquava da sè la propria pentola e rispondeva «bestia,» nei momenti di collera, alla piccola servetta incaricata di aiutarla.
Ignara di qualsiasi freno, aveva sempre fatto quello che aveva voluto e con una professione scandalosa di ateismo era riboccante di sentimento religioso.
Voleva bene a tutti fuorché a sé stessa. S’interessava ad ogni miseria, ad ogni dolore. Compativa, perdonava; dalle sue labbra non usciva mai una parola di maldicenza. Strapazzava volentieri i suoi dipendenti per un certo spirito irrefrenato di perfezione, ma li beneficava con eguale ardore. Non andava alla messa, ma lavorava dall’alba fin oltre il tramonto per amore de’ suoi simili.
Al fratello si era dedicata tutta, compietamente, prima di sapere se ella stessa non avesse diritto a qualche cosa. Non conosceva nemmeno di essere brutta; non si era guardata mai, non si era interrogata, non gliene importava nulla.
— Meglio — aveva detto una volta scoprendosi sul volto tutti quei peli lunghi e corti — non verrà a nessuno la voglia di baciarmi.
Ed aveva riso sonoramente, sembrandole di essere più fortunata delle altre donne, più libera, sciolta affatto da impegni personali che le avrebbero impedito l’esercizio del bene, come piaceva a lei, dell’amore come lo intendeva lei, per tutti.
Era infatti la donna più felice del mondo. Forte, gaia, attiva, la sua unica gioia le veniva dalla gioia altrui; ed ella faceva in modo che questa fonte di bene non inaridisse mai. Commossa dalle ingiustizie che vi sono nella natura e nella vita, invece di dolersene infruttuosamente, godeva a ripararle più che fosse possibile. Ingegno eminentemente pratico, anima umana nel più nobile significato, niente era doloroso per lei, poiché il dolore non la arrestava un solo istante, poiché al di sopra del dolore l’ardore della carità la trasportava e le additava mete sempre più luminose.
Fin da quando, giovinetta ancora, mentre Senio era in collegio, ella andava due volte al giorno dalla maestra del villaggio per imparare dei lavori d’ago, il suo spirito d’eguaglianza si mostrava con le compagne; l’altruismo che vibrava potente nel suo cuore gliele faceva considerare tutte come sorelle. E nel ritorno, attraversando i campi, ella sentiva quasi come un’anima uscire dalle cose; un’attrazione inconscia le faceva allargare le braccia davanti a quel mondo così vasto, così pieno di persone da amare, di belle azioni da compiere; e sorvolando sulla bellezza dei fiori, degli alberi, del cielo, uscendo dalle sensazioni terrene verso un mondo più alto e più puro, l’anima sua era compresa da una misteriosa elevazione a Dio. Era il suo modo di pregare.
Dopo, quando la foga dei vent’anni non trovando nessun altro sfogo, si portò violenta a battagliera sui libri filosofici, Corinna prese la sua decisione di ateismo con lo stesso candore che avrebbe potuto farle indossare il velo di monaca. Si ingolfò allora nelle letture più scabrose, senza che la purezza della sua immaginazione ne riportasse la più piccola macchia. La sua immaginazione sembrava d’amianto, usciva illesa da qualunque fuoco. I suoi sensi, come guerrieri vestiti di maglia, elmo e scudo, resistevano agli attacchi.
Lesse così interi trattati di scienza medica; non fu eccitata nè nauseata dallo studio dell’uomo, nei più minuti particolari del suo essere, nelle sue grandezze, nelle sue miserie. Si sentì invece spinta ad amare sempre più i suoi simili non nella concentrazione meschina di un uomo, ma nella sconfinata famiglia dell’umanità.
Da questo connubio di scienza acquisita e d’ignoranza vissuta, di estrema audacia da una parte e di continenza dall’altra, ne risultava un complesso bizzarro che dava alle sue parole ed alle sue opinioni un carattere stravagante, per cui si esprimeva in un modo affatto differente dalle altre persone, specie del suo sesso.
Nella certezza che fossero scientifiche ella narrava cose stupefacenti, pronunciava imperterrita alcune parole che non tutti i vocabolari accolgono. Si meravigliava poi della meraviglia degli altri e li chiamava asini e bestie.
Non ammetteva scherzi, non capiva sottintesi. Per lei la scienza era una cosa alta, nobile, pura, intangibile, e sopratutto seria. Si interessava ai matrimoni dal lato del miglioramento della specie, e dava agli sposi ogni sorta di consigli. Per conto suo non aveva mai pensato a maritarsi e nessuno aveva pensato a lei.
Trovandosi affatto sola, si era messa a coltivare un’amicizia di scuola, un’orfana, che era poi rimasta zitellona come lei, con la differenza che invece d’un fratello c’era qui la cura d’una nipotina; e così queste tre donne formavano quasi una famiglia.
Nessuna creatura poteva essere più diversa di Corinna quanto la sua amica Orsola. Faccia sbiadita, smorta, dalle linee poco salienti, dal colorito uguale, Orsola somigliava ad un basso rilievo antico, questa forma primitiva dell’arte, dove si cerca invano l'espressione della vita. Senza ossa, nè polpa, nè nervi, nè sangue, nè fosforo era il suo corpo, e tale era la sua piccola anima inoffensiva.
Tanto ligia alle tradizioni quanto Corinna se ne mostrava sprezzante, umile, dolce, composta, attendeva scrupolosamente agli obblighi religiosi senza una scintilla di entusiasmo, senza un raggio di fede illuminata; buona ma fredda, devota ma egoista, di un egoismo passivo che si limitava all’inazione.
Nemica della verità più ancora di quello che Corinna ne fosse appassionata ricercatrice, si chiudeva nel suo io, formandosi una barricata di ogni convenzionalismo, di ogni stato di cose riconosciuto, approvato e sicuro.
Non la simpatia certamente aveva legate queste due donne, ma dapprima il caso, poi un compatimento che in Corinna si alimentava del suo amore per il prossimo, in Orsola del suo dovere religioso di carità. L’abitudine si era incaricata di fare il resto, e nel ritrovo quotidiano, nella somiglianza della vita esterna, nel distacco dal mondo, in una comune onestà scrupolosa, era germogliata a poco a poco una amicizia tenace.
Corinna non risparmiava la sua amica Orsola più di quanto risparmiasse le altre persone; erano anzi attacchi violenti, cariche a fondo contro i pregiudizi, i dogmi, l'ideale ristretto, l'amore meschino, l'ignoranza, l'indolenza, l’egoismo mascherato di pietà, il pudore stupido, la bontà passiva; ma tutta questa mitraglia andava a cadere, smussandosi, contro l’apatica rassegnazione di Orsola, la quale, se aveva in principio trasalito sotto i colpi, vi si era avvezzata adesso così bene da non riceverne maggiore molestia di quella che può dare un moscerino imprigionato nelle pieghe di una tenda. Si era avvezzata anche al linguaggio crudo di Corinna, recitando mentalmente una giaculatoria per ogni espressione troppo ardita.
E così nel bilancio di questa amicizia che contava venti anni di data, si era formato man mano un capitale di concessioni reciproche, di difetti sopportati, di sacrifici continui ed umili, di cure prestate amorevolmente in silenzio, di lunghe ore passate insieme, tutta una fusione lenta, ma completa, per cui nulla succedeva di buono o di cattivo ad una delle due amiche senza che l’altra ne ricevesse immediatamente il contraccolpo.
Da vent'anni che stavano unite non avevano mai, l'una all’altra, nascosto un pensiero; non avevano avuto un mal di capo, nè speso una lira o scritto una lettera senza dirselo. Comperavano insieme gli abiti e il cotone per fare le calze; copiavano gli stessi modelli per i pizzi all'uncinetto. Erano divise solamente dalla lettura, che facevano entrambe alla sera, in letto, prima di addormentarsi; così se Orsola voltando le pagine del Manuale cristiano sentiva qualche scrupolo, e se Corinna sprofondandosi nella scienza positiva dimenticava l’amica, v’era sempre la notte di mezzo che accomodava tutto, per cui al dimani si ritrovavano a riprendere la loro vita, come niente fosse.
In questo ambiente calmo e ristretto, in questo strano gineceo, venne a cadere Senio, dopo un anno intero passato all’estero.
Fu con un vero slancio d’affetto ch’egli si strinse fra le braccia la sorella, baciandola sulle ruvide guancie e premendole le mani senza riuscire a chiuderle nelle sue.
— E Orsola? — domandò quasi subito.
— Sta benone.
— Sempre la stessa?
— Sempre. Se il suo confessore le dicesse che il primo pensiero di un uomo e di una donna quando si trovano soli è di giuocare a tombola, quella bestia lo crederebbe.
— Ed è così poco vero — disse Senio ridendo — che noi due, che siamo pure un uomo e una donna, non ci pensiamo affatto. E Dina?
— Dina si è fatta alta, è una donna ora... la vedrai, la vedrai. Ma tu come sei diventato bello!
Gli si fermò davanti estatica, ammirandolo. Senio si trovava infatti in quell’ora raggiante della giovinezza che sembra emanare luce e profumi, l’ora bella dei brutti, l’ora divina dei belli.
Corinna si sentiva superba di quella bellezza come se fosse stata sua, come se fossero stati suoi quegli occhi limpidi azzurri, quel profilo di statua. E così forte! E così intelligente! Una tenerezza quasi materna le saliva dal cuore, facendosi strada attraverso all’espressione dura del suo volto.
Senio intanto girava su e giù, guardando i vecchi oggetti che conosceva, toccando i nuovi. Quest’abitudine di toccare tutto gli era valsa, da bambino, una quantità di rimbrotti, anche per parte di Corinna. Ma adesso ella era felice di vederlo posare le mani sopra i suoi lavori, i suoi libri, le ultime cose comprate; e spiava sul volto di lui, ansiosamente, l’approvazione.
Pensare che era suo fratello! che lo aveva allevato lei dalla età di dieci anni, che lo aveva amato, protetto, aiutato in tutti i modi! Che cosa bisognava fare ancora per lui? per renderlo grande, grande sopra tutti gli uomini?
Nella pienezza di questi sentimenti, Corinna provava la stessa voluttà misteriosa che, fanciulla, le ispirava l’aspetto della natura, o la grandiosità di un amore impersonale, senza limiti. La sua anima profondamente religiosa viveva di queste aspirazioni, e mentre la sua ragione negava Dio, tutto il suo essere si innalzava alle regioni più pure dell’idealismo cristiano.
Se non bastasse vivere; — pronunciò tacitamente il cuore di Corinna — morire per lui!
Una vocetta fresca disse dalla soglia dell'uscio: — È permesso?
— Dina! Dina!
Senio corse, giulivo, ad incontrare la fanciulla e prima ancora di guardarla in viso, le tese fraternamente le braccia, baciandola. Poi la scostò, meravigliato nel vedere che la piccola Dina si fosse fatta tanto alta.
— Ma quanti anni hai?
— Sedici.
Stettero a contemplarsi qualche istante; Dina diventò rossa e Senio udendo i passi lesti di Orsola, che seguiva la nipotina, andò a incontrarla fuori dell'uscio.
— Signor Senio — fece la zitellona.
— Che signore! Non siamo noi come fratelli? Non è lei la buona Orsolina che conosco da tanti anni, ed io il cattivo Senio che le ha annegato il gatto? Si ricorda?... Si ricorda?... Chi ha cambiato è sua nipote, oh! quella non l’avrei riconosciuta davvero!
E tornò a guardare Dina.
La novità del trovarsi riuniti, dopo tanto tempo che non vedevano più Senio, infondeva in ognuna delle tre donne un interesse e un calore di parola che non era nelle loro abitudini. Lo interrogavano, lo ascoltavano in estasi, sorprese e dilettate dal racconto dei suoi viaggi, avvinte da quello splendore di gioventù, di salute, di vita.
Senio si beava dolcemente, con calma perfetta, nell’onda simpatica che lo avviluppava, guardando alternativamente Corinna, Orsola e Dina; guardando pure la ristretta stanzuccia che era tutto il mondo loro, quei lavoretti sparsi, quelle occupazioni semplici, e si domandava in segreto che cosa vi potesse mai essere di comune fra l’uomo e la donna. Dina stessa, che nella ingenuità dei suoi sedici anni si presentava come una graziosa incognita, era essa un problema molto difficile a sciogliere?
Sorrise — e di quel sorriso ognuna delle tre donne si prese una porzione.
La bella giornata passò in un baleno. Senio dormì quella notte nella sua cameretta di fanciullo, coi muri imbiancati a calce, la finestra stretta ornata di tendine a rete, lo scaffale contenente ancora i suoi libri di scuola, le sedie di paglia, il tavolino coperto di tela cerata. Quanti amici vecchi! Quante memorie del passato! Il suo breve passato di vent’anni.
L’indomani Corinna venne a portargli il caffè e spalancando le gelosie gli mostrò il sole che raggiava sopra i tetti.
— Tempo splendido!
Senio balzò dal letto allegramente, cantando. Si vestì in fretta, e scese a fare una corsa in paese.
Come era bella, per pochi giorni, quella vita di provincia, con le sue abitudini semplici e primitive, immobilizzata da trentanni in un benessere di cui la monotonia era la principale attrattiva.
Ritrovò il barbiere allo stesso posto, con la stessa giacchetta a quadretti, lo stesso rasoio male affilato, le stesse pomate all'odore di gelsomino; ne udì le ciarle invariate, gli invariati pettegolezzi e la persistente opinione che al Ministero non si sapevano mandare uomini di vaglia.
Rivide la chiesa, piccolina, pulita, coi suoi paramenti di percalle rosso; riconobbe nei fiori di carta dell'altare l’opera perseverante di Orsola, e assistè il campanaro nelle solenni funzioni di tirare la corda e di accendere la lampadina d’ottone davanti all’altare della Madonna. Questa lampadina aveva sempre avuto per Senio un fascino particolare, rammentandogli la lampada che aveva suggerito a Galileo la famosa scoperta. Egli aveva pensato lungamente, da ragazzo, alla possibilità di trovare qualche cosa di simile per immortalarsi.
Passando davanti alla farmacia ricordò le sue scappate, le sue ingegnose gherminelle per avere un po’ di zucchero d’orzo. E tutte le vie, tutti gli alberi, ogni sasso, ogni voltata di sentiero gli poneva davanti un giorno, un’ora, un minuto della sua infanzia.
Ritornando, trovò Corinna sulla porta di casa intenta ad arringare due contadini, i quali la stavano ad ascoltare mogi mogi.
— Siete voi qualche cosa più delle galline, dei gatti, dei cani? o non siete forse eguali? eh? Io vi dico invece che siete inferiori, ma molto inferiori a tutti gli animali ai quali date calci ed ossi da rodere. Se i frati predicassero alle galline che rubare è peccato, esse non piangerebbero e non si picchierebbero il petto, ma continuerebbero tranquillamente a beccare tutto quello che trovano a loro portata. Eccole ragionevoli e coerenti, come i cani, come i gatti. Ma voi che razza di bestie siete? Pretendete di comprendere quello che vi dicono, andate alla messa, andate alla dottrina, vi confessate, fate tutte le novene, i tridui, i giubilei; avete paura dell’inferno, giurate ogni mattina nelle vostre orazioni di comportarvi da galantuomini, e poi continuate in tutti i vostri vizi tale e quale. Se non credete che rubare sia una cattiva azione, perchè piangere e battersi il petto? Se credete che lo sia, perchè rubare ancora? Rispondete un po’.
I due contadini si guardavano bene dall’aprir bocca e la venuta di Senio porse loro favorevole occasione per allontanarsi alla chetichella.
— Vedi — disse Corinna rivolgendo a lui il resto della filippica — questi sono i bei risultati del giubileo! Abbiamo avuto qui per quindici giorni un frate che sembrava avesse convertito tutto il paese. Uomini e donne accorrevano sui suoi passi, genuflettendosi, pregando, implorando; hanno rimesso a lustro, a furia di sbaciucchiarlo, tutto il pavimento della chiesa; si sono coperti di medagliette e di reliquie, e poi? Peggio di prima. Via nei campi a rubare erba e legna, su pei fienili a commettere le loro brutture, nelle osterie a prendere le solite sbornie, finché venga un altro frate a lavarli da tutte codeste macchie, a metterli in istato di tornare da capo. Potrebbero essere più ignoranti? Potrebbero essere più cretini?
— Spero — interruppe Senio ridendo — che non avrai la pretesa di rifare il mondo.
— Pur troppo! — esclamò Corinna, lasciando cadere le braccia.
E il dolore di questa impotenza le si dipinse sul volto, vivo, profondo, con tutto il suo entusiasmo per la causa dell’umanità che soffre, con la sua sete di giustizia e di verità, col suo ardente palpito d’amore.
— Non si cambia mai nulla, — disse Senio; — i tuoi slanci generosi sono sprecati.
— Se non si cambia nulla, anche la freddezza è inutile. L’entusiasmo almeno fa vivere e la freddezza uccide. Ah! fratello mio, fanciullo mio, questa sola esortazione ti faccio: Ama.
Imbevuto delle novissime teorie della scienza, Senio tendeva a ordinare la vita secondo un sistema di assoluto positivismo. Tutto ciò che poteva assomigliare a fantasticheria romantica, a emozione sentimentale, trovava in lui un fiero nemico. Gli stessi affetti naturali, che egli non negava, dovevano subordinarsi a un criterio di utilità incontrastata.
Dandosi all’avvocatura, pensava di combattere il barocco edificio di convenzionalismo e di rettorica che regge ancora buona parte del foro. Sostenitore della assoluta responsabilità del reo, alieno da ogni morbosa filantropia, le controversie, le lotte che lo aspettavano gli mettevano nel sangue una dolce febbre di impazienza.
Sulla questione sociale aveva un giudizio limpido e sicuro; la necessità di cambiare e l'impossibilità degli adattamenti proposti: per conseguenza una calma serena, una fede assoluta negli occulti processi della evoluzione naturale.
In religione, come quasi tutti i suoi amici e contemporanei, aveva elevato la coscienza al posto della divinità; e la sua era una coscienza retta ma fredda, disposta a rintracciare il lato utile e pratico della giustificazione matematica.
L’importanza che la civiltà accorda alla donna, a’ suoi diritti di emancipazione e di elevazione intellettuale, trovava pure in Senio un calmo, ma invincibile oppositore. L’atavismo contadinesco prendeva qui una completa rivincita sulle levigature e le modificazioni, che una profonda coltura aveva impresse nel suo spirito. Egli non poteva considerare la donna che sotto l’aspetto antico di femmina e di madre. L’idea di un commercio superiore e spirituale con una persona dell’altro sesso, questa idea invadente nei nuovi ideali di una società raffinata, idea sovente discussa coi suoi compagni, urtava contro lo scetticismo della razza, trasfusa in lui per un lungo ordine di donne massaie e sottomesse.
Nemmeno ai primi albori della giovinezza, quando i suoi compagni scrivevano dei versi Ad una, egli non era stato turbato da nessuna visione femminile. Disprezzava profondamente i rosei gioghi; ne aveva anche paura.
Il solo pensiero di menomare coll’amore quell’insieme di forze che lo rendeva fiero e indipendente, gli era insoffribile.
Non sapeva se avrebbe preso moglie; forse no. Per amore no certo; per calcolo neppure; sentiva troppo altamente di sè per chiedere a una donna un miglioramento di posizione. E allora!... la conclusione si presentava logica in un celibato onesto e quieto, con tutti i vantaggi della libertà, con nessuno dei pesi della famiglia.
L’orrore della sofferenza lo teneva lontano da tutto quanto potesse condurlo a una pena, a un sacrificio, a una privazione. Vedeva le famiglie non ricche, con quattro, cinque, sei figli, mantenuti dal solo capo di casa, legato come uno schiavo all’ufficio od al negozio, incanutito, inebetito nell’enorme còmpito di soddisfare tutte quelle esistenze dovute a un momento d’illusione; e giurava che non sarebbe mai caduto in quelle panie. Vedeva pure le donne emancipate, le donne che guadagnano, comandano, si impongono; e se in queste famiglie la miseria era minore non era per Senio minore la riluttanza a prendersi nella vita un socio in gonnella.
Immerso in queste idee, così famigliari al suo spirito che non aveva oramai più bisogno di discuterle, ma solo di portarvi il conforto di nuove osservazioni, esclamò a voce alta:
— Non vi è uscita.
E siccome si trovava sulla via dei campi, a trenta passi da casa sua, il suono delle sue parole giunse fino al muricciolo della casa d’Orsola, di dove una vocina a lui nota rispose:
— Non ricordi più l’uscita del prato? È quella che cerchi?
Senio si fermò, sorridendo all’innocente equivoco e guardando Dina che lo aveva apostrofato dall’alto del muricciolo, su cui era seduta con le gambe penzoloni verso il giardino e la testa voltata indietro sulla via dei campi.
— Se stai ferma dieci minuti — disse Senio — ti faccio il ritratto.
— Il ritratto? bravo! Non ne ho avuti mai, dopo quello che mi fece prendere la zia col mio abito da comunione, così lungo che sembro una vecchia e cogli occhi bassi sul libro di preghiere... Un ritratto dove non si vedono gli occhi! Domando io se è un ritratto!
— Ah! quanto agli occhi non te li assicuro neppur io. È solamente lo schizzo, capisci? La silhouette. Stai benissimo su quel muro, sei artistica. Potresti ispirare un quadretto di genere intitolato: La primavera.
Dina arrossì di piacere a sentirsi dire tante belle cose, e intanto Senio levava di tasca il suo album e preparava la matita.
La fanciulla era veramente carina nella sua posa improvvisata, coll’esile corpicciuolo emergente sullo sfondo del cielo, la vita sottile, il collo delicato, un tutto insieme che faceva pensare alla snellezza di uno stelo. Il venticello di marzo le scomponeva i capelli sulla fronte, ravvivando l’incarnato delle sue guancie coperte ancora della peluria di un giovane frutto. Teneva i labbruzzi dischiusi tra il sorriso e la meraviglia, accentuando così una fossetta nella guancia destra che era per sè sola un incanto.
— Non trovo il temperino — disse Senio.
Dina cacciò in fretta la mano nel taschino del grembiale, e lo rovesciò; ne venner fuori un piccolo ditale e due noci, ma non un temperino.
— Non importa. Sta’ ferma.
Disegnò per qualche minuto in silenzio, e Dina non fiatava, cogli occhi spalancati e immobili.
— Non darti tanta pena per gli occhi. Ti ho già detto che prendo solamente le linee della figura.
— Ma allora non è un ritratto...
— Sì che è un ritratto, vedrai.
Dina si fece puntello delle mani per spingersi in fuori a vedere il disegno.
— Bada a non cadere, tu.
Senio alzò il braccio e glie lo accostò alla vita come se temesse proprio ch’ella dovesse cadere.
— No, no, non casco — esclamò Dina ridendo e tornando ad arrossire.
Un alberello di melo protendeva sopra lei i rami ancor nudi di foglie, ma già ornati di piccoli fiorellini bianchi i cui petali, staccandosi sotto le carezze brusche del vento, venivano a cadere sulle spalle e sui ginocchi della fanciulla. Ella fece un movimento per gettarli via.
— Lascia! — implorò Senio, con la matita sospesa, affascinato dalla fresca visione.
Stettero così a guardarsi, inconsapevolmente, per un certo tempo.
— E il ritratto non lo fai?
— No, non mi riesce.
— Che peccato!
— Sarà per un’altra volta.
— Ma adesso vai via?
— Ritornerò.
«Ritornerò, ritornerò!» Questa parola echeggiava nel cuore della fanciulla come una promessa di gioie indefinite. Ella non aveva mai lasciato nè il suo paese, nè la sua casetta, nè la zia Orsola. Senio per lei rappresentava il mondo sconfinato, lontano, tutto l’ignoto, tutto il desiderato. Senio era la bellezza, la gioventù, la forza, l’ingegno. Meno che parente, più che amico, egli era sempre vissuto nella sua vita — unico uomo conosciuto — il solo a cui la zia Orsola stringesse la mano.
— Ti ricordi — esclamò improvvisamente — i giorni che passavamo sempre insieme? Si andava nei boschi a cercar funghi; io ero molto piccina allora, mi stancavo presto, piangevo e tu mi prendevi in braccio. Ti ricordi?
— Sì. Mi ricordo anche una volta che essendoti tutta inzaccherata in un pantano, ti levai le scarpette e le calze, e siccome i tuoi pieducci nudi diventavano freddi, li nascosi sotto la mia giacchetta, guarda, così, per riscaldarli.
— Oh, questo non può essere — protestò Dina, invasa da un subitaneo senso di pudore.
— Sì, sì! Te lo giuro. Che male c’è? È stato precisamente il giorno di quel grosso temporale che ruppe tutti i vetri, non sai? Oh ma eri allora tanto piccina! Ti portavo come una pupattola, come una piuma, come un fiore... così!
Le prese, dal grembo, una manciata di fiorellini del melo, sollevandoli in alto, accostandoli poi quasi distrattamente alle labbra.
— Ti piacciono? — mormorò Dina.
Senio non rispose. Con un rapido sbalzo la fantasia lo aveva trasportato quindici giorni indietro, nel freddo salottino di Stefano e sentiva la voce profonda dell’amico: «Tu non lo sai, nevvero, come rimasi avvinto? Fu una sera d’estate, sotto il pergolato di tuberose nere. Ella ne staccò un ramoscello e me lo offerse dicendomi: Vi piace?»
Un’espressione di durezza scese sul suo volto; nello zaffiro trasparente delle sue pupille parve ondeggiasse un velo.
— Sono belli questi piccoli fiori — riprese Dina con timidezza.
— Belli — ripetè Senio automaticamente, intanto che il suo pugno dischiuso lasciava cadere a terra i petali bianchi.
E come se il suo spirito già lontano fosse affatto staccato dal corpo, egli rimase immobile e muto ai piedi del muricciolo.
Senza poter intendere nulla di quanto avveniva nell’animo del suo amico, Dina si sentì presa da un’indicibile malinconia, come se fosse stata abbandonata sola in un bosco. Capiva che Senio le sfuggiva, che non era più con lei, e questa sensazione nuovissima le stringeva il cuore sino a soffocarla.
— Io mi ricordo anche quando sei andato in collegio. Ho pianto tanto tanto e presi l’abitudine allora, tutte le sere quando dico le orazioni, di raccomandarti al Signore...
— Grazie.
Come era freddo il suo volto, freddo il suo sguardo, fredda la sua voce! Che differenza in un momento! che differenza da quando parlava de’ suoi piedini riscaldati da lui!
Con la voce strozzata da una amarezza senza nome, Dina arrischiò ancora:
— Vuoi che andiamo a rivedere i nostri prati? — e per una improvvisa intuizione femminile, sentendo il bisogno di piacere ad ogni costo, tentò di sorridere.
— No — rispose Senio.
Ella allora tacque e si pose a guardarlo dolorosamente colla espressione di un bambino davanti a un ostacolo misterioso e forte, una montagna altissima, un forziere chiuso, un macchinismo complicato, il mare o il deserto da attraversare.
Che cosa gli aveva detto per produrre tutto quel cambiamento? Era così amabile prima! così dolci apparivano i suoi occhi! così bello il suo sorriso! Oh! se avesse sorriso ancora... questo, solamente questo, le sarebbe parso una felicità. Pensò che l’origine d’ogni cosa fossero stati quei fiorellini che aveva in grembo e presa da subitanea avversione per essi si pose a raccattarli minutamente sui ginocchi, sul petto, sulle braccia, disperdendoli al vento che talvolta per dispetto glie li ricacciava addosso, e intanto le vorticavano attorno leggeri, quasi vivi nel loro candore niveo di piccoli gigli alati.
Quando li ebbe gettati via tutti, tutti, fino al minimo petalo, tornò a guardare Senio. Nessuna linea del suo viso si era mossa, Dina spiccò un salto, senza dir nulla, e stringendosi il cuore con tutte e due le mani fuggì dentro il giardino, scomparve
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Alla sera mentre Senio e Corinna prendevano il caffè, Corinna disse:
— Dina è ammalata.
— Ammalata? Se questa mattina stava benissimo!
— Appunto, è da stamattina. Si è fermata forse troppo in giardino col vento che c’era; almeno è la causa addotta da Orsola. Certo si trovava in giardino quando fu assalita da un malumore improvviso, rientrò, pianse, non toccò cibo per il resto del giorno e adesso Orsola l’ha obbligata a mettersi in letto.
Senio, che era rimasto un po’ di tempo in silenzio mordendosi le labbra, domandò:
— Non sarà nulla di grave, eh?
— Spero.
Altra pausa.
— Ho poi deciso di partire dopo domani.
— Così subito?
— Non subito, dopo domani — replicò Senio con la sua dolcezza conciliativa, con quella serenità che gli creava tante simpatie.
— È giusto. Qui non hai nulla da fare; il mondo e la vita ti aspettano, va’! Noi ripiglieremo la nostra vita, che è quella di parlare sempre di te, di aspettare e di leggere le tue lettere, di prepararti le calze...
— Un po’ monotona! — esclamò Senio ridendo.
— Oh! quando si vuol bene...
— Anche Orsola mi vuol bene?
— Sì. E la piccina pure. Quando lavoro alle tue calze e ai tuoi fazzoletti, ci vuole sempre mettere qualche punto di suo.
Senio ricadde nel silenzio. Più tardi, già ritirato nella sua camera, stentava a coricarsi, preso da una smania, da un’inquietudine che rassomigliava ad un malessere. Accese il sigaro e si pose alla finestra.
La chiara notte primaverile raggiava di una miriade di stelle. Egli non era poeta, non avrebbe forse saputo creare nulla davanti a quel cielo; ma una dolcezza intima lo teneva appoggiato al davanzale, con l’occhio errante dalla volta stellata alla pianura che si svolgeva in gradazioni soavissime di luce e d’ombra. Era il plenilunio di marzo. Il vento della giornata aveva spazzato fin l’ultimo vestigio delle nuvole; l’aria, di una limpidezza incantevole, sembrava animare un mondo appena nato, dove tutto fosse puro e casto.
Ogni casa del paesello si disegnava nettamente, con la fuga dei tetti, il rialzo dei comignoli, l’avvallamento dei sentieri e il campanile che sovrastava bianco e muto, nell’attitudine di un grande angelo dalle ali raccolte.
Dal suo posto Senio vedeva distintamente il muricciolo di Orsola e l’alberello di melo i cui fiorellini, sotto il raggio della luna, prendevano un luccichìo misterioso di piccole perle. Il muricciolo stesso, nelle fantastiche alterazioni delle ombre somigliava al digradare di una scala gigantesca sulla quale, per quanto nulla si vedesse apparentemente, vagolava un gentile fantasma dagli occhi ridenti, dal grembo colmo di fiori; e quei fiori spargevano intorno un profumo sottile, che in certi momenti sembrava una voce, in certi altri una carezza; e poi non era più nè profumo, nè voce, nè carezza; era un'onda misteriosa che gli cullava il cuore, che lo sollevava in alto portandolo sino al rapimento vertiginoso.
Nella dolcezza di quella notte tutto ciò che era di buono in Senio cercava di uscire dall'anima sua. Sogni lontani, ideali smarriti, fedi rinnegate accorrevano a lui con parole che non mentivano, con aureole raggianti d’oro intorno a fronti senza macchia.
Il desiderio di una vita superiore gli prendeva il cuore, mettendogli addosso uno struggimento, una specie di languore, che, quasi voluttuoso dapprima, divenne gradatamente una sensazione di dolore insopportabile.
Piegò allora come un fanciullo, piegò sullo sporto della finestra, e solo, nelle tenebre, con le braccia tese verso il muricciolo, esalò in un profondo sospiro tutta l’idealità di cui era capace. Poi si rialzò fermo, freddo...
La mattina dopo disse a sua sorella: — Parto oggi stesso.
Corinna se ne dolse, volle insistere per farlo rimanere, ma la decisione di Senio rimase quella. Affrettò egli stesso i preparativi riponendo le sue robe nella valigia. Andò a fare un ultimo giro nel paese, salutando nel passare i conoscenti, notando bene ogni punto, quasi per imprimerselo nella memoria, quasi fosse un saluto definitivo come di chi parte per un lungo viaggio.
Lo guardavano tutti con un certo interesse. Non vi era in paese nessun giovane così bello, così intelligente, nessuno a cui la vita dovesse sorridere con maggior copia di promesse. Gli dicevano: — Sii felice! Sentiremo parlare di te! Il mondo è tuo!
Tutti questi auguri, questa corrente di simpatia lo avvolgevano di nuovo nella contentezza. Sì, sì, egli voleva essere felice, voleva far parlare di sè, voleva conquistare il mondo.
La persuasione della superiorità che egli aveva sopra la grande maggioranza, superiorità di fisico, d’intelligenza, e soprattutto di una piena libertà d’azione, lo rendeva orgoglioso. Guardava con un po’ di compassione, velata fors’anche di disprezzo, tutte quelle povere esistenze che egli si lasciava dietro, quelle menti piccine dagli orizzonti ristretti; tutta una popolazione meschina che viveva di lavoro e di sacrificio, paghi, i più felici, di un desco discretamente ammannito e di una giovane sposa che regalasse loro un figliuolo ogni anno.
— Ah! — fece Senio con una scossa, come per togliersi di torno quelle impressioni, — a me la vita!
Orsola e Dina vennero a passare con lui gli ultimi momenti. La fanciulla era pallida e molto triste. Senio si sentì in dovere di dirle qualche parola cortese e lo fece in tono spigliato, per togliere al loro addio qualunque apparenza di sentimentalismo. L’ora di debolezza della sera prima era passata senza lasciar traccia; nella risoluzione di una subita partenza aveva riacquistato il dominio di sè stesso.
— Quando torno, ti farò il ritratto davvero — le disse, prendendole come ad una bimbetta la treccia che le penzolava sulle spalle e tirandogliela un pochino per gioco — a meno che non tardassi troppo a tornare, nel qual caso ti troverei una donna fatta e, caspita, mi faresti soggezione!
Al momento di separarsi le tre donne cominciarono a piangere; anche Corinna, la quale aveva questa sola debolezza femminile.
Senio le baciò tutte e tre. Giudicava che per questa volta fosse meglio continuare a tenere con Dina il contegno di un fratello; ma la sfiorò appena, leggerissimamente, sulla guancia senza guardarla, senza volerci pensare.
— Addio! a rivederci! — gridò ancora, col piede sul montatoio della carrozzella che doveva portarlo alla stazione. — A rivederci, Corinna!
L’ultimo saluto fu per la sorella.
Egli partì, seguito da quei tre cuori che lo circondavano quasi di un incenso d’amore; partì lasciando loro l’impressione di un raggio luminoso che si dileguava.
La prima causa che a Senio toccò di difendere fu una di quelle che per il fatto in sè stesso, per l’ambiente e per le persone implicate, attirano facilmente l’attenzione del pubblico.
Egli rappresentava la parte civile contro un giornale cittadino accusato d’insinuazioni calunniose. Dietro la calunnia, che aveva motivato l’accusa, sorsero poi tante scoperte di malafede, d’immoralità e di speculazioni odiose, da offrire al giovane avvocato una bella occasione per segnalarsi ed acquistare dall’oggi al domani una specie di notorietà.
Tutto un partito di gente onesta e timida che nello smascheramento dell’impudente giornale vedeva effettuarsi un desiderio lungamente sospirato; coloro che ne avevano già sofferto e coloro che temevano la maldicenza malamente velata di articoli, coi quali si rintracciavano i misteri delle famiglie per gettarli in pascolo alla curiosità pubblica, si strinsero intorno a Senio, circondandolo di simpatie e di incoraggiamenti.
Così avvenne che dal caso particolare, allargando la questione e mettendola nel dominio degli interessi comuni, spronato, aiutato da centinaia di nuovi amici, Senio iniziò una vera e propria campagna contro l'immoralità di una certa stampa quotidiana e non si fermò al libello ed allo scandalo privato. Chiamò francamente scandaloso, delittuoso, tutto un indirizzo di pubblicazioni tendenti direttamente o indirettamente al pervertimento e al ricatto.
Alla brillante arringa pronunciata in tribunale egli fece seguire alcuni articoli scritti con una grande efficacia di sobrietà nella forma, di elevatezza e di verità nei concetti.
Nè gli amici si tennero paghi di ciò. Riconoscendo in Senio le qualità esterne ed intime di un vero rappresentante delle loro opinioni, lo elessero per comune accordo a capo di un partito, il quale, rimanendo estraneo alla politica, chiamasse a raccolta le forze migliori per indirizzarle a quel nuovo sentimento che dalle piccole contemplazioni di un confine materiale assurge, nell'animo della presente generazione, all’ideale di una conquista ben più utile e preziosa.
Erano appunto queste le battaglie sognate da Senio nell’ardore de’ suoi anni giovanili, quando dinanzi al nascente ingegno si presentava, campo vastissimo di conquiste, il bisogno di una riforma sociale. Sì che per un certo periodo, dai sedici ai diciotto anni, sembrava quasi propendere alla carriera dell’insegnante, come quella che avrebbe potuto attaccare alle radici la falsità degli odierni sistemi educativi, in cui è tanto tempo sprecato per cose inutili, e quindi irremissibilmente perduto per quelle veramente necessarie.
Ma poi aveva abbandonato questo disegno, nel quale non avrebbe saputo infondere quel calore di sentimento, quell’amore degli altri e quella abnegazione che richiedono tutti gli apostolati.
Togliere il dolore al mondo ed a sè stesso era uno dei maggiori ideali di Senio, e per raggiungerlo, il primo passo gli sembrava quello di allontanarsi dall’amore, dato che ogni dolore ha per fonte l’amore.
Perchè amare? L’amore non è necessario nè per godere, nè per imparare, e neppure per beneficare. Egli avrebbe diffuse le sue idee nel mondo, giovando forse a qualcuno, certo a sè stesso, senza lasciarsi trascinare da nessuna specie d’amore. Se questo era l’origine di tutti i dolori, doveva riuscirne facile l’allontanamento; un solo nemico resterebbe allora da combattere: il dolore fisico.
Questa filosofia soggettiva certamente non tutti gli ammiratori di Senio, e soprattutto le ammiratrici, sarebbero state disposte ad accettare; ma egli aveva cura di non esporla crudamente a qualsiasi pubblico, per cui molte persone entusiaste, sentimentali, ardenti e quasi innamorate gli facevano corona, pur essendo fra quelle che avrebbero dovuto essergli contrarie.
Strano. Quest’uomo che negava l’amore, che si sentiva inetto a provarlo, lo andava suscitando intorno a sè sotto tutte le forme, inconsciamente, con la prerogativa fatale della salamandra di vivere in mezzo al fuoco senza ardere, e la specialità singolarissima lo conservava sereno, forte, con un tale vantaggio immediato sopra i suoi compagni, che egli non poteva a meno di commiserarli tutti nella loro bolgia perpetua di desideri, di lotte, di disinganni, di spasimi, di lagrime.
Egli era ben sicuro di non cedere mai. Insensibile alle ebbrezze della poesia, al fascino delle idee trascendentali per cui muoiono i martiri e gli eroi, quale corazza lo salvava dalla donna? Non si sarebbe, almeno una volta, arreso all’eterno femminino, non si sarebbe piegato ai piedi della fragile e potente iddia?
I suoi amici lo aspettavano al varco; ma egli aveva sfatato il nemico prima di affrontarlo. Considerava la donna come una stella di seconda grandezza che riceve luce solamente dall’astro maggiore che è l’uomo; ridotta così alla sua umile parte di satellite, come avrebbe potuto temerla? Dove? Quando?
Senio rispondeva sempre sorridendo ai sorrisi delle signore che lo circondavano nei salotti, lo attiravano nei loro palchi al teatro, accorrevano in folla alle conferenze e ai dibattimenti dove egli prendeva la parola. Lo spettacolo della bellezza gli piaceva, ma più crescevano intorno a lui le tentazioni, e più crescevano i suoi argomenti per resistervi. Non sfuggiva le avventure facili e restava impassibile per tutte le altre.
A buon conto — pensava spesso quando trovavasi in società — tutte queste donne che mi offrono il loro amore negli sguardi, nei sorrisi, che vorrebbero persuadermi essere io, proprio io, il loro ideale, non saprebbero rinunciare per me, al loro vestito all’ultima moda o al braccialetto che vagheggiano. E avveniva per ironico contrasto, che in quello stesso momento egli fosse più che mai sorridente, più chiara apparisse la trasparenza delle sue pupille attraversate da un raggio di malizia, per cui riusciva tanto più desiderato quanto meno egli era disposto al contraccambio.
Le madri le guardavano con quell’occhio speciale che ricorda l’avidità della rondine in cerca di moscerini per i suoi piccoli nati. Avrebbero voluto assorbirlo, magnetizzarlo. Si chiedevano con una sorda inquietudine: A chi toccherà?
Le ragazze contegnose, pudiche, dominate da un segreto imbarazzo si limitavano a dichiarare che il giovane avvocato ballava come un angelo.
«Fratello — gli scriveva Corinna — da questo cantuccio dove ho passata la vita pensando a te, ti seguo ancora col pensiero e coll’anima. Se fossi religiosa pregherei giorno e notte per te; se fossi ricca ti farei padrone del mondo; se fossi regina ti farei re... te la immagini la tua vecchia Corinna sopra un trono? E se fossi superstiziosa cercherei per terra e per mare un amuleto che ti salvasse da qualunque disgrazia. Ohimè, non sono nulla, non ho nulla; eppure sento che il mio affetto ti protegge. Non lo senti tu?»
Senio usciva di casa, un giorno d’estate, dopo di aver lavorato lungamente allo scrittoio. Erano quasi le quattro dopo mezzogiorno. Sulla città calavano ancora gli ardori del sole; i marciapiedi scottavano bianchi e aridi. Tutte le case avevano le persiane chiuse; davanti ai negozi le tende bianche e gialle proteggevano in pari tempo le vetrine e i rari passeggieri.
Senio camminava nel mezzo della via, accompagnando il movimento ritmico del passo con una leggera canna che teneva nella mano destra. Guardava in alto, sfidando la luce intensa che non gli recava nessuna molestia, pensando vagamente alla direzione da prendere. In quel mentre si sollevò una delle tende che nascondevano i negozi, sostenuta ossequiosamente dal mercante per dare libero passaggio ad una signora che ne usciva. Alta, slanciata, volgendo indietro la testa per rispondere al saluto, con le labbra ancora socchiuse dall'ultima parola pronunciata, ella alzò il braccio per aprire l'ombrellino, e in quella positura elegante e spigliata si offerse tutta all'ammirazione di Senio.
Bella donna — egli pensò — guardandola ed incontrando direttamente lo sguardo di lei con un baleno rapido e reciproco di simpatia, quasi di riconoscimento.
Si fermò subito; ma ella era già passata, leggera, distinta, trascinando appena sul lastrico un abito bleu scuro, mentre il bel personale si disegnava sotto una camicetta di seta color perla semplicissima, stretta molto in alto sul collo. L’ombrellino, bleu anch’esso, le faceva una cupola d’ombra intorno al capo. Sparve, così, lasciando Senio estatico a seguirla con lo sguardo, provando la sensazione di respirare un’aria più pura là dov’ella era passata, dove sembrava essere rimasto, negli atomi invisibili, qualche cosa di lei.
— Eppure non mi è nuova! — tornò a pensare Senio, riprendendo la passeggiata a capo chino. — Io l’ho vista altrove.
Gli era rimasta negli occhi l’immagine di quell’abito bleu cascante con un grazioso molleggiamento di seta floscia, ed il riflesso bleu dell’ombrellino sulle spalle e sul collo della signora. Se non che, a furia di ripensarvi, il colore mutava nella sua memoria; era un nero intenso che la copriva dalla testa ai piedi, un nero di lutto. — Ah! — esclamò quasi a voce alta, battendosi la fronte — ora ricordo. E con la gioia ingenua di uno spiegatore di sciarade, Senio potè dire a sè stesso di avere riconosciuta nella incognita la stessa persona che gli era stata compagna di viaggio, sei mesi prima, attraverso i monti della Liguria.
Rimaneva incognita, a dir vero, ma questa incognita aveva già un posto nella sua mente. Egli ne conosceva il portamento, il colore degli occhi e dei capelli, il movimento delle labbra, il profilo imperioso e delicato ad un tempo, che dava un’espressione aristocratica alla fisionomia. Era certo di riconoscerla oramai sotto qualunque abbigliamento.
Continuando la passeggiata, faceva suo malgrado un confronto con le donne che incontrava. Quale differenza! Che particolarità uggiose di volti antipatici, di figure goffe, di espressioni triviali o melense! Lei invece aveva tutto. E come si muoveva! Che grazia nel salutare, nel sorridere, nell’aprire l'ombrellino! Bella, bella, bella!
Strinse i denti, affrettando il passo e con esso il movimento della piccola canna nell’aria.
Aveva lasciato le vie principali della città e camminava senza avvedersene in mezzo agli alberi, sotto un cielo che andava rapidamente perdendo la trasparenza dorata per coprirsi di un leggerissimo velo di nubi. L’afa era cresciuta a dismisura, quando rari e grossi goccioloni ne ruppero improvvisamente il peso con una corrente fresca ed umida, cadendo dall’alto, a guisa di baci pietosi sopra guancie infuocate.
Senio respirò largamente esponendo la faccia al benefico ristoro, invaso da una completa sensazione di benessere, sentendo e gustando in tutte le membra la gioia profonda di vivere. Siccome la pioggia cresceva, tornò indietro, riparandosi sotto gli alberi, i quali trattenevano le gocciole tra ramo e ramo lasciando passare appena una spruzzatura, che sollevava dai tronchi e dalla terra un profumo vitale.
Il pensiero di una conferenza che doveva tenere il giorno seguente venne a Senio più dolce e più gradito in quel ristoro di tutta la natura. Egli era oramai sicuro che la sala sarebbe stata affollata del solito pubblico, anche di coloro che hanno paura del caldo.
Avvezzo ai trionfi, non s’inebriava in tali occasioni nè prima nè dopo; solamente provava una gioia tranquilla, come il godimento della sua forza, e una presa di possesso legittima e serena de’ suoi diritti d’uomo superiore. Ancora una volta egli avrebbe avuta la soddisfazione di dominare una folla, di conquistarla quasi, obbligandola a ricevere le sue idee.
Le orgogliose parole di un poeta: «Il mio sogno sarà la vostra realtà» lo pungevano, lo sferzavano dolcemente, delicatamente, proprio come uno sprone d’oro nel fianco di un cavallo di razza.
Gli venne sulle labbra un periodo della sua conferenza. «L’educazione del popolo resterà una illusione ed una menzogna finché accanto alla scuola, sui muri stessi che dovrebbero accogliere la sapienza e la morale, vedremo sciorinato in una stampa a colori vivaci il delitto impressionante della quindicina; finché dal fanciullo all’uomo, non esclusa la metà più gentile della popolazione, continueremo ad abituare le masse alla vista del sangue, alla morbosa compiacenza di ricostituire sopra due figuraccie mal disegnate, l'emozione di un uomo che spacca il cranio ad un suo simile o che trascina una donna per i capelli.»
Si trovava appunto davanti alla palizzata di una casa in costruzione, ricoperta da cima a fondo di avvisi fra i quali spiccava, in color rosso, l’annuncio di una pubblicazione intitolata: Le esecuzioni celebri, illustrata da una forca col suo bravo cadavere penzolante sulle teste di migliaia di spettatori, disposti a semicerchio come in un teatro.
Più ancora, più ancora che la parola — pensò Senio corrugando la fronte — l’opera ci vuole! E un bisogno prepotente di salire si sovrappose alla compiacenza del momentaneo trionfo. Intravide, in una improvvisa intuizione del futuro, il giorno in cui la parola proibizione potesse uscire non dalla sua bocca a guisa di consiglio, ma vergata imperiosamente dalla sua penna in forma di comando.
Il viale era terminato. Uscendo di sotto agli alberi si accorse che non pioveva più. Tutte le vie della città avevano preso un aspetto di sollievo, con le pietre lucenti, gli arbusti rinverditi, le finestre aperte. Le tende dei negozi erano state rotolate e sulle soglie apparivano figure stanche di donne, che venivano a respirare una boccata d’aria dando una guardata al cielo, dove piccoli gruppi di nuvole, sfumando, sembravano svolgere spire cineree da ignoti turiboli. Alcuni si fermavano a discorrere, non più disturbati dal sole, formando dei crocchi all’aperto. Le trattorie, dalla porta spalancata, mostravano l’invito delle tovaglie distese e delle coppe di cristallo colme di ghiaccio.
Senio guardò l’orologio; erano le sei in punto. Andò a pranzare.
La sera la passò al Circolo coi soliti amici, senza divertirsi troppo. Fumò due sigari, sdraiato sul divano, ascoltando in apparenza una discussione politica, ma pensando ad altro; non più alla conferenza però, nè a qualsiasi cosa determinata. Lasciava vagare lo spirito in quel dolce caos di visioni che non impongono una pronta risposta, e che sollevando l’anima alla vaporosità della vita contemplativa, le permettono tuttavia di stare attaccata alla terra.
Egli subiva talvolta queste fluttuazioni della mente, durante le quali gli sembrava che lo studio, senza una meta che infiammi, sia arida cosa. Quando egli aveva risoluto un problema o afferrata una verità, quando aveva trascorse le ore sui libri che la sua intelligenza assimilava, ma che il suo cuore non comprendeva sempre, gli restava ancora un senso di vuoto, come se davanti a lui la via si allungasse interminabilmente, piena di voci che egli non capiva.
La verità, il bene, il progresso; ma che cos’è in fondo tutto ciò? Era veramente questa la meta?
Dalla politica, i suoi amici erano passati a discorrere di alpinismo, poi di caccia e di sport. Egli ascoltava sempre. Esauriti gli argomenti seri fece capolino la barzelletta, l’aneddoto salace ed anche la sciocchezza.
La meta! la meta! — pensava ancora Senio, con la testa rovesciata indietro sulla spalliera del divano.
Di nuovo le voci lo chiamavano e la via si allungava, si allungava...
Ma egli non restava mai molto sotto l’impressione di tali fantasticherie. Lasciò il divano e si mischiò per mezz’ora alle chiacchiere degli amici, scherzando con loro in quello schietto abbandono delle riunioni fra uomini, dove la libertà assoluta non è la minore delle attrattive.
— Sapete — disse un professore di letteratura che si era lasciato trasportare a discorsi troppo leggieri — noi, immaginando le donne attente al cucito, al ricamo, ai fiori, al bucato, diciamo: povere donne! Ma se le donne sapessero con precisione dove e come si espande la pretesa superiorità del maschio, esclamerebbero forse con maggior ragione: poveri uomini! Sicuro; abbiamo Cesare, Napoleone, Alighieri, Galileo; ma quando un uomo non detta i Commentari, non vince una battaglia, non scrive un poema e non scopre la legge di gravità, credetemi, si alza, si veste, esce, passeggia, dice delle corbellerie e le fa, assolutamente come le donne.
Qualcuno protestò; i più risero e fra questi Senio, che essendo riuscito a dominare i suoi nervi, uscì dal Circolo di buonissimo umore, in quello stato di perfetto equilibrio tra il corpo e lo spirito che era il suo stato naturale.
Nel mese di settembre, Senio si prese un paio di giorni di vacanza e andò a trovare Stefano. Aveva una specie di rimorso per il modo brusco col quale lo aveva lasciato; e tutte le volte che pensava a lui, se lo rammentava sempre ritto sulla soglia, con la fronte alta, i capelli sollevati dal vento, gli occhi ardenti di lagrime contenute.
Come aveva sopportata la sua sventura? Egli temeva di trovarlo accasciato, invecchiato nella triste solitudine, maledicendo agli uomini ed alle cose. Lo rivide; e la prima impressione fu subito buona.
Lo studio dove Stefano passava le sue ore di raccoglimento e tutta la casetta modesta e tranquilla avevano assunto un’aria di rassegnazione austera. Senio nel vederlo pensò che se l'intima espressione di un paesaggio fu paragonata ad uno stato d’anima, anche l’anima rivela qualche volta un misterioso legame con la natura. L’aspetto del suo amico e tutto quanto lo circondava gli diedero l’immagine di una marina dopo la tempesta, quando le onde ritirandosi scoprono la maestà della scogliera battuta ma non vinta.
L’incontro fu pieno di espansione.
Stefano apparteneva a quel piccolo numero di persone che sanno sempre trovare una ragione per scusare le mancanze degli altri. Nella sua ammirazione per l’amico, considerava la poca sensibilità di Senio come l’ombra necessaria in quel gran quadro di luce.
La servetta, ancora la stessa e sempre ciarliera, spiegò a Senio in un momento che lo trovò solo, tutta la vita del suo padrone con una parola: È un santo.
E Stefano col sorriso dolce e malinconico di chi si è abituato a guardare le cose dall’alto, condusse Senio attraverso la nuova disposizione della casetta, dove era stata fatta una larga parte per i poveri e per gli ammalati che venivano a consultare il giovane medico. In quello che era stato il salotto della sposa, dove Senio aveva visto il tavolino da lavoro coi gomitoli di lana rosa e il ditale d’argento, Stefano gli mostrò tutta una batteria di farmachi e di nuovi ritrovati che la meccanica mette ora a disposizione dei medici.
Ma davanti a quella trasformazione il pensiero di Senio correva al ditalino d’argento che lo aveva impressionato la prima volta; e da questo ad un altro più piccolo d’avorio che una fanciulla teneva in grembo, in un mattino di marzo, seduta sotto un alberello di melo. E ancora, come quel mattino, la soave figura di Dina si urtò nella sua mente con la figura ignota della moglie di Stefano.
— Non abbiamo farmacia in questo paese — notava Stefano con l’aria convinta di un uomo che fa semplicemente ciò che deve fare. — Era necessario provvedere ai casi urgenti, che accadono pur troppo spesso, con tante fabbriche che abbiamo qui.
Egli si curvò ad aprire un congegno che teneva riunito un lettino da campo in completo assetto e glie lo mostrò con una specie di gioia trionfante. In quel movimento e nella espressione giuliva ricordò a Senio il giorno in cui gli aveva parlato del suo amore, levando da un cofano, dove conservava i suoi tesori, i certificati che gli avrebbero permesso di prender moglie. Erano scorsi tre anni appena....
Il terrore strano, invincibile, che prendeva sempre Senio davanti alla fatalità della sofferenza, incominciava a stringerlo alla gola. Egli chiese all’amico come aveva fatto a procurarsi quell'impianto che doveva costare assai.
Stefano entrò allora nei particolari di un’opera che ideata da lui doveva sollevare, insieme col suo proprio dolore, i mali di migliaia di persone. Disse che una benefica signora aiutava l’istituzione e che da tutti i paesi vicini gli venivano incoraggiamenti e soccorsi.
— Gli uomini — aggiunse con una intonazione profonda — non sono poi tutti cattivi; sicuro, bisogna amarli, amarli sopratutto nelle loro miserie.
Suo malgrado, l’attenzione di Senio tornava a fuggire. Egli pensava: Ecco la donna, l’eterna inconsciente, la nevrotica, l’ammalata, la pazza, che avendo ottenuto un cuore come quello di Stefano lo getta via stupidamente con la stessa leggerezza con la quale si priverebbe di un nastro sgualcito. Oh! ella sogna l’ideale, a quindici anni, in una giornata di primavera, sotto una pioggia di fiori, ma il suo ideale è di trovare un uomo che la chiami bella e l’ultimo arrivato è sempre il meglio accolto.
— ....tu forse conosci donna Clara. La conosci?
A questa domanda diretta Senio tornò in sè.
— Donna Clara?... no, non saprei. Chi è?
— Te l'ho detto. È il nome della signora che, essendo ricca e libera e buona, mi aiuta in quest’opera.
— E perchè dovrei conoscerla?
— Perchè sta quasi tutto l’anno in città e qui, dove tiene una villa, non appare che di passaggio; ma il suo passaggio è sempre benefico, come il Nilo, sai?
— È una vecchia zitella?
— Tutt’altro. È giovane, bellissima, sfortunatissima.... Donna Clara Aldobrandi, non rammenti? la moglie divisa di quel Pippo Aldobrandi vizioso, cinico, beone, dissipatore....
— Ah! mi pare, infatti. In nome non è nuovo, ma non conosco la signora....
Le spiegazioni di Stefano erano terminate. Egli stava ora davanti all’amico con un lieve rimorso di averlo intrattenuto di sè stesso per tanto tempo.
— E tu — disse — non pensi a fabbricarti un nido?
— Un nido? — gridò Senio, stupito, quasi irritato che egli osasse parlare di ciò; e temendo di uscire in esclamazioni troppo dure, soggiunse sorridendo: — Il nido lo fanno le rondini, non i falchi, i quali se non spaziano al disopra delle nubi si rifugiano tra le roccie.
— Un nido, sia pure tra i sassi, è necessario. Anche quando la bufera lo atterra e il vento lo scompiglia e lo disperde, esso fu. Ogni affetto è un nido per il cuore dell’uomo, ogni memoria è un rifugio. Spogliato dell’idolo, il tempio protegge ancora e difende.
— Tu sei un mistico e un sognatore. Io fuggo la donna che rappresenta il nido per noi.
— Fai male.
— Perchè?
— Perchè la donna si vendica.
— Oh! fece Senio — e per quanto cercasse di dominarsi, trasparì questa volta la meraviglia che Stefano stesso si facesse il paladino di tale causa.
Il giovane medico comprese e sorrise melanconicamente.
— Ti sembra strana la mia fede nella donna?
— Non te lo nego.
— Tutte le cause hanno le loro vittime, tutti gli ideali i loro martiri; la verità non ne scapita per questo e da verità scientifica diventa verità religiosa. Gesù in croce non riesce a provare che egli avesse torto. Non ti pare?
— È innegabile, però, che l'amore della donna sdoppia l’uomo, lo diminuisce, lo rende incapace di dedicarsi tutto alla sua missione superiore. La donna è un parassita che vive a nostre spese e succhia il nostro cervello col pretesto di darci il suo cuore. Voglio pure ammettere che questo cuore ce lo dia davvero, e anche allora non regge il confronto; noi ci perdiamo sempre se al posto di un pensiero d’uomo mettiamo un sentimento di femmina.
— La cosa potrebbe essere presa in considerazione se noi fossimo sicuri di potere sfuggire la donna.
— E non lo siamo? — esclamò Senio con impeto.
— No — rispose Stefano lentamente.
— Ma dunque? Se non neghi in modo assoluto la mia teoria, come posso io ciecamente accogliere la tua?
— Compiamo la nostra missione sulla terra senza preoccuparci troppo della felicità che ne potremo ricavare; meglio soffrire per la fatalità del destino che per il nostro egoismo. Questo è il mio convincimento. Quando un uomo ha fatto ciò che deve fare, il resto non gli appartiene.
Invece di due giorni come era dapprima stabilito, Senio si fermò una settimana. L’anima calda e serena di Stefano si armonizzava più di quanto poteva sembrare coll’anima fredda, ma pur serena di Senio. Riprendevano le loro discussioni, le lunghe ciarle di quando erano studenti. Stefano non parlò mai di sua moglie e Senio glie ne fu segretamente grato. Aveva anche troppo in mente quel triste dramma, e rifuggiva dagli argomenti dolorosi.
Egli avrebbe certo fatto qualche cosa per alleviare i mali del prossimo; avrebbe dato denari, idee, tempo, tutto; tutto, fuorché soffrire egli stesso. Questo non poteva.
Il giorno prima della sua partenza Senio fece una lunga passeggiata insieme a Stefano. Nel passare davanti a una villa quasi sepolta sotto gli oleandri, Stefano disse:
— È qui che abita donna Clara.
Un servitore usciva in quel punto; egli riconobbe il medico e credendo che andasse a far visita alla signora, si affrettò a spalancare il cancello.
— Ma è arrivata? — domandò Stefano.
— Da ieri. Se vuole entrare, la signora si trova appunto in giardino.
Stefano consultò Senio che non ebbe, per sua parte, nessuna opposizione a fare. Entrarono dunque, preceduti dall’officioso servitore e, percorsi pochi passi tra il gruppo degli oleandri, scorsero subito donna Clara che stava cogliendo fiori con un panierino in una mano e le forbici nell'altra.
Piuttosto sottile, snella, vestita di chiaro, con una cintura di pelle che le serrava la vita, senza niente in capo, altro che un gelsomino infilato lì per lì nei capelli, ella sembrava una fanciulla. Ma via via che la guardava e che andava avvicinandosi, Senio credette di riconoscerla e non ebbe più alcun dubbio quando le fu vicino. Era sempre lei, la signora in lutto, la signora del vestito bleu, la sua incognita, infine.
Ella pure mostrò di riconoscerlo, arrossendo leggermente, intanto che Stefano faceva la presentazione scusandosi dell’ardire; ma nè l’uno nè l’altra dissero nulla. Successe così che Stefano, pur essendo il solo amico di entrambi, rimase per un momento e sotto un certo rapporto quasi estraneo, perchè inconsapevole di quel piccolo segreto che rendeva oltremodo geniale rincontro di Senio con la signora.
Ella fu gentilissima, li invitò nel suo salotto, insistendo per farli rimanere quando accennarono a levarle il disturbo. Parlò nè troppo nè poco, bene, con molta grazia e serietà, con una semplicità incantevole.
Senio la guardava attentamente dalla testa ai piedi, confermandosi in quella sensazione di attrazione simpatica che aveva provato fin dal primo giorno che l’aveva veduta. Tutte le volte che i loro occhi si incontravano avevano qualche cosa da dirsi, qualche cosa all'infuori dei discorsi sulla villeggiatura, sulla stagione, sull’arte; una specie di rivelazione, come un bisogno di confidenza e di sfogo.
A poco a poco si trovarono tutti e tre così uniti da parere vecchi amici. L’ingegno e lo spirito di Senio si svolsero nel modo più brillante; l’azzurro chiaro delle sue pupille nuotava in una luminosità d’uomo felice, che si rifletteva su tutta la fisionomia accrescendone la vigorosa bellezza.
La presenza, la voce, perfino l’abito di quella donna sembravano emanare un fluido accarezzante, tracciavano intorno a lui un cerchio misterioso, quasi una seconda atmosfera. La luce del salotto, il colore delle stoffe, la forma dei mobili, il tappeto, i quadri, tutto gli era già familiare. Avendo ella appoggiate le sue forbici sul tavolino, Senio fu irresistibilmente trascinato a prenderle in mano, ad aprirle, a chiuderle rapidamente, sotto gli sguardi di lei che non lo abbandonavano, pur discorrendo con Stefano; ed erano sguardi aperti e chiari che sorridevano; sguardi lunghi che attiravano; una specie di mare cangiante, limpido e profondo dove egli si sarebbe annegato volentieri, dove annegava già in una specie di abbandono oblioso.
Stefano guardò l’orologio e diede un balzo:
— Siamo stati qui due ore!
Senio ripetè:
— Due ore!
La signora sorrise.
Accompagnandoli fino al cancello, donna Clara raccomandò al dottore di farsi vedere spesso.
— Quanto a lei — soggiunse rivolgendosi a Senio — poiché parte domani, a rivederci in città.
Si strinsero la mano con espansione. Ella stette a guardarli finchè scomparvero dietro gli oleandri.
Appena furono soli, Senio palesò a Stefano come egli avesse già veduta la signora e come la trovasse bella, simpatica, adorabile. Stefano fece eco, ma con minore espansione. In fondo all’animo suo la sensazione materiale evaporava in una malinconica dolcezza.
— Ella ha tutte le doti che dànno diritto alla felicità, eppure non è felice.
— Non si direbbe.
— Perchè è molto gentile, nevvero? La bontà del suo cuore la mette in grado di ricevere per riflesso la gioia ch’ella dà agli altri.
Su questa frase il dialogo dei due amici si interruppe bruscamente. Stefano usava spesso queste sentenze riassuntive, frutto di una esperienza che meravigliava sempre Senio, mostrandogli quanto fosse opposto al suo il carattere e il modo di sentire dell’amico.
Alla sera, mentre stavano prendendo il caffè, soli, con la servetta che girellava sparecchiando Stefano uscì a dire:
— Donna Clara ha il vero istinto della carità. Ella non benefica per vanità o per sentimentalismo, l'amore è un bisogno del suo cuore.
Anche questa Volta Senio non rispose. Le parole di Stefano gli facevano l’effetto di cancellare l'impressione voluttuosa da lui risentita vicino alla signora. Lontano da lei, la creatura seducente scompariva, svaniva il fascino, svaniva la donna; non restava che una suora di carità.
Ritornato alle proprie occupazioni, Senio non pensò più che tanto a donna Clara.
Incominciava ad occuparsi di politica, l’ambizione lo spingeva, la gloria lo tentava. Si rituffò nelle ardue questioni di morale, di educazione, di economia, di socialismo, ma unendole ad una mira fissa. Giungere in Parlamento era oramai lo scopo di tutte le sue azioni. Gli amici lo sapevano e lo portavano a bandiera spiegata. Egli aveva il dono di piacere e di persuadere; tutti quelli che lo conoscevano si aspettavano grandi cose da lui.
In mezzo alle emozioni della vita pubblica, la breve lacuna della vita intima gli veniva sempre colmata da Corinna. Egli leggeva con una specie di commozione le lunghe lettere della zitellona, che gli mandava pure con regolarità le calze e le camicie, tenute con cifre e numeri, tale e quale un registro in scrittura doppia.
Per Natale ricevette un mazzo di fiori artificiali, lavoro specialissimo di Orsola, senonchè Corinna, in un poscritto, avvertiva che il gruppo delle violette era stato fatto esclusivamente da Dina.
Povera ragazza! pensò Senio, fermandosi cinque minuti a ricordare il profilo soave della sua giovane amica, scaldandosi quasi a quella fiamma di affetti così disinteressati e così costanti.
L’anno incominciò con lunghe pioggie, fitte, insistenti. Senio aveva molte cose da fare e si trovava tutti i giorni in giro, a lottare coi piedi nella mota e la testa fra gli ombrelli. In tale condizione si incontrò un giorno faccia a faccia con la signora Aldobrandi. Ella era tutta coperta di pelliccia, con una veletta intorno al cappellino. Si guardarono intensamente, quasi urtandosi, salutandosi appena.
Quando fu passata, Senio ebbe il rammarico di non averla salutata meglio e di non avere tentato almeno di parlarle. I suoi occhi dietro la veletta fitta a puntolini di ciniglia, gli erano sembrati più brillanti che mai, pieni di un ardore misterioso.
L’ebbe in mente per tutto il giorno; si rammentò l’indirizzo della sua abitazione, e dopo pranzo si trovò senza accorgersene davanti al portone della casa. Ma una volta là, ebbe a riflettere che non era conveniente presentarsi di sera per una prima visita ad una signora. Si accontentò di guardare due finestre del primo piano, donde, traverso una studiata distribuzione di tendine bianche ed azzurre, filtrava un sottile raggio di luce.
Si decise finalmente a entrare dal portinaio lasciando la sua carta di visita.
Incontrò poi alcuni amici che lo trascinarono a un teatro d’operette. Contro ogni sua aspettativa si divertì moltissimo; rise, fece dello spirito, ammirò le attrici, ne corteggiò principalmente una applaudendola in modo compromettente; tanto che i suoi amici, sempre intenti a fargli piacere, glie la fecero trovare a cena — una cena pazza dalla quale uscì verso l’alba.
Il 25 febbraio — un martedì — Senio si trovò finalmente nel salotto di donna Clara Aldobrandi.
— Perchè ha tardato tanto a lasciarsi vedere?
— Non saprei... temevo di importunarla.
— Non temeva altro?
— Per esempio?
— Di annoiarsi. Io non sono molto mondana; adoro la compagnia, ma solamente quella degli amici. L’essere lei tanto amico del dottore Mordini fa sì che mi sembra di averla sempre conosciuta.
Senio avrebbe voluto soggiungere che realmente si conoscevano da un pezzo, ma si trattenne per un bizzarro senso di pudore e forse anche per un’altra ragione più nascosta. Parlarono invece di Stefano, e quell’argomento stabilì subito fra loro una buona intelligenza.
Come alla villa, Senio si sentiva rapito. Tranne che con sua sorella, egli non si era mai trovato in un ambiente così intimo, quasi di famiglia; e per quanto donna Clara fosse bella, doveva pure riconoscere che ciò che egli provava guardandola non era il semplice effetto della bellezza.
Ella aveva i capelli scuri, abbondanti, come cento e cento altre donne; ma perchè in questi scorgeva una morbidezza insolita, più interna che visibile, fluido più che linea? Perchè ne’ suoi occhi egli sentiva lo strano desiderio di sprofondarsi, di andare giù, giù, giù, come in un abisso? Donna Clara possedeva una voce melodiosa, senza dubbio, ma non aveva egli sentito cantare la Pantaleoni e recitare Sara Bernhard? Perchè questa voce lo penetrava come una essenza, come un estratto raffinato di fiori rari? E nelle spalle, nelle braccia di donna Clara, quale linea nuova si rivelava, quale arcana, inesprimibile eleganza, per cui l’anima sua sembrava affacciarsi a un ideale di seduzione non provata mai?
Parlarono di musica, di letteratura, di giornali, scoprendo che avevano dei gusti quasi simili; e se qualche volta alla prima non erano d’accordo, cercavano subito un addentellato per intendersi; che se l’addentellato tardava ad arrivare, era una pena, una ricerca febbrile, finché, trovatolo, ne erano lieti insieme come avessero conquistata la sola cosa necessaria alla loro esistenza.
E poi parlarono delle stagioni, comunicandosi i loro gusti sul caldo, sul freddo, trovandosi d’accordo nel prediligere i salottini ben chiusi fra il tepore delle stoffe e della fiamma, mentre fuori cala lenta la nebbia. Lei era poco amica del sole, a lui piaceva; ma anche su questo riescirono ad un accomodamento, giudicando che un’ora d’estate al rezzo degli alberi, vicino al mormorío del ruscello, davanti alle montagne azzurre, valeva quanto un’ora d’inverno nell’angolo del caminetto.
— Mi piace l’azzurro sopra tutti i colori.
— Anche a me.
— Quale profumo preferisce?
— Uno solo, poco noto...
— Io pure ne preferisco uno che non si trova sempre nelle profumerie, è la mimosa.
— Strano! stavo per dirlo.
— E nella musica non abbiamo pure le nostre simpatie, bizzarre, esclusive, tiranne?
— Chopin, è vero?
— E Beethoven.
— Sì. E Gounod?
— Gounod... il mio!...
Una visita interruppe l’armonia. Era una signora vecchia, che donna Clara accolse con grande rispetto e con garbatezza squisita, dimenticando quasi l'avvocato, al quale inviò un breve sguardo, come per invitarlo alla pazienza.
La signora vecchia parlava lentamente, senza fretta; entrò nei particolari di una operazione che aveva dovuto subire in causa di un dente guasto; l’argomento la trascinò a chiedere notizie di una comune amica che si trovava pure ammalata, e questa volta fu donna Clara che dovette dare tutte le spiegazioni richieste; ma la sua voce rivelava una ansietà, quasi una furia di finire.
Gettava ancora di tanto in tanto una rapida occhiata a Senio, temendo di vederlo andar via. Senio però era calmo e non sembrava nè seccato nè impazientito. Secondo la sua abitudine, giocherellava coi piccoli oggetti che trovava a portata della mano; aveva così accarezzato una bomboniera, un ritrattino, un album, finchè preso un tagliacarte se lo batteva distrattamente sulla bocca, fingendo di interessarsi alla conversazione.
Donna Clara non perdeva nessuno de’ suoi movimenti, e nella piccola contrarietà della visita inopportuna provava una gioia singolare a vedere Senio così stabilmente insediato, già famigliare con quel salotto, con quei gingilli; e, cosa più singolare, sentì un leggiero brivido di piacere quando egli si appressò il tagliacarte alla bocca.
L’alzarsi della vecchia signora le procurò un’altra sensazione dolcissima. La salutò con trasporto e volle accompagnarla fuori dell’uscio, profondendosi in gentilezze. Il pensiero che Senio l’aspettava, là, presso la sua poltrona, davanti al suo tavolino, le fece parere un incanto quel breve tragitto. Ritornò poi al suo posto dignitosa e corretta, ma con una espressione di contentezza che non potè sfuggire a Senio.
— Si diceva dunque Gounod? il mio favorito. Conosce quella deliziosa pagina che è Il sedile di pietra?
Senio non la conosceva. Ella promise di fargliela gustare se fosse venuto qualche sera. Non aveva serate di ricevimento fisse; gli amici erano sempre i benvenuti. Pronunciava la parola «amici» con un calore che la traduceva dal plurale al singolare.
Oramai avevano esauriti gli argomenti soliti di conversazione; ma sembrava ad entrambi che restassero ancora mille cose da dirsi, e la smania di dirle si mischiava singolarmente ad una ritenutezza di avaro che enumera i tesori del suo scrigno preoccupato dalla necessità di non sprecarli.
Il buon Stefano non era presente questa volta per avvertire che la visita durava già da un pezzo; tuttavia Senio, a malincuore, si mosse.
— Tornerà, è vero?
— Se me lo permette.
— Presto?
— Prestissimo.
Che cosa li allacciava così? Anche sulla soglia non potevano separarsi. Ella disse:
— Se scrive al dottor Mordini me lo saluti.
— Volentieri.
Egli stava per uscire; si voltò, quasi magnetizzato, ma non trovava nulla da dire. Balbettò: un «a rivederla», e prese la fuga giù per le scale.
Donna Clara rientrò nel suo salotto un po’ agitata, sedette sulla stessa poltroncina che aveva occupata Senio e si pose a toccare macchinalmente i piccoli oggetti sparsi sul tavolino; la bomboniera, il ritratto, il tagliacarte... Sollevò questo fino all’altezza della bocca, esitò, resistette, vinse e lo depose precipitosamente, come se le scottasse le mani.
Allora le venne in mente di guardar dalla finestra, donde vide Senio che si allontanava tra la luce crepuscolare, e stette lì pensosa. Tornò poscia accanto al tavolino, aprì il cassetto, ne tirò fuori un fascicolo di foglietti legati insieme a modo di Agenda e lesse le sue memorie incominciate, giusto per una curiosa combinazione, un anno prima:
«Alla Villa, 25 febbraio. — Il bisogno di solitudine non è un capriccio, come pensano forse le mie amiche, alle quali non par verosimile ch’io venga a chiudermi qui mentre nevica. Quando si è soli nell’anima, non è meglio star soli anche di fuori?
«Son già nove mesi che mamma è morta ed ora so bene che non c’è più nessuno che mi ami. Qui almeno mi pare di essere amata dai muri, dai vecchi mobili che mi han vista nascere, dagli alberi e dai viali dove giocai bambina felice.
«Oggi, mentre il treno correva in un deserto di neve, io pensavo che pur sotto quella neve le povere case sparse nella campagna accoglievano l’unione dei cuori. C’erano laggiù in fondo alla valle, su per i monti, dappertutto, delle madri, dei mariti, dei bimbi; intorno ai focolari accesi le mani si intrecciavano. Solo a me tutto manca. Ho ventotto anni e la mia vita è finita; non ho amato ancora e non potrò amare mai.»
«26 febbraio. Ah! la neve, la neve di ieri non cadeva tutta su focolari accesi. Ho un fratello nel mio dolore, un uomo che piange solo, a ventott’anni anch’esso, la rovina della sua vita. Povero Mordini, povero amico! Posso io ancora lagnarmi? Ho io diritto alla felicità? Per quali ragioni? Chi me l’ha promessa? Mentre il mondo è pieno di lagrime, non è un egoismo ch’io stia qui a contemplare ed a raccogliere le mie? Un uomo è stato percosso e atterrato dal destino, come me; mille altri lo sono come noi; chi accusare? chi maledire? Siamo naufraghi sbattuti lungi dalla nostra patria, per la quale i nostri cuori sanguineranno sempre, ma non abbiamo noi il diritto di cercare una seconda patria, di afferrare un nuovo lido? Non è questo il nostro diritto vero, più che quello di imprecare e di maledire?»
«1 marzo. Ho visto il buon amico. Ci siamo stretti la mano in silenzio. Credo che ci siamo compresi. La sua afflizione mi attrae come una grande bellezza malinconica. Sono fiera, nel versar queste lagrime, di sapere che non le verso per me. Ciò mi innalza, mi sento più degna di piangere dal momento che non piango per me sola.»
A questo punto donna Clara svoltò in fretta parecchie pagine del manoscritto; voleva arrivare ad una data più recente.
«18 settembre. Che bella giornata, oggi! Bella per il sole, per l'aria, per la giocondità delle aiuole tutte fiorite, perchè mi sento bene, perchè ho fatto un po’ di bene... Sì, per tutto ciò; ma per altro ancora.
«Io mi sentivo addosso una letizia insolita, qualche cosa di aereo che mi trasportava, che mi rendeva giovane, che mi faceva aspirare nell'aria mille profumi ignoti. Oh! mia povera madre, perdonami, mi pareva quasi di essere felice.
«Che cosa vogliono dire queste ore lucenti in mezzo a una esistenza tutta nera? D’onde provengono? Sono forse le prime battute di una sinfonia che arriverà più tardi? Oh! ma come sperare? Che cosa? No, no, nulla vi è più per me.
«Il buon amico venne a trovarmi con un suo compagno. Quale sorpresa! Chi sa se egli mi ha riconosciuta! Io lo conosco da molto tempo; abbiamo viaggiato insieme lo scorso inverno senza dirci una parola; cioè sì; io gli dissi: grazie, per avermi ceduto il passo.
«E poi lo rividi nel mese di agosto, il primo giorno che deposi il lutto della mamma. Egli è di quelle persone che, viste una volta, non si dimenticano più. A Venezia, sotto le Procuratie stettero esposti per una settimana due zaffiri destinati ad una principessa orientale; i suoi occhi sono come quegli zaffiri, freddi e chiari. Sono pietre preziose dunque? Ecco un nome ed un aggettivo che mi fanno pensare. Il suo nome stesso è fatidico: Senio-Straniero.»
Donna Clara si fermò ripetendo Senio-Straniero, con una sensazione dolorosa. I foglietti le caddero di mano, e così, senza una ragione apparente, fu invasa da una profonda malinconia. Prima di riporre l’Agenda scrisse sull’ultimo foglio:
«25 febbraio. Che cosa vuol dire dopo un’ora di gioia un istante d’incomprensibile tristezza? È un presentimento? È un consiglio?»
Al Circolo, Senio trovò facilmente con chi parlare della signora Aldobrandi; i casi di lei erano noti; il suo matrimonio con Pippo Aldobrandi sembrava dover essere dei più felici, poiché si univano due gioventù, due bellezze, due ricchezze, due intelligenze. Erano una splendida promessa per l’avvenire; ma l’avvenire aveva smentito il pronostico. L’Aldobrandi, vissuto fino a ventanni sotto un giogo di ferro che nulla aveva lasciato trapelare del suo carattere, si era svelato nella libertà coi peggiori istinti, e la sposa ingannata, dopo acerbe lotte, aveva accettato l’epilogo doloroso della separazione.
Tutto era chiaro, semplice, riconosciuto e provato. Provato che la colpa era del marito, provata la virtù della moglie. In sei anni di separazione la signora Aldobrandi non aveva dato il più piccolo appiglio alla maldicenza. Senio s’interessò, anche come avvocato, ai particolari della causa. In definitiva non gli sembrava che la posizione di donna Clara fosse delle peggiori, poiché ell’era libera, ricca, senza figli, senza obblighi di sorta; e questa apparenza di benessere lo attirava, avendo egli simpatia per le persone felici.
Tornò da lei con slancio, sempre più ammaliato, subendo il fascino della bella persona e di quel calore che si sprigionava fra loro due in un modo così violento e irresistibile; sopratutto perchè Senio non era un seduttore, nè donna Clara una civetta, tale spontaneità riusciva irresistibile.
Sentirono nel trovarsi insieme l’impressione strana di essere parenti, di essersi sempre conosciuti e un bisogno di aprir l’animo l’uno all’altra, di saper tutto.
Egli incominciò a narrarle la sua vita dal principio, da Corinna. Le descrisse la casa provinciale, le abitudini antiquate e le grandezze e le meschinità di quell’ambiente fatto tutto d’amore e di sacrificio. Poi gli anni del collegio, gli studi, i sogni, i viaggi, le ambizioni, le lotte per l’ideale, le lotte per l’esistenza. E più ancora le lotte intime, scoraggianti, contro lo scetticismo.
Ella si rialzava, tutto ardore, vedendo un còmpito davanti. Avrebbe voluto parlargli di sè stessa, ma temeva di perder tempo e, tutta intesa a cercare l’accordo, metteva la propria anima negli occhi, nell’accento, nella stretta di mano, nell’attenzione muta e palpitante.
Si riservava a parlare di sè più tardi, in altro tempo, felice di conservare questa risorsa per una maggiore intimità. Non chiedeva a sè stessa quando ed in quale misura tale intimità potesse venire, accontentandosi di sentirla vibrare intorno a sè, quasi una elettricità latente ed inevitabile.
Senio che aveva incominciato ad andare da lei qualche volta alla sera, prese l’abitudine di andarvi tutte le sere; prima un’ora, poi un po’ più, infine per quanto era permesso nei limiti della convenienza.
Si meravigliava egli stesso di questa simpatia, di questo fatto nuovo che una donna potesse interessarlo all’infuori della sua esclusiva e ristretta qualità di donna.
Era sorpreso di parlare dei propri pensieri alla signora Aldobrandi come ne avrebbe parlato al più caro amico. Che cos’era ella dunque per lui? Perchè era venuta così prontamente a prendere un posto nella sua vita? e un posto importante dal momento che pensava a donna Clara più che a sua sorella e ai suoi piaceri; anzi ella diventava di giorno in giorno il maggiore dei piaceri, l’unico piacere? Non stava veramente bene se non vicino a lei, in quel salotto dalla luce azzurra, su quella poltroncina, davanti a quel tavolino, di cui sapeva a memoria tutti i ninnoli, e dove in ogni fibra del suo essere penetrava una dolcezza inebriante.
Nello stupore della nuova sensazione egli giunse a chiedersi se per avventura fosse quello l’amore, il terribile, il temuto nemico.
Ma donna Clara era così semplice e così buona, così aliena dalla conquista, che riflettendovi, non gli parve molto pericolosa. La sua altezza intellettuale e morale le serviva quasi di velo, per cui egli non l’aveva ancora guardata a quel modo che, secondo la sacra Scrittura, costituisce già il possesso.
Stavano insieme ore ed ore senza imbarazzo, senza sottintesi, guardandosi francamente negli occhi e discorrendo d’ogni cosa animatamente. Donna Clara, infiammata di carità, mostrava a Senio il bene che poteva fare agli uomini col suo ingegno e con la sua forza — bene di idee elevate, di morale umanitaria, quella che dovrebbe essere la vera religione delle anime. Dalla morale all’arte, le questioni più attraenti della vita moderna venivano svolte da donna Clara nella schietta espansione di un criterio che stava sempre in perfetta armonia col cuore.
Senio l’ascoltava sorridente, felice, sentendosi più buono, con una impressione di freschezza riposante, di pace, di generosità serena quale si prova all’ombra di un albero maestoso, nel meriggio del giorno, ascoltando il mormorio cristallino di una fonte; impressione che ricordava egli stesso di avere avuta in certe ore raggianti della giovinezza, quando tutte le forze concorrono a sostenere la vastità di un ideale.
Intanto era passata la primavera ed il principio dell’estate. Luglio imperava con giornate di calori torridi; eppure la signora Aldobrandi non sapeva decidersi ad andare in villa.
Senio la sorprese una sera così stanca, così abbattuta dallo scirocco che credette di doverla persuadere a cambiare aria. Ella resisteva con ragioni fiacche, incomplete; non aveva voglia di muoversi, la sarta doveva provarle alcuni abiti... Allora appunto Senio osservò ch’ella portava un vestito di seta floscia color bleu ed una camicetta color perla.
— Sta benissimo — disse — con questo abito, mi piace molto molto; è lo stesso che aveva il giorno che la incontrai sotto una tenda, mentre apriva l'ombrellino.
Donna Clara arrossì di piacere. Era la prima volta che egli alludeva ai loro incontri sconosciuti.
— Se ne ricorda?
— Come no? Come non ricordarmi che abbiamo viaggiato insieme? lei era in lutto allora; quasi non ci siamo neppur guardati, e poi siamo diventati così buoni amici.
— Destino! — mormorò donna Clara lasciando cadere le mani sul vestito.
Senio, spinto da un’arditezza insolita, si chinò avanti a toccare leggermente quella stoffa che appariva tanto morbida. Un sottile brivido di voluttà gli tolse per qualche istante la parola, ma si rifece subito padrone e soggiunse con disinvoltura:
— Mi ricordo anche di averla veduta sotto una pioggia dirotta.
— È vero.
— Sepolta nella pelliccia.
— È vero, è vero! Che buona memoria ha!
— E lei non si ricorda?...
Tali parole posero entrambi in imbarazzo, rimettendo davanti ai loro occhi quegli incontri così brevi, eppure così intensi di simpatia.
Per tacito accordo parlarono d’altro, ma la conversazione languì.
Donna Clara era distratta, Senio preoccupato; gli perdurava nella mano la sensazione morbidissima della seta del vestito, e tale sensazione invece di arrestarsi al polso saliva, diffondendosi con una invasione lenta e sicura.
Dissero ancora qualche frase scucita, poi Senio si alzò, nè ella lo trattenne.
— È proprio stanca, vero?
— Sì, sono stanca.
— È questo caldo.
— Non so.
— Che vuole che sia?
— Non so.
— Si decida a andare in villa.
— Lo desidera assolutamente?
La bocca di donna Clara si atteggiò a un malinconico sorriso e così dolce, così penetrante, che egli ne ebbe come un barbaglio negli occhi.
Ella disse: — Andrò.
Senio non trovò nulla da aggiungere. Le strinse la mano in silenzio senza porvi nè maggiore nè minor calore del solito.
Giunto a casa gli sembrò di avere una gran voglia di coricarsi subito; ma appena toccate le lenzuola, fu preso da una inquietudine, da una smania indicibile; e nel cervello un brulichío di immagini, di parvenze, una confusione di cose passate e di cose presenti, con un miraggio sfumato di gioie lontane, di desiderî nuovi, di tentazioni acute e brucianti.
Dopo una notte passata in tal modo con le ossa indolenzite e la testa pesante, il suo terrore della sofferenza lo riprese. Al mattino, balzando sotto le spugnature d’acqua diaccia, decise lì per lì di rallentare le visite alla signora Aldobrandi e di andare quella stessa sera ad un pranzo di amici che aveva dapprima rifiutato.
Quando, dopo qualche giorno, Senio ritornò dalla signora Aldobrandi, seppe che era partita per la campagna.
L’impressione che ricevette da questa notizia fu piuttosto bizzarra, perchè mentre aveva già deliberato in cuor suo di diradare le visite e già messo insieme un pretesto plausibile per giustificarsi agli occhi di donna Clara, il saperla dileguata così, come un sogno, lo punse al vivo e non voleva quasi crederci. Glie ne era dunque venuta la voglia? e la sarta aveva terminato gli abiti? e quale altra ragione ancora poteva averla decisa così di punto in bianco?
Non si ricordava nemmeno più di averle consigliato lui stesso di partire.
Mentre si allontanava dalla casa di donna Clara, mille supposizioni gli mulinavano nella fantasia. Nell'ultimo colloquio avuto insieme, quando egli le aveva domandato se l’origine della stanchezza fosse il caldo, aveva risposto: non so; ed alla seconda domanda se potesse per avventura essere qualcos’altro, era seguíto un secondo: non so. Non è ciò che rispondono sempre le donne quando non vogliono confessare la ragione vera? — Perchè escite tutti i giorni dalle quattro alle sei? — Non so... l'abitudine. — Perchè nel palco, al teatro, vi mettete sempre a destra? — Non so... combinazione. — Vi sembra più simpatico il conte A o il tenente B? — Non so... non li ho guardati bene. — La vostra amica ieri sera era bella, elegante, più del solito, vi pare? — Non so... non mi sono accorta. E così indefinitamente.
Gli uomini, pensava Senio, sono molto più franchi; spesso rozzi, ma franchi. Codeste femminette si assomigliano tutte. Vogliono, disvogliono, prima affermano, poi negano, o viceversa; hanno sempre l’aria di baloccarsi con la bambola. È possibile che ella non sapesse l’altro giorno di dover andare in campagna? e se lo sapeva, perchè avvolgersi nel mistero? Cos’è questa smania che hanno tutte di recitare la commedia, di proporre degli enigmi? Se non è leggerezza, domando io!
Incontrò un amico che lo tenne fermo un bel pezzo a discorrere delle elezioni comunali, svelandogli certe debolezze del partito avversario, delle quali bisognava subito profittare con un ben ordinato attacco. Si diedero appuntamento al Circolo e si salutarono perchè l'amico aveva fretta. Senio continuò la sua strada e i suoi pensieri.
E non poteva lasciare un biglietto per me? Vale la pena di chiamarsi amici, di vedersi tutti i giorni, per trattarmi poi come il primo venuto? È dunque una civetta anche lei, nient’altro che una civetta; più raffinata, più intelligente, ma civetta. Qualcuno l'aspettava alla villa; certamente non può essere che così. Ha ubbidito ad una chiamata, forse ad un ordine. Io le ho servito, nell'interregno, come una pera per la sete. Ora beverà!
Una rabbia sorda lo martellava. Gettò bruscamente il sigaro, battendolo contro il muro, e gli venne un odio improvviso per tutti gli uomini che donna Clara conosceva, un desiderio di sfidarli, di percuoterli. Ah! percuotere qualcuno in quel momento gli sembrava la maggiore delle voluttà.
Per sfuggire il pensiero tormentoso, che lo umiliava nel suo amor proprio, si rituffò nelle idee politiche che l'amico gli aveva suggerite, e qualche ora dopo al Circolo attaccò gli avversari con un ardore straordinario, parlando due ore di seguito, irruente, battagliero, picchiando sulla tavola certi pugni che sembravano destinati ad atterrare un bue. Quando tornò a casa aveva i nervi calmi. Trovò sulla scrivania una lettera della signora Aldobrandi.
«Le scrivo da Andermatt, dove il mio medico mi ha cacciata a viva forza pretendendo che se rimanevo ancora un giorno in città, con questo caldo, mi sarei ammalata. Non so fino a qual punto devo credere al mio medico; credo intanto alla delizia di questi paesi ed all'aria vivificante che mi penetra nei polmoni e nell’anima, dandomi un vigore di spirito e di corpo che è senza alcun dubbio il colmo del benessere.
«Se ella vorrà ricordarsi di me non avrò a dolermi troppo della mia fuga precipitosa.»
Senio lesse e rilesse attentamente la letterina, si pose a letto contento, vide in sogno un paesello aggruppato sulla montagna che poteva anche essere Andermatt, ed una delle prime cure, l'indomani, fu di rispondere a donna Clara.
Poi la lotta elettorale lo assorbì completamente. Durante una settimana intera non fece che parlare, scrivere, correre dal terzo e dal quarto, spronare i timidi, vincere i riottosi, cavare danaro, intelligenza e forza dappertutto dove poteva trovarne. Fu una di quelle lotte ostinate che dànno tanta voluttà ai forti, simili ai ludi antichi di cui hanno sostituito il fascino.
A opera compiuta però si sentì stanco anche lui e bisognoso di uscire per qualche giorno dalla bolgia cittadina.
Dove sarebbe andato? Sui laghi? Troppo caldo ancora. Una gita in val d’Aosta lo tentava da un pezzo, ma bisognava disporre di maggior tempo per fare il viaggio a piccole tappe e non perdere nessuna delle antiche bellezze di quei castelli. Val di Scalve, Alagna, il Trentino, tutti posti bellissimi, freschi, ma la strada che vi conduce è lunga ed incomoda; Santa Caterina? Peggio che andar di notte. Saint Moritz? Buono per gli eleganti del gran mondo. Alcuni suoi amici andavano a Montecatini ed altri a Vichy; ma egli non aveva il mal di fegato e neppure la dispepsia, la gotta o altro malanno.
Tutto sommato e bilanciato gli si apriva davanti una sola via, quella del Gottardo. Un vagone Pulman fornito di tutti i comodi, in sei ore ad Airolo, sei e venti a Göschenen; fra l’uno e l’altro Andermatt, Altorf, il ponte del diavolo...
Senio si decise in dieci minuti, e se qualcuno gli avesse domandato allora la vera ragione per cui preferiva la linea del Gottardo avrebbe forse risposto: non so.
Il bisogno di mentire a sè stesso lo seguì nel viaggio. Con la testa allo sportello, accarezzando con gli occhi il vaghissimo panorama, egli pensava: Airolo, Göschenen, Fluelen, Lucerna; ma in fondo, molto in fondo, un solo nome vibrava: Andermatt.
Aveva con sè un opuscolo nuovo sulla questione sociale che lo occupò discretamente fin oltre Chiasso. Carlo Marx, Schäffle, Masé-Darì, Wichte, Fourier, Scherr e i suoi diletti filosofi inglesi Spencer e Mill gli tennero grata compagnia, assorbendolo quasi tutto. Pure, in un angolo remoto del suo essere, volontariamente dimenticata, volontariamente reietta, dall’umiltà dei secondi posti dove la confinava l’orgoglio maschile, la voce continuava il suo getto dolce e sottile di piccola fonte nascosta nell’erba: Andermatt! Andermatt!
Questa gioia inconscia, questa meta indefinita al di là della meta fissa lo mettevano in uno stato di idealità insolita; egli si sentiva non poeta ancora, ma poetico. Scorgeva nella natura aspetti nuovi; gli venivano in mente frasi e parole, alle quali una volta non trovava alcun significato, e che gli si rivelavano adesso come vocaboli di una lingua che stesse imparando. Anche nelle idee sociali e politiche trovava un lato diverso, quasi un tasto dimenticato che vibrava improvvisamente dando a tutte le sue idee un movimento di ascensione, una sensazione di volo.
Egli conosceva già la via del Gottardo; l’aveva percorsa nella gioia della sua giovinezza e dell'avvenire che gli splendeva davanti. Ma ora la rivedeva con certe trasparenze più aeree nel cielo, con una intensità di azzurro nei monti e sopratutto con un senso nuovo della sua persona, quasi una specie di maturità che lo rendeva profondamente felice.
A Göschenen discese, facendo a sè stesso la concessione che era il caso, poiché la signora Aldobrandi si trovava vicina, di farle visita. Non sapeva precisamente dove stesse, ma si fece portare sull'altura di Andermatt, persuaso che non dovesse riuscire difficile l'averne notizia.
Le sue ricerche, tuttavia, non ebbero buon esito; nessuno in Andermatt conosceva la signora Aldobrandi. Il paesello pittoresco ma meschino, privo d’alberi, fabbricato sopra un terreno friabile, dove il piede affonda, non sembrava il più adatto per offrire ospitalità ad una signora delicata e gentile. Ma ella aveva pure scritto da Andermatt!
Ridiscese a Göschenen scoraggiato.
Non vi è nulla — pensava — che irriti tanto come un disegno contrariato.
Göschenen, ad onta del suo aspetto pittoresco, gli parve brutto e noioso con quell'arrivo continuo di treni dai quali scendevano faccie esotiche e indifferenti. Un vestito bleu gli fece per un istante battere il cuore... inutilmente. La sera, si trovò di pessimo umore, stranamente malinconico e deciso a ripartire col primo treno del giorno dopo. Ma il primo treno era omnibus; sicchè, bestemmiando contro quest’altra contrarietà, dovette adattarsi ad aspettare il diretto.
Così fu che al mattino riprese macchinalmente la strada di Andermatt per passare il tempo. Aveva fatti pochi passi appena, che si sentì turbato per l’apparizione di una signora in lontananza. La statura, il portamento, la singolare eleganza del collo e delle braccia tornavano a fargli battere il cuore; si pose a correre con un’ansia, con una impazienza di fanciullo che insegue una farfalla, non pensando più a frenarsi, ardente, raggiante.
— Lei qui! — esclamò la signora — e gli tese ambedue le mani e gli offerse negli occhi tutta la gioia dell’anima.
Senio si sarebbe inginocchiato. Comprendeva in quel momento la poesia, l’amore, Dio. Accostò alle labbra una delle mani offerte e la baciò.
Per un momento tacquero, quasi raccolti nel mistero di quel gaudio arcano, ascoltando la propria felicità. Poi Senio disse:
— L’ho cercata, ieri, a Andermatt.
— Io non sto a Andermatt.
— Mi aveva scritto datando di qui.
— Sì, perchè è il punto più alto che toccai finora. Le volli mandare il mio saluto dall’alto — soggiunse sorridendo, di un sorriso serio e dolce — ma abito una villetta solitaria, una di queste casine di legno che sembrano balocchi. Viene, non è vero?
Non rispose nemmeno. Continuarono a camminare vicini, sfiorandosi con gli abiti, qualche volta col gomito; egli facendole scansare i grossi ciottoli del sentiero, porgendole la mano ai passi difficili; ella ringraziando con un fremito, con un impercettibile movimento delle labbra. Il loro passo, il ritmo dell’andatura, concordavano mirabilmente. Provavano l'impressione singolare di essere mossi da una stessa volontà; affrettavano e rallentavano istintivamente, senza bisogno di dirselo. Un fluido invisibile li allacciava fondendo i loro respiri, i loro sguardi, le più piccole pulsazioni delle loro arterie. Ognuno di essi sentiva l’altro.
— Che divina giornata! — disse donna Clara movendo appena le labbra, con un filo di voce.
Senio la guardò. Anche a lui la giornata sembrava divina.
Giunsero alla piccola casa di legno che la signora Aldobrandi abitava insieme alla cameriera ed al cuoco. La colazione era preparata in una stanzina minuscola, dove la finestra inghirlandata di fronde sembrava la lente di un cannocchiale posto innanzi al più bel panorama del mondo. Donna Clara invitò semplicemente e Senio semplicemente accettò.
Provavano un piacere squisito a togliere dai loro rapporti tutte le banalità del convenzionalismo e delle frasi fatte. Era un modo anche questo di isolarsi, ed era una intimità così dolce e penetrante! Così veramente si univano.
Per la prima volta sedevano alla stessa mensa, e la disposizione di animo in cui si trovavano, dava un grande valore ad una cosa per sè stessa insignificante. Messi di fronte, avendo tra loro il tavolino coperto di maioliche bianche ed azzurre, con un mazzo di fiori di campo, con un vaso di cristallo colmo dell’eccellente miele svizzero, tutte le dolcezze della terra parevano convenute lì a far festa alla dolcezza traboccante dei loro cuori.
Senio in vena di confidenze, con un bisogno irresistibile di dir tutto, lesse forte una lettera di sua sorella che aveva ricevuto proprio al momento della sua partenza. In ultimo c’era questo periodo: «Dina ti aspetta; dice che le hai promesso di farle il ritratto; vuole anche ti dica che il melo è ora tutto frondoso e che formerebbe una cornice incantevole. Non ha voluto spiegarsi di più, ma pare che tu debba capire. Se è un segreto fra voi due, Dio vi benedica, non mi fate portare il candelliere.»
— E a me? — interruppe donna Clara, con un tono di voce improvvisamente alterato, di una alterazione che diede a Senio un superbo fremito di gioia.
— Non è il caso — rispose subito — si tratta di una mia compagna d’infanzia, quasi una parente. Le pare, dolce amica, che io vorrei affidare alle sue belle mani una parte così ingrata?
Ella non udì e non ascoltò le parole. Vide gli occhi di Senio fatti trasparenti dall’amore e in fondo a quegli occhi sè stessa. Le bastò.
La colazione finì deliziosamente, e con le chiacchiere, coi ricordi, coi progetti, la giornata trascorse in un baleno. Fra i progetti c’era quello che Senio sarebbe andato in autunno a passare una settimana alla villa. Si sentivano oramai così legati, così intimi come se si fossero conosciuti per tutta la vita: e questa intimità cresceva di minuto in minuto.
Tutto quello che dicevano era interessante, nuovo; nuovo nella forma, perchè in fondo riconoscevano di avere le stesse idee; a volte si interrompevano l'un l'altra per completare con una osservazione il medesimo pensiero; a volte si fermavano quasi oppressi da tutte le cose che dovevano dirsi ancora. Sarebbe bastata loro, per dirsi tutto, la durata di una esistenza? Ne dubitavano quasi, tanto le sensazioni si affollavano dense e grandi e forti ai loro cuori percossi dallo stesso ardore.
Uscirono, passeggiarono, stettero, videro, parlarono, tacquero; e sempre in una specie di estasi, portati sopra ali misteriose al di sopra della folla, fuori del mondo, lontano, in alto. In alto! il motto di donna Clara, che Senio ripeteva tra sè invaso da una subitanea spiritualità.
Per la prima volta in vita sua non sapeva quel che voleva. Sentiva in sè la presenza di un’altra volontà; un padrone lo dominava, lo conduceva alla cieca per vie ignote di cui non vedeva la fine, e la dolcezza di questo stato era tale che non tentava neppure di reagire. Così, talvolta, nelle notti calme di luna il barcaiuolo, abbandonati i remi e sdraiato sulla barca, si lascia portare come nella infinita dolcezza di un sogno.
A questo pensava Senio, a una barca scendente alla deriva tra due sponde di fiori, mentre lui e donna Clara percorrevano nel silenzio della sera il viale della casina.
— Qual’è il suo concetto della felicità? — diceva donna Clara con quella voce dolce e grave, tenera e malinconica, che non somigliava a nessun’altra voce di donna. — Crede che consista nella materialità di un fatto, di uno scopo raggiunto, nel complesso di una vita di benessere? o piuttosto non è essa formata di tanti istanti e di ore staccate, legate tra loro da un filo invisibile come quello che tiene insieme una collana di perle?
Senio non trovava nella sua mente nessuna risposta. Era giunto a quello stato intenso di passione che rifugge dalle parole. Tutto il suo essere tendeva a donna Clara con una violenza tale, che egli aveva paura a parlare. Il solo fruscío della veste di lei lo faceva fremere dalla testa ai piedi.
Avevano percorso due volte il viale. Donna Clara disse:
— Non è tempo di rientrare?
Egli doveva tornare all’albergo; ma gli sembrava impossibile staccarsi da lei. Mormorò con accento spezzato, quasi di preghiera:
— Ancora un poco.
Ella pure parve accorgersi che il silenzio di Senio in quel momento era più ardente di qualsiasi parola; ed a lei pure mancò la voce, mancarono le idee, presa da un senso arcano di paura.
Procedevano silenziosi, come due ombre nell’ombra, così vicini oramai ch’ella sentiva il respiro affannoso di Senio passarle quasi sulle guance e sul collo. La signora Aldobrandi aveva l’anima religiosa. Con un fervido slancio si rivolse mentalmente a Dio; capiva che nessuna forza umana l’avrebbe salvata.
Al quarto giro del viale, presso la porta della casina ella si fermò, ripetendo:
— Bisogna rientrare.
Senio le prese le mani. Credendo che fosse il saluto, ella disse: buona sera; ma la voce le tremava per modo che Senio attinse coraggio a soggiungere:
— Così? dobbiamo lasciarci così?
Donna Clara balbettò una parola incomprensibile.
— Dopo tanta gioia, lasciarci? È dunque stanca di me?
Pregava, cadendo a’ suoi ginocchi, mentre donna Clara si era appoggiata contro la porta stringendosi in atteggiamento di terrore e di difesa. Ma più che di lui, di sè doveva temere, perchè Senio non si era mai trovato nel caso di vincere il pudore femminile, e davanti alla grande tentazione esitava con un imbarazzo pieno di delicatezza e di grazia, per cui il suo desiderio ne restava quasi purificato e cresceva in lei la difficoltà di respingerlo. Come però egli le ebbe passato le braccia intorno alla vita, donna Clara si svincolò.
— Ah! non mi vuol bene! — esclamò Senio trattenendola ancora per le mani.
Ella allora si chinò verso di lui con un movimento così sincero delle braccia, del volto, di tutta sè stessa che Senio si sentì invaso da una infinita dolcezza, da una passione umile e rispettosa che lo tenne fermo a’ suoi ginocchi, intanto che le baciava il vestito.
— Chiesi a Dio l’amore — mormorò donna Clara al colmo dell’emozione — quando l’amore poteva essere per me purezza e fede.
— L’amore — interruppe Senio — è sempre purezza, è sempre fede.
— Un uomo che potesse essere mio per sempre.
— Per sempre, per sempre!
Avrebbe ripetuto qualunque parola di lei, inconsciente del valore delle parole, rapito nel delirio della sensazione nuova. Un potere invincibile lo spingeva ad essere quello che non era stato mai, tenero, ardente, sentimentale. Non mentiva no, si trasformava. Saliva al cielo poichè donna Clara vi era.
Ed ella, smarrita, nell’esaltamento di un sogno che sembrava avverarsi, continuava a mormorare parole pazze e sublimi, dolci e tormentose, finché Senio all’estremo della resistenza supplicò: basta! — Gli cadder giù le braccia, la voce gli morì in un singhiozzo... Donna Clara con un movimento risoluto aprì la porticina della casa e fuggì.
A tentoni salì le scale, entrò nella sua camera e subito cadde bocconi sul letto, prostrata, annichilita: — Signore! Signore! — Implorava, così, mordendo le coltri, alternando le lagrime ai sospiri — Signore, voi lo volete! Aiutatemi, mio Dio!
Nel buio della stanzetta, soffocati tra i guanciali, i lamenti di donna Clara non ebbero più freno. Ella moriva nell’aureola della sua virtù, della sua vita incontaminata; moriva nella fede del sacrificio, nell’austerità della lotta. Amava. Un uomo si struggeva a’ suoi piedi ed ella si struggeva ai piedi di Dio. Un uomo, un forte l’aveva implorata ed ella sentiva l’altezza della sua nuova missione. Tutto in lui, tutto per lui. Addio principî severi e intangibili; addio visioni di castità, veli di santa, palma di martire; addio giudizi del mondo. Si spogliava, si impoveriva, voleva ridursi umile, devota e sottomessa come aveva visto lui. Rinunzio a tutto, a tutto. Si sentiva già presa e per un moto istintivo di pudore incrociava le mani sul petto, chinando la testa quasi per sfuggire a baci troppo ardenti — Forse, o Signore, non è giunto il momento. Ancora un giorno! Un giorno...
Balzò in piedi, tastandosi, come per ritrovarsi: Oh! ma sono io, mi appartengo, nessuno ha diritti sopra di me, sono libera! Brancicò nella camera, con la testa in fiamme, cercando istintivamente il davanzale della finestra, appoggiandovisi con la fronte nelle mani, il cuore che le martellava.
Ancora un giorno, o Signore! — mormorò nell'aria fresca, nella pura aria montanina che l'olezzo dei prati imbalsamava; ma il suono delle parole si era appena rotto nello spazio, appena era caduto nell’oscuro mistero della notte. Dolce, vibrata, sommessa, ardente, supplichevole come una preghiera, fremente come un desiderio la voce di Senio, nell’ombra, chiamò: Clara!
Sono passati tre mesi.
Alla fine di novembre, donna Clara, nel suo salotto azzurro, chiude il libro che tiene fra le mani e solleva ansiosamente lo sguardo al pendolo di bronzo del caminetto. Stringe le labbra, sospira, riprende il libro; non può continuare nella lettura. Il suo pensiero è altrove; calmo, sereno, ma altrove.
L’amore non l’aveva presa alla sprovvista; non era stato nè una curiosità, nè una sorpresa dei sensi. Dal primo giorno che aveva visto Senio si può dire che lo aveva amato; e durante un anno intero, chiuso, nascosto, nel silenzio, quasi nell’ombra, questo amore aveva fatto la sua strada lenta e sicura. La rivelazione di Andermatt non era stata che l’epilogo di una lunga preparazione.
Prima che Senio parlasse, donna Clara non si era creduta in pericolo. In realtà Senio non le aveva fatta la corte; erano entrati dal bel principio in una relazione di amicizia cordiale in cui la simpatia sembrava mettere il suo elemento più puro.
Donna Clara, al pari di molte altre donne che furono sventurate in amore, vagheggiava in un orizzonte indefinito di tempo e di luogo il compenso di un affetto che somigliasse all’amore solamente per l’intensità; che non ne avesse la brutalità nè la tirannia; una specie di legame morale, una fusione del pensiero per la ricerca di ideali nuovi, una meta seria e severa a costo di essere dolorosa. E questo tributo di dolore ella era pronta a darlo con la rinunzia a quelle gioie che a lei, giovane e bella, la vita prometteva ancora. Si era preparata a questa rinuncia, alla vedovanza sempiterna con una iniziazione a gioie alte e serene. Ma i suoi proponimenti caddero in breve, e il pericolo si presentò sotto la forma ch’ella non aveva prevista. Senio l’amava d’amore, ed ella stessa nelle angoscie disperate della difesa sentì di corrisponderlo con eguale ardore.
Pari a certi germi eletti che fioriscono sotto qualunque latitudine, il cuore di donna Clara, trovava nel fallo stesso un elemento di virtù. Non sarebbe più stata la virtù ritrosa che si chiude in sè stessa per tema di macchiarsi, ma l’eroica, la forte virtù di chi, gettatosi nella mischia, sa morirvi da valoroso.
Ella non avrebbe voluto amare; ma dal momento che amava non ebbe più nè esitazioni nè dubbi; tutta per l’uomo amato, sempre, anima e corpo, nel mondo che vedeva e nella sperata eternità. La lotta, se era stata violentissima, aveva però avuto una breve durata; la fiamma grandiosa di un rogo, un immenso terrore, la soffocazione, uno spasimo, un grido... la pace.
Sì, donna Clara si trovava in pace con sè stessa e con Dio. Viaggiatore sbalestrato dal caso in un paese affatto sconosciuto, ella mirava a conoscerne i punti più elevati, le strade più rette. Voleva dare l’esempio di uno di quegli amori che sfidano il mondo con la dignità e con la costanza, e che sembrano elevarsi, in mezzo all’invasione degli amori volgari, come una tacita e grandiosa protesta. La caduta non era stata per lei una voluttà, ma un sacrificio; non un piacere, ma un olocausto. L’amore inteso così ha certo il diritto di aspirare alla religiosità di un rito.
I nuovi doveri che l’aspettavano si univano ad un ideale sempre più alto e difficile. Aveva accettata la sua posizione pensando che quella unione, dove l’autorità maritale non poteva proteggerla, le dava maggior obbligo di trovare in sè stessa la forza di resistere alle influenze dissolventi, all'abisso morale che le si parava dinanzi e dal quale poteva salvarla soltanto la serietà della sua condotta.
Avendo conosciuto i compromessi volgari ed umilianti che si erano celati per lei nel matrimonio, riprendeva i suoi diritti di creatura libera che si sente innocente davanti alle imposture della società. Intravedeva finalmente la vera unione delle anime, all'infuori di ogni calcolo, d’ogni pregiudizio, d’ogni grossolanità. Le sembrava ora una così alta cosa la fede senza giuramenti, l'amore senza catene, e un così alto eroismo per lei, debole e sola, affidare tutto il suo onore all’onore di un uomo! Dare tutto senza chiedere nulla in cambio, non il nome, non la casa, non i beni, non la protezione fino alla vecchiaia, fino alla morte. Nulla di tutto ciò.
Tardi, fuori di posto, fuori della legge, la gran voce divina che turba le figlie di Maria l’aveva chiamata ed ella rispondeva: Eccomi! Vengo a te contro il mondo e contro me stessa. Vengo a te, per te.
Con le mani incrociate sul libro chiuso che teneva in grembo, la testa china, assorta in una concentrazione di tutto il suo essere, donna Clara ripetè lentamente: A te, per te.
Un passo nella stanza attigua la fa balzare in piedi.
— Senio!
Egli entra, le bacia prima la mano, poi le labbra.
— Così tardi?
— Tardi?... no, sono appena le nove.
— E un quarto.
— Le nove e dieci.
— Morivo già.
— Per così poco?
Sorridono un po’ forzatamente, di un sorriso che non ha in entrambi lo stesso valore di espressione e che non si fonde.
Senio parla di una nuova relazione fatta, una famiglia simpaticissima, amabile. Donna Clara lo ascolta con vivo interesse e per fargli piacere gli muove altre domande in proposito, ma le sembra che Senio sia distratto.
Ed essa pure è distratta. Per la prima volta, da quando conosce Senio, non sente quella unione intima dei primi giorni. Per la prima volta si accorge di non possederlo intero. Egli le sta dinanzi e il suo pensiero è altrove, nè ella può impadronirsene. Prima pensavano sempre insieme, perchè pensavano la stessa cosa. Chi è che ha mutato adesso?
Una strana sensazione di sentirsi mancare la terra sotto ai piedi; un terrore ignoto e istintivo come quello che provano gli animali all’avvicinarsi della bufera; un ascoltare attonito e un interrogarsi angoscioso, ecco il contegno di donna Clara.
Senio parla di un libro che aveva terminato allora di leggere: non gli piace. Donna Clara gli fa osservare che quando glie ne aveva parlato lei, gli era parso bello.
— Sarà — disse Senio — poiché voi altre donne avete un modo di dipingere come volete tutto quello che vi piace e ne alterate spesso i contorni per modo che, vedendo poi la cosa in realtà, si riscontra tutto l'opposto di quello che si era immaginato.
Aveva detto voi altre donne: e lo aveva detto a lei! La finezza aristocratica di donna Clara ne freme tutta; il suo orgoglio di donna amata spasima.
Sono impressioni che le giungono inaspettate, che non passano ancora da’ suoi sensi alla sua ragione, per ciò donna Clara le soffoca! ma soffocandole accresce la distanza che la separa da Senio. Spera ancora che egli se ne accorga; che le domandi una spiegazione, e intanto tace. Senio, avendo chiesto il permesso di accendere un sigaro, si accorge che il tempo passa lentamente. Sfoglia gli album, la musica, ma tutto gli è noto; trova che la tendenza sentimentale di donna Clara rende un po’ monotono quello che la circonda.
— Devo suonare qualche cosa di Beethoven?
— Preferirei Mendhelson.
— Mi dispiace, non l’ho.
Ricomincia il silenzio, ma donna Clara è desolata; desolata perchè Senio ha rifiutato Beethoven, desolata per non avere Mendhelson. Si mette al piano e canta a bassa voce una romanza spagnuola. «Il tuo amore è come il toro, dove lo chiamano va. Il mio è come la pietra, dove la mettono sta.»
Senio pensa: Ecco quello che piace alle donne! Tuttavia, le rivolge qualche complimento e si alza per andarsene.
— Così presto!
Sfuggita l’esclamazione donna Clara si morde le labbra. Vede il lievissimo sorriso di Senio, indovina l'ironia della risposta che egli sta per darle, e precipita due o tre frasi l'una sull’altra, dicendo tutto il contrario di quanto vorrebbe dire, con un accento spigliato e volubile, che è la risorsa improvvisa che ella trova per dominarsi e che sembra a Senio il colmo della inconscienza femminile.
Fuori, in istrada, egli prova una singolare sensazione di benessere e la gode voluttuosamente senza troppo cercarne la causa. Va al Circolo, dove i suoi amici lo accolgono con un urrà, scherzando sulla prolungata assenza ed insinuando allusioni discrete sulla causa che lo tiene lontano. Queste allusioni lo annoiano, essendo la parte di innamorato quella che ha detestato sempre con maggior ardore. Si irrita, non con gli amici, ma con sè stesso; più ancora con la persona che lo mette in tale ridicola situazione. Egli non è vano; ciò che renderebbe felice un altro uomo gli si presenta come una prova di debolezza, un omaggio reso al sesso inferiore, sopratutto come una catena.
Il giorno dopo, ricevendo una lunga lettera di donna Clara, è contrariato dallo stile di essa, che gli sembra lambiccato. La legge in fretta senza accorgersi di un poscritto e la caccia in tasca, girando poi tutto il giorno, senza trovare un solo momento per rileggerla.
Quando va da lei alla sera, un po’ in ritardo, la trova in uno stato di agitazione così dolorosa, così profonda, che ne riceve egli stesso una impressione di dolore. Donna Clara, nel poscritto, lo pregava di anticipare; egli aveva ritardato più ancora. L’equivoco si spiega e il sollievo che ne provano entrambi rende dolce la riconciliazione.
Ma il crepaccio era riparato superficialmente; il lavorío interno di distruzione continuava.
Ogni giorno più accentuavasi l’irrimediabile dissonanza delle loro anime. Senio aveva voluto la donna, non l’amore di lei; questo amore gli pesava come un fardello, come una catena. Un anno di desiderio, tre mesi di felicità, ed ora?
Il problema della sofferenza sorgeva ancora davanti a Senio; invano aveva voluto calpestarlo e atterrarlo, implacabile rinasceva. Egli soffriva per tutto ciò che si riferiva a donna Clara; l’obbligo di andare da lei, la libertà perduta, il timore di trovarla malinconica, lo sforzo per mettersi a livello de’ suoi sentimenti, la coscienza di non riuscirvi, il pentimento del passato, l’inquietudine per l’avvenire. A tutto questo ella non rispondeva che una parola sola, sempre la stessa, invariabilmente la stessa: lo amava. Parola infausta, la più sconsigliata, la più deprimente che possa pronunciare una donna quando si rivolge all’uomo che non l’ama più.
Infatti, più essa raddoppiava le sue tenerezze, le sue premure, e più lo allontanava da sè. Più ella si rivelava donna, più egli riprendeva il suo forte impero di maschio. Gli anelli d’oro della catena si rompevano, andavano via in frantumi, in polvere impalpabile, in atomi. Egli ritornava padrone.
Con la ebbrezza tutto era sparito; la momentanea idealità, l’illusione, il desiderio che gli prestava la sublime e fatale finzione dell’eterno. Ora la finzione ripugnava alla sua anima onesta, e questa finzione non era il minimo de’ suoi dolori.
Il momento della menzogna, inevitabile in tutti gli amori, era passato. Non sapeva più illudersi al punto da credere d’avere gli stessi gusti di donna Clara, e quelle cose che prima gli piacevano lo lasciavano adesso indifferente.
Non trovava nel salotto quel tepore di nido che lo aveva tanto ammaliato nei primi tempi; l’abito bleu di donna Clara, cadente in pieghe flosce, non gli dava nessun brivido. Il piacere stesso non era più piacere. E allora, si domandava Senio con amarezza, perchè continuare? Ecco l’eterno inganno che tiene uniti tanti uomini al vanitoso dispotismo di una donna.
È dunque un delitto non amare più? Su questa terra dove si asciugano i mari, dove le montagne spariscono, dove le generazioni si sovrappongono alle generazioni propagando il principio della evoluzione generale, come si può pretendere di tener prigioniero il cuore dell'uomo? di colui che è sempre pronto a dare il suo sangue per essere libero?
Una donna disporre di me? dell’anima mia? della mia volontà? Io suo? E perchè? Perchè glie l'ho detto in un momento di delirio; come se si fosse responsabili allora! Lo sanno, esse, ciò che dicono in quel momento? Sono sicure di non bestemmiare, di non spergiurare mai? E non sono ancora esse che ci obbligano a mentire, che vogliono la bugia? Perchè sono tanto meschine da aver bisogno del nostro amore? Noi non vogliamo il loro amore; se esse lo credono è perchè torna gradito alla loro vanità, al loro piccolo cuore, che quando contiene una lagrima trabocca.
La tensione de’ suoi rapporti con donna Clara era diventata per Senio un tic doloroso, una specie di nevralgia ostinata che a momenti lo faceva urlare per lo spasimo. Tutti i pretesti erano buoni per esimersi dall’andare da lei; e quando vi si trovava, quando sedeva sulla comoda poltroncina accanto al tavolino, aveva l’apparenza di un torturato.
Alle volte si presentava pieno di buoni propositi, anche con un certo ardore e con una punta di desiderio: ma donna Clara che, aspettandolo, aveva preparato l’animo alla rivelazione del vero, del grande amore sognato, restava turbata, fredda, ostile. Taceva, invocando da lui la gran parola, la parola luminosa, quella! — e quella non veniva — e donna Clara si armava di dignità, e lui rizzava tutte le punte dell’ironia — e se da una parte cresceva la freddezza, dall’altra cresceva il desiderio di mostrarsi fredda — finché totalmente acciecati, soffrendo da tutte le parti, simili a due veri orbi in furore lasciavano cadere fitte come gragnuola le parole roventi che fischiano per l’aria e stridono sulla pelle, tracciando delle cicatrici di frusta.
L’inverno passò così. Donna Clara soffriva, Senio soffriva; quando non si vedevano erano lettere brevi, pungenti, oppure lunghe e piene di recriminazioni; quando si trovavano insieme erano silenzi imbarazzanti o dialoghi superficiali.
In maggio, un maggio splendido, tutto fiori, luce e profumi, Senio andò a vedere sua sorella. Ripassando col treno per quella medesima via dove aveva incontrata per la prima volta la signora Aldobrandi, risentiva più che mai il rimpianto della perduta libertà, e questo rimpianto diventava più acre per non so quale sentimento confuso, che assomigliava ad un rimorso e che più ancora dell’altro egli provava il bisogno di vincere ad ogni costo.
Se l'amore è lo scambio di due diletti (Senio avrebbe sfidato l’universo a trovargli una definizione diversa), quando cessa da una parte il diletto, deve necessariamente cessare anche dall’altra. Dov’era dunque la ragione delle lagrime, degli scongiuri, dei richiami? Decisamente donna Clara era una testa esaltata. Buona, oh! sì, un angelo. Ripeteva quasi rabbiosamente: un angelo! un angelo! come per scaricarsi in fretta del suo tributo di riconoscenza. Ma era egli cattivo forse? Questo gli dovea provare: il suo reato.
Lei lo aveva amato spontaneamente, interamente, vincendo scrupoli, idee religiose, cancellando tutto un passato intangibile con la dedizione suprema di sè stessa. Sì, sì, era vero. Ma egli la stimava appunto per ciò, l’avrebbe rispettata sempre, sarebbe rimasta per lui l’ideale della donna. Le desiderava tutto il bene immaginabile, avrebbe fatto per lei dei sacrifici, molti, quello che voleva, comandasse! ma infine, non poteva darle ciò che egli stesso non aveva più: l'entusiasmo di quella sera a Andermatt. E come aveva egli potuto subire quell'entusiasmo? Solamente a pensarci fremeva. Ella era stata più forte delle altre, lo aveva circuito, accalappiato, vinto... Oh! questa parola!
Era così, doveva essere così. Lei aveva fatta la sua parte di donna, lui la sua di uomo. «Il tuo amore somiglia al toro, dove lo chiamano va; il mio somiglia alla pietra, dove la mettono sta.» Si può immaginare un paragone più goffo? Ma certo che egli preferiva di assomigliare a un toro anziché ad una pietra; se ne vantava. Che sciocchezza quella romanza! e perchè le donne si lasciano sempre pigliare a tal sorta di esca? Non è questa una prova visibilissima della loro inferiorità, della piccolezza del loro cervello?
Donna Clara gli era apparsa sul principio, come una donna superiore, ma in fondo non si era egli ingannato? Non assomigliava essa alle altre? — una debolezza sentimentale — niente più. E come ne era stata facile la conquista! Che cosa aveva rischiato alla fine dei conti? Visite, sguardi, parole, qualche mazzo di fiori e il desiderio... sì, questo era stato, violento.
Si affacciò allo sportello del vagone, guardando al di sopra di tutte le cose che vi si vedevano, quasi respirando il profumo delle voluttà svanite. Ma anche queste, essendo cessato lo stimolo della curiosità, eran cadute ad una ad una. Egli aveva avuto quella donna così nobile, così onesta, così elevata di animò — era stata sua.
E allora, dalla grande, dalla sconfinata vanità del successo gli germogliò repente nell'animo un sottile veleno di ingratitudine. Ritorse verso donna Clara ciò che formava appunto l'immenso merito dell’amore di lei: la spontaneità e la generosità. Invece di intenerirsi per tutto quello ch’ella gli aveva dato, in confronto del poco offerto da lui, si inorgoglì, si agghiacciò.
Incominciava a calmarsi, a star bene. Infine, concluse, l’amore non è altro che il bisogno che una persona ha di un’altra persona; una cosa tanto egoistica e volgare come il desiderio di mangiare, di camminare, di dormire. Sono i poeti e le donne che lo hanno voluto circondare di un nimbo serafico. La moderna filosofia è tutta d’accordo per rilegare l’amore nel suo umile posto di riproduttore della specie. È una meschinissima larva che troppo a lungo si è ammantata della gloria di un Dio.
Due sigari fumati l’uno dopo l’altro aveano aiutato la sua disposizione a mettersi dalla parte della ragione. Dopo un breve dialogo con un compagno di viaggio, interrotto dal percorso semibuio di una galleria, Senio riprese a discorrere tra sè: Ma poi, se non l’amo, perchè ingannarla? Oh! fossero tutti gli uomini altrettanto sinceri, quanti mali si eviterebbero, quanti inganni cadrebbero!
Le sue idee di riforma sociale lo ripresero con violenza. Non era dovere dei forti rompere recisamente tutti i vecchi pregiudizi, le sentimentali credenze, ogni vincolo, ogni affetto che impedisse all’uomo di compiere la sua missione forte e gloriosa? Egli aveva ceduto alla seduzione femminile, aveva mancato a’ suoi propositi di autonomia completa ed assoluta, aveva sbagliato. Era tempo di tornare sulla retta via. La convinzione che questo era il suo dovere chiaro e preciso finì di vincere gli ultimi scrupoli di Senio.
Partito con le idee confuse, con lo spirito in battaglia, giunse da sua sorella sorridente. Si sentiva così sicuro delle sue ragioni che gli sembrava oramai impossibile non dovessero essere quelle di donna Clara. Per un sentimento di una finezza tutta femminile, la signora Aldobrandi aveva voluto lasciarlo libero nei giorni che passava presso la sorella; e questo lo persuadeva che anche il cuore di lei fosse prossimo alla rassegnazione. Delle due versioni: ch’ella soffrisse o che fosse calma, la seconda era la sola che gli facesse piacere; doveva dunque essere la vera e la addottò subito senza altro esame.
Così trascorse quindici giorni sereni nella affettuosa compagnia di Corinna, di Orsola e della piccola Dina: la quale era sempre meno piccola e sempre più cara; cara sopratutto per una soffusa intima malinconia che si era sovrapposta in lei alle grazie dell’infanzia, che le improvvisava nella chiarezza innocente della sua vita un angolo misterioso, una specie di tempio chiuso dove ardono ignoti profumi.
— Non la maritate questa ragazza? — chiese una volta Senio alla sorella.
— A chi mai, se in paese non c’è nessuno! E poi, forse, ella ha il cuore impegnato — soggiunse Corinna guardando Senio con una espressione intensa. — Veramente l’uomo che la sposasse sarebbe fortunato.
Ecco — pensò subito Senio — tre povere donne che vanno in cerca di un disinganno, sotto forma di uomo che non si lascia accalappiare.
Per tutto il tempo che restò al paese provò una specie di dolce diletto vicino a quella fanciulla che certamente lo amava; un diletto simile a quello gustato da bambino quando riusciva a stringere in pugno un piccolo passero caduto dal nido e che ne sentiva il cuore battere trepidante nel palmo della mano.
Quando Senio tornò in città, ai primi di giugno, seppe che la signora Aldobrandi era stata ammalata e con spontaneo movimento d’affetto decise di andarla a trovare subito. Non sapeva precisamente che cosa le avrebbe detto; ubbidiva ad un sentimento di mezza bontà colla speranza vaga che ciò gli tornerebbe proficuo e che glie ne sarebbe tenuto conto.
I quindici giorni trascorsi lontano da lei, i ragionamenti fatti, altre idee, altre impressioni, lo avevano disposto alla continuazione di rapporti calmi e sereni.
Ma appena messo piede sulla soglia del salotto azzurro si pentì di esser tornato; il pallore di donna Clara, lo scatto col quale gli mosse incontro, le sue lagrime mute e appassionate gli mostrarono tutto l’abisso che c’era fra di loro. Non si sarebbero intesi mai più, mai più!
Ella cominciò a parlare dolcemente del passato. Vi si aggrappava con la tenacità del naufrago; le sembrava di farlo risorgere. Senio, irrigidito dalla vista delle lagrime, si trincerava dietro una corazza di freddezza. Clara prese uno sgabello e gli si pose accanto, poggiando le braccia sui ginocchi di lui, bella, amante, irresistibile nella dolorosa paura di perderlo, con una fiamma di devozione negli occhi che la faceva somigliare ad una santa. Ma Senio non la guardò.
Toccando le sue mani le sentì gelate.
— Senio! non mi ami...
Senio chinò il capo.
Allora tutta l'amarezza che donna Clara soffocava in petto da tanto tempo scoppiò. Fu dura, impetuosa, fiera; fu alla sua volta spietata. Non ebbe compassione dell'uomo che non sapeva amare, non lo commiserò di essere così meschino davanti a lei, di non averla potuta seguire nel cammino faticoso della passione. Ella lo vide debole e vile e non ebbe pietà che di sè stessa.
Si trovava in uno dei momenti più dolorosi per una donna onesta; riconoscere che la sua abdicazione è stata vana, che l’idolo non meritava il culto nè l’altare il sacrificio, ch’ella ha disperso al vento ed al nulla il tesoro prezioso della sua elezione; e pari ai due prigionieri legati insieme, di cui l’uno muore, ella deve risolutamente spezzare il laccio che la tiene avvinta ad un cadavere.
Donna Clara sapeva che ogni sua parola colpiva e tagliava, non solamente Senio, ma sè e tutta la sua felicità e la sua vita; nè ciò poteva arrestarla. Senio uscì da quel colloquio affranto.
Egli aveva consumato in quella lotta tanta forza nervosa che si sentì veramente male. Per due o tre giorni ebbe una specie di febbre, durante la quale il terrore di tornare da capo gli suggeriva di fuggire nell’angolo più remoto della terra. Egli che sprezzava i pericoli, che sarebbe andato volenteroso alle armi ed al fuoco, tremava al solo ricordo dell’amore che per un istante lo aveva toccato. Veder soffrire quella donna e non potere e non sapere darle nessun sollevo, sentirsi necessario a lei quando egli di lei non aveva più bisogno, era appunto la miseria sentimentale che aveva sempre temuta, la conseguenza inevitabile di quell'istante di follia che dicesi amore.
Questo poi c’era di fatale, di grottescamente fatale; che mentre soffriva al pari di lei, aveva l’aria di essere crudele ed ingrato; una ragione di più per detestare questa situazione dove l'uomo, anche onesto, fa sempre una figura meschina e dove la donna, pur se colpevole, si riveste della sua debolezza come di una aureola.
Così per molti giorni ancora Senio continuò ad impallidire ed a spasimare ad ogni lettera che riceveva; ogni colpo di campanello lo faceva trasalire; tutta la sua vita era guasta, attossicata da questo rimorso senza colpa: non amare più.
In ogni figura femminile intravista da lontano si rinnovavano a lui i terrori di Macbeth in presenza dello spettro. La voce angosciosa di donna Clara, i suoi occhi pieni di lagrime gli stavano davanti continuamente, lento e persistente supplizio. Gioventù, salute, danaro, tutto gli pareva che avrebbe dato con esultanza per levarsi quel cruccio dell'anima.
Successe poi un fenomeno singolare. Quando fu ben sicuro che donna Clara non si sarebbe fatta più viva, quando il tempo e il silenzio ebbero posto come un deserto fra loro due, non se ne potè capacitare. Sentì una specie di vuoto e di freddo, come di tomba scoperchiata, di mausoleo deserto. Era dunque stato un sogno? Non restava più nulla? Nulla. Le lettere rese, il ritratto reso, dimenticate le dolcezze e i deliri. Nulla, nulla rimaneva. E come prima l'aveva accusata di aver ceduto troppo presto all’amore, ora l’accusò di soverchia prontezza nella rassegnazione. Fu un periodo amaro, pieno d’ira cupa e concentrata, arido, desolato.
Ma anche questo finì.
Passò l'estate, passò l'inverno e la primavera venne con tutte le sue delizie a rinnovare la terra. In quell’onda di vita nuova Senio riacquistò la salute e la serenità. Tornò, come una volta, a godere la gioia di vivere senza preoccupazione di sorta, nella sconfinata libertà che gli offriva la mancanza di ogni vincolo.
Tutte le mattine, al destarsi, la prima impressione era quella di sentire l’io interamente libero, di appartenersi corpo ed anima, di non dover chiedere a nessuno la propria felicità e di non essere obbligato a darla. Si vestiva rapidamente, con una allegria infantile, pensando che l’ignoto era davanti a lui tutto pieno di sorprese e di mistero.
La boccata d’aria che prendeva, fermandosi un momento, prima di varcare la soglia della porta, sembrava avere una importanza infinita, come se tutto il mondo gli appartenesse. Guardava il cielo a destra, a sinistra, procurando di indovinare il tempo, e piegava poi a norma della momentanea ispirazione, respirando largamente la brezza del mattino, invaso da una felicità fisica completa.
Come più gli pareva allungava o rallentava il passo, per niente altro che per provare a sè stesso di essere libero. Canticchiava, oppure si fermava su due piedi a guardare un oggetto indifferente, tornando indietro, riprendendosi, con una sprezzatura disinvolta di scolaro in vacanza.
Si meravigliava egli stesso di scoprire tante belle cose nella vita; si interessava ai negozi nuovi, alle case in costruzione, ai progetti di strade, alle mode delle donne. Un piacere deliziosamente egoistico glielo davano i bambini che andavano a scuola. Godeva nel mirare i loro tondi visetti, le manine che reggevano la cartella, quelle gambette che correvano correvano per arrivare in tempo all'appello, e conveniva tra sè che se la vita dei bambini è un piacere squisito, l'averne a casa tre o quattro doveva essere un affare molto noioso.
Gli si ripeteva ancora la compassione provata altre volte per i buoni babbi che trotterellano all'ufficio sotto quel peso enorme di una famiglia da mantenere. Ma piuttosto che compassione era sprezzo; e da questo sprezzo sorgeva nell'animo suo un’esultanza fiera di conquistatore, di uomo che ha saputo sottrarsi al destino comune.
Dopo una giornata dedicata agli affari, la sera gli riconfermava la sua riconquistata libertà. Durante il periodo della relazione con la signora Aldobrandi egli aveva dovuto necessariamente trascurare gli amici; la maggior parte delle sue serate essendo presa, giungeva al Circolo in ritardo, quando tutto era finito. Ora, la ripresa delle sue abitudini di scapolo aggiungeva un sapore nuovo alle chiacchiere, alle discussioni, a quell’insieme di vita maschile, dove la sua intelligenza e le sue attitudini si svolgevano senza urti e senza intoppi nelle condizioni di ambiente più favorevoli al suo temperamento.
Certi momenti giungeva perfino a rallegrarsi di aver pagato in piccola dose il suo tributo all’eterno femminino; in confronto dei terrori avuti gli sembrava di averla scampata a buon mercato. In questa presa di possesso di una felicità nuova, giungeva ancora a poter pensare a donna Clara senza troppo cruccio; il rimorso gli si attutiva nella quasi sicurezza della pace.
Quell’anno tornò a far parlare di sè, risollevando le speranze che gli uomini del suo partito avevano riposte in lui. Sostenne lotte violente con gli avversari ed ebbe per risultato di accrescere il numero, già grande, de’ suoi ammiratori.
Un telegramma lo còlse all'improvviso: Corinna muore.
Era sera già inoltrata quando Senio giunse alla casa paterna, e prima ancora che toccasse il battente della porta, gli venne ad aprire Dina con un lume in mano.
— Riposa — fu la prima parola che disse la fanciulla ponendosi il dito sulle labbra. Si avanzarono tutti e due piano piano fino all'uscio della camera, dove Senio si affacciò. Corinna riposava difatti, col viso rivolto verso il muro e Orsola la vegliava pregando.
— Lasciala dormire — ripetè Dina prendendo Senio per un braccio e tirandolo indietro.
Egli la seguì con poca conoscenza di quello che faceva, non sapendo ancora fino a qual punto il caso fosse grave. Si trovavano in un corridoio, che precedeva la camera e serviva da guardaroba. Dina collocò il lume in alto, sullo sporto della finestrina, e non essendovi sedie si appoggiò ad una cassapanca, coll’orecchio teso e attento a sentire se si svegliava l'ammalata.
— Ma dunque che cos’è? Non ha mai avuto nulla, era così robusta! — mormorava Senio a bassa voce, un po’ soffocato dall'emozione e dalla novità dell’ambiente.
— Una malattia di cuore, dice il medico. Fino a ier l’altro non accusava alcun dolore; ieri notte improvvisamente restò quasi soffocata; siamo venute subito io e la zia, e non l’abbiamo abbandonata più...
Uno scoppio di pianto interruppe le sue parole; non uno scoppio brusco e rumoroso, ma un piangere sommesso di persona abituata a frenarsi e che sente quasi il pudore delle lagrime.
Senio mosse alcuni passi su e giù per il corridoio, fermandosi davanti all’uscio della sorella, aprendolo un poco e adagino per assicurarsi che dormiva. Si sentiva profondamente addolorato, più ancora, colpito dalla rapidità della disgrazia che piombava su di lui. Non l'aveva prevista, non ci aveva pensato mai. Nato e cresciuto sotto gli occhi di Corinna, ella gli avea tenuto luogo di tutto; aveva rappresentato la casa, la famiglia, la pace, l’agiatezza, l’onorabilità, il porto sicuro e intangibile, l’affezione che non muta, la devozione fino al sacrificio. Con sua sorella perdeva, egli lo capiva perfettamente, una delle sue forze maggiori.
— Quando verrà il dottore? — chiese senza voltare il capo, divorato dall’impazienza, su quella soglia muta dove Corinna stava per morire.
— È già venuto questa sera; se occorresse nella notte, ci ha detto di chiamarlo.
La voce della fanciulla era affranta, quasi senza suono. Egli le tornò vicino, prendendole le mani per farle coraggio e per ringraziarla. La luce del candeliere, piovendo dall’alto sembrava circondare di una mite aureola i suoi modesti capelli castani e la fronte pura d’angelo addolorato; ma sotto l’occhio, scendendo fino al mento, un lieve solco, quasi una traccia di lagrime, dava al suo volto di vergine una strana espressione appassionata.
Senio la guardò con un sentimento misto di pietà e di ammirazione; così dolce, così casta, così rassegnata, così giovane ancora, eppure già tocca nella freschezza primitiva di fiore, bocciolo che incomincia ad avvizzire prima di schiudersi. I suoi occhi senza fiamma, pieni di una indicibile tenerezza repressa, sembravano coperti da un velo, il velo dei tabernacoli abbandonati. Le forme gentili del suo corpo si piegavano, si rilassavano nell’inazione; il suo collo seguiva già la curva malinconica degli steli abbattuti.
Senio si sentì preso repentinamente dal ricordo di una sera lontana, un dolce plenilunio di marzo durante il quale avea fantasticato a lungo sulla sua giovine amica e con un movimento di tenerezza irriflessiva le strinse la mano. Dina non mostrò di accorgersene. Lasciò per un minuto la sua mano in quella di Senio e poi la ritirò tranquillamente, senza guardarlo, mentre un lieve rossore le coloriva il collo e un palpito impercettibile le sollevava sul petto le piegoline del grembiule nero.
Poveretta! pensava Senio, quale sarebbe il suo avvenire? Una tristezza amara si mesceva alla sua contemplazione. Perchè non aveva egli il coraggio di renderla felice?
Con un lievissimo sforzo della fantasia se la immaginava nel passaggio da fanciulla a donna, più bella, più sicura di sè e più lieta; la vedeva continuare attorno a lui l’opera sollecita e amorosa di Corinna, e pensando alle carezze ch’ella gli avrebbe prodigate arrestava lo sguardo sulle manine diafane che le posavano in grembo, incrociate in una soavissima attitudine fra l’attesa e la preghiera.
Ma nello stesso tempo, per un dualismo di sensazioni a cui era troppo avvezzo, pensava le malattie, i figli, la responsabilità, gli impegni economici, il vincolo indistruttibile. E i suoi occhi abbandonavano le mani della fanciulla per tornare a fissarsi cupi e senza raggio sulla soglia della camera di Corinna.
Non parlavano più. Appoggiati alla cassapanca, aspettavano.
Il lume, in alto, vacillava proiettando raggi verdastri e tremolanti sul capo ai due giovani. Una o due volte l’orologio della chiesa parrocchiale suonò le ore.
— Andiamo a vedere — disse Dina a un tratto.
Senio la seguì con tutte le cautele, e misurando il passo su quello leggiero di lei, entrarono in camera dell’ammalata. Corinna dormiva ancora; Orsola pure si era addormentata col rosario nelle mani, la fronte appoggiata al guanciale della sua amica. Così Senio e Dina tornavano ad esser soli, soli giovani e pieni di salute in presenza di quelle due vecchie, una delle quali moriva e l’altra non avrebbe sopravvissuto a lungo.
Senio accompagnò con lo sguardo l'esile personcina della fanciulla che attraversò la camera in punta di piedi ed avvicinandosi al letto di Corinna volle assicurarsi che il suo sonno fosse calmo. Fece poi con la mano un cenno e Senio si curvò sul volto della sorella. Il respiro era affannoso, ma l'espressione della fisionomia conservava tanta serenità che Senio si sentì sollevato. Adagio adagio le passò la mano sulla fronte.
— È fresca.
— Sì, non ha avuto mai febbre.
— Forse questo sonno le farà bene.
Dina assentì col capo e rimase davanti al letto, in piedi, con l’occhio fisso sulla sua povera amica.
La camera, tutta chiusa, mancava di aria ed era impregnata di un forte odore di aceto e di camomilla. Per la rapidità del male non si era potuto nemmeno mettere ordine, e le grosse scarpe, lasciate sotto una sedia, sembravano conservare nei fili di fieno appiccicati alla suola, qualche cosa della rude esistenza di Corinna, della sua vita attiva attraverso i campi. Non c’era niente che indicasse l’abitazione di una donna; le pareti, i mobili, ogni cosa era semplice e quasi rozza; ben lontana da qualsiasi forma di benessere. Era la camera più disadorna di tutta la casa; ma in quello squallore austero si sentiva più che mai il gran cuore della zitellona; qualche cosa di nudo e di forte come le vette fra le quali era nata. I suoi libroni giacevano ammonticchiati sopra una tavola insieme ad un largo cappello di paglia e ad un coltello a serramanico che ella soleva portare con sè nelle sue gite, per tagliare all’occorrenza rami od altro.
Senio era ripreso dalla sua fatale debolezza. Mentre una timida fanciulla reggeva già da ventiquattr’ore a quello spettacolo, egli ne provava un malessere per tutto il corpo, uno scoramento, una repulsione più forte dell'affetto, più forte della sua volontà.
Quando Corinna aperse gli occhi si precipitò su di lei, interrogandola, supplicandola quasi.
— Ho finito! — disse Corinna guardando Senio col suo sguardo dritto e sicuro.
Dina ricominciò a piangere silenziosamente ed Orsola a pregare.
— Sorella mia, — mormorò Senio prendendole con delicatezza la testa fra le mani e baciandola ripetutamente, — non partire, non lasciarmi solo!
Gli occhi acuti di Corinna cercarono Dina e vi si fermarono un istante con materna dolcezza, ma non disse nulla. Senio però vide.
Poco dopo incominciò l’agonia.
Corinna riconobbe fino all’estremo i suoi cari. Strette le mani nelle mani di Senio, sembrava ripassare in quel momento solenne tutta la loro vita. Il dolore della separazione non appariva quasi sul suo rude volto, tanto vi dominava la soddisfazione di vedere lui giunto e la calma profonda di sentirsi giunta essa pure.
Non era stanchezza o nausea del mondo che le facesse accogliere con tanta serenità il riposo. Moriva da buon soldato che ha sempre guardato in faccia la morte senza iattanza e senza paura e che considera una grazia il poter morire a tempo, colla spada in pugno e il cuore fermo.
L’ultima sua volontà fu che si aprisse la finestra per lasciar entrare l’aurora; allora ebbe un sorriso di vero sollievo fisico ed una gioia interna la illuminò tutta. Era quasi bella!
Orsola, modesta e costante alla sua fede, si avvicinò ed asperse il cadavere con acqua benedetta, ne chiuse le palpebre, tirando il lenzuolo sopra la testa; poi toltosi dal petto un crocifisso lo collocò sul petto della morta, si inginocchiò nel corsello e pregò. Senio prese Dina per mano e la condusse via.
Quando la notizia della morte si sparse per il paese fu un dolore generale, ed una processione mai interrotta continuò tutto il giorno a visitare la spoglia di colei che sapeva amare e beneficare. Ma il giorno del funerale Senio per poco non ammalò. Tutta quella tristezza, quella morte, quell'abbandono gli riempivano l'anima di desolazione. Non trovava in sè nessun conforto, nessun pensiero che lo elevasse alla malinconia dolce della contemplazione filosofica od alla malinconia più dolce ancora dei cuori che amano. Mentre Orsola e Dina recitavano le ultime preghiere sulla cassa chiusa, egli ben si accorgeva che qualche cosa di infinitamente soave stava per scendere su di loro a calmarle. Dina stessa, che vedeva allontanarsi con l’amica la più accarezzata delle sue speranze, ebbe tanta serenità da rivolgere a Senio una parola di consolazione. Gli disse:
— Ella è morta contenta perchè riuscì a compiere tutto il suo dovere. Sì, questo era il suo pensiero costante e noi dobbiamo rallegrarci che vi sia riuscita.
Ed egli, perchè non trovava nulla da rispondere alla cara fanciulla? Perchè soffriva tanto? più degli altri, egli che aveva fatto di tutta per non soffrire mai? D’onde gli veniva quella amarezza strana, persistente, sfuggita invano, invano respinta, invano maledetta? Come la vita conduce inevitabilmente alla morte, conduce dunque inevitabilmente al dolore? E la scienza non insegnava nulla davanti a questa fatalità? Doveva rimanere a due povere ed umili donne il segreto della rassegnazione?
Lungamente vegliò quella notte sul davanzale della finestra, rivolto verso il cimitero, dove sua sorella passava la prima notte dell’eternità. Nessuno parlava: non era il vento, non erano le ombre, niente di fantastico e di esaltato; tuttavia Senio aveva la percezione, se non di una persona, di una coscienza e di una volontà accanto alla sua. Egli sentiva distintamente quel che diceva l’altro Io, l’ignoto fratello, il complice e il giudice insieme. Erano consigli severi, alti insegnamenti, ai quali si mesceva con tutta la violenza delle recenti impressioni la morte serena di Corinna e le sue ultime parole: — Ho finito. — Poteva egli dire altrettanto? Quando lo direbbe?
Una tenerezza sentimentale, come gli capitava qualche volta, ma di breve durata, gli strinse il cuore. Avrebbe voluto rompere il parapetto della finestra, attraversare i campi, entrare nel cimitero e contendere alle zolle ancora smosse la santa preda. Gli sembrava già di sollevare sulle robuste braccia il corpo della sorella; la rivedeva bella e luminosa come gli era apparsa nell'istante della trasformazione; sentiva la sua voce che non aveva tremato mai, che non aveva mai taciuto davanti alla verità ed all’amore.
Oh! come la comprendeva adesso, come nella vibrazione della di lei memoria si sentiva ardere di carità per il prossimo, di slancio per l'ideale eternamente amante! Era stata così buona sempre, devota a lui fin da fanciullo! Forse, chi sa, aveva soffocate le sue aspirazioni di donna, si era strappata alle debolezze del sesso, alle tentazioni del piacere per dedicarsi tutta all'orfano fanciullo. Si era vestita di ferro e d’amianto per proteggerlo, per difenderlo, per educarlo. Non aveva ascoltato i proprii vent’anni per pensare ai vent’anni di lui. Vergine, aveva intuito gli eccelsi sacrifici dell’amore di madre.
Tanti piccoli incidenti dimenticati gli tornavano in mente; certe parole, certi sguardi, un castigo che aveva creduto suo dovere di infliggergli quand’era bambino e in conseguenza del quale ella aveva avuto per due giorni la febbre... Un’onda di pianto gli salì dal petto scuotendolo tutto, e cadde da' suoi occhi in larghe e rare lagrime.
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Ma non era già più per lei che Senio piangeva. Tutti i meriti di Corinna riuniti in un desolato rimpianto gli ponevano davanti il vuoto della sua vita. Egli piangeva ora su sè stesso, sulla sua impotenza ad essere felice.
Il giorno dopo, Orsola e Dina gli comparvero dinanzi vestite di nero; portavano il lutto come per una parente. Non erano quelle due donne le sole parenti ch’egli avesse?
Eppure in breve le avrebbe abbandonate. La vecchia casa paterna sarebbe passata in proprietà di stranieri; Senio voleva vendere tutto.
Furono peraltro giorni tristissimi. L’incalzare degli affari dava solo a Senio un po’ di tregua; ma quando entrava nelle camere deserte, quando scorgeva la sedia di Corinna vuota, quando prendeva in mano i suoi lavori, era uno strazio continuamente rinnovato.
Per un breve spazio di tempo accarezzò ancora l’idea di far sua la fanciulla che lo amava da tanti anni in segreto e compiere così l’ultimo desiderio della sorella. Tutte le sue relazioni con Dina, ripensate ad una ad una, gli mettevano nel cuore una dolcezza grande... Se egli avesse creduto all’amore, se avesse potuto amare, nessuna donna ne sarebbe stata più degna. Occorreva uno sforzo per vincere la sua accidia e il suo egoismo, per rompere la lunga abitudine del pessimismo, per indurlo a movere risolutamente verso quei pericoli e quegli affanni che egli aveva temuti, più di ogni altra cosa, nella vita. Ma non gli riuscì di compiere un tale sforzo.
In quei pochi giorni di dimora egli si trovò spesso colle due povere donne che lo aiutavano nel pietoso incarico di scegliere e di destinare le robe della defunta, non mai solo con Dina; l’ultima sera sì.
Era uscito dalla casa oramai vuota e divenutagli triste insopportabilmente. Il pensiero di un addio forse eterno, certamente lungo, lo condusse al cimitero. Era l’ora dell’abbandono completo, quando le fosse nel crepuscolo violaceo riprendono le fredde tinte dei marmi che le coprono e dalle ombre lunghe dei cipressi piove la pace suprema, il buio, il silenzio ininterrotto.
Le zolle ancora smosse che coprivano il corpo di Corinna tracciavano in mezzo all’erba un rettangolo bruno. Davanti a quei pochi palmi di terra, Senio passò l’ora più malinconica della sua esistenza. La morte al pari della vita gli tenevano nascosto il loro mistero più ardente; invano egli le interrogava. Il silenzio gli diceva: sei solo; l’ombra gli diceva: devi morire — e null’altro, null’altro!
Cercando istintivamente una preghiera, gli venne in mente una dedica letta sopra il frontone di un chiesa: Amori et dolori sacrum, e con essa un ritornello duro, stridente, la lima acuta d’ogni sua intima sensazione: Amore, dolore. Si erigevano dei templi a questa duplice fatalità!...
Tornava dal cimitero sfiduciato, avvilito, affranto, quando vide Dina che costeggiava il muricciolo del proprio giardino. Senio le andò incontro.
— Il treno parte domattina troppo presto perchè tu abbia a scomodarti per salutarmi. Ti saluto adesso, Dina, cara sorella.
Ella si era fermata sotto il folto di un albero. Non si scorgeva niente del suo volto e quasi nemmeno della persona fluttuante nell’abito scuro; solo una manina appoggiata al tronco dell’albero biancheggiava nel raggio della luna.
— Noi ci alziamo sempre presto, Senio; ti saluteremo domani.
Disse ciò con una voce che sembrava venir da lontano, tanto appariva velata e quasi rinchiusa da ostacoli invisibili.
— Porto una gioia con me, ed è la sicurezza che la tomba di Corinna resta affidata alle tue cure.
Senio rispose così; ma appena pronunciate tali parole avrebbe voluto ritirarle; solo udendole si accorse di quanto fossero gelide, sopratutto in quell’istante; e come egoistiche sotto la loro forma gentile. Egli cercava il modo di correggerne la dura espressione, quando la voce un po’ tremante della fanciulla si affrettò a soggiungere:
— Sì, puoi essere sicuro.
La manina si staccò dal tronco, leggera, fiera, tendendosi a lui. La vide fendere l’ombra, suscitandogli ad un punto cento diverse emozioni ed immagini, posarsi nella sua mano e stringerla con una tenerezza immateriale.
Ancora una volta il desiderio dell’amore attraversò idealmente il suo cervello; per un attimo ebbe la tentazione di portare quella manina alle labbra, di attirarsi quella bimba sul cuore. Ancora una volta l’indomabile freddezza vinse.
— Addio, sorella.
Nel folto dell’albero la lieve ombra vacillò, la voce mormorò:
— Addio.
E lui, urtandosi contro il muricciolo, pensava con atroce voluttà che non l’avrebbe forse vista più mai.
È una cosa orribile — si diceva dappertutto nei crocchi, nei caffè, ovunque due o tre persone si trovavano insieme. Non si parlava quasi d’altro che del processo Mordini.
Una grande sventura era piombata veramente sull’amico di Senio. I giornali l’annunziavano così, dopo la data e il nome del paese: «Una persona rispettabilissima, il dottor Stefano Mordini è accusato di avere in abuso dell’esercizio della sua professione propinato del veleno a un uomo che aveva giusti motivi di odiare. Il fatto è questo. Nove anni or sono la giovane sposa del medico abbandonava il tetto coniugale per raggiungere il signor ***. Da allora in poi i rapporti fra marito e moglie erano affatto cessati; sembra assicurato che il dottore non conoscesse nemmeno il nuovo domicilio della moglie. La sera del *** il dottore chiamato d'urgenza all’albergo di un paese vicino per assistere un viaggiatore colpito da improvviso malore, riconobbe nel sofferente il suo antico rivale, e siccome l'ammalato morì il giorno dopo e nel suo cadavere si rinvennero tracce d’avvelenamento, il fratello sporse accusa diretta contro il dottor Mordini. Tutto il paese è colpito da questa nuova disgrazia, che si aggrava sull’ottimo dottor Mordini e fa voti perchè la sua innocenza possa venire al più presto riconosciuta.»
Alcune circostanze si presentavano fatali per Stefano, fra le quali primissima quella di non avere egli saputo dare la spiegazione della morte repentina. Dopo la perizia medica fatta sul cadavere non vi erano più dubbi sull’avvelenamento, ma chi accusarne? Il fratello negava recisamente il suicidio. Se c’era stato sbaglio, il colpevole non appariva ancora. Per quanto l’innocenza di Stefano fosse nella coscienza di tutti, egli dovette comparire sul banco degli accusati.
Senio, accorso subito, lo trovò calmo e sicuro come sempre; come nove anni prima nella sciagura originaria che doveva dar luogo a questa.
Da qualche anno i due amici non si vedevano più, ma appena le loro mani si furono strette, tutto il passato rinacque. Senio ritrovava l’antico condiscepolo, il nobile emulo de’ suoi studi, il compagno de’ suoi giuochi, l’anima tenera e sensibile che per un arcano bisogno di contrasti era stata la più vicina all’anima sua.
Il tempo e la dura prova della vita avevano accentuato sulla fisionomia di Mordini quella espressione di malinconia profonda e pure serena che anche nei giorni lieti traspariva dietro la fiamma de’ suoi occhi; quasi un convincimento della parte dolorosa che gli era toccata nel mondo e nello stesso tempo una rassegnazione dignitosa e fiera.
Le sventure proprie e il contatto giornaliero con le sofferenze degli altri si erano combinati per sviluppare la grande forza d’amore che era in lui. Egli era giunto al punto che nessuna miseria lo meravigliava, nè lo atterriva, nè lo disgustava più; ma facendo risalire l’impressione materiale alla suprema fonte del bene assoluto, innalzava il dolore fino a quel limite dove esso si perde nella contemplazione del mistero, e fermandosi alla sorgente di tutte le debolezze umane ne attingeva un desiderio così sconfinato del meglio che il dolore stesso gli riusciva per quella via apportatore di gioie superiori.
— Io, al tuo posto, non potrei reggere — diceva Senio.
— Lo so — rispondeva Stefano con un dolce, malinconico sorriso, per cui sembrava che le parti fossero invertite e toccasse a lui di consolare Senio.
Nell’ufficio che spontaneamente si era assunto di avvocato difensore, Senio ebbe occasione di verificare per quale strada l’amico suo fosse giunto all’altezza morale che lo rendeva quasi invulnerabile. Da tutti i casolari, dai paesi vicini, dalle valli obliate, dalle vette solitarie, uomini, vecchi, donne, gente d’ogni condizione accorrevano volontariamente a portare un tributo della propria illimitata fiducia, a giurare dell’onestà di Stefano.
Erano madri a cui aveva salvato i pargoletti, genitori con i quali aveva pianto insieme, orfani che avevano trovato in lui un padre e un amico. Ognuno di essi lo aveva visto accorrere pronto nell’ora del bisogno, affrontare qualsiasi disagio, offrire sempre la propria persona, lottare con le sofferenze, vincere la morte, spargere dappertutto l’onda larga e benefica di un affetto che sembrava crescere quanto più si prodigava.
Chi narrava la sua generosità, chi la sua filantropia e la sua bontà coi poverelli, chi la rettitudine della sua condotta. Nessuno si astenne dalla nobile gara; le prove in favore di Stefano si accumulavano sempre più dinanzi agli occhi meravigliati di Senio. Per quanto egli potesse fare, niente era paragonabile a questo insorgere di tutto un paese per la difesa di un uomo. Doveva essere assai potente il fascino di un’anima profondamente buona, se per essa si scuoteva l’inerzia e l'egoismo, se dava ardire ai timidi, se a traverso le passioni d’ogni genere e d’ogni specie sapeva cavare dai cuori la loro più nobile scintilla.
Giunto straniero in quel paese, Stefano vi aveva trovato una patria; rimasto senza famiglia, cento famiglie lo avevano accolto, migliaia di bocche lo avevano benedetto. La sventura stessa sul suo sentiero si mutava in felicità, poiché egli si faceva umile cogli umili, povero coi poveri e prendeva la sua parte di fratello a tutte le miserie umane.
Davanti a un così potente plebiscito, che rendeva pressochè nulli i suoi sforzi di intelligenza per vincere la causa, Senio non poteva a meno di pensare, e non senza una certa amarezza, che a lui, dotato di tutti i beni, questa grande forza mancava; e ancora, come qualche altra volta, in certi momenti tristi del passato, gli sorgeva nel cuore uno sconforto, un vuoto, un ondeggiare dubbioso sui problemi che aveva creduto di poter risolvere da solo; sul fondamento della felicità, che non gli sembrava più, ora, consistere soltanto nello allontanamento della sofferenza.
Il giorno prima del dibattimento, mentre Senio si trovava solo con Stefano, venne annunciata la signora Aldobrandi. Senio si sarebbe ritirato volentieri, ma non fu a tempo, e dovette subire un istante di malessere, quasi di mortificazione e di vergogna, mentre la signora lo salutò con una calma dignitosa e vereconda, con uno sguardo che gli rammentò dolorosamente il primo sguardo del loro primo incontro.
Da oltre un anno donna Clara si era stabilita alla villa, non facendo più in città che rare e brevi apparizioni. Il suo malinconico isolamento l’aveva ravvicinata al dottore Mordini, e poiché lo stesso ideale di carità e di amore li infiammava entrambi, si erano uniti nel fare il bene, partecipando così alle stesse consolazioni.
Stefano sapeva qualche cosa dei rapporti corsi fra il suo amico e la sua amica? Li aveva sospettati? Certo, nessuno ne disse mai nulla. Questi due traditi si erano intesi senza parlare, e si sostenevano l’un l’altro, conservando intatto il pudore delle loro sofferenze.
A guardarli così vicini, così somiglianti, così fatti l’uno per l’altra, Senio si domandava con acre ironia quando mai si incontrano le anime gemelle, e perchè questi due che la natura aveva plasmati sul medesimo stampo s’erano passati accanto senza riconoscersi. La delusione immediata di questa osservazione era sconfortante; essa provava una volta di più la cecità del caso e l’inutile pregio di nascere con un cuore atto ad amare, quando nessuna fiaccola lo guida nella scelta di un altro cuore.
Tuttavia, chi poteva dire fino a qual punto le anime di Stefano e di donna Clara avrebbero potuto salire insieme? Chi sa quale amore nuovo, sconosciuto, affatto diverso dall’amore che li aveva resi infelici, si preparava a loro nella fusione intima ed immateriale di un ideale altissimo?
Davanti a loro Senio risentiva quella specie di rispetto mistico, quella religiosità arcana che si sprigiona dagli altari e dai templi eretti nelle foreste, dove dalle porte spalancate entra potente il soffio della natura e sembra che Dio stesso si faccia ministro della propria fede per presentarla pura e intatta agli uomini.
Quando la signora Aldobrandi si accomiatò, serena, e che Stefano lasciandola sulla soglia parve raccogliere da lei un nuovo vigore, Senio si sentì così infelice, così orribilmente misero come mai gli era capitato nella vita.
Nel giorno del dibattimento il piccolo paese fu in moto fino dall’alba. Come nelle circostanze solenni, come in un giorno di festa religiosa o patriottica, i padroni delle officine avevano concesso agli operai mezza giornata di libertà affinchè la dimostrazione riuscisse della maggiore imponenza affermando altamente il suo significato morale. Ed operai e padroni, tutti uniti, tutti d’accordo a muovere silenziosi chi in vettura, chi sui carri, chi a piedi verso la vicina città dove aveva luogo il processo.
Nasceva un fatto nuovo, singolarissimo, una specie di rivelazione in tutte le coscienze quali si trovano sfogliando le pagine più gloriose del cristianesimo o delle rivoluzioni dei popoli. Un’anima aveva parlato alle anime, era giunta a loro traverso le ardue vie dell’ignoranza, della malafede, della malignità. Ancora una volta la magica verga aveva percosso la creta e la sorgente zampillava alta verso il cielo.
L’aula della Corte d’Assisi non era sufficiente a contenere l’onda del popolo che si agglomerava fuori delle porte, nei cortili, in istrada con un contegno così imponente di solidarietà, con tale sicurezza di trionfo che mai s’era visto una cosa simile. Il Pubblico Ministero, nel sostenere l'accusa, si credette obbligato a palliarla con le parole più rispettose.
In conclusione, non esistevano prove contro l’accusato; nè s’era trovato nessun indizio che potesse illuminare con qualche certezza; la morte per avvelenamento restò un mistero.
Ma non tanto sulla mancanza di prove si appoggiò l’arringa di Senio, quanto sul carattere e sulla integrità del dottor Mordini. Facendo appello a quella massa compatta di testimoni che si alzavano come una sola coscienza a difendere l’accusato, egli trovò parole ispirate; quasi ognuna delle sue frasi era coperta da scoppi improvvisi di approvazione, da impeti, da esclamazioni che l’autorità stessa del presidente non riusciva a frenare.
Era una commozione così generale, così intensa, che uomini robusti induriti nel lavoro non si vergognavano di piangere, lasciando colare silenziosamente le lagrime sulle loro guancie abbronzate. Le donne invece frenavano e lagrime e singhiozzi per acuire l’attenzione, rivolgendo mentalmente fervide preghiere al Cielo.
Quando fu proclamato il verdetto che rimandava libero il dottor Mordini per unanime convincimento dei giurati, il delirio della popolazione non ebbe più limiti. Le donne coi bambini in collo si facevano strada in mezzo alla folla per vederlo, per toccargli la mano. Uno storpio, a cui egli aveva salvato quel resto di vita, s’era fatto portare sopra una barella alla soglia stessa della Corte e gridava più forte di tutti. Molti svennero per la commozione. I vecchi assicuravano che l'essere uscito illeso da quella prova era una sicura testimonianza della protezione del Signore, e già si concertavano pubblici rendimenti di grazia.
Stefano, commosso, raggiava di una mite, profonda soddisfazione; non esaltato, sentendo anzi nella sua grandezza l'obbligo della calma, rispondeva a tutti una parola, una stretta di mano, un sorriso; ma quando volle ringraziare Senio, questi si sentì quasi ferito. Per quanto nella sua arringa fosse stato eloquente, egli doveva pur riconoscere che il grido della folla, l'anima del popolo, erano stati più eloquenti e più sublimi ancora. La sua intelligenza non aveva aggiunto nulla alla voce potente del cuore, la sua forza di uomo superiore cedeva dinanzi a quella forza ignota che veniva dal sentimento.
E nel tripudio del trionfo, in mezzo ai brindisi ed alle ovazioni, tra le più fervide profferte di simpatia, sempre lo seguì un malcontento intimo, una percezione crescente della sua solitudine, della sua parte mancata nel mondo.
Rimasto solo nel salottino di Stefano, Senio rammentò la prima volta che vi era entrato e come ne fosse fuggito subito, come avesse creduto allora impossibile che l’amico suo potesse resistere alla sventura.
Invece aveva resistito, e tanto, che una più grande lo colpiva senza piegarlo. Esisteva dunque una forza che non era intelletto, che non era volontà, che battuta si rinnovava, che cacciata ritornava. Era forse l’amore? Ma l’amore di chi? Non certo l’amore dei sensi, nè l’amore di vanità, nè l’amore di sè stessi. Stava forse rinchiusa in quella misteriosa parola bene, che lo aveva pure tentato nelle ore degli entusiasmi giovanili ed a cui aveva creduto di giungere senza amare? È possibile fare il bene senza amare? È possibile amare senza sacrificarsi? E senza amore e senza sacrificio c’è vera vita, vera forza?
Nel segreto oscuro del suo io, Senio discendeva anche più in fondo. Rimettendo il bene al posto di idea astratta, limitandosi ognuna al bene proprio, non si poteva ottenere la sicurezza di evitare il dolore? Da un pezzo cominciava a dubitarne, e da questo dubbio glie ne veniva sbigottimento e terrore. Sotto i suoi occhi il dolore assumeva mille forme e, nella stessa condizione di uno che avesse intrapreso un viaggio polare privo di vesti per coprirsi, egli rabbrividiva, sentendosi nudo.
Ma più in fondo ancora, celato, vergognoso, di chi era quel livido volto di spettro che premeva sull'anima sua? Egli grande, superbo, altero, avrebbe mai sospettato di potersi un giorno trovare faccia a faccia con questa vilissima compagna, l'invidia? Eppure era essa. Senio la sentiva strisciare per l’ossa a guisa di biscia immonda, e ne provava un insuperabile ribrezzo. Nella sfilata di persone che l’incubo faceva passare davanti alla sua mente giungeva ad invidiare quelli che una volta aveva compassionati, quelli che egli stesso aveva contribuito a far soffrire. Come erano tutti più felici di lui!
Insieme all'invidia, un’altra bassa passione gli tentava la parte meno nobile dell’anima, la parte indifesa, aperta al nemico, ed era la gelosia; la gelosia peggiore di tutte, la più amara, quella che viene dopo l’amore e per cui non c’è rimedio nè sfogo. Certo egli non desiderava più donna Clara, e potendo riaverla non l’avrebbe forse cercata, perchè l’illusione dell’amore era caduta per sempre; ma per un inesplicabile istinto di contraddizione avrebbe voluto volerla, voluto sopratutto essere degno di lei. Questo invece era impossibile; il passato nessuno lo distruggeva. Ad ogni giorno, ad ogni ora donna Clara doveva riconoscere di essersi ingannata, e allontanarsi da lui, perdonandogli, dimenticandolo.... disprezzandolo forse.
A questo pensiero l’amor proprio sanguinava.
In una bigia giornata d’autunno Senio si accomiatò da Stefano per tornare ai suoi affari in città. Partì senza avere riveduta la signora Aldobrandi; e tutta la tristezza di quei giorni, le emozioni penose ed amare, lo seguirono nel viaggio.
Pioveva. Pigiato da una parte da un grosso omaccione il cui capo, ciondolante nel sonno, gli veniva ogni tanto a urtare la spalla. Senio non aveva altra risorsa che quella di rivolgersi verso lo sportello; ma lo sportello, per quanto avesse il vetro rialzato, non riparava interamente dall’acqua che vi batteva contro con violenza, tracciando tanti rivoletti lungo il cristallo e penetrando nelle pareti interne del vagone.
Per inavvertenza, era salito in uno scompartimento dove non si poteva fumare; per accidia vi rimase e tolto così al solo piacere che avrebbe potuto servirgli di distrazione, si trovò senza alleati contro la invadente malinconia.
Una sciocca preoccupazione, una preoccupazione meschina di biancheria da far rifare lo assaliva di tratto in tratto, irritandolo; ed anche questo gramo pensiero contribuiva nella sua infinitesima miseria a crescergli l’uggia.
Per un po’ di tempo, finché la luce lo permise, lesse qualche giornale, dove tutti gli incidenti del processo erano riferiti con grande abbondanza di particolari, e dove il suo nome si mesceva continuamente a quello di Stefano Mordini.
Uno zelante era andato perfino a rivangare la loro vecchia amicizia di scuola, servendosene di paragone per ritessere il virtuoso legame di Damone e Pizia. Egli conosceva quel giornalista; sapeva che era uno scroccone, un furbo, un uomo senza fede e senza coscienza, e quella lode dell’amicizia dalla sua penna lo nauseò. Pensava che la virtù è molto più in alto, dove 11 giornalista non l’avrebbe snidata mai, dove egli stesso non si sentiva ali per giungere.
Quando il crepuscolo della sera non gli permise di leggere, stette un pezzo a guardare fuori dei vetri la pioggia che continuava a dilavare il cielo, nascondendo alberi, case e monti in una tinta scialba, di un grigio sporco, in mezzo alla quale apparivano e sparivano rapidamente i fanali delle case cantoniere.
Dall’acqua che gocciolava spietatamente lungo il finestrino gli venne a poco a poco un brivido di freddo, un raggricciamento dei nervi, un bisogno invadente di morbidezza e di tepore.
Rapido come il baleno gli attraversò la memoria un ricordo de’ suoi tre mesi d’amore; una passeggiata fatta in carrozza, appunto di sera, nei primi freddi dell’autunno. Egli era senza soprabito e donna Clara lo aveva amorevolmente coperto con un lembo del suo mantello; l’evocazione della fodera di raso lilla e il profumo intimo e tiepido di quel mantello lo avvolsero per un istante in una sensazione così violenta di rimpianto e di ardore postumo, che si chiuse gli occhi fra le mani, per non vedere niente altro, per sentire ancora con uno sforzo della fantasia il braccio di lei morbido e sottile che gli cingeva il collo. Quando rialzò il capo il treno entrava sotto la tettoia della stazione.
Il treno aveva portato molti viaggiatori, e in causa del cattivo tempo ognuno si era precipitato verso le carrozze, accaparrandole. Senio, non avendoci pensato, rimase senza; un’ultima che gli si offerse la rifiutò perchè già si era incamminato a piedi e gli sembrava che la pioggia accennasse a finire. Del resto, si trovava in una disposizione bizzarra, affievolito nello spirito e con un bisogno di spendersi materialmente, di muoversi, di lottare con qualcuno se avesse potuto.
Un passo leggiero gli trotterellava dietro, misurando la distanza con quel rumore cadenzato dei tacchi, che invita irresistibilmente a voltarsi indietro. Senio si voltò.
La donna — era una donna — gli diede la buona sera. C’era il novantanove per cento di probabilità che Senio non rispondesse, ma fu invece la volta che rispose.
— Io la conosco — disse l’incognita, ponendogli a fianco.
— Sì? — fece Senio con incredulità.
— Sì.
Gli nominò una circostanza particolare, il caso di averlo incontrato presso un’amica in una certa sera di carnevale.
— Ah! — tornò a fare Senio distrattamente.
Ma poi, gettando un’occhiata sulla donna, che nella semi-oscurità appariva discreta, soggiunse tra l’ironico e il curioso:
— Ho fatto colpo, a quanto pare.
La donna rispose di sì; niente altro. Poi si mise a raccontare con molta semplicità che era stata in un paese lontano parecchi chilometri, a trovare una sua sorella malata: che la miseria di essa e de’ suoi bambini l’aveva impietosita al punto da lasciarle tutti i danari che aveva indosso, per cui non aveva potuto prendere una vettura, e le toccava andare così a piedi fino a casa sua, che si trovava all'altro punto della città.
Senio comprese, e le offerse di ricondurla con la prima carrozza che avessero incontrata.
— Oh! non occorre più, adesso. Poiché ci siamo trovati possiamo fare la strada insieme. Non piove.
— È vero, non piove.
Senio le chiese se non vedesse da molto tempo la sua amica.
— Da molto tempo. Lei è una donna leggiera, senza testa, non ha altra voglia che di divertirsi.
— Ma, mi pare...
— So cosa vuol dire. Il divertimento piace a tutti; pure, c’è modo e modo.
Il linguaggio era abbastanza bizzarro in bocca della sconosciuta, e non tale certamente quale Senio avrebbe dovuto aspettarsi, per cui tornò a guardarla con un certo interesse.
Era di media statura, grassoccia, vestita con semplicità: con un cappello nero, dentro il quale il volto appariva di forme regolari e attraenti, se non precisamente belle. Aveva un insieme di persona assestata e giudiziosa; la voce era volgare, ma ella sapeva non abusarne e parlava piuttosto piano. Disse, così per incidenza, che era rammendatrice di veli, e che il mestiere non rendeva più, perchè il velo oramai era passato di moda.
Del resto, nessun accenno alle solite storie sentimentali che si raccontano in simili circostanze. Senio lo notò fra i meriti della sconosciuta.
Ricominciando a piovere, Senio aprì l'ombrello e ne fece riparo alla sua compagna, dicendole:
— La mia casa è vicina, ma se lei abita molto lontano ancora si bagnerà tutta.
Non rispose subito; si strinse più presso a lui con un movimento grazioso e provocante.
— Dov’è la sua casa? — chiese a bassa voce.
— Qui, appena svoltato l’angolo.
Percorsero il breve tratto in silenzio, poi Senio si fermò. Ella pure si fermò subito, e come per aiutarlo a chiudere l'ombrello gli pose la mano sulla mano, dandogli una sensazione di morbidezza calda e vellutata, quasi l’anticipazione di una carezza.
— Entriamo — disse Senio, deciso.
Le apri la porta, ed ella passò avanti, raccogliendo le gonnelle con quella precauzione ordinata che sembrava in lei una seconda natura, e che, in quell’ora e in quella circostanza, la faceva somigliare ad una buona moglietta che rientra col marito.
Fecero le scale rapidamente. Quando furono su, all'ultimo gradino, Senio scivolò e cadde mandando un lungo gemito. Ella aspettò, un momento, che si rialzasse; ma visto che non si muoveva, si chinò su di lui, interrogandolo. Senio tentò uno sforzo o due, e ricadde subito mormorando:
— Non posso....
Allora la donna, senza smarrirsi menomamente, con la sua posatezza giudiziosa, aprì l’uscio dell'appartamento di Senio, e presolo sotto le braccia, con una forza grande e con pari risolutezza ve lo trascinò. Accese un lume e richiuse l’uscio.
— Si tratta di frattura doppia del malleolo — disse il chirurgo dopo di aver fasciato alla meglio e sovrapposto alla parte lesa delle vesciche di ghiaccio. — Per questa notte non c’è altro da fare; domani vedremo.
Senio, prostrato dal dolore, non parlava; il portinaio, che era stato chiamato in fretta e furia, guardava alternativamente il dottore e la sconosciuta per sapere da chi ricever gli ordini.
— Non lo lascino solo — disse il dottore.
— Non lo lascio — si affrettò a rispondere la donna, quasi fosse stata interrogata direttamente.
E come si era levata già il cappello e la mantiglia, come con una intuizione meravigliosa aveva messe le mani sulla biancheria per allestire d’urgenza la prima fasciatura, così con la stessa disinvoltura calma e seria sedette ai piedi del letto, nell'atteggiamento sicuro di una infermiera di professione.
Il dottore vide tutto ciò con uno sguardo; fece qualche raccomandazione ancora e partì seguìto dal portinaio, il quale non seppe dargli nessuna spiegazione sul conto della sconosciuta; disse solo, così di sua testa, che il signor avvocato arrivava quella sera di provincia, quindi poteva darsi benissimo che avesse condotto con sè una parente.
Rimasti Senio e la donna, Senio momentaneamente calmato la ringraziò, confuso nella ricerca delle parole, non sapendo oramai in qual modo considerare la sua situazione verso quella incognita.
Ella lo trasse di imbarazzo.
— Sono libera — disse con quella sua voce un po’ grossa e rauca che sapeva dominare all’occorrenza e che, nella nuova parte improvvisata, assumeva un tono di mistero, quasi di protezione — Le ho già detto che non ho lavoro. Ho pratica di ammalati, un po’; sarò la sua governante finchè non sarà guarito. Va bene? Mi comandi pure liberamente. Il mio nome è Ernesta.
Quello che provava Senio somigliava molto ad un sogno, un sogno fantastico e doloroso. Le emozioni del processo, la sua arringa, la folla, Stefano, la signora Aldobrandi, tutto ciò gravava confusamente su quel fatto rapido e fatale della caduta.
Il dolore fisico si univa ad una specie di avvilimento, quasi di stupore e di rabbia feroce nella sua impotenza. Era l’impressione di uno che si trova battuto e non sa da chi, e non può nè difendersi, nè vendicarsi.
— Ne avrò per quaranta giorni almeno.
— Almeno — confermò la donna — ma guarirà perfettamente; se ne son visti tanti. Non è questione che di un po’ di pazienza.
Una leggiera febbre, preveduta dal medico, venne a intorbidare le idee di Senio. Una folla enorme gli girava d’attorno; tutte le facce dei giudici, dei giurati, dei testimoni; quella dello storpio che si era fatto portare sui gradini della Corte d’Assisi per acclamare il dottor Mordini; a un certo momento gli parve anzi che l’accidente della caduta fosse toccato allo storpio. Fece per voltarsi sul letto, ma diede un urlo.
— Non si muova, per carità, altrimenti dovrò legarlo.
Quest’ultima parola gli si impresse nel cervello esaltato. Chi voleva legarlo? Era forse Stefano, lui? Aveva ucciso il suo rivale, avvelenandolo? No, egli non aveva ucciso nessuno; era un galantuomo, era onesto. Parlasse, parlasse il suo avvocato. Chi era il suo avvocato? — La signora Aldobrandi. Ecco, lo difendeva calorosamente e dolcemente, con una voce che gli andava al cuore. Diceva: «Abbiate pietà di lui; non vedete quanto soffre? Io lo amavo ed egli pure mi ha amata, un momento; ora non mi ama più, vedete? vedete? è ammalato; non ha ucciso nessuno; è lui stesso che muore...» Una turba di popolo gridava: Viva! viva! Le donne lo circondavano mostrandogli i pargoletti, benedicendolo. Si sentiva portato in trionfo a braccia.
— Che cosa è questo? Chi siete? Che cosa volete da me?
— Prenda; è la pozione calmante ordinata dal dottore. È buona; starà meglio dopo.
Egli bevette macchinalmente, e poi ebbe l'impressione di una mano morbida che gli rimboccava le lenzuola, che gli toccava la fronte e le guancie.
— Sta bene così? Dormirà adesso?
Dormì un poco, di un sonno agitato tratto tratto per il dolore del malleolo che gli traeva gemiti lunghi, strazianti.
E nuovi sogni lo avvolsero, dolci, terribili, ingenui, angosciosi — sembrandogli a un tratto di essere ancora bambino sui ginocchi di Corinna, rivedendola tale e quale, con un grembiule nero su cui erano stampate certe teste di gallo che non aveva dimenticate mai. Poi sembrandogli invece di essere sepolto con lei sottoterra e che il coperchio mal chiuso della cassa gli premesse sulla caviglia onde pregava la sorella di liberarlo; e questa preghiera fatta in sogno sotto l'impressione di un male reale aveva una dolcezza straziante, una angoscia di creatura abbandonata che avendo soffocato per il momento tutte le forze orgogliose dell'essere pensante, si ripiega sulla propria debolezza e non sente più altro che il dolore.
La donna intanto lasciava la sua sedia di infermiera e, preso in mano il lume, con l’avvertenza che la fiamma non andasse a battere sulle palpebre del dormiente, incominciò una specie di ispezione della casa.
Girava in punta di piedi, attenta, prudente, toccando con mano leggiera i cassetti che non erano chiusi a chiave, dandovi una rapida occhiata. L’appartamento era piccolo ma ben tenuto, con un salottino elegante, lo studio e una stanza di ripostiglio. I mobili apparivano nuovi e i quadri pregevoli. Accostò il lume, con molta precauzione, alla stoffa dei cortinaggi per esaminarli da vicino; alzò gli occhi al soffitto, quasi per prendere un possesso generale dell’ambiente e si fermò palpitante, con lo sguardo avido, davanti alla cassa forte interamente coperta di ferro. Nel piccolo cerchio di luce, che la candela proiettava intorno, le sue pupille brillarono di un raggio felino; strinse le labbra e camminando ancor più leggermente compì il giro, non senza avere osservato qualche carta e qualche lettera lasciata aperta sullo scrittoio. Riprese quindi il suo posto ai piedi del letto, immobile e muta.
Al mattino, il portinaio venne subito a prendere notizie del suo inquilino e ad offrire i suoi servigi. La sconosciuta lo ricevette di piè fermo, annunciandogli ch’essa era la governante dell'avvocato, ma che lui poteva continuare a rendere i piccoli servizi mentre ella si sarebbe occupata personalmente dell'infermo. Lo pregò di andarle a prendere una tazza di caffè, e cavò i denari dal proprio borsellino.
Quando fu l'ora destinata dal chirurgo per l’operazione di congiungere le ossa fratturate, ella, nel suo pieno assetto di governante assistette, intelligente, svelta, con l'occhio sempre attento al momento opportuno per dare una benda, per stringere un laccio, avendo anche occasione di mostrare la vigoria non comune dei suoi muscoli.
A operazione finita, essendo stata raccomandata dal dottore la più grande quiete, ella chiuse le imposte della finestra e, dato ordine al portinaio che sorvegliasse il malato mentre ella si assentava una mezz’ora, uscì rapidamente, allacciando i nastri del cappello sulla scala.
Tornò, secondo aveva detto, poco più di mezz’ora dopo, e le prime parole furono per informarsi se tutto procedeva con ordine. Fece allora entrare un facchino che l’aveva seguita con una piccola valigia, e, licenziati insieme facchino e portinaio, si lasciò cadere sopra una poltrona del salotto, tanto per riposarsi, quanto per persuadere a sè stessa che tutto ciò che le accadeva dal giorno innanzi era pura e semplice verità.
Ernesta! — chiamava Senio cinquanta volte al giorno. E cinquanta volte ella rispondeva premurosa, attenta, girando attorno al letto, con la sua leggerezza morbida di persona un po’ grassa e viva, sana, attivissima. Aveva adottate per la circostanza un paio di scarpe che non facevano alcun rumore; andando, tornando, girando chiavi, aprendo usci, non si lasciava mai sfuggire un movimento brusco; ogni atto in lei era vellutato, smorzato quasi. Sembrava a Senio, ne’ momenti più lieti, di veder girellare per la casa una quaglia domestica o una piccola gatta; un animaluccio grazioso ed inoffensivo, che a volte gli procurava un senso quasi di tenerezza. Ernesta si mostrava senza volontà; non solo non si imponeva ma cercava di nascondersi, di non tenere posto, di non far rumore. Non aveva nessuna esigenza, non chiedeva nulla.
Dopo di avere ordinato le fasciature e le medicine, dopo di avergli portato il cibo, sorretto i guanciali, dato il giornale, chiesto se non voleva altro, si metteva a sedere sotto la finestra coll'ago, il filo, una quantità di cose che Senio non aveva mai viste in casa sua ed agucchiava serenamente, pronta a levarsi in piedi alla prima chiamata. E questo atteggiamento devoto e servile, questo non chiedere e non attendere nulla, raggiungevano Senio nel punto più debole del suo organismo morale, l’avversione a darsi, il terrore a sacrificarsi.
Con questa donna egli non provava nessuna paura. Era una cosa; l'essere-macchina che lo serviva senza imporgli nessun dovere all'infuori di quello del pagamento, e con la quale era ben sicuro di non avere brighe sentimentali ed obblighi passionali. Me ne libererò quando vorrò — pensava.
Qualcuno de’ suoi amici, essendo venuto a trovarlo, gli domandò tra il serio e lo scherzoso dove diavolo avesse pescato quella infermiera. Egli, tra il serio e lo scherzoso pure, disse che glie l'aveva mandata la provvidenza.
Uno dei più intimi, un collega, gli fece osservare che l’Ernesta era celebre, ma non per curare malati.
— Lo so, lo so; che devo farci? Mi serve moltissimo in questa circostanza. È tranquilla, seria, non credo nemmeno a tutto quello che si dice di lei. E in fin dei conti non sono un frate.
— Ma la conosci bene? — insistette l’amico.
— Bene! bene! Occorre forse? Mi fa comodo e non cerco altro. Non domando la fede di buoni costumi ad una persona che deve prepararmi la zuppa.
— Non si tratta di buoni costumi. Quella donna è un vampiro e della peggiore specie; un vampiro a freddo. Aveva un uomo che l’amava e lo ha fatto morire; una figlia e...
— Ma che figlia! Se pure ha una figlia sarà a balia.
— Non credi nemmeno che abbia passato i trent’anni allora?
Senio, istigato così, si pose ad osservare meglio la sua governante. Che avesse o non avesse trent’anni, anche guardandola, si poteva restare in dubbio; ma in realtà che cosa doveva importargliene a lui? La interrogò, una sera, sulla sua vita, sulla sua famiglia ed ella rispose con semplicità e schiettezza, accusandosi con tanta buona grazia, che la fama di vampiro parve a Senio una esagerazione solenne. Confessò di avere avuto una figlia, ma disse che era morta piccina; del resto non tacque nessuno de’ suoi errori, ma seppe avvolgerli in quella forma modesta e prudente che sembrava essere la divisa di tutta la sua condotta, che si compenetrava co’ suoi occhi bassi, con la sua bocca dalle labbra sottili, con le sue mani dolci, grasse, scivolanti, mani oziose e raccolte di badessa.
È una disgraziata — pensava Senio; — era nata per essere buona massaia e non ha casa, nè tetto. Qui si vede che è felice; quando la manderò via, riprenderà la sua corsa randagia di lupa affamata.
L’idea di mandarla via appena fosse guarito era ben radicata nella mente di Senio; ma intanto si abituava a lei, ed in tale compagnia la parte più volgare della sua anima veniva a galla, si allargava, si stendeva, con la tendenza assorbente delle piante parassite, delle larghe ninfee che si alimentano e si ingrassano tra le acque stagnanti.
I germi grossolani soffocati dalla cultura e dalla frequenza dell’ideale, si rialzavano; tentazioni lontane, dimenticate, vinte, tornavano all’attacco. L’inerzia, la grande colpa di Senio, gli veniva solleticata in tutti i modi da quella donna che sapeva prevenire ogni suo desiderio e non imporgli nessuno dei propri. Egli, che aveva disperatamente difesa la sua libertà morale, si lasciava prendere dal lato della materia; egli che aveva spezzato le catene della passione cadeva in quelle dell’abitudine; egli che aveva rinnegata l’alta idealità femminile, subiva l’attrazione incosciente del sesso.
Certe ore, quando la ferita non lo faceva soffrire troppo, Senio che dalla immobilità del suo letto contemplava i movimenti di Ernesta su e giù per la camera, oppure la sua testa dal profilo seducente china sul lavoro, non poteva esimersi dal ricordare in quali circostanze egli l’avesse conosciuta; e nel fermento della salute che ritornava, nel tepore ozioso di quelle quattro mura dove vivevano rinchiusi insieme, acuti desideri gli si ridestavano nel sangue.
A volte, invece, era la noia che lo dominava, l'insofferenza e la stanchezza dell’immobilità, l'aborrimento del letto. Una smania di esserne fuori lo prendeva rabbiosamente e si sfogava come poteva, trovando tutto mal fatto, lagnandosi, imprecando. Ella lo lasciava dire, piegandosi alla bufera, aspettando che passasse; e quando era passata, nello stesso modo che si dà uno zuccherino ad un bimbo, ricominciava le sue parole melliflue, le sue piccole cure di benessere materiale, facendogli l'improvvisata del cibo che preferiva, inventando nuove maniere per rendergli meno incomoda la giacitura obbligatoria, circondandolo di morbidezza e di calore.
Nelle lunghe, interminabili serate, ella portava un tavolino accanto al letto e si ingegnava a fare qualche partita a dama o al domino. Quando Senio era stanco, oppure voleva leggere o dormire, ella si allontanava silenziosa e andava a coricarsi nel salotto attiguo, sopra un letto da campo.
Di là, attraverso il tavolato sottile, egli la sentiva ancora girellare per un po’ di tempo e la cadenza ritmica e leggera di quel passo che gli rammentava tutto un seguito di protezione e di devozione, cullava deliziosamente il suo primo abbandono al sonno.
Tratto tratto un rumore differente, ma sempre smorzato, faceva passare come una striscia di luce davanti alle sue palpebre chiuse: era un bottone che scattava, una gonna che scivolava per terra, un nastro gualcito e spiegazzato in un momento di impazienza; poi delle pause piene di suggestione e qualche lungo sospiro e finalmente il silenzio; ma un silenzio pieno e vivente che gli prometteva per il giorno dopo una eguale misura di sommissione, di diligenze, di cure minuziose, blande, umili, discrete.
Una volta o due Senio aveva avuto bisogno di lei durante la notte ed ella era accorsa con la solita premura, tranquilla, senza sguaiataggine e senza imbarazzo. Aveva il dono della mediocrità portato al suo punto estremo e questo, congiunto all’altro dono dell'assimilazione, dell’adattamento, la metteva in grado di assottigliarsi quando era il caso di passare fra due pericoli, di innalzarsi per raggiungere una meta elevata, oppure di discendere fino all'impossibile se la meta era in basso. Fredda, non avendo niente da difendere nè da sostenere, ella camminava dritta al suo scopo, riunendo su quello tutte le forze, col vantaggio grandissimo di non dover combattere nè passioni, nè pregiudizî, nè affetti, nè sensazioni; non avendo quindi nè impeti, nè collere, nè rimorsi, nè accasciamenti, nè nausee; pronta a qualsiasi cosa.
Non più colta delle sue pari, ma meno sciocca, ugualmente volgare, ma più avveduta, ella aveva studiato così bene il carattere di Senio che poteva oramai interpretarne anche i pensieri.
— Fra pochi giorni il medico ha detto che potrà alzarzi; io allora partirò.
— Sì?
— Sì. Voglio andare da mia sorella; questa vita non mi piace. Starò con lei, lavorerò... Vedo che sono ancora capace di lavorare e il lavoro non mi pesa, tutt’altro.
— È questa la vita che ti pesa? la vita in casa mia?
— Oh! no... non questa.
Una paura che aveva qualche volta assalito Senio, la sola a proposito di Ernesta, era che, sul punto di partire, ella dovesse fare qualche scena di lagrime e di intenerimento. Tutti i suoi meriti sarebbero allora scemati d’un colpo. Invece era lei che parlava di partire e ne parlava come di un proponimento già preso per l'avvenire.
Sparve così fin l’ultima preoccupazione di Senio.
Nel cuore dell’inverno, un rigido e splendido mattino di gennaio, Senio pose le gambe fuori del letto. Un amico, quello stesso collega che gli aveva dato l’avvertimento su Ernesta, venne ad assisterlo nella delicata operazione. Egli credeva che tutto fosse finito finalmente; ma, appena appoggiato il piede in terra, gettò un grido di sorpresa e di dolore. Le ossa appena rimarginate e intorpidite da un mese e mezzo di letto spasimavano per la fatica di fare un passo. L’ora di gioia che si era ripromessa fu un’ora di scoraggiamento e di umiliazione.
Ernesta gli disse:
— Provi a scendere quando non vi sono i suoi amici. Io posso ben sostenerla, sono forte. E poi conosco il suo male, l'ho curato io. Farà i primi passi a poco a poco e quando ne avrà ripresa l’abitudine mostrerà ai suoi amici che non è poi quell’infermo che sembra oggi.
Appoggiato a quella donna che conosceva il segreto di tutte le delicatezze e di tutte le pazienze, che era stata il testimonio unico della sua caduta, e verso la quale non sentiva più nè vergogna nè esitazione, Senio si incoraggiò.
Non erano gli amici, cioè i rivali, cioè il mondo, che lo vedevano accasciato come un vecchio sulla gruccia e che assistevano alla sua profonda umiliazione; era lei, Ernesta, che dopo di essere stata la sua infermiera, diventava la sua confidente, la sua amica. Con una calma inalterabile lo sorreggeva, camminava, si fermava, pratica oramai di ogni sua debolezza, risparmiandogli perfino la noia di chiedere o la gruccia più forte o la sedia più adatta, perchè ella sapeva già tutto quanto potesse occorrergli; ed egli, come non si pigliava soggezione di lei, così anche non si pigliava nessun riguardo.
Una brutta parola, uno sgarbo, tutto quanto con una signora o con una donna amata non avrebbe potuto permettersi, gli riusciva impunemente con quella creatura la cui forza consisteva appunto nel presentare sotto tutti gli aspetti la superficie morbida ed elastica di una palla di gomma, che riceve gli urti senza renderli.
Formavasi lentamente e fatalmente la peggiore di tutte le cristallizzazioni: l’impero della donna sull’uomo per mezzo delle sue attitudini bestiali. Da Senio, dall’uomo onesto, dall’uomo intelligente, Ernesta, pari ad una enorme tromba di assorbimento, sapeva ricercare e portare alla superficie il più intimo fango; lo abbassava per dominarlo meglio.
Tratto tratto, per esperimentare il suo potere, ella tornava a dire:
— Sarà ormai tempo che me ne vada: mia sorella mi aspetta.
Ma le forze di Senio tornavano lentamente. Fitte frequenti, acutissime, lo tormentavano; il piede offeso non reggeva oltre i venti o trenta passi. Girava nell'appartamento tracciando la linea circolare di un leone in gabbia, fermandosi spesso a guardar fuori dalle finestre, con un acuto desiderio di moto e di libertà.
Il suo amico lo aiutò un giorno a discendere le scale e gli fece fare un giro in carrozza; ma quanto a mostrarsi per le vie a piedi, zoppicante, non ne volle sapere.
Una sera di febbraio vi riuscì Ernesta. Era tardi. Lo persuase che a quell’ora nessuno lo avrebbe veduto; e poiché bisognava pure incominciare una volta o l’altra, meglio era quell’ora, in quella sera calma di luna, dove si sentivano già nell’aria le prime ondate della primavera, e senza che gli amici lo sapessero, senza esporsi a nessun compatimento, senza dover essere riconoscente a nessuno.
Uscirono insieme e da quella sera ne presero l’abitudine.
A poco a poco la passeggiata si allungava. Andavano a finire, quasi sempre, e con lo scopo di frammezzare la fatica, a qualche birreria sconosciuta, ai piccoli alberghi presso le barriere. Bevevano silenziosamente e poi se ne tornavano, fianco a fianco, braccio a braccio, lei sempre devota, sottomessa, servile; lui cedendo all'impero occulto dell'abitudine, prendendo il gusto di quelle strade, di quella compagnia, di quella assenza assoluta di imposizioni; attaccandosi ai piaceri materiali di un posticino comodo e di una data qualità di Graz — sentendo con una compiacenza scettica l’indifferenza che saliva, che gli cingeva di fasce morbide nervi e pensiero.
Ed ogni volta, al ritorno di quelle gite le quali serbavano nella volgarità prosaica della loro essenza qualche cosa di furtivo, l’Ernesta era sempre più dolce, pieghevole, sottomessa, umilmente amante, acutamente dominatrice; tendendo con tutte le sue forze a nascondersi e con tutte le sue forze a regnare; concentrando in questo solo scopo ben definito salute, bellezza, intelligenza, abilità.
L’amico alla fine lo seppe e senza reticenze gli palesò, a voce alta, in casa sua, che già si incominciava a giudicar male questa sua dimestichezza con Ernesta.
Costei udì.
Il giorno dopo, avendo preparato come il solito la camera, gli abiti, i giornali, con la stessa calma annunziò a Senio che partiva. Era già vestita col cappello.
Senio, sorpreso, intimorito, non sapeva nemmeno chiederle il perchè di una risoluzione così improvvisa. Ella lo prevenne.
— Me ne vado perchè non voglio essere insultata dalle persone che frequentano questa casa.
E se ne andò davvero. Ma otto giorni dopo, una sera, Senio stesso ve la ricondusse.
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Passò un anno.
Senio e Stefano sono di fronte, soli, in un gabinetto appartato di un piccolo caffè fuori del centro. Gli occhi di Stefano scintillano, la sua voce calda e grave ha intonazioni profonde:
— È l’amico tuo intimo, l’unico forse, quasi tuo fratello che te ne supplica. Lascia quella donna! Qualunque sia la sua condotta presente, ha un passato troppo abbietto per stare accanto a te. Non posso credere che tu l’ama, sarebbe assurdo. Di’, l’ami?
Senio fece un gesto vago, mentre coll’occhio fisso nel vuoto sembrava assistere ad una sfilata di fantasmi visibili a lui solo, e nella posa stanca, nel labbro cadente, rivelava l’ultimo limite della resistenza, l’abdicazione suprema.
— No, nevvero? E dunque? È l’abitudine, è la difficoltà di rompere un legame che dura da tanto tempo? Ma perchè non me ne dicesti mai nulla? Fu donna Clara...
A questo nome Senio sussultò.
— Fu donna Clara, l’angelo illuminato di tutte le buone azioni, che mi incitò a venir da te, a salvarti!
Si fermò un momento e parve a Senio che in quella pausa l’amico suo volesse dire molto di più che non con le parole. Punto da un cattivo istinto sollevò rapidamente gli occhi in volto a Mordini, ma lo vide così nobile, così alto, così sicuro, che li abbassò subito vergognoso del sospetto.
— È la casa, è la famiglia che ti occorre, nevvero? Lo provi anche tu, ora, questo bisogno degli altri, questa voce misteriosa che ci chiama tutti alla nostra missione collettiva nel mondo? E perchè hai dimenticato la fanciulla che tua sorella allevò per te?...
La sensazione di un nuovo spasimo passò sul volto di Senio.
— Dove troveresti una purezza eguale, una eguale garanzia di pace, di felicità, di onore? L’hai abbandonata, fosti con lei duro e freddo... è questo che ti trattiene? Ma di che temi? il cuore della donna che ama ha bontà inesauribili, ha tesori di perdono. Fidati a lei! Corri da lei! Ti ha aspettato sempre... Ti aspetta forse ancora.
Non sai quale inesplorata miniera sia il cuore di queste vergini che non avendo dato nulla al mondo, nulla alla vita, nulla alla gioia, serbano intemerate e altere il loro ideale all'ideale. Sono io, tradito dall’amore, che ti invito all’amore, all’unica fonte di virtù e di bene (la sua voce tremava per intima commozione). Ogni cuore che noi calpestiamo è un sacrilegio di cui ci rendiamo colpevoli. Ma se (più bassa e più profonda calava la voce) se veramente abbiamo calpestato un cuore, se una volta abbiamo venduto quale merce vile il palpito più segreto dell’anima, se abbiamo mentito, se abbiamo ingannato, il solo mezzo di redimerci, il solo mezzo di purificarci è quello di salvare un’anima in compenso dell’anima perduta...
Un fremito passò fra loro due, un’ala invisibile battè e tacque. Senio abbassò gli occhi.
Cambiando voce e tono, ma sempre più incalzando, spronato dal silenzio di Senio, Stefano continuò:
— A *** (nominò il paese da lui abitato) la tua candidatura procede a gran passi. È necessaria la tua presenza. Su, scuotiti! Dove sono i tuoi sogni di gloria? dove la tua forza? È questo che noi abbiamo aspettato da te? che aspettava la tua santa amorosa sorella?
— Corinna! — mormorò Senio con uno scoppio nella voce che pareva pianto.
— Sì, Corinna, la rammenti? Credi che parlerebbe diversamente? Lei e noi tutti che ti amiamo vogliamo strapparti alla volgare catena che ti umilia e distrugge le tue forze. Ascoltaci dunque, vieni con me...
Stefano parlava, parlava, ed a Senio frattanto passavano delle ombre sugli occhi. Stefano parlava ancora e Senio si faceva sempre più pallido; tentò una o due volte di interromperlo, inutilmente, il suo bel volto contratto per lo spasimo rivelava le torture di una lotta interna tremenda.
Infine Stefano meravigliato, irritato dall'ostacolo passivo di quel silenzio, sentendo il dovere di andare fino in fondo a qualunque costo, gli si avvicinò quasi minaccioso mormorando: Ma sei dunque...
Senio non lo lasciò finire. Con uno sforzo disperato, tendendo le braccia, supplicò: Pietà...
— Pietà? Pietà?
Cadde a Mordini tutta l'ira; si lasciò andare sulla sedia accanto all’amico, abbracciandolo, bocca contro bocca, stringendogli le mani che sentiva irrigidirsi nelle sue.
— Dio! Ma quale segreto mi nascondi? Che devo fare per te? Parla. A qualunque costo ti salverò.
Di nuovo le braccia di Senio si protesero nel vuoto, scorate, imploranti.
Curvo su di lui, l'amico raccolse in un filo di voce che non rompeva nemmeno l’aria, la penosa confessione:
— L’ho sposata.
Fine.