I duelli mortali del secolo XIX/Cronistoria dei duelli mortali del XIX secolo

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Cronistoria dei duelli mortali del XIX secolo
Prefazione

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CRONISTORIA

dei

DUELLI MORTALI DEL SECOLO XIX

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1800-1802. Al principio del secolo; la Ristorazione; Destaing-Reyner, Barbier-Dufaï-Raoul; Dufaï-De Saint Moris-generale de Montéléger. — Lo spirito marziale, bellicoso, che al principio del nostro secolo aveva invaso tutto per opera di Napoleone, non poteva tardare a manifestare l’influenza sua anche nel campo del combattimento singolare, nel duello.

Come mai tanta gente, tanta gioventù tolta improvvisamente dalla vita pacifica della casa patriarcale, e dalla schiavitù di spirito e di corpo dei mille tirannelli, peste di Italia e d’altri siti ancora, poteva restarsene tranquilla, quando armata di uno sciabolone, o di un archibuso sentiva rintronarsi le orecchie dalla egalité, dalla liberté, senza comprendere giusto la fraternité?

Era dunque da prevedersi che tutti questi eroi, improvvisati dal genio napoleonico, avrebbero portato un largo tributo alla stupida costumanza di duellare. E quei baldi soldati non si battevano così, alla leggera! Se essi gagliardamente lottavano in campo aperto, con non meno vigore pugnavano in campo chiuso, a tutte le ore, di giorno e di notte; quando capitava, tra una battaglia e una scaramuccia, tra una marcia e una ricognizione. Essi si battevano sempre: a tutti i momenti, in tutti i luoghi, pur di tenersi in esercizio nell’arte di ammazzare o.... di farsi ammazzare da un avversario. [p. 22 modifica]

Nei pochi giorni di quiete che il genio guerresco di Napoleone a loro concedeva, quei reduci da tante lotte cruenti, se la godevano un mondo nello sferracchiare con un borghese; con uno di quei pochi che la benignità dell’imperatore aveva dimenticato a casa.

Ad onor del vero bisogna convenire che il sommo duce non la vedeva, in fatto di duello, come i suoi dipendenti. Egli, almeno in apparenza, disapprovava questa nuova specie di esercizio militare, da lui non comandato; e lo disapprovava a tal punto, da privare della sua grazia imperiale il bravo generale Destaing, che per una questione sorta durante la campagna d’Egitto, uccideva, nel 1802, in duello a pistola il generale Reynier, a cui la palla avversaria aveva squarciato il cuore!

Però, i morti in duello, durante il primo impero, furono meno numerosi di quanto generalmente si crede. Invece, i duelli gravi e quelli mortali raggiunsero una cifra spaventosa durante il periodo della Ristorazione.

Le lotte della tribuna parlamentare si risolvevano a colpi di spada e di pistola, fuori della Camera, al Bois de Boulogne, o nei dintorni di Parigi, o in Parigi stesso; o nei boschetti del Palais Royal.

In quei tempi, oltre i politicanti, c’erano pure molti altri sfaccendati. Parecchi generali, innumerevoli ufficiali senza impiego e senza soldati, cercavano di ammazzare la noia del dolce far niente, uccidendo i generali e gli ufficiali che invece avevano il comando di reparti.

Gli ufficiali a mezza paga, poi, superavano nel numero le stelle del firmamento e, come anch’essi avevano quattrini pochi e non sapevano proprio dove dare del capo per cacciar la noia di un ozio forzato, camminavano sui piedi degli altri; sfondavano, o ammaccavano a suon di gomitate le costole del prossimo; o regalavano un ceffone al primo bellimbusto, che incontravano per via. Altri, invece, si piantavano ad una cantonata, decisi ad attaccar briga col sesto, col tredicesimo o col ventesimo passante; mentre tal’altri se ne andavano in cerca di uno qualsiasi che portasse occhiali, o soprabito lungo o corto, o cappello sulle ventitre, per provocarlo a singolare tenzone. [p. 23 modifica]

E come i padrini, in quell’epoca più che disgraziata, curiosa, non facevano difetto; così, ad ogni momento, anche per le strade di Parigi, si duellava di santa ragione.

Tra i più terribili e pericolosi sfaccendati a mezza paga di quel tempo, primeggiava il colonnello in riforma Barbier-Dufaï, terrore di tutte le mamme e di tutti i babbi, nonchè dei giovani ufficiali in attività di servizio.

Onde s’abbia un’idea del carattere strambo e pericoloso del colonnello Dufaï, eccovi una delle mille sue gesta.

Un giorno, più triste degli altri, il colonnello, accasciato dalla noia dell’ozio, se ne va a passeggiare in cerca di lavoro e prende di mira un bel giovanotto, ufficiale della Guardia reale.

Il colonnello lo avvicina e senza tanti complimenti gli posa la sua scarpa sul piede.

— Ma state dunque attento, signore! esclama tranquillamente il tenente Raoul, continuando la sua strada e chiacchierando con altri colleghi ed amici.

La condotta calma, dignitosa, corretta dell’ufficialetto non collimava proprio coi piani del colonnello Dufaï, che maggiormente irritato, rifà premuroso la strada per lavorare di gomito sul fianco di Raoul.

— Vi ho già pregato di prendere meglio le vostre misure nel camminare; osservò correttamente il giovanotto.

— Cammino a mio modo, io; nè mi preoccupo affatto delle persone che posso pestare, urtare, o spingere; replica risentitamente Dufaï, piantandosi di fronte al tenente Raoul.

— Ma non capisci, esclama uno dei compagni di Raoul, che il signore è alla ricerca di una questione e che ti ha scelto?...

— Buon Dio! Raoul rimanda. Io piombo qui dalla mia provincia e non sapevo che a Parigi, un uomo dell’età di quel signore potesse a sangue freddo insultare il primo venuto....

E il colonnello:

— Non si può essere più ingenui!... Ma non siete voi, bravo giovanotto, che ho voluto insultare, sibbene la coccarda che portate!... [p. 24 modifica]

— E perchè oltraggiare un servitore fedele del Re?

Dufaï, il terribile Dufaï, smontato, vinto da tanta urbanità di modi e serietà di parola, stende la mano al giovane Raoul.

— Lasciamola lì: ho commesso una sbadataggine dirigendomi a voi, che non siete venuto qui per attaccar briga, come ho fatto io.

— È vero; io non sono venuto qui in cerca di questioni: ma, dopo tutto, ho trovato quello che non cercavo; e non ho alcuna volontà di lasciarmelo scappare.

— Eh?!... fa il colonnello, meravigliato.

— Già, signore. Voglio battermi con voi; non perchè m’avete pestato un piede e spinto col gomito; ma perchè vi siete attaccato alla coccarda, che mi onoro di portare.

— Vi fate onore di ben poca cosa, caro il mio ragazzo!

— L’insulto ha un limite, che un gentiluomo non deve mai oltrepassare.

— Ah, ma non poso mica da gentiluomo, io? Mi chiamo semplicemente, borghesemente, il colonnello Dufaï.... E voi?

— Raoul X....

Niente, proprio niente tradì l’emozione interna dell’ufficiale nello apprendere il nome del suo avversario, il colonnello Dufaï, il più terribile spadaccino, il peggior attaccabrighe, se non la peggior canaglia dell’epoca.

— Qual’è la vostra arma, signor Raoul?

— Quella che vi piacerà, colonnello; spada, sciabola o pistola.

— Oilà! siete egualmente destro, forte, in tutte queste armi?

— «Forte» non è la parola; sibbene egualmente debole, perchè non le ho maneggiate mai.

— Perdiana! Ma cosa avete fatto durante la vostra gioventù?

— Non è ancor passata la mia gioventù, colonnello: non ho ancora diciott’anni....

— Ma allora, non parliamo più di niente. Io non posso battermi con un fanciullo!

— Sì; ma la natura mi ha dato tanta vigoria da essere più forte di voi. [p. 25 modifica]

— Non si tratta di vigore in queste faccende; ci vuole dell’abilità!... Andiamo, andiamo; voi siete un giovanotto di gran cuore; riconosco i miei torti e.... addio!

— No; io voglio una soddisfazione!

— Ma se vi ho presentate le mie scuse, io, il.... colonnello Dufaï! Cosa pretendete di più?

— Voglio una riparazione con le armi.

— Non ci contate.

— Forse che il colonnello Dufaï avrebbe paura?

Il colonnello fa di spalla e accenna ad allontanarsi.

Raoul si fa strada tra gli amici che cercano di calmarlo, e con la mano tocca sul viso il colonnello.

— Se non lo sapete, ve lo dico io: siete un vile!

— Egli ha portato la mano su di me, urla il colonnello imbestialito; disgraziato lui!

Il colonnello pretende una riparazione immediata. Due amici di Raoul corrono da un armaiuolo vicino e tornano con due spade e tutti insieme se ne vanno in una stradicciola che dà sul Louvre. Dufaï e Raoul tolgono gli abiti e si precipitano l’un sull’altro.

Il colonnello disarma l’avversario; questo raccoglie la spada e si ripone in guardia; ma per quattro volte è disarmato.

— Non posso assassinarvi, esclama il colonnello; cerchiamo un altro mezzo!

E propone un duello alla pistola a oltranza; ma non è accettato, perchè impraticabile in una strada.

Che fare? Si ode il rumore di una carrozza; Dufaï si batte la fronte: «Ho trovato!»

— Signori, fermate la vettura e correte dall’armàiuolo per cambiare le spade in due pugnali eguali per tempra e per lunghezza.

— Tu sei vigoroso, Raoul; ti senti il coraggio di attaccarmi di fronte, come mi hai attaccato alle spalle?

— Vi ho attaccato così, per obbligarvi a concedermi il combattimento che m’avevate rifiutato.

— Si tratta di un duello a morte.

— È così, che la intendo anch’io. [p. 26 modifica]

— Ebbene; noi monteremo in quella vettura, armati ciascuno di un pugnale. Ci legheranno insieme, lasciandoci libero il solo braccio destro. Chiuderanno poi gli sportelli e a un segnale dato, la carrozza partirà per fare due volte il giro della piazza del Carousel...

— Sono pronto; osservò Raoul.

I padrini tacquero, ossequienti, perchè convinti che nulla avrebbe impedito a que’ due uomini di massacrarsi.

Legati e chiusi nella vettura i due avversari, fu comandato: «Marchez!»

La carrozza si pose in moto. Il cocchiere aveva lasciato il posto a due padrini.

Da prima si udì un grido; poi un altro.... e nulla più. Alla fine del secondo giro, i testimoni si precipitano allo sportello. Un profondo silenzio regnava entro la carrozza, ch’era un mare di sangue.

Raoul era morto e Dufaï pareva morente.

Ma guarì, il terribile colonnello, a mezza paga1.


Però, la pagò ben presto. Il partito realista cercava un pretesto per disfarsi del colonnello Dufaï, che faceva parlare di sè per altri due duelli assai gravi. Nel primo aveva ucciso un ufficiale delle Guardie del corpo, il colonnello de’ Saint-Morys; nel secondo aveva gravemente ferito il generale visconte de Montéléger. Ma ebbe il torto, nel frattempo, di pubblicare un opuscolo, peccante di liberalismo.

Il colonnello fu arrestato; processato e condannato a un mese di prigione.

Dufaï, afferma de Vaulabelle, senza avere opposto alcuna resistenza si vide assoggettato alle più crudeli sevizie.

Il colonnello, dopo l’arresto, fu tutto pesto dalle [p. 27 modifica]percosse; e come gridava (sfido!) gli fu tamponata la bocca; e allo scopo di paralizzarne i movimenti, fu legato pel collo e per i piedi, e gli venne applicata una camicia di forza.... entro la quale poco mancò che non morisse.

Così, e non altrimenti, la Restorazione trattava i duellisti che la pensavano alla liberale!

Noi, però, che siamo più civili, non trattiamo a camicia di forza i condannati politici. Oh, no!...


1805. Kind; Soria e due francesi. — In una serata di gala che ad Amburgo dette nel 1805 il banchiere israelita, barone Kind, la sorella di questi fu fatta segno a grossolane impertinenze di certo Soria, addetto all’ambasciata spagnuola.

Due francesi, che si trovavano presenti alla scena indegna, alzarono la voce contro il becerume spagnuolo. Ciò condusse francesi e spagnuolo ad un doppio duello, nel quale Soria uccise i due avversari.

Il barone Kind, che fino allora s’era tenuto in disparte, si fece innanzi, dichiarando ch’egli pure voleva morire, o vendicare gli insulti fatti alla sorella e la morte dei due onesti e nobili francesi.

Il Soria si prese beffe del barone Kind; ma dovette accettare il duello propostogli alla pistola. Favorito dalla sorte di sparare per primo, Soria si regalò il triste piacere, innanzi di far fuoco, di vomitare contro l’avversario tutte le invettive più grossolane, che da bocca umana possono uscire2. Chiamò l’avversario: Cane di un giudeo; ebreo porco; mangiatore di fanciulli; ladro; strozzino; serpente.... e chi più ne ha più ne metta.

Il barone Kind non mosse palpebra; ascoltò tutto e tutto [p. 28 modifica]subì, anche i vituperi e il fuoco dell’avversario, come se non si fosse trattato della sua persona e della pelle sua.

Ma a Soria, allo spagnuolo tremendo duellista e tiratore eccellente, la collera fece fremere il braccio proprio al momento dello sparo; sicchè la palla passò vicino, senza colpirlo, al barone Kind.

Allora, il giudeo cane, come lo aveva chiamato Soria, sorrise e rivolto all’avversario: «Ora, sono io il padrone del campo, e vi prego di ascoltarmi, signor Soria. Io non vi dirò contumelie, no! Però, voglio che sappiate come da uomo positivo quale sono, in queste tre settimane mi sono posto in grado di fracassarvi il cranio, o di cacciarvi una palla là ove più mi talenta; perchè il mio colpo d’occhio è infallibile e il mio braccio non trema. Dunque, o Soria, io voglio che voi non abbiate a insultare più le donne; nè a uccidere i nobili cuori che ne prendono le difese.»

E cambiando tuono, con voce sonora: «Io tratterò la signoria tua, Soria, come si merita. Fa la tua preghiera, perchè sto per segnarti la fronte per l’eternità».

Lo spagnuolo, che aveva capito a volo il latino del barone israelita, si mostrò esterrefatto; tremò; stava per chiedere grazia, quando il barone, mantenendo la promessa, gli fracassò il cranio con una palla nella fronte.


1808. Capitani Boyd e Campbell. — Il 23 giugno 1808, il 21.º reggimento di fanteria, allora di guarnigione nella contea d’Armagh, in Irlanda, era stato passato in rivista dal generale Kerr. Dopo il pranzo, che tenne dietro alla rivista, s’intavolò una conversazione tra più ufficiali, fra cui i capitani Boyd e Campbell.

— Fino ad oggi, diceva Campbell, nel comandare avevo commesso un grosso errore; il generale Kerr m’ha dato una lezione, di cui profitterò.

E qui, il capitano Campbell, narrando i fatti, accenna all’errore suo e alla correzione fattane dal generale. [p. 29 modifica]

— L’uno non vale più dell’altro, osserva Boyd, perchè tutti e due contrari all’ordine del re.

— Può darsi, replica Campbell; ma opino che la ragione appartenga al generale.

La conversazione continuò per qualche minuto su questo tuono. Ma, poi, il capitano Boyd, perduta la pazienza esclamò:

— Lo so meglio di chicchessia.

— Ne dubito.

— Vi ripeto che lo so meglio di chicchessia.

— Capitano Boyd, sostenete voi che ho torto?

— Sostengo che ho ragione in base agli ordini del re.

Il capitano Campbell uscì senza aggiungere parola.

Il capitano Boyd lo seguì con due amici.

Di lì a venti minuti s’intese una detonazione d’arma da fuoco in una camera accanto alla stanza da pranzo. Tutti accorsero, e trovarono il capitano Boyd che vomitava sangue per ferita mortale, seduto in una poltrona.

La sua mano destra stringeva ancora una pistola non armata. Due candele piantate su due bottiglie e disposte agli angoli rischiaravano la scena.

— Boyd, chiese Campbell, dichiarate in presenza di questi signori, se tutto s’è passato regolarmente.

— Oh, no, non lo posso, Campbell, replicò Boyd; mi avete costretto a battermi con voi, mentre io voleva aspettare i miei amici.

— Ma, Dio buono, non avete detto che eravate pronto?... Ditelo, dunque.

— Sì....

ma dopo una lunga pausa Boyd riprese:

Campbell, voi siete un birbaccione; ve lo dice un morente.

— Sono un disgraziato, ma non un briccone.... Perdonatemi Boyd!

— Vi perdono, replicò l’agonizzante stendendogli la mano; ho... pie...tà... di... vo...i; abbiate pie...tà... di me!

Boyd non disse altro, e Campbell si pose in salvo.

Poche ore dopo Boyd era spirato.

Campbell s’era nascosto a Chelsea; ma, soprafatto dal [p. 30 modifica]rimorso, un anno dopo — estate del 1809 — si presentò alle assise d’Armagh dalle quali fu condannato all’impiccagione.

— Fucilatemi, ma non m’impiccate!

La giustizia irlandese lo impiccò!


1814. Il tenente Z** e il conte Bondy; Fayole e Fayau. — A Rouen, scrive Colombey, un ufficiale della guardia, Z**, cercava di imitare le gesta del colonnello Dufaï per l’ambizione di riuscire il «terrore della città!»

L’ufficiale innominato si divertiva specialmente a insolentire i borghesi, sospetti di liberalismo. La sua impertinenza, che vanamente cercava di essere spiritosa, non aveva potuto immaginare una entrata in materia più carina di questa qui, che gli serviva a meraviglia a tutti gli angoli della via.

— Mio piccolo amico, i vostri baffi sono troppo lunghi; ritoccateli un poco, altrimenti verremo noi a tagliarveli del tutto. Avete capito?

Coloro ai quali questo monito, od invito obbligato, era diretto non sempre si trovavano disposti a ridere, o a sopportarlo piacevolmente.

Parecchi rispondevano per le mire al provocatore insolente, che ne era felicissimo; giacchè, essendo molto abile in tutte le scherme, finiva per regalare un colpo di spada o una palla di pistola al poco cauto avversario. Le gesta del signor Z** giunsero a cognizione del conte Di Bondy, già prefetto della Senna durante i Cento giorni, e uno dei migliori tirarori di Francia, che si pose in mente di somministrare una buona lezione a quel signor mangiatutti. Accompagnato da un suo amico, l’ex-prefetto prese la via di Rouen e se ne andò a imbastire una partita a scacchi nel caffè frequentato dagli ufficiali delle Guardie del Corpo, alle quali apparteneva lo Z**.

L’occasione si presentò due giorni dopo. Mentre lo Z** giuocava al bigliardo, un giovanotto, passando, lo aveva leggermente sfiorato col braccio. [p. 31 modifica]

— Chi è questo mascalzone, che osa strofinarsi a me? grida l’ufficiale, brandendo minaccioso la stecca.

— Vi chiedo scusa, signore, dice, il giovanotto, tremante come una foglia.

— Ti perdonerò, imbecille, quando ti avrò aperto la pancia.

L’ufficiale non aveva ancora finito di pronunciare la sua rodomontata, che una voce sonora si fece udire:

— Cameriere, ecco cinque franchi; correte a ordinare un trasporto funebre di prima classe per il conte Z**.

— Cosa vuol dir ciò? chiese questi dirigendosi alla volta dell’interlocutore.

— Non faccio forse le cose da gentiluomo, signore?

— Chi siete dunque voi che osate parlarmi in tal guisa?

— Il conte di Bondy per servirvi.

— Perchè non l’ho saputo prima, signor conte? s’affrettò ad esclamare il tenente Z**, inchinandosi umilmente.

— Non è a me che dovete presentare le vostre scuse; ma a quel povero giovanotto, che voi avete indegnamente, e ingiustamente oltraggiato.

Z** ne rimase commosso; egli aveva dato di cozzo in un uomo più abile di lui e tutta la sua prosopopea era andata in fumo.

Fece le scuse per salvare la pelle; ma di lui e delle sue spacconate non s’intese più a parlare, perchè l’ex-prefetto lo mandò all’altro mondo con un colpo di spada.

Tra i duellisti famosi di quest’epoca è opportuno citare Fayole e Fayau.

Quest’ultimo nel 1820 uccise in duello il giovane Saint-Marcellin figlio naturale di De-Fontanes.


1816-1817, La guardia del corpo C** e il capitano B**; Garneray-Raymonard; Beaupoil Sainte-Aulaire; Duca di Feltre-Pierreburc. — Talvolta il dito di Dio si manifesta anche nel duello. Nei primi anni della Restorazione, intorno al 1816 [p. 32 modifica]e 1817, il signor de C**, Guardia del corpo, si trovava in un caffè del Palais-Royal, ove bazzicava un certo B**, capitano di fanteria, conosciuto conio un valente.... accattabrighe. Qualche parola fu scambiata tra i due ufficiali: parole triviali, grossolane da parte del capitano B**: misurate, spiritose e piene di buona creanza dalla parte del suo interlocutore.

L’educata riservatezza della Guardia del corpo, attizzò vieppiù l’insolenza dello spadaccino, mentre non diminuiva la moderazione di de C**. La sdegnosa indifferenza mostrata da questi, invelenì la collera del capitano, che afferrata una tazza di ponce, la posò con violenza sulla nuca del calmo avversario, ch’egli insultava.

Il combattimento fu istantaneo: il de C**, senz’armi si fece imprestare la spada da un suo amico presente, l’ufficiale Durolez, che era stato testimone dell’insulto. Il capitano B** ricevette una stoccata in pieno petto e cadde morto. Era il giudizio di Dio!

I suoi testimoni, quasi furtivamente, portarono la salma del capitano a casa sua, in via Notre Dame des Victoires.

Le circostanze singolari e tragiche di questo duello fecero chiasso: il ministro della giustizia ne fu prevenuto; ma quando ben appurò i fatti, sentenziò: Non facciamone niente: ci hanno sbarazzato di un uomo pericoloso, di un rompicollo, dov’è il male?


Il pittore Garneray, incaricato da Carlo X di comporre la battaglia di Navarrino, avendo fatto il viaggio della Grecia sulla Cararane, ebbe a lagnarsi del contegno di quel capitano Raymonard.

A torto o a ragione, non si sa: ma, sta di fatto, che i rapporti tra i due erano quanto mai tesi, allorchè la nave entrò nel Lazzaretto di Tolone. Garneray ammalato, fu deposto a terra. Privato delle cure del medico di bordo, abbandonato completamente, sotto la ispirazione della febbre scrisse al capitano una lettera molto risentita. Questi lo mandò a [p. 33 modifica]sfidare. Fu convenuto un duello alla pistola per quando sarebbero sortiti dal Lazzaretto. Garneray sempre sofferente si trascinò all’appuntamento; sparò per primo e colpi il capitano al fianco destro. Questi con mano tremante e con l’occhio velato fece il suo colpo a vuoto e morì, per la ferita riportata, dopo otto giorni.


Beaupoil Sainte-Aulaire, giovane ufficiale di cavalleria, piccandosi di essere anche scrittore politico di vaglia, pubblicava un opuscolo intitolato: Oraison funèbre du Duc de Feltre, che gli procacciò un duello col figlio del Duca.

In questo scontro l’ufficiale politico-letterato, riportò una ferita insignificante; ma qualche giorno dopo una nuova sfida lo raggiunse al suo domicilio.

Era di un cugino del defunto signor di Pierreburc. L’arma scelta era la sciabola; il luogo dello scontro il Bosco di Boulogne.

Trovatisi di fronte, i due avversari s’attaccarono con estrema cortesia, a tal punto di cortesia che Beaupoil, accortosi che l’avversario si trovava in pieno sole, chiese di poter andare un po’ più lontano, affinchè ambedue potessero godere la loro parte di ombra.

Posti in guardia di bel nuovo, Pierreburc venne toccato al ginocchio destro: ma con una pronta risposta ferì profondamente al petto l’avversario suo.

— Oh Dio! gridò Pierreburc, speriamo che la ferita non sia grave!

I testimoni a loro volta gridavano dallo spavento, mentre accorrevano a sostenere Beaupoil barcollante:

— Speriamo che il male non sia senza rimedio!

Ed un testimone:

— In tutti i casi le cose si sono passate secondo le regole.

Un quarto d’ora più tardi Beaupoil de Sainte Aulaire non era più.

Però, era morto secondo le regole cavalleresche. [p. 34 modifica]


1820-21. Fernet-Cazalles; Treins-Damarzid; H....-L...; Roqueplane-Durré. — Tra il 1820 e il 1821 un ufficiale della legione del Varo, chiamato Ferret, di opinioni legittimiste, spedì a Brutus Cazalles di Montpellier, membro del Corpo legislativo, un cartello così concepito:

«Signore; ho appreso che vi siete permesso di tenere propositi sul mio conto. Se voi sentite l’onore, come sembra che volevate far comprendere, spero che non vi rifiuterete di darmi spiegazioni, all’una dopo mezzogiorno, al Café de l’Esplanade. Dieci anni di sala d’armi non vi debbono far temere per la vostra pelle»3.

Cazelles accettò l’invito e Ferret pagò con la vita la confidenza ch’egli aveva nella propria abilità schermistica.


Qualche tempo dopo, certo Treins, ex-tenente d’artiglieria, ritiratosi a Eygleton, va a fare una visitina a Damarzid, ricevitore del registro di quella borgata, col quale egli aveva una partita da sistemare. Dopo i convenevoli d’uso tra persone per bene, l’ex-tenente propone al ricevitore di battersi la sera stessa con lui a duello di pistola e a sei passi di distanza.

La proposta viene accettata e i padrini tentano invano tutti i mezzi per pacificare i due avversari, o per lo meno di distorli dalla pazza convenzione.

La sorte favorisce Treins che spedisce a Damarzid una palla in pieno petto. [p. 35 modifica]

Damarzid, benchè morente, in uno sforzo supremo spara il suo colpo e ferisce l’avversario al braccio.


Nella stessa epoca un negoziante di Lilla, certo L..., se la godeva a chiacchierare su certe relazioni intime che passavano tra una signora della città con un suo amico H....

— Tu sei un bamboccione, gli dice H..., un po’ seccato. Tieni la lingua a freno, altrimenti te la spunto!

— E tu un.... polisson.

H.... prende i cocci in sì malo modo, che la cordiale amicizia del passato si cambia in odio profondo. Dopo un lungo dibattito e dopo varie peripezie, si addiviene ad uno scontro.

Le preghiere degli amici e dei padrini non valgono a calmare gli animi turbati e tanto meno per indurre L.... a ritirare l’epiteto: «polisson».

Un contadino che scorge i duellanti pronti a far fuoco, corre e si getta in ginocchio tra i contendenti, mentre con le lagrime agli occhi li scongiura a non uccidersi sul campo suo. Tutto inutile. Il contadino vien fatto allontanare, e al primo colpo H.... cade fulminato a terra.


E sempre in quel torno di tempo, racconta Colombey, due marsigliesi, Roqueplane e Durré per una causa rimasta ignota, si battono alla pistola a quindici passi. Roqueplane, designato dalla sorte, apre il fuoco e tira in aria. Durré, irritato, reclama, e pretende che l’arma, ricaricata, sia diretta contro di lui. Non vuole scherzi, Durré, nè coprirsi di ridicolo. Roqueplane cede alla volontà dell’avversario, spara e non colpisce. Durré tira a sua volta e uccide Roqueplane. Cazelles, Treins, L.... e Durré sono processati.

La Corte di Cassazione chiamata a statuire sul primo duello, decide: «che, nel duello havvi sempre una [p. 36 modifica]convenzione anteriore, intenzione comune, reciprocità e simultaneità d’attacco e di difesa; e che un tale combattimento, quando succede con eguali probabilità per le due parti, senza slealtà, senza perfidia, non può entrare in alcuno dei casi contemplati dalla legge».

Treins, è inviato alle Assise dalla Corte reale di Limoges, che posò questo principio:

«il duello, in sè stesso, non costituisce un crimine, nè un delitto; solamente i suoi risultati cadono sotto le previsioni della legge penale; infatti non si può supporre che il legislatore abbia voluto riconoscere in ogni cittadino il giudice o il vendicatore della propria querela, dando a ciascuno il diritto di vita e di morte sugli altri e creare, così, nello Stato, una inesauribile sorgente di odii e di vendette».

Il procuratore generale, le conclusioni del quale erano state contrariate, ricorse in Cassazione, ma senza riescita, perchè: «Treins fu il provocatore, perchè Treins sparò per primo; perchè, malgrado le insistenze dei presenti, fece fuoco ad una distanza talmente corta da essere quasi certa la morte dell’avversario; perchè queste circostanze, così riconosciute, fanno emigrare il combattimento singolare in discussione fuori dalla classe dei duelli che non sono stati compresi tra i fatti qualificati crimini e puniti dalle leggi attualmente in vigore».

E mentre nel caso Treins il duello veniva qualificato crimine, perchè era avvenuto a una distanza troppo ridotta, quello di L.... con H.... fu giudicato delitto, perchè uno dei duellanti aveva mirato più del consueto. Per ciò che si riferisce a Durré, risulta che fu mandato alle Assise, dalla Corte reale di Aix, «per aver tirato su Roqueplane in un momento in cui egli, Durré, non correva più pericolo di sorta».


1829. Signol e l’ufficiale di guardia al teatro; Dovalle-Mira. — Da Jules Janin tolgo questo duello luttuoso avvenuto nel 1829. [p. 37 modifica]

Un giovane letterato di nome Signol, aveva tentato con discreta fortuna la scena alla Porte-Saint-Martin. Però aveva un carattere, un pochetto urtante; ma in fondo era un buon diavolaccio.

Una sera, entrando al Teatro italiano tra un atto e l’altro, scorse una poltrona vuota e vi si accomodò senz’altro. Pochi minuti dopo, appare l’ufficiale di servizio al teatro e molto garbatamente chiede al signor Signol di lasciargli libera la poltrona, perchè gli apparteneva. Signol risponde che s’infischia dell’ufficiale, a cui assesta una ceffata. Poi s’alza e se ne va lasciando la sua carta da visita sulla poltrona. L’ufficiale schiaffeggiato intasca il biglietto e si adagia tranquillamente, come se di niente fosse, sulla discussa poltrona, ed alla fine della rappresentazione egli fa il suo bravo rapporto in questi termini:

«Niente di nuovo, eccetto uno schiaffo ricevuto dall’ufficiale di guardia».

Il colonnello lesse, e in margine annotò:

«Concedo all’ufficiale di guardia un giorno di permesso».

All’indomani alla porta di Signol, si fermò una carrozza tirata da quattro cavalli, guidati alla d’Aumont da un servo in gran livrea. I due padrini dell’ufficiale di guardia vi fecero salire Signol e i suoi testimoni, mentre essi li seguirono in un equipaggio assai modesto.

Giunti a Vincennes, nella foresta, i due avversari furono collocati di fronte. Signol conosceva bene la scherma; ma l’ufficiale si batteva per la prima volta. Il duello durò dieci minuti, e malgrado la sua valentia, Signol, ferito da un colpo di spada, tornò a Parigi cadavere nella carrozza modesta; mentre l’attacco alla d’Aumont conduceva l’ufficiale a ringraziare il colonnello, del giorno di permesso accordato.


I giornalisti hanno avuto sempre la cattiva abitudine di lavorare talvolta più di spada che di penna, anche ne’ tempi andati. [p. 38 modifica]

Il giovane Dovalle, un poeta di gran talento e di molte speranze, prediletto dalle Muse di Gallia, tra un sonetto e l’altro bramava di fare un po’ di critica.

Un giorno, parmi al primo di dicembre del 1829, volle sciorinarne una contro il figlio di Brunet, Mira, direttore del teatro. In conclusione nulla di grave; una o due frasi di quelle che facilmente sfuggono dalla penna nella foga del lavoro e che si possono ritirare senza restarne per questo disonorati. Ma, il signor Mira se n’ebbe assai a male, se ne dichiarò offeso e chiamò l’offensore in campo chiuso. Il giorno 2 dicembre scesero sul terreno dello scontro, ed al momento di far fuoco, Mira tirò fuori dalla tasca una dichiarazione a suo favore, la lesse ad alta voce, chiedendo poi all’avversario se era disposto a sottoscriverla.

Dovalle rifiutò.

Dovalle preferito dalla sorte, sparò per primo e sbagliò. Mira, a sua volta sparando, non prese il bersaglio.

I testimoni fatti allegri e felici del risultato negativo del combattimento si precipitarono tra i contendenti dichiarando l’onore salvo (!!) e gli animi pacificati. Ma quando tutti furono riuniti per indurre i duellanti a stringersi la mano, restarono come la moglie di Loth, vedendo Mira tirar fuori una nuova dichiarazione che, dopo letta a voce alta, sottopose alla firma di Dovalle, che la respinse.

— Ebbene, esclamò Mira irritato; vi sono ancora quattro palle; continuiamo! E se non basteranno ne manderò a prendere venti e noi spareremo fino a che io abbia ottenuto quella soddisfazione a cui ho diritto.

Il numero dei colpi da sparare non era stato prestabilito e i testimoni, un po’ tardi, si accorsero della loro dabbenaggine; ma dovettero riconoscere il buon diritto che Mira accampava. Però, invece di ritirarsi, tacquero per ricaricare le pistole. Ma nessuno fu costretto a correre in cerca di altri projettili perchè Dovalle cadde fulminato al secondo colpo4.

Questa uccisione fu per Mira una vera jattura, anzi una [p. 39 modifica]vera jettatura, perchè da quel giorno tutte le imprese tentate gli andarono a male.

Pochi erano rimasti, tra gli amici, quelli che lo salutavano, e se gli stendevano la mano, evidente in loro era il ribrezzo che provavano. Mira, tutto vedeva, tutto osservava e doveva tacere! Mira aveva una posizione, un impiego onorevole e lucrativo e lo perdette; Mira aveva una sostanza e rimase presto povero; Mira aveva una casa, ma dopo la morte di Dovalle più non l’ebbe. Da quel giorno Mira condusse vita randagia e vagabonda, vivendo di stenti, trascinando nella sua miseria una giovine donna amata e stimata da tutti. E quando Mira morì, tutti esclamarono: povero Dovalle! L’emozione per la morte di Dovalle fece scrivere a Dumas, nel Journal de Paris, queste parole:


2 dicembre 1829.

«Non vi par terribile, indegno anche che nel secolo nostro si vada a duellare sino alla morte per una parola sconveniente, spesso involontaria? Non è roba degna del carattere e della lealtà francese, sparare contro un uomo che può considerarsi disarmato allorché sta per ricevere il colpo fatale. Generalmente i russi si battono con la pistola; ma al duello non ricorrono che in casi estremamente gravi nei quali restano offesi l’onore vero o i più cari affetti. Ma noi, più ardenti, più facili a prender fuoco, facciamo troppo leggermente un punto d’onore di provare che non siamo secondi ad alcuno in fatto di coraggio; ma, bisogna confessarlo, questa specie di combattimento non ha un giusto mezzo tra il ridicolo e l’orribile». E consiglia i duelli alla spada!


1830. Il bianco e il nero. — Dopo la rivoluzione del 1830 negli Stati Uniti d’America, tra coloro che non ebbero il buon senso di non emancipare i negri, chi può contare quanti furono i morti in duello? [p. 40 modifica]

Sta di fatto, che i mulatti specialmente, appena liberi, vollero imitare i bianchi anche nel barbarissimo uso della singolare tenzone. Ma, se la razza di colore per una legge nuova aveva acquistata l’eguaglianza co’ bianchi; non ne aveva appresa l’arte di ben mirare con la pistola.

V’erano bianchi che si vantavano di averne uccisi sei, otto o dieci. Uno raccontava che non aveva potuto fare il settimo, perchè gli era fuggito; ed essendo venuto finalmente a lui un mulatto per chiedergli ragione di una certa ingiuria:

— Vo’ battermi con voi, rispose; ma perchè non facciate come il settimo, che se n’è fuggito: metto per condizione, sine qua non, che vi si legherà la gamba sinistra a un picchetto.

— Va bene; accetto, replicò l’uomo di colore.

— Allora fate il vostro testamento.

All’indomani essendo stato tutto predisposto secondo il convenuto, il mulatto, perchè offeso, sparò per primo senza colpire.

Il bianco si preparava a rispondere, quando s’accorse che l’avversario preso dallo spavento aveva trovato la forza di sbarbicare il picchetto e stava per darsi alla fuga. Il bianco lo lasciò allontanare alquanto e mentre fuggiva, gli sparò addosso, uccidendolo a... volo!

I presenti batterono le mani e l’onore del bianco, dopo questa prodezza, brillò come un faro in mezzo alle tenebre.


1831. Coste e la Legion d’onore dell’ufficiale di polizia; il deputato Dulong e il Generale Bugeaud; il Conte d’E** e il console francese di Lima. — La Croce della Legion d’onore costò la vita ad un ufficiale di polizia che portò la mano su Jacques Coste gerente del Temps.

Ed ecco come. L’ufficiale di polizia era stato nominato cavaliere della Legione, insieme ad altri colleghi. Il Temps aveva criticato questa nomina.

L’ufficiale di polizia, urtato dalla notarella del giornale, [p. 41 modifica]accompagnato da altri decorati, se ne andò all’ufficio del Temps, ove il gerente Coste, rifiutò qualsiasi riparazione, sostenendo i diritti del giornalismo libero. Sovreccitato sempre più dal rifiuto, l’ufficiale di polizia perdette il lume degli occhi a tal punto da colpire con una ceffata il signor Coste. Male glie ne incolse, però, perchè il gerente del Temps, duellando, gli mandò una palla nel cervello, che lo stese a terra stecchito.


Nel 1831, sotto la monarchia di Luglio, l’imprigionamento della duchessa di Berry, che già aveva fornito ai duellanti materia di esercitarsi su vasta scala, mise di fronte l’un contro l’altro armati due uomini politici.

Alla Camera dei Deputati nella seduta del 26 gennajo l’on. Larabit, che fu poi senatore, protestava contro la dittatura militare del maresciallo Soult che, in una lettera, aveva proibito agli ufficiali di artiglieria di Strasburgo di reclamare, anche quando il reclamo fosse stato legale e legittimo.

— Prima di tutto bisogna ubbidire! grida il generale Bugeaud.

— Bisogna ubbidire fino a farsi strozzare? chiede Dulong.

Il generale Bugeaud avvicina l’interlocutore e tosto si allontana soddisfatto dalle spiegazioni ottenute.

Ma ciò non andò a garbo del partito cui apparteneva il generale. La serpe politica vi ficcò il suo dente e invelenì la questione a tal punto, che il generale, pel solito onore della divisa, fu costretto a chiedere una riparazione con le armi. Il 29 gennajo, alle dieci del mattino, i due avversari si batterono in duello con pistola. Colpito vicino all’occhio sinistro, il deputato Dulong cadde come fulminato dalla palla del generale. Non si udì un grido; ma un tonfo di corpo morto. Dulong spirò alle sei del mattino successivo.

Per questa morte immatura, crudele, immeritata, la costernazione fu grande; ma, come al solito, poche ore bastarono per dar ragione all’adagio: «chi muore giace e chi vive si dà pace».

Il mondo è andato sempre così! [p. 42 modifica]


Sulla fede di Colombey riporto quest’altro duello, accaduto pure nel 1831, nell’America meridionale, tra due rappresentanti della Francia.

Un uomo di piccolo.... calibro, si presentava alla porta del conte d’E**, console di Francia a Valparaiso, e faceva passare la sua carta di visita, su cui si leggeva: «S**, console di Francia a Lima».

Fatto subito entrare, egli si accomodava tranquillamente, e con la massima flemma, cominciava:

— Vi ricordate, conte, la traversata che ho avuto l’onore, or è corso un anno, di fare con voi, sopra un bastimento da guerra francese, diretto al Perù? Voi sapete che una discussione violenta scoppiò una sera, durante il desinare, per un motivo futilissimo. Uno dei commensali si alzò e avvicinandosi al suo contraddittore, lo sfregiò con uno schiaffo. L’aggressore, non fa mestieri che io lo nomini; l’uomo colpito ero io.... voi lo rammentate?

— Perfettamente; replicò il console impallidendo.

— Or bene; il capitano del bastimento, avendovi sbarcato a Valparaiso, m’impedì di scendere; fui costretto a seguire la rotta e giunsi a Lima. Un anno passò su questo ricordo, e voi forse lo avrete creduto dimenticato. Ma, ciò che non si cancella per un galantuomo, è l’onta. Avevo chiesto dal mio governo un congedo, che non mi fu accordato; ed.... allora.... me lo sono concesso. Presi passaggio su un baleniere americano, che veleggiava per Valparaiso; partimmo ed ecoomi qui....

— Deciso a battervi?

— Sì.

— E non accettate altra riparazione?

— Sì, una sola.... Qui, domani, in presenza di due testimoni, uno scelto da voi e l’altro da me, vi renderò lo schiaffo che mi avete dato.

— Va bene; tornate questa sera con un vostro amico; rispose il conte con voce risoluta. [p. 43 modifica]

— Acconsentite? chiese a mezza voce S**.

— Sì; replicò il conte d’E** con un sorriso ironico.

S** era imbarazzato della troppo facile vendetta. Esitò a compiacerlo. Infine, si decise ad alzare la mano, allorchè d’E** gliela afferrò e scuotendogliela con una stretta formidabile, esclamò:

— E voi avete potuto credere possibile ciò? Perchè durante un anno avete potuto sopportare cristianamente l’onta di uno schiaffo, voi avete pensato che io me la infliggerei per sempre! Non avete capito, che io ho voluto vedere fino dove poteva andare l’ingiuria della vostra esigenza, e la ingenuità della credulità vostra? Ah, che siete divertente, signore! Ma disingannatevi; non sono tanto stoico, io; io sono un uomo come tutti gli altri, e non un superuomo; di quelli cioè, che ricevono tacitamente le ceffate e le sopportono con quella medesima rassegnazione, con la quale portano le offese arrecate dalla consorte alla fedeltà coniugale; o con la quale si adattano a proteggere, con un buon matrimonio, in nome proprio, la merce avariata da altri.

— Preferisco ciò: replicò S**. E dichiarò ai suoi padrini che non voleva avvalersi della sua qualità d’offeso. Non era per generosità; ma perchè, da un anno, tutti i giorni si era esercitato al tiro di pistola e nella scherma di spada.

I padrini chiesero allora al conte d’E** quale arma preferisse.

— Una pistola, una spada, un coltellaccio.... ciò che vi piacerà meglio.

Sortirono senza pronunciar verbo e si diressero verso un luogo ristretto tra la montagna e il mare.

Invano i testimoni tentarono una conciliazione, essendo ormai trascorso un anno dall’ingiuria.

— Impossibile, affermò S**; sento ancora la mano di quel signore sulla gota.

La luna splendida era della partita. Ci si vedeva come di giorno.

I due avversari si collocarono di fronte a venticinque passi.

Il primo sparo simultaneo fu senza effetto. Al secondo [p. 44 modifica]colpo il conte E** rischiò di perdere la pistola; il colpo partì e la palla andò a conficcarsi nel suolo a tre passi davanti a lui.

S** volle che si ricaricasse l’arma dell’avversario che vi si oppose, esclamando:

— Tirate, signore; lo voglio!

S** sparò e il conte d’E** cadde mormorando: «È finita!»

S** si slanciò sul morente, e quando s’accorse che era stato colpito mortalmente, si dette a fuggire come un pazzo.

Con l’animo lacerato dal rimorso S** morì pochi anni dopo.

Prima di rendere l’ultimo anelito, chiamò a sè il figlio, e indicandogli la pistola fatale, attaccata al muro, e ricoperta da un velo nero:

— Conservate quest’arma come la parte più preziosa della mia eredità. I ricordi, che le si collegano, vi rendano meno schiavo di me delle leggi crudeli del punto d’onore. Comunque, vi dirà quanto conta uccidere un uomo!


1832. Il dottor Vacquié; il signor F. David e Barthélemy; Costa e Benoît; Le prodezze del conte Larilliére. — A Agen, siamo nel 1832, l’elezione di un deputato ministeriale, Merle-Massaneau, provocò un duello tra il dottore Vacquié, partigiano dell’eletto, e un certo signor F** militante nel campo avverso.

Il dottore Vacquié vi perdette la vita.

La storia è semplice; ma è quella di tutti i giorni.


Sempre intorno al 1832. Il signor David, gerente del giornale La Garde Nationale, si battè con il signor Barthélemy, redattore del Peuple Souverain, in sostituzione del gerente Maillefer. [p. 45 modifica]

Il rappresentante del Popolo sovrano, però, s’ebbe la peggio: perchè riportò una ferita mortale al ventre.

Il David aveva diretto una lettera ingiuriosa al collega Maillefer, gerente del Peuple Souverain, che si trovava in prigione, e perciò nella impossibilità di difendersi; benché avesse chiesto un paio di giorni di.... permesso per dare una lezione al David.

Quando Maillefer apprese la disgrazia toccata al suo sostituto, guardando l’inferriata della prigione, ebbe ad esclamare: «È pur vero, che non tutti i mali vengono per nuocere!»


Per una ragione delicata quanto intima, ed era intimissima, un duello alla pistola fu concordato tra un certo signor Costa e un tale signor Benoît5.

Le condizioni furono stabilite, di comun accordo dalle parti, in questi termini:

Distanza: cinquanta passi, con facoltà d’avvicinarsi ciascuno di quindici passi6.

Giunto al limite minimo segnato, il signor Benoît invita l’avversario a tirare. Questi vi si rifiuta; provocando un combattimento di generosità, che minaccia di non finire più:

— Sparate, signor Costa, ve ne prego.

— Perchè debbo sparare io? Fatemi l’onore di sparare per primo voi, signor Benoît!

— Non sia mai! Vi scongiuro di tirare il vostro colpo. Andiamo; siate gentile, signor Costa.

— Chiedetemi quello che volete; uccidetemi.... ma non posso permettermi di sparare prima di voi.

— Andiamo, signor Costa; se voi non aderite al mio [p. 46 modifica]desiderio; se non sparate subito, non insisterò più; ma, mi costringerete ad andarmene via.

— Ebbene s’è così, faremo il duello al segnale, esclama un padrino.

— Accettato! soggiungono i duellanti.

Al primo sparo simultaneo, niente; al secondo Benoît annaspa l’aria; abbandona la testa indietro; compie un mezzo giro e piomba fulminato! Questa volta Costa aveva tirato.... un istante prima!


Tra i bretteurs, che più si resero tristamente celebri per le loro nefaste imprese sotto la Restorazione, il conte de Larilliére occupa uno dei primi posti. Quando madama la duchessa di Berry fu imprigionata nel castello di Blaye egli contava circa trentacinque anni. Era alto, ben fatto, elegante, di modi estremamente cortesi.

Il suo diletto consisteva specialmente nel provocare persone che non conosceva e di assassinarle colla forma cavalleresca, per non correre il rischio di andare in galera.

Un giorno se la passeggiava in una delle strade più frequentate di Bordeaux e vedendo venire alla sua volta uno de’ più stimati e ricchi commercianti della città, a braccio della sua giovane sposa, lo avvicinò e, con fare cortese e mellifluo:

— Scusi, signore, ho scommesso col mio amico, che ho l’onore di presentarvi, che abbraccerei in vostra presenza la signora vostra.

Il negoziante si fece livido mentre il conte continuò:

— Bene inteso, dopo avervi dato uno schiaffo; e nel dire eseguì l’atto ingiurioso.

Alle due pomeridiane dell’indomani i due avversari, assistiti da quattro testimoni, si trovarono sul luogo del combattimento.

Furon subito caricate le pistole e i duellanti furon posti di fronte alla distanza di venti passi. [p. 47 modifica]

Il signor Castera, il negoziante che era stato indegnamente oltraggiato il giorno prima dal conte Larilliére, non s’intendeva affatto di duelli; ma aveva un carattere risoluto e coraggioso.

Non si lasciò intimidire dagli sguardi minacciosi dell’avversario e, con la massima calma, occupò il suo posto di combattimento.

La sorte aveva designato Castera a sparare per primo; ma, ingannato dalla leggerezza dello scatto, fece partire il colpo prima di aver mirato.

Castera voltò il fianco e con tutta freddezza attese il colpo avversario. Il conte sparò e il negoziante fu leggermente ferito all’orecchio sinistro.

— Non è niente, Castera esclamò, e rivoltosi ai padrini: vi prego di ricaricare le armi. Castera mirò l’avversario, ma la palla gli sfiorò leggermente gli abiti e come Castera rimase di fronte, Larilliére fece fuoco, asportando l’orecchio destro del disgraziato galantuomo.

— Non è niente, esclamò sogghignando il conte; e rivolto ai padrini:

— Per piacere: ricaricate le armi, perchè questa volta farò centro. La sorte ora aveva preferito il conte, che, presa dalle mani dei testimoni la pistola, puntò, fece fuoco e freddò l’avversario colpendolo in fronte. Larilliére si allontanò co’ suoi amici, zufolando un’aria delle più allegre, lieto di aver ucciso l’undicesimo avversario.

Le bravate di questo miserabile conte avevano portato il lutto e lo sgomento nella società bordolese. La sua fama triste lo aveva reso celebre nel dipartimento delle Bocche del Rodano; ma non tutti erano disposti a subirne la prepotenza e a perdonargli le infamie cavalleresche da lui compiute.

Tra i generosi la storia registra un giovane ufficiale di guarnigione al castello di Blaye, che, sentendosi l’amino e il braccio capaci di liberare la società dall’incubo del signor conte, ottenuto un permesso, se ne venne a Bordeaux. Appena giunto, recossi al caffè del Gran teatro al quale, per abitudine, ogni sera si recava il conte Larilliére. Erano circa le undici. Il terrore di Bordeaux centellinava tutto solo [p. 48 modifica]un poncino, quando si vide avvicinare da un uomo di bella taglia, vestito di un domino nero e con il viso nascosto da una maschera di velluto nero. Nessuno s’era preoccupato della presenza della maschera, poiché in quel momento si apriva il teatro per un veglione.

Il domino si fermò di botto davanti alla tavola dello spadaccino, e con un colpo di mano fece saltare il bicchiere del ponce, mentre con voce tonante gridò:

— Cameriere, servite una caraffa d’orzata.

Larilliére impallidì e battendo dei pugni sulla tavola, concitato prese a urlare:

— Miserabile; ignorate dunque chi io sia?

E nel dire tentò strappargli la maschera.

Una mano di ferro trattenne il braccio del conte, che sotto quella stretta fu obbligato a sedersi:

— Chi siete lo so. Cameriere, presto una bottiglia d’orzata!

E rivolgendosi di nuovo al conte gli punta al petto una pistola:

— Se alla presenza delle persone che sono qui e per la soddisfazione mia personale, voi non traccannate immediatamente questa bottiglia, vi brucio le cervella; se la ingoiate, domattina avrete l’onore di battervi meco.

— Alla sciabola? chiede il conte al parossismo della collera.

— All’arma che vi piacerà; rispose lo sconosciuto.

Larilliére trangugiò d’un sol fiatò l’orzata, mentre tutti i presenti conservavano un silenzio sepolcrale. Lo sconosciuto, dopo essersi accertato degli effetti prodotti dalla sua provocazione, si ritirò, dicendo a voce alta:

— Signor conte, vi ho sufficientemente umiliato oggi, ma non vi ucciderò che domani. I miei testimoni saranno da voi domattina alle otto, e ci batteremo là, ove voi avete ucciso il povero Castera.

Come l’aveva promesso, all’indomani, Larilliére si trovò di fronte ad un giovanotto di appena venticinque anni: assistito da due soldati semplici del reggimento, che teneva di guarnigione nella fortezza di Blaye.

L’attitudine dello sconosciuto era calmissima e risoluta; [p. 49 modifica]i soldati testimoni avevano portato alcune armi, che furono rifiutate dai padrini di Larilliére. Lo sconosciuto sorrise e quando si pose in guardia di fronte al conte, questi non potè trattenersi dal dire ai propri testimoni:

— Questa volta credo di trovarmi di fronte a qualcheduno.

Iniziato il combattimento, Larilliére sentì che il sangue freddo abituale cominciava ad abbandonarlo.

Gli attacchi e le risposte si succedevano fulminee ed invano il conte aveva messo in opera i suoi colpi di riserva, e le botte segrete.

Inasprito, il conte esclamò con insolenza:

— Ebbene, signore, a che ora mi ucciderete dunque?

Dopo un istante lo sconosciuto replicò:

— Subito! e in così dire con un colpo di punta formidabile spezzò il cuore del conte.

Larilliére fece un salto indietro, barcollò, annaspò e si ripiegò su sè stesso, mormorando:

— Questo non è un colpo di sciabola, ma una puntata. Alla sciabola non avrei temuto alcuno!

Ripiegò la testa indietro e mandò l’anima ad aggiustare i conti col Creatore.

Quando la notizia della morte del conte si diffuse per Bordeaux, parecchie madri di famiglia fecero cantare messe di riconoscenza, per ringraziare Iddio di averle finalmente liberate di un flagello, perchè tale era per le famiglie di Bordeaux il conte Larilliére.


1833 (14 marzo). Dembowsky e il conte Grisoni. — Quando la speranza della vittoria infiammava l’anima di amor patrio; in quei momenti, in cui l’amore pel proprio paese esaltava l’immaginazione dei nostri vecchi, facendo fare a loro sogni di libertà, ne’ quali intravedevano l’albore di un’Italia unita, indipendente, prospera e felice, brutti momenti passavano i nostri oppressori; gli ufficiali austriaci specialmente, quando s’imbattevano in cittadini intolleranti delle prepotenze dei dominatori. [p. 50 modifica]

Nell’oppressione, nell’arroganza, nella insolente provocazione di quei signori, trovarono infatti i vecchi nostri l’energia della ribellione, di quella ribellione che tutto spezza ed abbatte, che spesso trionfa e fa dello schiavo un padrone.

Questo periodo di lotta contro l’oppressore non fu breve; anzi fu lungo ed ebbe termine solo quando la gente croata, liberò di sua presenza la terra italiana.

E che una lotta sorda, ma tenace e terribile, si combatteva, lo prova il fatto che dalla caduta di Napoleone I alla cacciata degli austriaci, ben pochi sono i duelli tra italiani, e nessuno, per quanto mi sappia, mortale. Invece numerosi furono quelli tra gli italiani e gli ufficiali austriaci, taluni dei quali, se anche erano miti e garbati con gli oppressi, non per questo cessavano di essere oppressori.

Tra questi duelli, uno che maggiormente sollevò scalpore e produsse commozione generale, provocando fin’anco l’intervento dell’Imperatore d’Austria, fu quello successo il 14 marzo del 1833, nelle vicinanze di Milano, fra un cittadino milanese, Dembowsky, e il conte Pompeo Grisoni, tenente7, e che apparteneva a una delle principali famiglie di Capo d’Istria, cioè: italiano al servizio d’Austria.

La ragione vera del duello quale fu? Uno scoppio improvviso d’odio represso, e perciò più prepotente, contro l’oppressione; un desiderio irrefrenato di libertà!

Ma quella apparente fu una delle infinite ragioni, che pur oggi inducono tanta gente a farsi ammazzare, o ad ammazzare il prossimo per un nonnulla.

Il sabato grasso del 1833 a Milano si faceva gazzarra, molta gazzarra, perchè allora il carnevalone non lo facevano i Comitati, ma tutti i cittadini che amavano abbandonarsi un po’ alla gioja pazza dell’allegria.

Desiderosi anch’essi di divertimento, alcuni giovani ufficiali del reggimento degli ussari «Re di Sardegna» avevano dimesso per quel giorno l’odiata uniforme, per [p. 51 modifica]indossare abiti civili, e in carrozza eransene venuti da Lodi a Milano, decisi di godersela allegramente, mescolandosi alla folla spensierata, che in quei giorni era scesa a Milano dalla Lombardia e dalla Venezia.

I giovani ufficiali degli ussari del «Re di Sardegna», trascinati da una carrozzella, se la godevano un mondo in mezzo a quel mare di gente avvolta da un nuvolo di gesso che acciecava e di coriandoli che piovevano in abbondanza da tutte le parti. E, i poveretti, gli ufficiali austriaci, facevano del loro meglio per rendere coriandoli e gesso agli spettatori.

Quando la carrozzella passò davanti a un gruppo di giovanotti della nobiltà e dell’alta borghesia milanese, il conte Grisoni, dimenticando di essere al servizio d’Austria, vuotò un mezzo sacco di coriandoli e di gesso sopra di essi. E male glie ne incolse; perchè uno di quei giovanotti, tarchiato, dalla carnagione pallida, dai capelli e dagli occhi castano scuri, avvicinò il conte Grisoni e con dispregio lo colpì ripetutamente con un bastoncino da passeggio. Gli ufficiali austriaci gettaronsi alla difesa del compagno e menarono sul percuotitore colpi all’impazzata con quell’arnese d’osso di balena, col quale allora, ed oggi, lanciavansi i coriandoli nella baraonda carnevalesca.

L’ingegnere Carlo Dembowsky8 non si perdette d’animo e tenne testa a tutti gli ufficiali austriaci, finchè l’intervento degli amici, la ressa, e la confusione che regnavano sovrane, non lo divisero dai contendenti.

Il fatto dispiacevole, uso la parola del mio informatore, [p. 52 modifica]non passò inosservato; e se anche lo fosse stato, non era probabile che degli austriaci, e per di più ufficiali, l’avrebbero sopportato con rassegnazione evangelica. Tacere avrebbe significato incoraggiare altri italiani di cuore a batter sodo sugli ufficiali tedeschi; ciò che, facilmente, avrebbe condotto ad una rivoluzione, di cui non si potevano misurare le conseguenze, o a un tentativo di rivolta per ricacciare oltr’Alpe quei signori, che si trovavano tanto, ma tanto bene, nella tiepida e bella Italia.

L’ingegnere Dembowsky dal canto suo, pensò, che dopo l’accaduto, l’aria di Milano non si confaceva più alla sua.... salute e non ignorando che il governo patriarcale di quei messeri, se l’avesse potato afferrare, gli avrebbe applicato una memoranda correzione, si eclissò: scomparve dalla capitale lombarda, per rifugiarsi al sicuro dagli artigli dell’aquila grifagna. Sicchè, infruttuose restarono le pertinaci ricerche degli ufficiali tedeschi, che dell’insulto fatto al Grisoni, volevano trarre atroce vendetta.

Il Dembowsky, e si seppe molto dopo, aveva fatto un lungo giro per riparare a Mestre prima, a Venezia poi. Perchè a Venezia, nessuno lo capì mai.


A quanto pare il Dembowsky fu presto sazio della laguna, perchè nella sera del 13 marzo si fece vedere al teatro della Scala, ove in quella sera si rappresentava un melodramma del Mercadante: il Conte d’Essex, nel quale sosteneva la parte della prima donna la celebrata Matilde Palazzesi, cantatrice di camera del Re di Sassonia.

Alla Scala, in quel tempo, vigeva pure una curiosissima abitudine, dovuta ad una inveterata tradizione9: le due prime file di poltrone erano riservate sempre agli ufficiali. [p. 53 modifica]Durante la rappresentazione uno di questi, certo Alessandro De Pertzell, ungherese, collega nel reggimento degli ussari del Grisoni ed amico intimo di lui, casualmente si voltò e nelle poltrone, retrostanti scorse, tranquillamente seduto, il Dembowsky. Lo accostò garbatamente e lo invitò ad uscire insieme dal teatro.

Il Dembowsky che non era uno di quei valorosi d’alcova e che nulla paventava, non si fece ripetere l’invitò e seguì indifferente l’ufficiale austriaco.

Quando furono all’aperto, il tenente De Pertzell chiese arrogantemente al Dembowski, s’egli sapeva d’essersi lanciato il sabato grasso, durante il corso, contro ufficiali austriaci e di averne percosso con intenzione uno. Il Dembowski rispose con un sorriso di scherno: che sapeva benissimo tutto quanto raccontava il De Pertzell e ch’era pronto a dare soddisfazione a chiunque non fosse andata a genio l’azione sua.

Il De Pertzell, non replicò verbo e presa una vettura partì per Lodi, dove giunse sul far del giorno; corse a svegliare il suo amico e collega conte Grisoni, a cui narrò l’accaduto. Pochi quarti d’ora dopo i due amici ripartivano alla volta di Milano, ove, appena giunti, il Grisoni mandò quattro ufficiali degli ussari al numero 1845, ora 6, di via del Lauro, all’abitazione del Dembowsky, per consegnargli la sfida del primo tenente percosso.

Dal verbale di questa tragica vertenza che ho potuto leggere, rilevansi i nomi dei quattro padrini che erano: il figlio del generale Radetzky, il De Pertzell, più volte nominato e i primi tenenti Aristide De Söffy (ungherese) e Losert.

Dal verbale non risulta il perchè, invece di due, quattro furono i padrini che si recarono dal Dembowsky per chiedergli riparazione dell’offesa toccata al Grisoni; ma la presenza del figlio del comandante generale dell’esercito austriaco d’Italia, autorizza a credere che quella volpe.... aveva ficcato lo zampino e la coda nella vertenza. [p. 54 modifica]


Ricevuti cortesemente dal Dembowsky, i quattro ufficiali proposero al figlio del generale napoleonico di chiedere loro scusa, o quanto meno di rilasciare una dichiarazione scritta, nella quale il Dembowsky affermasse il contrario di quanto aveva riconfermato la sera innanzi al De Pertzell. Ma il Dembowski, educato alla scuola di Matilde Viscontini, con disprezzo rispose loro:

— Mi meraviglio che quattro ufficiali, che si ritengono gentiluomini, possano proporre una simile infamia al figlio del barone Dembowsky. Percuotendo il signor conte Grisoni sapevo di percuotere ufficiali austriaci e se tra questi ve n’è uno, che delle mie percosse si ritiene offeso, sappia che sono qui pronto a dargliene soddisfazione con le armi.

Il duello fu stabilito subito; ma avendo il Dembowsky proposto la spada, gli ufficiali austriaci, che sapevanlo fortissimo in quest’arma, la rifiutarono e imposero la sciabola, ch’era l’arma loro, opinando che il Dembowski ne ignorasse il maneggio.

Nel verbale di scontro non si tenne parola di esclusione dei colpi di punta, nè altre convenzioni speciali furono pattuite.


Stabilito il duello alla sciabola i quattro ufficiali austriaci concessero (bontà loro!) al Dembowski, alcune ore di tempo per mettere in ordine le sue faccende e per.... provvedersi di un medico e di padrini.

Trascorse le poche ore concesse, l’ingegnere Dembowsky, in una carrozza di casa Resta, partiva alla volta di Gorla in compagnia del nobile Giovanni Resta e de’ suoi padrini, conte Antonio Belgiojoso e Massimiliano Majnoni. Il Belgiojoso, che abitava sulla piazza omonima, nel palazzo avito, era cognato di [p. 55 modifica]quella principessa Cristina di Belgiojoso, il cui fascino la rese simpaticamente celebre; mentre il Majnoni, conosciuto nella società milanese pel suo buon umore, si distinse più tardi pel valore col quale combattè sulle barricate e nelle campagne del ’48 e del ’49 col grado di capitano, dopo aver passato parecchi anni in esilio. Come si vede, gente di fegato sano!

Il conte Grisoni, accompagnato dai quattro ufficiali e dal medico militare della caserma di S. Vittore, barone Bakonyì si recò a Gorla in carrozza di piazza.

Gli avversarî si erano dati appuntamento sul limitare di un bosco, che allora fiancheggiava un campo vicino a Gorla.

Spogliati, messi di fronte ed armati, i due avversari si scagliarono furibondi uno sull’altro e, dopo breve schermire, furono separati e sospeso il combattimento. Nel breve riposo concesso non furono constatate ferite sopra nessuno dei duellanti.

Rimessi in guardia, la lotta si presentò più accanita di prima; il Grisoni, tirando fendenti all’uso ungherese, il Dembowsky, parando e rispondendo di punta secondo la scuola italiana. E come il Grisoni non variava gli attacchi, il Dembowsky, da provetto schermitore, in uno sbasso colpiva di punta al petto l’avversario, che esclamava: «son morto!» e piombava a terra cadavere.

Il tenentino De Pertzell, il più accanito tra gli avversari del Dembowsky, gli grida:

— Voi avete mancato ai patti, perchè i colpi di punta erano stati esclusi. Ebbene, vi batterete con me!

— Ah, no! non ora, replica Dembowsky, perchè.... guardate! e in così dire gli mostra la testa sanguinante per una larga ferita.

Nel combattimento furioso anche uno dei padrini, il Majnoni, era rimasto ferito per un movimento disordinato, fatto dal Dembowsky.

Il duello tra il tenente De Pertzell e Dembowsky, per concorde decisione dei padrini venne rimandato ad altro giorno. [p. 56 modifica]


Il cadavere del Grisoni gronda sangue dalla profonda ferita, e il De Pertzell ordina alla vettura di piazza di avvicinarsi per ricevere il defunto compagno; ma il vetturino, un certo soprannominato Beniamino, non volendo caricarsi di quel funereo peso, che lo spaventava; alla minaccia e alle preghiere degli ufficiali austriaci risponde frustando il cavallo e al galoppo scomparendo.

L’esempio del vetturino è contagioso, perchè Dembowsky, padrini e medico, alla loro volta si squagliano.

Il De Pertzell resta soletto col cadavere dell’amico, e solo pagando largamente alcuni contadini, ottiene che il cadavere del Grisoni sia trasportato nella casa vicina di Ambrogio Giani sindaco (cioè: deputato politico) di Gorla.

Il deputato politico, che non vuol noje, manda ad avvertire immediatamente la Direzione superiore di polizia di quanto è accaduto.

Abbandonata la salma del Grisoni alla custodia del Giani, il tenente de Pertzell corre a Milano e torna a Gorla, seguito da un carro militare e da alcuni soldati, ottenuti dalla caserma di S. Vittore.

Deposto il cadavere del Grisoni sul carro, il tenente De Pertzell lo precede a cavallo e a sera entra in Milano per Porta Nuova e di nascosto al Castello.

Il Comando militare informato della sciagura toccata al Grisoni ordina alla caserma di S. Simpliciano di fornire cavalli e carro per tradurre il morto fino a Lodi, ove alla mezzanotte precisa giunge alla caserma degli ussari del reggimento «Re di Sardegna», a S. Domenico.

Si fa correre subito la voce che il conte Grisoni è morto per una caduta da cavallo; mentre a Lodi, da Milano, giungono i medici militari, mandati per praticare l’autopsia del cadavere.

La ferita mortale profondissima è al petto. Però il volto è sfregiato e la mano sinistra è trapassata da parte a parte. [p. 57 modifica]Chi sfregiò il viso del Grisoni? Non certamente Dembowsky, perchè quando il Grisoni cadde esisteva una sola ferita, quella del petto.

Chi traversò la mano sinistra del povero Grisoni, se quando cadde morto non era ferito che al petto? Gli autori di tanta nefandità chi poterono essere, se non De Pertzell e i suoi amici, per aggravare la responsabilità del Dembowsky, o per far credere che veramente il Grisoni era caduto da cavallo?

Il cadavere, squarciato dai medici per l’autopsia, vien ricucito, lo si veste di una camicia di seta bianca e con pantaloni neri, e ricoperto il collo con un fazzoletto di seta nero e le mani con guanti bianchi, viene dall’amico suo, De Pertzell, composto nella bara e alla sera del 15 marzo, salutato dagli onori militari, vien calato nella sepoltura nel cimitero di Lodi.


Qui cedo la parola al cav. R. Barbiera, che pubblicò nel Corriere della Sera del marzo 1898 un lungo articolo su questo scontro fatale.

«L’imperatore Francesco I vien tosto informato del triste avvenimento, del quale tutta Milano parla commossa; e Sua Maestà ordina al Senato del Supremo tribunale di giustizia «d’aver cura che l’affare venga trattato con tutto zelo ed esattezza e sia con tutta sollecitudine condotto a buon termine».

Il Torresani sguinzaglia i suoi segugii alla ricerca dell’uccisore e dei padrini borghesi, ma troppo tardi! Tanto il Dembowsky, quanto il conte Belgiojoso, che il Majnoni e il Resta, s’eran dati immediatamente alla fuga in Svizzera, e (come osserva il barone di Scheeburg, incaricato dell’istruttoria del processo), non v’è una legge, o concordato, che obblighi il governo elvetico ad espellere e rimandare i profughi rei e correi di duello; in Francia, poi, il duello non è neppur «contemplato» dal codice. Nel codice austriaco del 1810, invece, l’uccisione in duello importa la pena del carcere duro da dieci anni a venti. [p. 58 modifica]

E parte anche il tenente De Pertzell, che in tutta questa triste faccenda, è quello che per nobiltà d’animo fa la miglior figura, anche per la correttezza delle deposizioni nelle quali parla, fra altro, lealmente, sul contegno tranquillo dei padrini avversarii. Il tenente parte, ma non fugge, benchè anche nel codice militare il duello sia delitto, ed egli sia sotto processo. Egli si reca a Como, al confine, per lanciare al Dembowsky una sfida. In una fiera lettera, gli rimprovera ancora d’aver violati i patti del duello; gli propone un duello a morte colla pistola, e lo chiama «vile e infame» se si sottrae al dovere. Il Dembowsky gli fa rispondere dalla Svizzera, da certo Dubois, ch’egli non sarebbe mai ritornato nel suolo austriaco per non cadere nelle fauci della giustizia, e che neppur egli, De Pertzell, in fine, non aveva varcato il confine.... considerando che, se lo avesse varcato, sarebbe stato dichiarato disertore.


Il duello tra Dembowsky e De Pertzell non si fece, nè la polizia austriaca, per quanto facesse, riescì ad arrestare gli imputati borghesi, contro i quali era stato incoato un processo di alto tradimento, o di qualche cosa di simile, perchè, in una perquisizione in casa Dembowsky, fu trovata una lettera da Genova piena di allusioni e firmata con A. R. (Agostino Ruffini). Dembowsky, il Resta e il Belgiojoso si resero a Parigi, e il Majnoni a Londra, da dove tornò per combattere, com’ho detto, da eroe, sulle barricate e a Novara contro gli austriaci.

Ma intanto il consigliere criminale Scheeburg, sollecitato, spingeva alacremente l’istruttoria del processo, che dilagava e non solo colpiva il duellante e i suoi padrini; ma per opera di Paride Zajotti, novello Torquemada, induceva all’arresto di estranei al duello, tra i quali primeggiavano i nomi venerati di Giambattista Carta, di Pietro Giordani, di Antonio Papadopoli veneziano e di Cesare Cantù. [p. 59 modifica]


1833. Lemerle-De Mosny; Gendebien-Rogier; Linsmar-De Keunaw; Le prodezze del marchese di Lignano, e di Luciano Claveau. — In un duello alla pistola con avanzata, un signor Lemerle aveva sbagliato l’avversario suo, tale signor de Mosny, che si preparava a fare il suo colpo.

Un signor R..., testimone di de Mosny, comanda la sospensione del combattimento, ordinando ai due avversarî di avanzare sino al limite minimo di dieci passi, limite fissato dalle condizioni pattuite per lo scontro.

Lemerle, assistito da due imbecilli — almeno a quanto pare — fu costretto a subire il fuoco di De Mosny ad una distanza a cui l’avversario suo non avrebbe potuto giungere, se non per la trafila di un altro pajo di palle, sparate da Lemerle.

Comunque, sta di fatto, che il Lemerle ricevette il colpo di de Mosny così bene, che n’andò tosto a visitar Caronte.


Dopo la morte di Lemerle i quattro padrini pensarono di chiedere il consiglio e il parere del generale Exelmans (ci avevano pensato un po’ tardi) relativamente alla correttezza o meno dell’accaduto.

Il generale dichiarò netto, che R.... aveva violato le regole del duello, obbligando un uomo disarmato ad avanzare fino ad un limite che l’avversario stesso non voleva. E soggiunse che, in tutti i casi, tale vantaggio avrebbesi potuto accordare al combattente che non ha ancora sparato, e che a lui solo avrebbe potuto spettare il diritto di reclamarne l’esecuzione. Le pistole poi erano state tolte a prestito dal signor R..., da un veterinario e non erano eguali, nè per la bontà, nè per forma.

R.... le dette ad un armaiuolo perchè cercasse di porle [p. 60 modifica]in buon assetto e lo pregò di marcare con un segno la migliore delle due pistole. Il buon armajuolo ingommò un pezzo di carta azzurra sulla cassa della pistola migliore.

Il diritto di scegliere l’arma sul terreno appartenne, per sorte, a de Mosny, e il signor R.... si affrettò a consegnargli la pistola segnata.

La Gazette des tribunaux del 21 agosto 1833, non ci dice se il signor R.... fu condannato alla pena del taglione! Certo se l’era meritata!


Dopo la rivoluzione del 1830, il duello ebbe molti cultori appassionati nel Belgio. Però, tranne qualche rara eccezione, i duelli furono sempre poco cruenti.

Nel giugno (26) 1833, uno scontro alla pistola ebbe luogo tra i signori Gendebien e Rogier. La distanza era di quaranta passi, con facoltà di avanzare di dieci. Rogier sparò senza colpire Gendebien, il quale rispose cacciando la palla in pieno viso all’avversario, a cui trapassò la gota destra, fracassò parecchi denti, per allogarsi in fondo alla bocca.


Sul finire del 1833 in una foresta prossima e Dreisen, piccola città della Prussia, fu rinvenuto il cadavere di un tenente colonnello, Federico de Keunaw10. Da prima si credette ad un assassinio; ma l’istruzione giudiziaria pose in chiaro che era morto in duello. Ecco le rivelazioni che condussero al processo. Il consigliere Von Zahn ambiva la figlia del barone de Holler, ch’era già promessa al suo amico barone de Linsmar. [p. 61 modifica]

Von Zahn risolvette di liberarsi di Linsmar a qualunque costo. Gettò gli occhi su Federico de Keunaw, col quale era molto intimo e che godeva fama di eccellente schermitore; mentre il barone non aveva mai posto piede in una sala d’armi.

Von Zahn cominciò per mettere i due in relazione tra di loro; e finì poi per trovare il mezzo di inimicarli a morte.

Vi riuscì, quel.... birbaccione, non solo; ma si fece scegliere da Linsmar come suo padrino fidato!

Ogni accomodamento, naturalmente, divenne impossibile.

Von Zahn, però, ebbe la peggio, perchè il barone restò incolume e il colonnello perì.

Von Zahn fu condannato a morte; ma ottenne che la pena gli venisse commutata in venti anni di reclusione in una fortezza.

Peccato!...


Dopo la morte del conte di Larilliére, di triste memoria, i bordolesi poterono respirare liberamente per poco tempo, perchè un italiano, da parecchi anni stabilito a Bordeaux, marchese di Lignano, volle raccogliere la triste eredità lasciata dal conte di Larilliére, di turbare, cioè, la tranquillità e la pace delle famiglie bordolesi.

Per rendere più efficace la sua triste missione, il marchese di Lignano si associò a Luciano Claveau non meno destro nel maneggio di tutte le armi, non meno risoluto del marchese nel sopraffare i tapini, e quanto il marchese di Lignano prepotente e provocatore. Solamente, Claveau era un bell’uomo, ben piantato e talvolta generoso; mentre il marchese era di una bruttezza ripugnante, mingherlino, di istinti feroci.

Tra i due amici non esistevano rivalità; solamente cercavano di farsi concorrenza nel provocare nella maniera più strana i predestinati al sacrificio della loro crudele intrapresa.

Un giorno Claveau avendo appreso che il suo amico era [p. 62 modifica]riuscito a provocare un bordolese e a ucciderlo in duello, dichiarò al marchese che non voleva restare a lui inferiore, e che, perciò, quanto prima avrebbe fatto parlare rumorosamente di sè.

A tale scopo la sera stessa Claveau, accompagnato da un amico, si recò al gran teatro di Bordeaux e durante un intermezzo, andò ad occupare una poltrona vuota vicina alla vittima da lui prescelta.

Al momento di alzare il sipario, e mentre il più religioso silenzio s’era fatto nel teatro, Claveau tirò di tasca un mazzo di carte, le mischiò, pregò l’amico di alzarle e con lui si pose a giuocare una partita a briscola.

Ad un tratto:

— Ho il re; grida Claveau.

— Silenzio, esclamava la vittima prescelta dallo spadacino.

— Vi ripeto che ho il re, urla Claveau, minacciando l’interlocutore.

— Ed io vi ripeto di far silenzio e che siete un male educato.

La frase non era per anco terminata, che Claveau percoteva in viso lo sconosciuto, mentre il pubblico si sfiatava a gridare:

— Alla porta! alla porta!

Il marchese di Lignano corse a stringer la mano all’amico Claveau, che all’indomani con un colpo di pistola uccideva lo schiaffeggiato.


Pare di sognare pensando come nel nostro secolo si potessero impunemente consumare simili ribalderie, senza che la giustizia intervenisse a difesa degli onesti contro spadaccini dello stampo Claveau-Lignano. Si direbbe che il governo restauratore trovasse legittime queste empietà.

Infatti, Lignano non disturbato per le precedenti uccisioni, compiute sotto la forma cavalleresca, il giorno [p. 63 modifica]successivp al duello di Claveau, si appostò in una delle principali strade di Bordeaux, dedicata a S. Caterina.

Elegantemente vestito, inguantato inappuntabilmente, il marchese si pose a fumare, facendo girare fra le dita un elegante bastoncino.

Allorchè vide inoltrarsi alla sua volta un giovane della migliore società bordolese, di Lignano gli si fece incontro, e facendo un saluto compitissimo, dispose orizzontalmente, all’altezza delle ginocchia il suo bastone, esclamando:

— Scusate, signore, compiacetevi di saltare.

Il giovanotto meravigliato, dapprima fissò il marchese; poi, sorridendo, saltò, convinto di averla a che fare con un matto.

Il marchese, irritato dalla compiacenza del giovane, si morse le labbra ed attese al varco altri infelici.

Volgendosi dalla parte della piazza della Commedia scorse un ufficiale; gli andò incontro e lo pregò di saltare.

L’ufficiale, sorpreso dal pazzo invito, fissò risolutamente l’interlocutore, che in tuono imperioso sciamò:

— Signor ufficiale, vi ordino di saltare.

L’ufficiale con un calcio mandò lontano il bastone; mentre con la mano destra assestò un formidabile ceffone al marchese di Lignano. All’indomani, nel comune di Pessac, vicino a Bordeaux, l’ufficiale, accompagnato da due colleghi e dal medico del reggimento, duellava con la spada triangolare contro il marchese di Lignano.

Al momento d’impugnare le armi il marchese, rivoltosi all’ufficiale, gli presentò nuovamente il bastone.

— Andiamo, signor ufficiale, ne avete ancora il tempo, saltate.

— Siete un miserabile, perchè osate offendere l’avversario anche sul terreno.

Posto in guardia, dopo un lungo schermire, il marchese con un colpo da maestro traversava l’antagonista.

Il ferito portò la mano sul cuore, si piegò su sè stesso e, spirando, cadeva disteso sul prato.

Il marchese di Lignano eccitato, come le belve, dal sangue, si avvicinò ad uno dei padrini del tenente, che [p. 64 modifica]inginocchiato accanto al corpo dell’amico, gli sosteneva, piangendo, la testa.

— Signor ufficiale, volete saltare?

A questo punto l’ufficiale non rispose; ma impugnata la spada dell’amico morto si pose in guardia e pochi minuti dopo cadeva morente col petto squarciato ai piedi del marchese. L’altro ufficiale accorse per prendere il posto de’ suoi amici morti e riceveva una ferita mortale.

Circondato dai tre cadaveri non restava che il medico. All’invito del marchese egli saltò e potè accorrere a Bordeaux per annunciare ai superiori la triste notizia.


Qualche tempo dopo il marchese di Lignano e Claveau ebbero questione tra di loro; si batterono alla spada nella camera da letto, che abitavano in comune, e si ridussero a sì mal partito, che solo per uno di quei miracoli che aiutano i birbanti, poterono lasciare il letto dopo parecchi mesi.

Claveau assistito da una donna, ch’egli aveva sedotta, fece proponimento di allontanarsi per sempre dal marchese e di ritirarsi a vita onesta e tranquilla in un castello ch’egli possedeva in Provenza.

Il marchese di Lignano informato della determinazione di Claveau, lo attese al varco e mentre questi usciva dal teatro, dando il braccio all’amante diventata sposa, gli sbarrò il passo esclamando:

— Hanno preteso alla mia presenza che tu eri ristabilito; io ho sostenuto il contrario, perchè non mi potevo figurare, che se ciò fosse stato vero, tu fossi tanto vile da nasconderti dietro una sottana.

— Va bene, rispose Claveau continuando la sua strada; e rivolto alla moglie:

— Lo vedi, è lui che vuole così....

La moglie piangeva e rientrata a casa, in preda allo spavento, dette alla luce un bambino morto.

Il dolore di Claveau fu senza limiti. Esasperato, quasi [p. 65 modifica]pazzo dal dolore, al mattino andò alla ricerca del marchese ed incontratolo al circolo comune, lo afferrò pel colletto e per la cintura e messolo fuori di finestra, gli disse freddamente:

— Se tu non mi chiedi perdono; se tu non ritratti le parole che mi hai detto; ti lascio andare.

A cui il marchese:

— Se tu non mi lasci cadere, dirò che sei un vile.

Un vecchio si avvicinò a Luciano e a bassa voce gli ricordò la donna, che lo attendeva a casa.

Luciano Claveau ricondusse il marchese nella sala e gettandolo sopra un divano esclamò:

— Va; io sono migliore di te! Ti faccio grazia della vita.

Appena il marchese lo potè, scattò in piedi e assestò la sua mano sul viso di Claveau.

All’indomani, quando il giorno spuntava, i due spadaccini, terrore di Bordeaux, si trovavano di fronte, armati di spada triangolare. Al comando d’attacco, si precipitarono l’uno contro l’altro, combattendo con un accanimento addirittura brutale. Claveau, mentre parava e rispondeva agli attacchi del marchese, diceva:

— Ieri m’hai dato uno schiaffo e non ho pensato a rendertelo; ma vo’ restituirtelo prima di mandarti all’inferno. E con un movimento abilissimo restituì al marchese la ceffata ricevuta.

Questo fece perdere la bussola al marchese che faceva bava dalla bocca, mentre il fiele dell’ira gli schizzava dagli occhi. Rabbioso, si slanciò contro Claveau, che piantato come un centauro, lo ricevette di piè fermo, esclamando:

— Ed ora, caro il mio marchese, siamo pari; però tra breve mi dovrete qualchecosa. Se sapeste, come desidero darvi una buona lezione. Non voglio uccidervi; voglio solo ferirvi in maniera che per tutta la vita abbiate a ricordarvi del vostro Luciano. E, così dicendo Claveau, gli piantava la spada nel piede destro di maniera che il marchese, rimasto immobile, sembrava inchiodato al terreno. Poi, soprafatto dal dolore, abbandonò l’arma e saltarellando su di un piede solo cominciò a vomitare le ingiurie più atroci contro il feritore. [p. 66 modifica]

— Salta, salta, marchese! diceva Claveau ridendo: come sei buffo!...

La ferita impediva al marchese di continuare il duello; ma come Lignano non intendeva darsi per vinto, voltosi a Claveau, gli disse:

— Almeno alla pistola potrei ucciderti.

— E sia, fece Claveau; però facciam presto, perchè io comincio ad averne abbastanza di te, per quest’oggi.

I duellanti furon posti di fronte a quindici passi, con facoltà di avanzare fino a cinque passi, prima di tirare. Il marchese impaziente, con mille smorfie pel dolore acuto che lo tormentava, arrivò sino al limite assegnatogli; sparò ma Luciano rimase in piedi.

— Ed ora a me, disse Claveau e, avvicinatosi sino a cinque passi dal marchese, lo prese di mira.

— Claveau, osservò un padrino, voi commettete un assassinio.

E Claveau rivoltosi all’interlocutore che si trovava alla sua sinistra:

— Guardate; esclamò, aprendosi la camicia e mostrando la spalla perforata dal proiettile del marchese. Rivoltosi di bel nuovo contro Lignano, fece fuoco e il marchese cadde con la faccia contro la terra.

Quando lo alzarono egli era morto; la palla gli aveva fracassato la fronte.


All’indomani mattina, appena giorno, il commissario di polizia arrestò Luciano Claveau, che ottenuto di andare a prendere alcune carte importanti, nella camera vicina, trasse di tasca una pistola e si fece saltare le cervella.

La cronaca da cui ho tratto questi truci racconti che sono realtà e sembrano romanzo, non dice se le madri di famiglia bordolesi fecero cantare messe solenni di ringraziamento a Dio, che le aveva liberate da quelle calamità che s’impersonavano nel marchese di Lignano e in Luciano Claveau. [p. 67 modifica]

Solo non comprendo come la giustizia, ingiusta, di quei tempi se ne rimanesse indifferente, quando il Lignano assassinava il prossimo e si commovesse, quando un birbaccione, come Claveau, tolse di mezzo un brigante e peggio, come il signore di Lignano.


1834. Il poeta Pouschkine e il barone d’Anthes; il tenente Mieczniekowski e il sottotenente Stuart; il barone Tarnaco e un capitano olandese; i capitani Pariset e Eenens; un ufficiale polacco e un tenente degli ussari; De Schweiser e Sarrazin; il conte D’Aubrée e il conte de Blucher; il barone Trautmansdorf, la contessa Lodoiska de R.... e il barone Roop. — Il 1.° di febbraio del 1834 un poeta, di cui la Russia andava superba, Pouschkine, moriva in duello per mano del cognato, il barone d’Anthes, figlio adottivo del barone Heckeren, che fu poi senatore; ma che si guardò bene di togliere dalla miseria la moglie e i figli del disgraziato poeta, i quali sarebbero morti di fame e di stenti, se non li avesse soccorsi la benevolenza dell’imperatore Nicolò I.


Nel 1834 il tenente Mieczniekowski e il sottotenente Stuart, ambedue appartenenti all’esercito russo, vennero tra loro a questione per motivi assolutamente puerili.

Scesero in campo chiuso per battersi alla pistola, con diritto d’avanzare sino a otto passi. Ciascuno poteva tirare due colpi.

Stuart sparò per primo, e mentre la sua palla andava ad accomodarsi nel cervello di Mieczniekowski, passando per un occhio, si pose in salvo per non andare in Siberia. [p. 68 modifica]


Nel dicembre del 1834 un duello alla pistola ha luogo a Lussemburgo tra il barone de Tarnaco e un capitano olandese.

Dopo alcuni spari il povero capitano riceve una palla nel cranio che lo stende morto stecchito ai piedi dell’avversario.


Nel 1834 il capitano d’artiglieria belga, Pariset, rimprovera accesamente un suo tenente, Vanderstraeten, che avrebbe avuto il torto di non salutarlo. Il tenente urtato dal tuono provocante assunto dal capitano, lo invita a singolar tenzone. Pariset rifiuta di battersi con un inferiore. Il capitano Eenens sposa la causa del tenente, ed i due ufficiali vanno a battersi in un bosco di pini, sul campo di battaglia di Waterloo. Sparano contemporaneamente al comando e Pariset riceve una palla, che lo manda nella tomba a riflettere eternamente sull’albagia de’ superiori prepotenti.


La pacifica repubblica di Francoforte non era abituata alla commozione dei duelli allegri, o funesti, che fossero. Sicchè, quando ai 13 di novembre del 1834 uno ne accadde e mortale, ne fu assolutamente sgomenta.

Erano ormai trascorsi tanti anni, che nessuno più ricordava il duello tra un ufficiale polacco, maltrattato da un collega degli ussari, che vi lasciò la vita.

Anche nel novembre del 1834 erano due ufficiali del battaglione della fanteria di Francoforte che scendevano sul terreno della tenzone singolare; i tenenti De Schweiser e [p. 69 modifica]Sarrazin. L’arma, la sciabola. Schweiser n’ebbe portato via, netto, il naso e dopo breve tempo morì per sopraggiunte complicazioni.


Pure nel 1834, il conte Prospero d’Aubrée addetto all’ambasciata francese a Bade e il conte Gustavo de Blucher, pronipote del feld-maresciallo, andavano nell’isola del Reno a sistemare con le armi una certa vertenza.... intima, sorta tra di loro. D’Aubrée vi rimase ucciso, benchè.... non avesse ancora ventisette anni!


L’amore in tutti i tempi e in tutti i luoghi ha fatto commettere più sciocchezze all’umanità, che tutte le altre passioni prese insieme. Però, è anche vero che l’amore ha creato eroi, gentili e sublimi eroi d’amore, capaci di votarsi per l’affetto al sacrificio della vita.

Tra questi eroismi di un sentimento profondo, sincero, sconfinato, è da annoverarsi quello compiuto dalla giovane contessa polacca, Lodoiska de R** vedova di un generale, fidanzatasi al barone Trautmansdorf, un garbato e perfetto gentiluomo, che amando di gran cuore la contessa, n’era teneramente ricambiato.

I due colombi tubavano da lungo tempo la canzone dell’amore, il preludio della quale stava per chiudersi con un matrimonio ambito da ambedue le parti. Ma, come la contessa Lodoiska era giovane e bella, assai piacente e ricca, era pure molto naturale che il barone Trautmansdorf fosse circondato da invidiosi, aspiranti a sostituirlo. E gliene fecero di tutte, a quel pover’uomo di Trautmansdorf, senza, però, riescire a distogliere da lui l’affetto, il cuore, tutta l’anima, insomma, dalla bella Lodoiska.

Tra gli accaniti invidiosi, il più esasperato di tutti era [p. 70 modifica]il barone Ropp, che, possedendo un briciolo di bernoccolo poetico, verseggiò alquanto per mettere alla berlina il fortunato barone.

I poetici commenti del Ropp provocarono un cartello di sfida da parte del pretendente offeso, Trautmansdorf; ma con sorpresa generale, all’ultimo momento, un compiacente.... spadaccino si dichiara autore dei versi di Ropp, e nel duello, che sta per accadere, sostituisce questi, che passa alle funzioni di padrino.

Dai documenti, dai quali ho tolto questi appunti, non si capisce bene come mai potè avverarsi ciò; solo si rileva chiaro, che Trautmansdorf era caduto in una rete, che la perversità del barone Ropp gli aveva abilmente tesa, e nella quale perì.

Poche ore prima di scendere sul terreno la contessa Lodoiska corre dal fidanzato; e non risparmia argomenti per provargli l’agguato teso e la necessità di non cadervi. Ma le parole, le preghiere, le smanie, le lacrime della contessa a nulla valgono: Trautmansdorf è educato a quella stupidissima scuola sociale, la quale non ammette che un fracco di legnate date, o fatte dare ad un birbaccione, lavino l’offesa che egli ci ha arrecato; e che quell’offesa non si risciacqui con una buona condanna dei tribunali. No; Trautmansdorf, benchè uomo colto e pieno di buon senso, appartiene a quella classe sociale, che vuole l’onta lavata nel sangue.

Persuasa la contessa Lodoiska della inutilità de’ suoi sforzi per distorre il fidanzato da scendere in campo contro il sostituto di Ropp:

— Ebbene, esclama; ti accompagnerò io sul terreno; io ti servirò da padrino!

La volontà della contessa debellò tutti i «ma» del fidanzato, ch’essa accompagnò sul luogo della pugna, camuffata da cavaliere.

Trautmansdorf, dopo un combattimento sostenuto con fermezza d’animo, cade trafitto al cuore dalla spada triangolare dell’avversario.

Alla vista del cadavere di Trautmansdorf la gioia della vittoria schizzava dagli occhi del barone Ropp; che tosto [p. 71 modifica]si ricompose a mestizia, quando uno dei padrini del morto, gli picchiò la mano sulla spalla, dicendo:

— Ed ora a noi, signor barone Ropp, perchè voi siete un codardo, un uomo spregevole, che colpite nell’ombra e per mano di sicari. Se avete ancora un po’ di sentimento dell’onestà, mettetevi in guardia.

Ropp, sorpreso da questo linguaggio, e non potendo questa volta farsi sostituire, accettò l’immediato combattimento, nel quale ferì mortalmente l’avversario.

Ma, quale non fu la sorpresa di tutti, quando i medici, accorsi per soccorrere il ferito, constatarono che l’avversario del barone Ropp era una giovane donna, bellissima nell’aspetto; che era la contessa Lodoiska?

Eroina dell’amore, la buona, la costante ed affezionata Lodoiska, aveva voluto vendicare la morte del fidanzato, o per lui morire!

Alla inattesa scoperta, l’onta colorò il viso scialbo del barone Ropp, che rampognato da tutti, da tutti maledetto, si trapassò con la spada che aveva ucciso Trautmansdorf, e deturpato, con una ferita mortale, l’incontaminato corpo della bellissima contessa de R**.

Questo doppio duello accadde nel novembre del 1834 negli stati prussiani. Le conseguenze estremamente tragiche che ne derivarono, commossero l’intiera Europa, che rimase attonita e muta davanti all’esempio raro di costanza nell’affetto, che alle donne dette la contessa Lodoiska; alla quale, però, non s’è ancora inalzato un monumento!


1835. Everett White e il colonnello Bellamy; Aimé Sirey e Durepaire; la Fraternelle. — Il 28 novembre 1835 un duello funesto commosse l’intiera Florida. Ne fu causa l’elezione di un deputato al Congresso americano, per la contea di Jefferson.

I due avversari erano il capitano Everett White, fratello di un deputato e il colonnello Bellamy, che era già stato [p. 72 modifica]presidente dei Corpi legislativi della Florida. I due avversari si accusavano reciprocamente d’intrighi e di calunnie; finchè, per farla finita, convennero di battersi ad oltranza.

Il capitano White e il colonnello Bellamy, assistiti dai loro padrini, armati ciascuno di due paia di pistole, furono collocati a sessanta passi l’uno dall’altro, col diritto di sparare a volontà sino al limite di dieci passi, segnati in terra con due fazzoletti.

White sostenne tre volte il fuoco dell’avversario senza alcun danno, e quando cominciò a sparare i suoi colpi, non era che a quindici passi dal colonnello.

La prima palla del capitano White fracassò il braccio sinistro dell’avversario; la seconda gli traversò il corpo, e come il capitano si disponeva a torre dalla cintura il secondo paio di pistole, il colonnello Bellamy, sparò il suo quarto colpo, con mano tremante; ma freddò il capitano White.

Che mira!...


Colombey, nella sua Storia aneddotica, riporta che, nel novembre 1835, un duello alla sciabola ebbe luogo tra Aimé Sirey, figlio del celebre giureconsulto, e un suo cugino, Durepaire, che aveva tolto in moglie una signorina Dusaillans.

Durepaire aveva preteso di far valere alcuni diritti di considerevole importanza contro la famiglia Sirey, ed aveva profferito esclamazioni quanto mai oltraggiose a carico di essa.

Aimé Sirey alle ingiurie aveva replicato con un pugno sul viso di Durepaire.

Durepaire allora scrisse a Sirey:

«Dopo l’insulto che mi avete arrecato questa mattina, vi prego di dirmi chi sono i vostri padrini, il loro nome e la loro dimora».

De Montemart e Mérimé si rifiutarono di patrocinare la causa cavalleresca, che disapprovavano; allora de Viel-Castel [p. 73 modifica]pregò il marchese di Parny e il conte de la Rifaudière, suoi amici, di assistere Durepaire, suo cognato. Aimé Sirey nominò a rappresentarlo de Cayeux e Chotard.

Alle nove di sera de Viel-Castel condusse Durepaire da Grisier11, che gli dette una brevissima lezione di fioretto. Era la prima che Durepaire prendeva in vita sua.

All’indomani i quattro rappresentanti si riunirono in casa di madama de Villeneuve, sorella di Sirey. La scelta della arma cadde sulla sciabola, perchè sconosciuta alle due parti. Sirey, però, rivendicò a sè il diritto della scelta, perchè insultato per primo, e volle la spada. Ma la controversia fu risolta dalla sorte, che indicò la sciabola.

Allora Sirey chiese che, allo scopo di preservare il viso, durante il combattimento si tenessero le maschere da assalto.

Fu accordato.

Alle tre, dopo mezzogiorno, i duellanti sortirono insieme da Parigi e per la barriera di Vaugirard si diressero in una località tra Issy e il bosco di Mendon, sulla destra della strada, presso una fabbrica di polvere fulminante.

I duellanti deposero gli abiti; calcarono la maschera, e messi di fronte con la sciabola in mano, incominciarono la lotta con attacchi di punta.

Sirey andò a fondo; Durepaire calmo, retrocesse con l’arma in linea, e come la punta minacciava il petto di Sirey, questi l’allontanò con la mano sinistra, che ne restò scalfita al dorso.

Retrocedendo, Sirey scivolò; ma Durepaire non si mosse.

Rimessi in guardia al posto primitivo, gli avversari schermirono per una diecina di minuti; poi Sirey ricevette un colpo di punta sull’alto del petto, ma senza gravità, malgrado l’effusione di sangue, e nello stesso tempo Durepaire fu toccato con energia da altra puntata, che gli attraversò il fegato. [p. 74 modifica]

Ventiquattr’ore dopo era morto!

Sette anni dopo Sirey moriva di morte violenta a Bruxelles.... Anzi, taluni affermarono che perisse per un colpo di arma da taglio e da punta, che gli aveva traversato il fegato.

Se è vero, si deve convenire che la pena del taglione.... non è una parola rigonfia di vento, come l’onore!


Dopo la morte del marchese di Lignano e di Luciano Claveau, le coscienze oneste si levarono arditamente contro l’uso e l’abuso del duello. Una società intitolata La fraternelle sorse a Bordeaux per combattere specialmente gli spadaccini di ventura.

De Graves ne dà conto esatto nel suo libro Les Drames de l’Epée. Però, non avendo trovato altro documento che di questa associazione ne parlasse con meno romanticismo, mi limito a ricordare il conte di Capaillan che ebbe più duelli, in uno dei quali si racconta che perisse un principe Michele (appartenente ad una famiglia regnante), e che i giornali di Germania annunziavano morto a Aix di Savoia, ove erasi recato per rimettersi da una caduta da cavallo, fatta poco prima in Francia. Molti altri duelli mortali dei membri della Fraternelle potrei qui citare; ma, ripeto, mi mancano gli elementi per constatarne l’autenticità.


1836. Miope e presbite; Balzar e Maker; il segretario dell’ammiraglio e il chirurgo di marina; Carrel e de Girardin. — Nel 1836 alla Martinica, un certo signor L. de Maynard, autore di un romanzo Outre-Mer, era stato aggiustato a salsa piccante, dagli articoli critici di un giornalista.

Maynard mandò un cartello di sfida molto aspro, che indusse il giornalista a dichiarare: essere egli disposto a dare [p. 75 modifica]la riparazione richiesta; ma ad una condizione, che, essendo presbite, intendeva battersi ad una distanza grande.

De Maynard, da parte sua invece pretese un duello a distanza minima, perchè egli era miope. Dopo un lungo dibattito i quattro padrini si accordano sui dieci passi di distanza,... ed il miope fu ucciso!


Due ufficiali del 12.° Cacciatori, di guarnigione a Carcassona, certi Balzac tenente e Maker sottotenente, benchè padre di famiglia, disputano tra di loro e vengono a duello. Dopo una lotta accanita Maker cade mortalmente ferito e lascia moglie e figli nella più orribile, nella più squallida miseria.

Oh, l’onore!...


Sempre in luglio del 1836 per un motivo, non ancora svelato, il segretario di un ammiraglio, di nome G** ed un chirurgo di marina, D**, si recano dietro alcune fornaci di Bab-el-Ourd, in Algeri; traggono le pistole e dopo varî spari nelle forme cavalleresche, il segretario, colpito, vi lascia la vita.


A Parigi, il 22 di luglio dello stesso anno sotto il regno di Luigi Filippo avvenne un duello che commosse in modo straordinario l’opinione pubblica.

Dopo trent’anni di quiete, Carrel scende in campo chiuso contro de Girardin.

E, sapete perchè? Perchè Girardin aveva fondato un giornale, che si dava per quaranta franchi all’anno. [p. 76 modifica]

Era la rivoluzione della stampa periodica! Un foglio repubblicano, le Bon Sens, inveisce contro la novella decisione con sarcasmi, a’ quali Emilio de Girardin replica processandolo per diffamazione il poco accorto Bon Sens.

Carrel s’intromette nella faccenda e, nel National del 20 luglio, stampa:

«Il signor Emilio de Girardin, membro della Camera dei deputati, è a capo di una società che crede di aver trovato il mezzo di costituire un giornale al prezzo di quaranta franchi all’anno, scoperta felice, di cui il paese profitterà se de Girardin riuscirà nell’impresa. Ma, come primo mezzo di riescita, de Girardin ha creduto opportuno di pubblicare degli avvisi, nei quali parla di giornali che esistono da dieci, da quindici e da venti anni, in termini che noi ci saremmo limitati a disprezzare per nostro proprio conto; ma che uno dei nostri confratelli: le Bon Sens, ha rilevato in una serie di appendici, molto accentuati, e dei quali il pubblico s’è occupato assai. Lo spiritoso autore di quelle appendici, Capo de Feuillide, passa in rivista le combinazioni e i calcoli nella confidenza dei quali si è stati ammessi dai prospetti stessi del sig. de Girardin.

Il signor Capo de Feuillide trova l’intrapresa cattiva; e ne ha buon diritto; appoggia l’opinione sua su considerazioni e ragionamenti, che non ci sono sembrati fuori dell’orbita di una discussione lecita.

Il sig. E. de Girardin poteva replicare nel suo giornale; ma ha preferito considerare diffamazione contro la sua persona, i dubbî gettati sulla esattezza de’ suoi calcoli; ha attaccato le Bon Sens e il signor de Feuillide con una citazione davanti al correzionale.

Quest’affare sarà discusso domani (21 luglio) e il signor de Girardin gioirà dei benefici della legge di settembre. La stampa non potrà rendere conto della discussione; ma ne faremo conoscere i risultati, che non ci sembrano essere dubbî, perchè nulla somiglia meno alla diffamazione, quale la definiscono le nostre leggi, della discussione sostenuta da de Feuillide contro le asserzioni e le cifre di E. de Girardin».

All’indomani, nella Presse del 21 luglio, de Ginardin [p. 77 modifica]replicò per le rime ad Armand Carrel12, che, seccato da certe allusioni biografiche dell’articolo, si fece accompagnare dall’amico suo Thibaudeau dal direttore della Presse per ottenere spiegazioni, che non ebbe; ma che lo condussero invece ad un duello.

— Ebbene, signore, esclamò Armand Carrel, quando si trovò sul terreno di fronte a Girardin; voi mi avete minacciato di una biografia. La fortuna delle armi potrebbe essermi contraria; voi allora farete questa biografia; ma nella mia vita privata e nella mia vita politica voi non troverete nulla che mi faccia disonore; n’è vero, signore?

— Sissignore, replicò Girardin.

Armand Carrel era assistito da Maurice Persat e da Ambert; Girardin da Latour-Mezeray e da Paillard de Villeneuve.

I combattenti furono collocati di fronte, a quaranta passi l’uno dall’altro, essendo stato deciso ch’essi potessero avvicinarsi ciascuno di dieci passi. Distanza minima, adunque, passi venti. [p. 78 modifica]

Armand Carrel avanzò e sparò, dopo aver percorso i dieci passi.

Girardin che aveva fatto solo tre o quattro passi, aveva sparato nello stesso momento; sicchè, lo sparo fu simultaneo.

— Sono stato colpito alla coscia! gridò Girardin.

— Ed io all’inguine! replicò Carrel, ch’ebbe ancora la forza di sedersi in terra.

Accanto a lui, Persat piangeva come un bambino, e Carrel, dimenticando la propria ferita, lo consolava:

— Non vi disperate, amico mio, sarà nulla, o tutto! Comunque, poco male. Fatevi coraggio.

Allorchè, trasportato a braccia dagli amici, passò vicino a Girardin:

— Soffrite molto, Girardin? chiese.

— Vorrei che voi non soffriste più di me!

— Addio, signore, non ve ne serbo rancore.

Carrel conservò la fermezza del suo carattere in mezzo alle più crudeli sofferenze. Quando lo deposero sul suo letto esclamò:

— Il portabandiera del reggimento è sempre il più esposto. Ho fatto il mio dovere, avvenga che può!

Nelle ultime ore di esistenza sopravvenne il delirio13 e morì susurrando la parola: France....

La morte di Carrel fu lutto pubblico e mentre tutti i partiti si riunivano per piangere il disgraziato cittadino morto, gli odi di tutti i repubblicani si accumulavano sulla testa di Girardin, che ritirò la querela contro le Bon Sens, causa prima di tanti guai.

Da quel giorno Girardin non volle più battersi e cominciò col respingere la sfida del direttore del Bon Sens, de Feuillide14. [p. 79 modifica]


La mattina del 2 marzo 1848, una folla numerosa prendeva la via del cimitero di Saint Mandé, ove riposa Armand Carrel. Operai, guardie nazionali, allievi della Scuola politecnica, seguivano Armand Marrast.

Dopo un discorso dell’antico direttore del National, Girardin si fece largo nella folla, e disse:

«Cittadini, venendo a mescolarmi a questa grave e dolorosa solennità, nessuno di voi vorrà elevare un sospetto sui sentimenti che mi vi hanno condotto.

Rispondo al nobile appello che m’è stato rivolto. Un tale appello m’ha onorato, perchè non era trattare il mio cuore da cuore volgare. Era come dirmi, che non si dubitava nè della sincerità, nè della durata del lutto, che in altra circostanza15 non m’ero peritato a render pubblico.

Se il rammarico che provo per la perdita fatale e prematura del cittadino eminente, che aveva dato alle sue credenze repubblicane il doppio slancio di un raro talento e di un coraggio a tutta prova; se questo rammarico potesse essere più aspro, lo sarebbe stato per gli avvenimenti ora compiutisi.

Dire che il cittadino Armand Carrel manca a questi avvenimenti, è rendere alla sua memoria l’omaggio più lusinghiero. [p. 80 modifica]

Io m’inganno, o c’è un omaggio più degno di quella memoria che noi possiamo rendergli, ed è di chiedere al governo provvisorio, che si è glorificato coll’abolizione della pena di morte, che completi l’opera sua, proscrivendo il duello».


1837 . Naylor e Brounaugh; due soldati del 64.° fanteria; Baron e Pesson. — L’americano Naylor, di Donaldsonville, aveva incaricato il Brounaugh, nella nuova Orleans, di negoziare per lui un assegno a vista di duemila dollari. Brounaugh, negoziò l’assegno e.... si tenne il denaro. Allora Naylor lo trattò di scroccone e di furfante, Brounaugh gli dette dell’impostore.

Per cancellare queste offese reciproche si decise un duello (19 marzo 1837) alla pistola. I due avversari avvicinatisi fino a quattro passi fecero fuoco simultaneo. Naylor n’ebbe la mascella fracassata e una arteria del collo aperta, onde spirò pochi momenti dopo; Braunaugh invece n’ebbe perforato l’inguine.

Ma nel soccorrere i feriti un padrino di Naylor impugna la pistola dell’amico, preme sul grilletto e Brounaugh riceve una seconda palla nel ventre.

L’autore di questa prodezza, esclama:

— È morto!

— Chi? domanda Naylor moribondo.

— Brounaugh!

— Tanto meglio; faremo il viaggio insieme; dice Naylor, rendendo l’anima a Dio.

Se mi chiedeste: e di quella birba di padrino che ne avvenne? Dovrei rispondervi: s’ebbe le felicitazioni dei colleghi per la.... trovata; ma nessuno si prese la briga di denunciarlo ai magistrati.

In America, non s’aveva troppo l’abitudine di perseguitare i vivi, quando c’era di mezzo.... un morto.

Ci voleva altro!... [p. 81 modifica]


1837 (maggio). — Nel maggio del 1837 due soldati di un battaglione del 64.° reggimento fanteria, di guarnigione a Colmar, vennero a querela tra di loro per una venere vagabonda da quattro palanche. Dopo aver cercato invano e per lungo tempo di procurarsi le armi da duello, finirono per acconciarsi a due fioretti storti, arrugginiti e spuntati, che rinvennero in una bettola. Li acquistarono per alcuni soldi e condottisi in luogo appartato incrociarono i ferri e si fogarono contro con tanta violenza, che ambedue restarono infilati e morirono sul terreno della pugna, assistiti dalla più bella luna piena, che si possa immaginare.

I cadaveri, rinvenuti all’indomani, furono sepolti insieme nello stesso carnajo.


(Gennaio 1837). — Alla fine di un ballo all’albergo del paese, a Tours, l’avvocato presso il tribunale civile, Baron, e il signor Pesson addetto al tribunale di commercio, scambiarono alcune frasi estremamente vivaci, in seguito alle quali l’avvocato Baron dette uno schiaffo al Pesson16.

Calmati gli spiriti, i contendenti senza darsi neppure la pena di cercare i padrini, stabilirono che allo spuntar del giorno si sarebbero battuti in duello.

Convenuta la partita micidiale l’avvocato Baron accompagnato dal Pesson, corse a svegliare il suo predecessore, avvocato Vincent, perchè lo assistesse.

Ottenuto l’assenso di Vincent, i due antagonisti vanno [p. 82 modifica]in cerca di un altro padrino, che si unisca a Vincent per indurre Baron a presentare le sue scuse a Pesson.

L’avvocato Baron, che in fin de’ conti era un buon figliuolo, tocco dai rimproveri che gli facevano gli amici, parve disposto a fare le scuse; ma, una volta in faccia di Pesson, le scuse non potevano uscirgli dalle labbra. Di conseguenza si ricorse alle spade.

Ambedue erano egualmente inesperti nello schermire; talchè in un incontro, mentre Pesson rimaneva ferito leggermente, Baron restava colpito in pieno petto dalla lama avversaria, che lo passò da parte a parte.

Un duello a.... vapore!

Alla morte di Baron tenne dietro un processo, durante il quale, uno dei padrini di Pesson depone:

«Noi trovammo Baron con due suoi amici. Uno di essi, l’avvocato Vincent, desiderava ardentemente che il duello non avvenisse; ma le spiegazioni date da lui erano vaghe, e non potevano accettarsi come scuse. Allora, si avvicinò a Pesson e gli disse:

— Baron riconosce i suoi torti, egli è là e non mi smentirà.

Ma Baron non pronunciò verbo.

Rimproverato Pesson di non essersi accontentato delle scuse offerte da Vincent in nome di Baron, risponde al presidente:

— Vi chiedo, signor presidente, se dopo l’insulto che avevo ricevuto, il più grave che a un uomo d’onore possa farsi, io non avevo il diritto di fare il difficile e se non potevo chiedere delle scuse personali e spontanee. L’avvocato Vincent ripetè, è vero, davanti a me, che il signor Baron riconosceva i suoi torti; ma quest’ultimo si ostinò a nulla dire. Non poteva capitare ch’egli si contentasse di lasciar dire al suo padrino, libero in seguito di smentirlo per suo proprio conto?

A questo ragionamento il presidente.... tacque, e Pesson con i suoi compagni se la cavarono a buon mercato! [p. 83 modifica]


1838. Il conte Paolo Petrowitch Novosiline e i fratelli Savatchernick. — Sembrerebbe un romanzo se non fosse una realtà17.

Il conte Paolo Petrowitch Novosiline, un bel giovanotto, capitano nel reggimento dei cavalieri-guardie dell’Imperatore di Russia, nel 1837 s’era fermato per qualche tempo a Polany, villaggio appartenente a un antico generale cosacco, di nome Savatchernick, ritiratosi dal servizio attivo.

Ospitato, come sanno ospitare gli Slavi, quando fanno le cose col cuore, il conte Novosiline si trovò come a casa propria nella famiglia dei generale, composta dalla generalessa, di cinque figli, tutti ufficiali nel 20.° reggimento cosacchi del Mar Nero, di una figlia andata sposa a Bogieszewoki e d’una seconda figlia Elisabetta, di appena diciotto anni, a cui la natura era stata larga d’ogni dono fisico e morale.

I cinque figli e il genero stavano quasi sempre al reggimento.

Durante il suo soggiorno nella casa ospitale, il conte Novosiline si appassionò per la bellissima Elisabetta.

La ragazza, inesperta e fidente, corrispose all’amore entusiasta del conte; il quale, accecato dalla passione, finì per chiedere al generale in isposa la graziosa Elisabetta.

— Sono un vecchio soldato, rispose il generale; devo tutto alla mia sciabola e non ho che la mia sciabola da lasciare ai miei figli; e la figlia di un vecchio cosacco deve essere fiera di entrare in una famiglia di boiardi, come la vostra. Ma, deve entrarvi con la testa alta e non.... clandestinamente. Dunque, non basta che lo vogliate voi, è necessario che vostra madre vi acconsenta e che per voi domandi la mano di mia figlia. Altrimenti, non ne faremo nulla. [p. 84 modifica]

Novosiline affermò che, senza alcun dubbio, la madre sua avrebbe dato il suo consenso; ma il generale volle che il conte glielo portasse in scritto. Allora Novosiline, dopo aver passato ancora qualche giorno presso Elisabetta, partì per Mosca allo scopo di ottenere l’assenso della madre.

La contessa Novosiline, vedova da più anni, esercitava sul figlio un dominio assoluto; nè il suo carattere altero l’avrebbe giammai indotta a sacrificare alcun chè ai pregiudizi di casta.

L’assenso fu negato recisamente, e perchè il figlio non si allontanasse da lei, la contessa lo costrinse a presentare le dimissioni dal grado militare.

Il giovane Novosiline chinò il capo e si rassegnò ai voleri della madre.

Passarono tre mesi tristissimi, ed Elisabetta rimase inutilmente nell’attesa della risposta promessa.

La giovanetta era in preda ad una ansietà profonda; nell’impeto dell’amore s’era lasciata sorprendere, s’era.... dimenticata, ed il fallo stava per manifestarsi nella sua tremenda realtà agli occhi di tutti! Presa dalla disperazione; non potendo più nascondere la terribile verità, si fa animo, corre dal vecchio padre e, piangente a’ suoi ginocchi, gli confessa il suo stato disgraziato.

Quel vegliardo non s’irritò; non minacciò; non mosse rimprovero alla povera fanciulla; tremante pel dolore e per l’emozione, la sollevò, la strinse tra le sue braccia e confuse il suo pianto con le lagrime della figlia.

Dato sfogo al primo dolore il generale consolò Elisabetta e scrisse al conte per ricordargli la promessa; ma il conte non si fece vivo. Allora il vegliardo mandò a chiamare il genero e i suoi cinque figli.

Allorchè giunsero, il vecchio generale, con le lagrime agli occhi, li condusse da Elisabetta, che aveva dato alla luce un bambino, e mostrando loro la madre e il figlio:

— Ecco le vittime; esclamò; il seduttore si prende beffe di loro e di noi. Figliuoli, dovete vendicare vostra sorella; dovete vendicare il vostro nipote; dobbiamo lavare il nome nostro, o col sangue, o con un matrimonio. [p. 85 modifica]

Nessuno fiatò; tutti abbracciarono la giovane madre e il fanciullo ed ottenuta la benedizione del padre presero tosto la via di Mosca.

Ma i loro progetti andarono a monte. La notizia del loro arrivo li aveva preceduti e la contessa, spaventata, ottenne dal generale Nejhart, governatore di Mosca, che i cinque fratelli Savatchernick e il loro cognato Bogieszewoki fossero arrestati appena entrati in città. L’ordine del generale fu eseguito puntualmente. Appena i sei gagliardi si presentarono alla porta Smolinsk furono arrestati e racchiusi nel Cremlino, da dove sortirono dopo tre mesi, per essere ricondotti sotto buona scorta, al loro reggimento.

Tornati al reggimento i parenti di Elisabetta tennero congresso e deliberarono di tirare a sorte chi tra loro dovesse dare le sue dimissioni, allo scopo di potere liberamente vendicare la sorella.

La sorte indicò Ivan, il quarto fratello. Ivan accompagnato da un servo partì subito per Mosca. Ma non aveva mai veduto il conte e temendo che la curiosità non lo perdesse, facendolo spedire in Siberia, cercò qualche espediente, per superare questa difficoltà. Passando per Voronije, villaggio dipendente dalla famiglia Novosiline, nella stanza di un albergo vide una stampa grossolana e colorita, raffigurante un cavaliere vestito dell'uniforme dei cavalieri della guardia.

— Chi è quel personaggio? chiese.

— Il conte Novosiline.

— Il giovane, o il defunto conte?

— Il giovane.

Ivan studiò bene i lineamenti di quella rozza incisione e.... riprese cammino.

Quando da lungi incominciava a scorgere le guglie e i minareti e le torri grigie del Cremlino, si trovò a faccia con un cavaliere la cui fisionomia gli ricordava la incisione volgare, esaminata all’albergo.

Colpito da quella somiglianza Ivan l’accostò e

— Voi siete il conte Novosiline?

— Sono il conte Novosiline.

— Ed io sono Ivan Savatchernick. [p. 86 modifica]

— Ebbene?

— Volete sposare mia sorella?

— Non lo posso!

— Allora vi batterete con me.

— Volentieri... avete armi con voi?

— Ecco due pistole.

— Andiamo!

Il conte scese da cavallo e volgendo l’animale verso Mosca, gli dette un forte colpo di frustino, esclamando:

— Va ad annunciare la mia morte! e volgendosi a Ivan: poichè credo, signore, che ci batteremo a morte.

— A dieci passi.

— A tre, se volete.

— Signor conte, voi non avete testimoni.

— Inutile; mi fido di voi; perchè se qui si conoscesse questa faccenda, voi correreste il rischio di viaggiare per la Siberia. Entriamo in questo boschetto.

Il servo di Ivan aveva caricato le armi, il conte ne tolse una a caso ed offrì l’altra all’avversario che si collocò a tre passi dal conte. Due colpi partirono insieme e due corpi caddero uno accanto all’altro.

Il conte aveva avuto i fianchi passati da una parte all’altra; il tenente Ivan Savatchernick aveva ricevuto la palla nel petto: Ambedue morirono alcuni giorni dopo.

L’ultimo pensiero del conte fu per Elisabetta e pel suo figliuolo; e la contessa sopraffatta, dilaniata dal rimorso, promise di esaudire il desiderio del figlio morente.


(Giugno 1839). H. de T** e il tenente P.... — Sulla fede di Colombey, rilevo che un certo H. de T**, che sedette alla Costituente e alla Legislativa nella qualità di rappresentante delle Côtes-du-Nord, era sortito dalla scuola di Saint-Cyr per entrare nella vita civile, borghese, della seducente e gaia Parigi.

Nel maggio del 1839, il 53.° reggimento di fanteria venne [p. 87 modifica]di guarnigione nella metropoli di Francia. Tra gli ufficiali del corpo eravi un sottotenente, certo P**, antico compagno di de T**, alla scuola di Saint-Cyr.

Prima di lasciare la scuola, tra i due era sorta una questione di nessuna importanza, secondo de T**; gravissima, secondo il P**. Più volte i due giovani s’erano incontrati in Parigi, ma avevano tirato di lungo; però, un giorno funesto, i due antichi colleghi furono posti dal caso un di fronte all’altro.

Inevitabile era una spiegazione. De T** ruppe il ghiaccio, chiedendo a P** alcune spiegazioni sull’impressione che aveva conservato su quanto era passato tra loro a Saint-Cyr; e ciò, non per rianimare un fuoco spento o quasi, ma per cancellare le ultime rimembranze di un incidente deplorevole.

P** non era dello stesso parere. Anzi, più volte, all’insaputa di de T**, aveva manifestato la sua meraviglia di non averlo veduto ancora venire a chiedergli ragione di due ceffoni, che diceva di avergli somministrato in quella tale circostanza; e ripeteva e sosteneva il suo asserto, malgrado il diniego di de T**; malgrado il pacifico intervento di amici comuni.

Allora, de T** si credette in obbligo di chiamare in campo chiuso l’avversario, e all’indomani si recarono al bosco di Vincennes, per sistemare con un duello la vertenza. L’arma scelta da de T**, perchè offeso, fu la pistola. De T** designato dalla sorte avrebbe avuta la precedenza di tiro.

Mentre venivano caricate le pistole, il sottotenente P**, che brontolava per la lentezza dei padrini, si addimostrò febbrilmente nervoso, tanto sovraccitato, da sollecitare l’avversario a tirare prima che i testimoni ne avessero dato il comando.

— Andiamo, signore, sparate! gridò il sottotenente.

De T** fece subito fuoco; il sottotenente annaspò, barcollò e cadde tra le braccia de’ suoi padrini, accorsi. Era stato colpito alla coscia diritta, un po’ più sotto del basso ventre; una vena s’era aperta e il sangue sgorgava in abbondanza.

La morte non si fece attendere molto, e fu penosissima. [p. 88 modifica]

Il giudizio di Dio questa volta s’era pronunciato per la... giustizia!


Verso il 1840 un giovane allievo di Saint-Cyr, che si preparava per le spalline di ufficiale di cavalleria, fu mandato a Saumur, per compiere il corso di perfezionamento, prima d’entrare al reggimento. Egli era assai pio ed apparteneva ad una famiglia, nella quale il sentimento religioso predominava su tutti gli altri.

Per questo, e non per altro motivo, era fatto segno a mille scherzi, a mille noie, a insulti e a provocazioni d’ogni sorta, da parte di un compagno, che s’era assunto l’infame compito di tormentarlo in ogni guisa.

E questo malanno, vedendo che non giungeva allo scopo suo, ch’era quello di far perdere le staffe a quel povero giovane e di trascinarlo sul terreno, a dispetto dei principî religiosi, finì col qualificare la madre del compagno con gli aggettivi qualificativi più volgari, più bassi, più triviali, che da un quartiere di soldatacci possono uscire.

Il giovanotto non resistette più. Egli, che con una rassegnazione esemplare, degna di un martire, tutto aveva subito per non arrecare dolore alla mamma adorata e per non apportare offesa al sentimento religioso di lei; a quegli epiteti di caserma, da lanzichenecchi, che colpivano la madre sua, non seppe resistere e provocò l’insultatore a duello e.... vi rimase ucciso.

Colombey18, che ha mandato ai posteri questo colmo della malvagità umana, non ci rassicura se quel brigante di uccisore fu impiccato....

Pare di no; altrimenti, il cronista ce ne avrebbe informati.

Peccato! io esclamo. Un paio di metri di buona corda al [p. 89 modifica]collo di quella canaglietta non avrebbero fatto gran che di male e forse avrebbero più presto liberato il mondo da un prepotente vigliacco; essendo vile colui, che pel gusto malvagio di tormentare l’altrui coscienza, senza ragione provoca con offese atroci ed uccide le persone miti, o incapaci di reazione.


Nel dicembre del 1840, ad Algeri, restò ucciso in duello alla pistola uno dei testimoni, che deposero a carico nel processo Lafarge, a Limoges.


Nel 1840, in seguito a diverbio tra Cesarò e Damiani, uno scontro alla spada ebbe luogo a Palermo.

Il Damiani ferito gravemente di punta poco dopo moriva.


1841. Van Bolhuis e il tenente Van Lith de Jeude; Lynch e Malachia Kelly; tra un ufficiale e un redattore dell’«Emancipation — Nel maggio del 1841 il professore Van Bolhuis ebbe a lamentarsi, col direttore della scuola militare di Breda, del contegno degli ufficiali della scuola di equitazione per ogni volta ch’egli entrava nella sala, per fare la sua lezione. Si burlavano di lui, insomma, in mille guise, quando lo salutavano.

Il comandante cercò di calmarlo, osservandogli, che forse eravi equivoco, o esagerazione.

Di lì a due mesi e cioè nel luglio, il professore Van Bolhuis, credendo di aver nuovo appiglio a lamentele contro quei signori militari, andò a trovarli, accompagnato dal capitano Kerkwyk, per avere una spiegazione. Appena il professore entrò, tutti gli ufficiali si scoprirono il capo, perchè [p. 90 modifica]era stato convenuto di fare così, onde a loro restasse il diritto di lamentarsi del professore, che non toglieva mai il suo cappello.

Il professore, infatti, restò a capo coperto; ma accorgendosi — un po’ tardi — che nessuno teneva cappello, o berretto, si pose all’unisono con gli altri; e disse con calma, ch’egli non conosceva quei signori; che quindi non sapeva a chi dirigere la parola; ma che pregava coloro, ai quali la sua visita interessava particolarmente, di rispondergli, desideroso che gli altri non si immischiassero nel discorso.

Allora il tenente Van Lith de Jeude, incaricato precedentemente dai colleghi, rispose al professore:

— Nemmeno io, signore, vi conosco, nè ho alcun desiderio di fare la vostra conoscenza.

E nella conversazione che ne seguì, fu rimproverato al professore la sua mancanza d’educazione, e la sua pessima abitudine di non rispondere al saluto, che gli veniva fatto.

Van Bolhuis si scusò, adducendo ch’era di vista corta. Infine, Van Lith terminò, dicendo:

— Se queste ragioni non vi soddisfano, voi potete ottenere un’altra riparazione.

Van Bolhuis, considerando queste parole come una provocazione a duello, replicò:

— In questo caso cercherò di trovare un testimone.

Il capitano Kerkwyk avendo rifiutato di assisterlo, il povero professore scelse il capitano Knopp, che abboccossi tosto col tenente Pels-Ryeken, secondo di Van Lith.

Lo scontro ebbe luogo all’indomani a Masbosch, nei dintorni di Breda.

I due combattenti furono posti alla distanza di venti passi; il tenente fece fuoco e il professore colpito al collo, s’ebbe la colonna vertebrale spezzata, e in pochi minuti spirò.


In Inghilterra e in Irlanda, era, e credo lo sia tutt’ora, in grande onore un divertimento sportivo, detto: la corsa al [p. 91 modifica]campanile. Questo giuoco consiste nel condursi in aperta campagna e, designato un campanile che si scorge all’orizzonte, come meta della corsa, i concorrenti a cavallo, in bicicletta, in carrozza, o a piedi, vi si dirigono per qualsiasi strada. Chi primo giunge è dichiarato vincitore.

Nel giugno del 1841, una di queste corse, indetta a Ballinasloe, presso Dublino, fu causa di un duello letale tra due concorrenti, Lynch e Malachia Kelly.

Questi due gentlemen-riders, che avevano montato i propri cavalli, si accusavano reciprocamente di infrazione fraudolenta ai regolamenti. Le ingiurie tennero dietro all’accusa; le vie di fatto alle ingiurie; una sfida alle ingiurie e ai colpi di frustino.

Kelly padre, ch’era presente, obbligò il figlio a chiedere il duello.

Concertato lo scontro, Kelly padre, ebbe la fermezza di caricare lui stesso le pistole. Al primo sparo il figlio gli cadde ai piedi fulminato dalla palla avversaria.

Altro che madri spartane!...


Luglio 1841. — Nel luglio del 1841 disordini gravissimi scoppiano a Tolosa. Un ufficiale di artiglieria, offeso dal redattore de l’Émancipation, lo sfida a singolar tenzone. Si battono alla pistola e l’ufficiale resta ucciso.


1842. Arrighi e Lavasseur19; due ufficiali degli chasseurs. — Il 18 di gennaio, nelle vicinanze di Marsiglia, ebbe luogo un duello tragico tra il generale Lavasseur e [p. 92 modifica]l’Arrighi, ex-comandante (maggiore) di un battaglione del 22.° reggimento di fanteria.

Il comandante Arrighi, ritenendo che il generale Lavasseur, nella qualità di suo colonnello gli avesse reso cattivo ufficio presso il Ministero della Guerra, prese a nutrire un odio profondo contro il generale; e come la disciplina si opponeva ad una provocazione, l’Arrighi presentò le sue dimissioni, allo scopo di poter mandare una sfida all’uomo, al superiore, cui egli attribuiva ogni suo malanno.

Accettate le dimissioni dal Ministero, l’Arrighi partì per l’Algeria, ove giunto, mandò un cartello al generale.

Appena sbarcato, la fatalità volle che l’Arrighi s’imbattesse col generale Lavasseur.

Sotto l’impulso dell’ira, l’ex comandante assestò una scudisciata al generale, per lo che, uno scambio immediato di padrini fu inevitabile.

L’atto d’accusa a questo punto così si esprime:

«Disposizioni sono prese perchè il duello abbia luogo immediatamente, ma un nuovo ostacolo si presenta. Il generale Lamoricière, informato dell’accaduto, fa arrestare l’Arrighi, ed ordina di riportarlo a bordo di un vapore, che lo riconduca subito in Francia».

Sotto la irresistibile influenza del suo risentimento, il maggiore Arrighi non dubita un momento, che il generale Lavasseur sia estraneo a questa misura di rigore. Una fatalità conduce il generale sul passaggio del comandante nel momento istesso in cui viene condotto a bordo. Allora la provocazione e l’oltraggio giungono al colmo.

La partenza immediata del comandante solamente, può spiegare l’inazione della giustizia; e questa inazione conduceva il generale Lavasseur, che non poteva attendersi alcuna soddisfazione dalle leggi, a ricercare quella riparazione che si procurano, troppo facilmente ancora, i militari.

Chiede un permesso e si reca a Marsiglia.

Il maggiore Arrighi, da lui prevenuto, non tarda a giungervi. Sono immediatamente nominati i testimoni dalle parti, e viene scelta la pistola.

Ma una discussione sorge sulla distanza. I padrini del [p. 93 modifica]generale rifiutano di assistere al duello, se la distanza tra i combattenti è minore di venti passi.

L’ex comandante e i suoi testimoni si ostinano, perchè il duello abbia luogo a dieci passi. La persistenza, che per questo proposito han dimostrato il signor Arrighi e i suoi padrini, è stata più tardi spiegata dall’abilità del generale, e dalla mancanza d’esperienza e di pratica dell’Arrighi nell’esercizio della pistola. Nello stato di una risoluzione così invariabile, i testimoni del generale Lavasseur si credettero in obbligo di rinunciare al loro mandato; però, vollero farne conoscere i motivi e delle dichiarazioni furono allora successivamente firmate e inserite nei diversi giornali di Marsiglia.

Il signor Falcon, uno dei padrini del generale, così risponde alle interrogazioni del giudice:

«Io cercava di mettermi in rapporto con il signor Casabianca, testimone del comandante; ma non riescii a vederlo da solo, nè potei parlargli che in presenza dell’Arrighi»20.

Più tardi, ebbi tre colloqui coi signori Arrighi e Casabianca. Arrighi fu irremovibile, adducendo che avrebbe preferito battersi «tenendo ciascuno la cocca di un fazzoletto e sparando ad un segnale dato, e che era una concessione la sua, di accettare il duello a dieci passi di distanza».

Presidente — Qual’era l’influenza di Arrighi su Casabianca?

Falcon — Non m’è sembrato che Casabianca agisse di sua libera volontà; e penso che, fuori dall’influenza dell’Arrighi, si sarebbe adattato ad accettare condizioni, che meno si allontanassero dalle regole del duello. Nelle nostre conversazioni ho constatato ch’egli subiva tutte le volontà del comandante Arrighi».

E l’atto d’accusa continua:

«In queste circostanze, il generale Lavasseur, che non riteneva soddisfatto il suo onore dalle dichiarazioni dei primi rappresentanti, ne cercò di nuovi tra gli ufficiali della [p. 94 modifica]guarnigione di Marsiglia. Il maggiore de Monnet e il capitano de Villiers del 20.° léger, ebbero la preferenza del generale; e opinarono essere loro dovere di accettare le condizioni imposte dall’Arrighi.

All’ora stabilita, gli avversari e i loro testimoni si ritrovarono a la Babiole, masseria del signor Roussin, aggiunto del maire di Marsiglia, e sul territorio di Bouc, circondario d’Aix.

L’Arrighi era assistito dai signori Peretti, capitano al 2.° léger e Casabianca militare in ritiro, parente ed amico dell’Arrighi, che da quindici mesi non lo aveva abbandonato un momento; ma i saggi consigli del quale non erano stati mai favorevolmente accolti dal comadante».

Ed ecco come il capitano de Villiers descrive il fatale duello:

— Essendoci condotti nella proprietà della Babiole, a tre ore di distanza da Marsiglia, vi trovammo il generale Lavasseur; l’Arrighi giunse più tardi. N’andammo sul terreno di scontro. Casabianca, padrino del comandante, misurò la distanza di dieci passi. Il signor Monnet ripetè l’operazione. I passi di quest’ultimo essendo più lunghi di quelli di Casabianca dividemmo la differenza, e il punto intermedio fissò il limite ove dovevano collocarsi i duellanti. La sorte determinò colui che doveva sparare per primo. I duellanti furono condotti a posto; il generale sempre calmo, il comandante con un contegno sempre corretto. Il generale ricevette la pistola e sparò, dopo aver mirato alcuni secondi. Vidi tosto l’Arrighi fare un movimento nervoso del braccio, che mi fece comprendere ch’era stato toccato.

Il comandante restò ancora un momento dritto, impassibile, poi cadde vomitando fiotti di sangue».

Il generale Lavasseur e i testimoni furono assolti!


1842. Novembre. — Nel mese di novembre del 1842, a Grenoble, avvenne un duello terribile tra due ufficiali dei cacciatori (chasseurs) d’Orleans, B** e D**. [p. 95 modifica]

I due ufficiali dello stesso reggimento, che accettarono di funzionare da testimoni, posero in opera quanto era in loro potere per riconciliare gli avversari. Disperando ormai di poter riescire nel tentativo di una soluzione pacifica, fecero un supremo sforzo nel momento d’incominciare il duello. Ed anche questo supremo sforzo essendo riescito vano, i padrini si ritirarono, dimenticandosi, però, di portar seco le armi.

Fatti pochi passi, il cozzare delle spade li fece tornare indietro, allo scopo d’impedire il combattimento; ma, benchè corressero di gran lena, giunsero solo in tempo a ricevere nelle loro braccia il tenente D**, a cui un colpo di spada aveva attraversato il cuore.

Il tenente B** che non sembrava ferito e s’infilava la giubba per andarsene, all’improvviso si ripiegò su sè stesso e spirò accanto all’avversario ucciso!21.


1843. Dutilleux e Kant. — Un duello alla sciabola nel luglio del 1843 costò la vita a un certo signor Dutilleux, di Namur.

La causa è.... semplicissima.

Una sera di quel luglio, il tenente d’artiglieria belga Kant, uscendo da casa sua insieme ad un amico, fu apostrofato dal Dutilleux, con queste parole:

— Vorrei ben sapere, signore, perchè mi guardate con quell’aria insolente?

Kant, rispose calmissimo:

— Signore, non solo non vi guardava, ma debbo dirvi che non vi avevo nemmeno veduto.

Dutilleux, non soddisfatto, alzò la voce e con parole, che non si trascrivono, offese Kant, invitandolo a mandare due [p. 96 modifica]amici a trovarlo all’indomani a casa sua. Scambio di indirizzi e separazione.

All’indomani certo signor L** si presentò a Kant con una lettera di Dutilleux, nella quale questi esigeva un duello, dichiarando, che avrebbe considerato come atto di viltà qualsiasi accenno a scuse.

La faccenda non andò per le lunghe. La lotta cruenta fu combinata e la scelta cadde sulla sciabola.

I duellanti si batterono a monte di Herstal.

Dopo alcune azioni portate con vigoria da Dutilleux, Kant prese il tempo, e mentre l’avversario stava per slanciarsi di nuovo sopra di lui, irrigidì il braccio con vigore, talchè.... Dutilleux s’infilò. La sciabola avevagli traversato il polmone destro, tagliando a metà una costola, dopo avergli trinciato il pugno e la parte interna dell’avambraccio.

La morte di Dutilleux fu istantanea.


1843. Maurice e Hamon; de Haber, de Goelers e Verefkin. — James Fritz-Maurice, di Princeton nel Kentucky e uno dei suoi amici Henry Hamon, dopo aver bevuto insieme nell’osteria del Globo, finirono per questionare.

— Che peccato, esclamò Hamon, che non ci sieno Rébeceaïtes in questo paese; ma non fa niente: andrò a demolire la tua baracca e ti farò passare un brutto quarto d’ora!

— Tu non demolirai nulla, perchè ti batterai con la pistola subito, qui, su due piedi con me, ed io ti ucciderò.

I due interlocutori si rinchiusero in una rimessa (1 luglio 1843), sotto pretesto di sparare a polvere.

I dipendenti udirono il rumore di quattro spari; ma non se ne dettero per intesi, perchè.... sparavano a polvere! Però, all’ultima scarica Hamon rimase leggermente tocco ad una gamba, e Fritz prese la fuga.

Hamon fasciò alla meglio la ferita e se n’andò a passeggiare.

Di li a due ore i contendenti, per una curiosa fatalità s’incontrarono di bel nuovo: [p. 97 modifica]

— Come, non sei morto? chiese Fritz.

La disputa si riaccese; Fritz sparò di nuovo, ma invano, su Hamon, che si lanciò sull’aggressore e, dopo averlo atterrato, con una baionetta inastata sulla pistola scarica, replicatamene ferì Fritz e non si arrestò, se non quando lo vide morto.


Tolgo dalla Gazete des Tribunaux in data 6 settembre 1813.

Parecchie persone vollero organizzare un ballo d’onore per l’arrivo a Bâde della granduchessa Elena di Russia.

Il nome di Maurice de Haber, figlio di un banchiere della Corte, fu messo sulla lista dei sottoscrittori.

Il signor de Goeler, ufficiale badese e membro del comitato per quel ballo, dichiarò che Haber non poteva figurare in quella festa e il suo nome fu cancellato dallo stesso de Goeler.

Haber ne chiese soddisfazione; ma la sua domanda fu respinta, avendo il corpo di ufficiali di Carlsruhe dichiarato a de Goeler, non esser egli obbligato alla riparazione.

Ma un capitano al servizio della Russia, de Verefkin, padrino di Haber, si prese la cosa talmente a cuore da mandare a sfidare de Goeler.

La conclusione fu, che Verefkin morì sul campo, mentre de Goeler lo seguì nella tomba quattro giorni più tardi, cioè il 4 di settembre del 1843.

Lo scontro ebbe la sua coda.

Alla sera del 5 settembre, una massa di popolo si affollò davanti alla casa Haber, posta a centocinquanta passi dal Corpo di guardia principale, e proferì minaccia di morte, d’incendio e di distruzione.

Questa dimosrazione si estese contro ad altri ricchi israeliti, le cui case subirono una fitta sassaiuola.

Spigolando nei verbali di seguito scontro, si rileva: che al primo sparo simultaneo, le palle non recarono alcuna offesa ai combattenti; che al secondo sparo di Verefkin, Goeler fu [p. 98 modifica]gravemente ferito; ma si tenne in piedi. De Verefkin, credendo l’avversario fuori di combattimento, gettò via la sua pistola. Goeler sempre in piedi, pallido, mirò per tre volte l’avversario e per tre volte la pistola fece cecca. Allora, uno dei padrini di Goeler raccolse la pistola buttata via da Verefkin, la caricò senza stoppaccio e la presentò a Goder, che in un ultimo sforzo sparò e stese morto l’avversario. La stessa pistola aveva ucciso i due antagonisti!


Luglio 1843. — Il giovane Ford, domiciliato a Maddison, nella Virginia, aveva ricevuto un colpo di coreggia da certo Beck.

I due fratelli maggiori di Ford decisero di vendicare l’oltraggio. Provocarono Beck a duello, successivamente con ciascuno di essi, fino alla morte d’uno dei tre.

Il convegno fu stabilito pel 15 luglio 1843, nelle vicinanze di James-City.

I tre combattenti co’ loro padrini furono puntuali. Beck certo di lasciarvi la sua pelle, passando dal villaggio, aveva ordinato la sua cassa mortuaria.

Il maggiore dei Ford si avanzò, armato di pistola e di una coreggia simile a quella con la quale era stato percosso il fratello minore, protestando voler applicare a Beck la pena del taglione. Se Beck si rifiutasse a ricevere dieci colpi di coreggia, l’avrebbe ucciso. Beck rifiutò e Ford gli bruciò le cervella.

I testimoni delle parti protestarono che tutto s’era passato cavallerescamente e non ebbero molestia; e dopo aver fatto fuggire l’uccisore, composero nella bara i resti mortali del povero Beck, che con grande pompa fu accompagnato al cimitero. [p. 99 modifica]


Luglio 1843. — Un altro duello all’americana accadde, nel luglio 1843, a Warrenton, nello stato di Virginia, e in condizioni assolutamente fuori d’ogni legge cavalleresca, e di senso comune.

Robert Lee, figlio dell’attorney generale degli Stati Uniti, avendo ragioni di dolersi di certo signor Moore, parente del famoso Commodoro Moore, dichiarò che avrebbe trattato a colpi di frustino l’avversario, ovunque lo incontrasse.

Thomas Moore, figlio del minacciato, chiese ragione dell’insulto; per cui si convenne di battersi in duello. Tra i testimoni v’era, immaginate chi? il padre dello stesso Moore, causa del duello! Ma son cose che succedono in America!

Allorchè si fu sul terreno, Thomas Moore richiese a Lee, se era vero che aveva minacciato suo padre. Sulla risposta affermativa di Lee, Moore lo colpì leggermente con un bastoncino, che gettò per armare la pistola.

Nessuno s’era incaricato di misurare le distanze.

Il giovane Lee, che aveva fatto alcuni passi indietro, sparò per primo, ma non prese bersaglio. Moore tirò a sua volta e colpì Lee. Moore voleva tirare un secondo colpo: ma la pistola fece cecca. Il padre premurosamente gli consegnò un’altra pistola; ma per l’intervento dei padrini il duello cessò.

Lee era stato ferito mortalmente. La palla, dopo avergli fracassato una costola a sinistra, aveva traversato il polmone e s’era allogata nelle false coste del lato destro. Dopo pochi minuti, Lee spirò, e la giustizia.... tacque.


1844. Chocheran-May. — Sempre in America! Il 15 febbraio 1844 in un ritrovo del giovedì grasso, un giovanotto, certo Cocheran, figlio di un ricco proprietario di Washington, [p. 100 modifica]qualificò dell’epiteto di vile certo May, col quale aveva avuto diverbio per una contraddanza.

Riferita la cosa a May, questi sfidò Cocheran. Gli avversari si dettero convegno per l’indomani, in prossimità di una bettola, dedicata a Nelson.

Cocheran, accompagnato dai padrini, vi giunse verso le 5 e mezza del mattino, su un attacco a quattro cavalli bianchi. May giunse alle sei, in un modestissima vettura.

Due chirurghi assistevano a cavallo.

Furono stipulate le condizioni dello scontro e fu deciso che il duello avrebbe luogo con la carabina.

Misurato il terreno, la sorte riservò la scelta del posto a May.

I duellanti dettero prova di un sangue freddo straordinario.

Al comando: fuoco! ambedue spararono, e Cocheran piombò a terra con la fronte forata da una palla. May restato incolume, rimontò sulla carrozza a quattro cavalli e quando i medici e i suoi padrini vi ebbero preso posto, tornossene in città, ove una lauta colazione li riuniva in fraterno e giulivo banchetto.


1846 (4 marzo), Dujarier-de Beauvallon; Principe di Tour et Taxis e il capitano Schnedt. — La conseguenza di una disputa futilissima tra Dujarier, amministratore del giornale la Presse, e de Beauvallon, direttore del Globe, fu il duello che tra questi avvenne; un duello, che, per le conseguenze letali che ne derivarono, tanta emozione produsse nel pubblico francese.

Le condizioni del duello erano: i combattenti, posti a trenta passi, potevano avanzare, ciascuno, di cinque passi. La sorte avrebbe designato colui che doveva provvedere le armi; ma fu espressamente stabilito, che dovevano essere sconosciute ai due primi.

La sorte favorì de Beauvallon. D’Ecquevilley, suo [p. 101 modifica]padrino, presentò pistole d’arcione e pistole di precisione. Le pistole d’arcione furono rifiutate, essendo di proprietà di de Ecquevilley. Questi, allora, sottopose all’esame dei padrini avversari il paio di pistole di precisione. Nell’esame, Bertrand, testimone di Dujarier, introdusse il mignolo nella canna e lo ritirò annerito sino alla radice dell’unghia.

— Queste pistole sono state provate!

— No; ve lo garantisco; replica d’Ecquevilley; non ho fatto che uno sparo a polvere per la prova dell’acciarino. Vi giuro, del resto, sul mio onore, che de Beauvallon non conosce queste armi.

La spiegazione e il giuramento furono accettati, in buona fede, per sinceri.

Dujarier, che spara per il primo, manca il bersaglio; ma riceve la palla di Beauvallon, che lo uccide.


Il 26 marzo 1846 de Beauvallon e i suoi testimoni si presentano alle Assise. De Beauvallon e d’Ecquevilley giurano e spergiurano, che le pistole portate da quest’ultimo erano assolutamente sconosciute all’uccisore di Dujarier, e tutti quanti furono assolti! Ma un tal signore de Meynard, dichiarò poco dopo che, alla mattina del duello, aveva assistito nel giardino di d’Ecquevilley, alla prova delle pistole. Su querela del tutore dei figli della vittima, d’Ecquevilley fu rimandato davanti alle Assise della Senna, sotto l’imputazione di falsa testimonianza in materia criminale, e de Beauvallon fu citato come testimone a difesa dell’imputato.

De Meynard raccontò che la vigilia del duello, de Beauvallon venne a pregarlo di andare con lui, alle sei e mezza dell’indomani mattina, ad esercitarsi nel tiro di pistola.

Insieme andarono a Chaillot, e de Beauvallon tirò infatti, una dozzina di colpi sul muro del giardino, con due paja di pistole; un pajo d’arcione, e uno di precisione, indicandogli pure la provenienza di quest’ultime. Fu lui, de Meynard che disegnò con un sasso una linea sulla muraglia di fondo. Questa linea servì di punto di mira. [p. 102 modifica]

In seguito a verdetto affermativo su tutti i quesiti, de Beauvallon fu condannato a otto anni e d’Ecquevilley a dieci anni di reclusione.


Continuando a spigolare nella Gazette des tribunaux22 eccovi alcuni florilegi delle deposizioni fatte da’ vari testimoni.

Ha la parola il signor Callot, proprietario della trattoria al Palais Royal:

— Nel marzo 1846, il signor Arturo Bertrand è venuto a comandarmi un pranzo di venti persone. Hanno ballato nella sala da pranzo, ed hanno giuocato al lanzichenecco (lansquenet). Quei signori giuocarono fino alle sei o alle sette del mattino. Ma non so cosa sia successo. Mi fecero chiedere dieci luigi per il signor Dujarier; e io li mandai.

— Voi avete servito durante il pranzo?

— Sì.

— Avete rimarcato nulla di straordinario?

— Nulla! Tranne qualche scherzuccio di quei signori alle loro dame.

— Dujarier frequentava il vostro stabilimento?

— Vi veniva spesso.

— Qual’era il suo carattere?

— Era dolce, educato; uomo di mondo, infine.

— E del signor Beauvallon?

— Non so nulla; m’han detto che pure era assai mite.

Presidente — Beauvallon, è esatto?

Beauvallon — Sì, eccetto un punto relativo al pranzo. Durante il pranzo Dujarier si alzò, disse che il momento di dar del tu alle donne era venuto, e cominciò a dare del tu a tutte le signore.

Avvocato generale — Non sarebbe forse la donna Liévenne, che sarebbe stata trattata in tu da Dujarier, e voi non faceste allora un gesto di.... impazienza? [p. 103 modifica]

Accusato — No!

Sulla domanda della signora Berryer, Callot afferma che gli dissero essere Dujarier molto pungente.... al giuoco, sia che perdesse, o che vincesse.

Ecco la signorina Athenaïs Liévenne, artista del Vaudeville, che si toglie un guanto e solleva il velo per giurare.

— Dujarier è venuto al ballo da me; ed una volta sono andata al ballo da lui. Con lui mi sono trovata a cena ai Fréres Provenceaux. Ecco tutto!

— Voi invitaste Dujarier?

— Lui solo!

— Chi aveva fatto gli inviti?

— Ciascuno pagava la sua parte.

— Presso chi eravate voi?

— Tra Véron e Roger de Beauvoir.

— Dujarier non v’ha detto nulla di.... spiacevole?

— Ha detto cose.... a delle signore, parlando loro con famigliarità; dava loro del tu; e ha finito per fare altrettanto con me.

— Non avete rimarcato ciò che s’è passato tra Dujarier e Roger de Beauvoir?

— Dujarier commentava, scherzando, l’abito del signor Beauvoir.

— Che cos’altro avete osservato?

— Nient’altro. Io feci cenno a Dujarier di tacere ed egli dopo pranzo venne a presentarmi le sue scuse; gli porsi la mano in segno di riconciliazione.

— E poi?

— Intesi a dire ch’erano sorte difficoltà al giuoco, per qualche luigi. Dopo il duello intesi a dire trattarsi di vecchi rancori di giornalismo.

Viene chiamato il teste Alessandro Dumas.

Dumas (interpellato) — Alessandro Dumas Davy, marchese de la Pailleterie.

— La vostra età.

— Quarant’un anno.

— Professione.

— Direi autore drammatico, se non fossi nella patria di Corneille. [p. 104 modifica]

— Vi sono dello gradazioni secondo i secoli.... Fate la vostra deposizione.

— Verso le tre del pomeriggio della vigilia o dell’antivigilia del duello, venne da me Dujarier, dicendomi che doveva battersi. Era nel mio studio, e chiacchierando prese una spada ch’era là; la sguainò, ma così.... goffamente, da farmi capire subito che non sapeva tenere un’arma in mano. Gli consigliai di scegliere un’altra arma pel duello e di decidersi per la pistola. Richiestolo, mi disse che il suo avversario era de Beauvallon: «Tanto più necessario, allora, è di scegliere la pistola»: replicai, pensando che de Beauvallor, ch’io non conosceva, passava per un forte tiratore di spada, e che avrebbe facilmente ridotto a mal partito il Dujarier.

— Dunque, voi conoscete la forza di Beauvallon nella spada?

— Mio figlio prendeva lezioni nella medesima sala. Tentai di far comprendere a Dujarier, che la pistola era l’arma la più pericolosa, senza però riescirvi. Restò a pranzo da me; ed alla sera andai alle Variétés; ma durante tutta la serata fui inquieto, tormentato da un presentimento triste. Alle dieci rividi Dujarier; egli scriveva senza dubbio il suo testamento; volli interpormi, andare da Beauvallon, ma Dujarier vi si oppose sempre.

— Vi disse le ragioni dell’opposizione?

— Diceva che alla pistola aveva almeno una speranza di scamparla; ma che alla spada non ne aveva alcuna. Soggiungeva: che io era troppo occupato per interessarmi alla vertenza; e che non sarei riescito ad aggiustarla. A quanto pare, era la sua prima vertenza; ed egli stesso era meravigliato di non avere avuto ancora alcun duello: «E un battesimo, che bisogna ch’io subisca!» esclamava. Egli mi disse che non sapeva perchè si batteva. Mi ripetè che aveva fatto un brindisi al gilet del signor Roger de Beauvoir, dicendo che si augurava che quel gilet non sarebbe andato perso, perchè era difficile trovarne uno simile. Il proprietario del gilet brindò allora alle Memoires de M. de Montholon.

— Era una allusione all'opinione che aveva de Beauvoir che quelle Memoires non sarebbero mai apparse nella Presse? [p. 105 modifica]

— Era così, credo io, il senso del brindisi di Beauvoir.

— Il vostro nome fu immischiato alla conversazione tenutasi al pranzo dei Frères Provenceaux.

— Perfettamente. De Beauvoir chiese a Dujarier: Quando finirete Dumas, per cominciare il mio appendice? Ora, Dujarier era un uomo che sapeva separare con cura il piacere dagli affari; sentir parlare del giornale, quand’egli voleva sentir parlare di cena, lo irritò. Dovette sembrargli qualcosa di insolente. Allora insistetti, che si incominciasse col duello con de Beauvoir; perchè, non basandosi su alcun chè di serio, sarebbesi accomodato e avrebbe reso impossibile il secondo scontro.

— A proposito del giuoco, che ne sapete?

— Non mi ricordo ciò che disse su tale soggetto.

— Nella serata, a quanto ammontarono i guadagni?

— Ho inteso a dire che de Beauvallon aveva guadagnato da tre a quattro mila franchi e che Dujarier n’aveva perduti da settecento a mille. Ma ciò non sorprendeva: Dujarier abitualmente guadagnava o perdeva una tale somma. Dujarier non si batteva con entusiasmo. Mi diceva: «non posso farne a meno». La vigilia del duello tornò da me; per passare, egli diceva, le sue ultime ore con le persone che amava. All’una del mattino egli non sapeva nè l’ora, nè il luogo dello scontro. Egli sapeva solo che si sarebbe battuto alla pistola, perchè lo aveva imposto lui.

L’avvocato generale Rieff finì la sua requisitoria, con queste parole:

«La causa vera del duello si trova nelle polemiche di confronti ingaggiatisi tra le Globe e la Presse.

«Allorchè due scrittori, due giornalisti, si scambiano giornalmente ingiurie e contumelie, è impossibile che il fiele non penetri nel cuore. De Beauvallon e Grenièr de Cassagnac erano cognati. Beauvallon si è dato a sostenere Grenièr de Cassagnac; ecco la ragione vera del duello. Tutti i testimoni han deposto che si trattava di animosità giornalistica e lo stesso Dujarier lo confessò a Bertrand e a Dumas, a cui disse: «Mon cher ami, c’est un combat entre le Globe et la Presse; une querelle de boutique». [p. 106 modifica]

E per la bottega e non per l’onore Dujarier, perì e Beauvallon fu condannato.


Alla fine d’agosto del 1846 a Graz, nella Stiria, in un ballo sorge diverbio tra il principe di Tour et Taxis, ex-luogotenente colonnello, e de Schnedt capitano di fanteria.

Questi due bravi ufficiali, facendo un buco alla disciplina, si battono in duello con pistola, nel quale il principe muore colpito in pieno petto dalla palla avversaria. Aveva trentacinque anni ed era parente del sovrano austriaco!


1847. Il tenente Gastrau e il dottor Brauer; Carlo di Bodelschwing e il referendario J**; l’allievo B** e Vescot e Meunier; Crestin-Cazalot. — Nei pressi di Fribourg-en-Brisgau, il 20 aprile del 1847, si consumò un combattimento singolare alla pistola tra l’ex-sottotenente Gastrau, badese, e il dottor Brauer, redattore capo de la Feuille de Conservation, supplemento letterario della Gazette des Postes di Francoforte.

Il dottore Brauer fu colpito mortalmente al collo e più tardi per quella ferita perì.

Gastrau si rifugiò in Francia per aver salva la vita.


Nel maggio del 1847 moriva in un duello a Berlino, per ferita di sciabola al collo, Carlo di Bodelschwing, primogenito del ministro dell’interno di Prussia, referendario al tribunale civile di prima istanza di Berlino. Egli aveva avuto una questione con un collega, J**, pure referendario.

Quando si condussero per la prima volta sul terreno [p. 107 modifica]furono sorpresi dalla polizia, che li separò e non li lasciò in libertà, se non quando giurarono, sul loro onore, che non si sarebbero battuti altrimenti.

Il signor de Bodelschwing e J** giurarono che non si sarebbero mai più battuti alla pistola, come era stato convenuto, e come furono sorpresi: e perciò all’indomani tornarono sul terreno armati di sciabola, secondo l’abitudine degli studenti.

Il figlio del ministro fu ucciso; i testimoni e l’uccisore vennero arrestati; ma il padre della vittima domandò ed ottenne per essi la grazia sovrana.


B** allievo di Saint-Cyr, aveva ricevuti due schiaffi da due compagni, certi Meunier e Vescot.

Dopo lunghe pratiche, furono decisi due duelli. B** per primo affrontò Vescot e lo ferì dopo un combattimento vivo, lungo, estenuante.

Immediatamente dopo, e proprio sotto il colpo dell’emozione e della stanchezza, causati dai primo duello, i testimoni posero di fronte a B** l’altro offensore, Meunier.

Dopo pochi istanti B** spirava per una formidabile stoccata, portatagli dal collega Meunier.


Settembre 1847. — I luogotenenti Bocher e Cazalot s’imbatterono nel signor Crestin, avvocato a Besançon, in un caffè della città.

Bocher, di mezzo c’era una signora, che pretendeva di essere stata villanamente diffamata dal Crestin, trattò l’avvocato da vile, da canaglia, da furfante e di peggio ancora.

Quest’ultimo, cioè l’offeso avvocato Crestin, protestò contro le imputazioni ingiuriose, sostenendo la propria innocenza delle calunnie attribuitegli. [p. 108 modifica]

All’indomani, egli scrisse una lettera ad un altro tenente, offrendosi di smentire le parole, che gli erano state rimproverate, e questo, alla presenza delle persone che le avevano riferite.

Il tenente partecipò la lettera agli ufficiali, che erano al caffè. Cazalot prese la lettera e scorgendo Crestin che se la passeggiava tranquillamente sulla piazza, gliela rimise, accompagnando la presentazione con gli epiteti i più ingiuriosi e coronati in fine da una potentissima pedata.

In seguito a questa scena, tanto scandalosa, fu concertato un duello, e Crestin, come offeso, volle la pistola.

Però, il tenente Bocher, che il giorno prima aveva provocato l’avvocato Crestin, pretendeva la priorità nella vertenza che lo riguardava personalmente, perchè l’ingiuria fatta a Crestin era precedente alle vie di fatto del tenente Cazalot.

Sottoposta la discussione del punto controverso al giudizio degli ufficiali del reggimento, fu stabilito che le vie di fatto del tenente Cazalot contro l’avvocato Crestin esigevano la priorità nella riparazione.

Si scese sul terreno e il tenente Cazalot ricevette una palla che lo rese cadavere23.

Il tenente Bocher si guardò bene, dopo questo risultato, d’insistere per un nuovo duello.


1848. Spotorno ed Enea; i due invalidi. — A Palermo nel 1848 le lotte politiche armarono l’uno contro l’altro lo Spotorno e l’Enea, che morì di spada sul terreno del duello. [p. 109 modifica]


Siamo nel dicembre del 1848.

Dopo una discussione animata, forse troppo animata, sulla questione della presidenza della repubblica, due invalidi (!), dei quali uno sosteneva la candidatura del generale Cavaignac e l’altro quella di Luigi Napoleone, se n’andarono a scontrarsi, col fioretto in pugno, in luogo detto il Champ de la Vierge, al Grot-Caillou.

Uno di questi baldi invalidi si chiamava Luc Casse e contava appena cinquantotto anni; l’altro, più baldo ancora, si nomava Larget e vedeva spuntare la sessantesimasesta primavera della sua esistenza.

Il vecchio Larget, colpito in pieno petto da un colpo di fioretto, che sortì sotto l’omoplata, spirò appena giunto a l’Hôtel des Invalides, ove i padrini lo avevano trasportato in tutta fretta.


1849. Il tedesco e i russi. — Siamo ai primi giorni di maggio del 1849. Un giovanotto tedesco e otto ufficiali russi erano seduti alla stessa tavola in un caffè di Varsavia; il discorso cadde sulla politica che, secondo il solito, trascinò ad una discussione vivacissima. I russi sostenevano l’eccellenza della monarchia assoluta; il tedesco difendeva con grande vigore l’utilità e la giustezza di un governo rappresentativo. Cammin facendo, la discussione si fece più calorosa e terminò con ingiurie pronunciate d’ambe le parti.

Il tedesco, seccato, sfidò gli otto contradditori. La sfida fu accettata e allo spuntar del giorno tutti i combattenti si riunirono nel bosco di Praga.

Giunti sul terreno, gli ufficiali russi estrassero a sorte i nomi di coloro che, a turno, si sarebbero misurati col giovane tedesco. L’arma scelta era la pistola. Al primo colpo il [p. 110 modifica]tedesco fredda uno degli ufficiali russi. Un altro ufficiale si presenta ed è ferito gravemente; il terzo non incontra sorte migliore; il tedesco impugna per la quarta volta la pistola, ma mentre sta per spacciare il quarto ufficiale, un distaccamento di truppe circonda i duellanti, li arresta, li carica dentro alcune carrozze chiuse e li conduce nella fortezza di Varsavia. Per molto tempo non se ne seppe più nulla. Ma molto più tardi si apprese che il giovane tedesco, il quale aveva sfidato gli ufficiali russi a dozzine e ne aveva uccisi alcuni, era figlio di un principe sovrano di Germania.


1851. I giovanetti Brodnicki e Zeenkowiez; Ollivier e Ginestous. — Eccoci a Posen (14 febbraio 1851).

Casimiro Brodnicki ha diciassette anni; Anselmo Zeenkowiez ne ha sedici; appartengono ambedue alla nobiltà del gran ducato di Posen e frequentano insieme la terza classe del ginnasio reale.

Casimiro e Anselmo sono molto amici.

Ai primi di febbraio, Anselmo prega Casimiro di prendergli a nolo una sella per fare una passeggiata a cavallo. Casimiro rende il servigio all’amico; ma Anselmo, riportando la sella, rifiuta il pagamento convenuto, sicchè il carrozziere se la prende con Casimiro.

Ne sorge disputa, e nel calore del diverbio, Brodnicki regala a Zeenkowiez l’epiteto di scroccone.

Di qui, sfida e accettazione di sfida.

All’indomani, era un sabato, allo spuntar del giorno i due giovanetti si trovano a faccia sul terreno, in un prato detto Colombia, vicino alla foresta di querce, che sorge a settentrione di Posen.

Fungevano da padrini due compagni di scuola di quindici anni!

I due avversari son collocati a dieci passi di distanza e al comando sparano insieme, senza colpirsi.

— Continuiamo; dicono i padrini che si divertono. [p. 111 modifica]

— Continuiamo; rispondono i duellanti.

Le munizioni, però, sono finite e i duellanti non si sono fatti alcun male.

Come si fa? I giovani padrini corrono a procurarsene delle nuove e tornano sul campo della lotta e perchè almeno uno resti sul terreno, li pongono a sei passi di distanza.

Si spara di nuovo; ma invano: il Dio protettore dei ragazzi faceva deviare le palle.

I padrini si seccano e pongono i duellanti a quattro passi d’intervallo; comandano il fuoco e questa volta la palla di Brodnicki penetra nello stomaco di Zeenkowiez, per allogarsi nella spina dorsale.

Zeenkowiez cade morente.

Gli altri si danno alla fuga attraverso i campi; ma, dopo un paio d’ore di corsa sfrenata, tornano in sè e decidono di recarsi a Posen in cerca di un chirurgo.

Quando questi giunse sul luogo della pugna, il giovinetto Zeenkowiez era già freddo cadavere.

I tre ragazzi, spaventati, inventarono una storiella per nascondere il fallo; ma essendosene mescolata la giustizia, Brodnicki e i due padrini Podelitzki e Wrobleovrentzki furono arrestati e processati.

Brodnicki fu condannato a sei anni di carcere semplice e i due padrini a diciotto mesi della stessa pena; le quattro famiglie a piangere sulla sorte dei figli.


Nel giugno del 1851 tra Le Suffrage Universel, giornale repubblicano, e l’Écho du Midi, leggittimista, di Montpellier, s’intavola una furiosa ed aspra polemica, che, coronata da paroloni e da frasi punto parlamentari, condusse ad un duello.

Aristide Ollivier, redattore capo del Suffrage, rifiutando di battersi con Escande, redattore capo dell’Écho per un motivo che non aveva alcun riporto con l’onore, provoca tutto quanto il partito legittimista e in mezzo a quindici [p. 112 modifica]nomi di offerentisi, sceglie Fernando de Ginestous24. Il combattimento fu fatto con la sciabola e durò appena un minuto, dacchè gli avversari caddero ambedue a terra l’uno morto; morente l’altro.

Quanto è stupido il duello! Vedete questi due giovanotti, erano in fin de’ conti, due galantuomini nel vero senso della parola, che seguivano idee politiche diverse. Non si conoscevano, e si salutavano per la prima volta con le sciabole che dovevano ucciderli. Non avevano avuto questione tra di loro; nessuna cagione di odio armava il loro braccio.... e si ammazzarono in combattimento singolare!

Di fronte a questi fatti, come non si può ritenere il duello la cosa più stupida, più cretina, più imbecille, inventata da mente umana per difendere l’onore?

Émile di Girardin così salutò il convoglio funebre del giornalista repubblicano, figlio e fratello dei signori Demostene ed Emilio Ollivier:

— Era un nobile democratico. Cuore valoroso, spirito generoso, immaginazione ardente, ragione fredda, convinzione profonda, opinioni probe, fede democratica a tutta prova.... Gravemente insultato da un giornale legittimista di Montpellier — l’Écho du Midi — in un eccesso di suscettibilità, dimenticò ch’egli s’era votato al trionfo della grande causa della libertà per la libertà. Egli s’è battuto; egli è stato ucciso, mentre colpiva mortalmente l’avversario. Ma egli non aveva il diritto di battersi!»

L’esercito della libertà per la libertà, del quale egli era uno dei più brillanti ufficiali, ha bisogno di tutti i suoi soldati. Fernand de Ginestous sopravvisse, quasi per miracolo, alla tremenda ferita che aveva ricevuto. [p. 113 modifica]


Ottobre 1852. Cournet e Barthélemy. — Tra i duelli che maggiormente commossero l’Inghilterra, s’ha da notare quello accaduto, nel 1852, tra Cournet e Barthélemy.

Cournet, che per ragioni politiche aveva dovuto abbandonare la Francia, era giunto a Londra, durante l’Esposizione universale, recando un involto (paquet) confidenziale per Barthélemy.

S’era subito informato di quanto questi faceva e come gli avevano detto che dirigeva una casa di mauvais renom, erasi contentato di mandargli il pacco affidatogli. Ma c’è di più. Ogni qualvolta, poi, Cournet s’imbatteva in Barthélemy, nulla risparmiava perchè il suo disprezzo fosse evidente.

Di qui il duello del 19 ottobre.

I due avversari furon collocati a quaranta passi di distanza. Cournet, tirò senza colpire, contro Barthélemy, che gli gridò:

— Siete ancora in tempo di ritrattare le offese fattemi. Andiamo; fatelo e tutto sarà aggiustato.

— No; replicò Cournet; non è davanti alla vostra pistola che io farò le scuse. Ciò sarebbe da vile; sparate e poi vedremo.

Barthélemy scatta l’arma, che fa cecca. Allora Cournet gli dà la sua pistola e la palla che ne sortì lo rese cadavere. Barthélemy e i quattro padrini furono arrestati.

Chi era Cournet?

A diciotto anni, con sei uomini ed una scialuppa aveva fatto prigioniera una fregata spagnuola sul Tago. Per questo fatto arditissimo s’ebbe la Legion d’onore.

A vent’anni era stato nominato sottotenente di marina dall’ammiraglio Roustin, regnante Luigi Filippo.

Cournet aveva fatto parte della deputazione mandata a Londra per rappresentare la Francia all’incoronazione della Regina Vittoria.

Questo fatto, specialmente, aveva influenzato la [p. 114 modifica]giustizia inglese, che nel marzo del 1853 emise il seguente verdetto contro Barhélemy e C.i:

«Siete stati riconosciuti colpevoli del crimine di omicidio, dopo una lunga e paziente istruttoria; ed ora è mio dovere di pronunciare la condanna nella quale siete incorsi.

Come stranieri, forse voi non avrete conosciuto abbastanza la legge di questo paese contro il duello; e debbo pure tener conto che avete passati più di cinque mesi in prigione. Queste circostanze mi determinano a pronunciare una sentenza molto meno severa di quella che altrimenti avrei dovuto. Vi condanno, dunque, a passare ancora due mesi in prigione».

Poco dopo, però, Berthélemy fu impiccato e si sa il perchè!


1853. Il sottotenente Bottoni e l’avvocato Airaudi di Veglio. — Il 9 luglio 1853 un duello alla pistola avvenne a Nizza — Alpi marittime — fra il sottotenente Bottoni del 13.° reggimento fanteria e l’avvocato Airaudi di Veglio, che vi perdeva la vita.

Secondo quanto era stato convenuto, i due combattenti si collocarono a una distanza di venti passi. L’ufficiale tirò per primo; poi sparò l’avvocato e la sua pistola fece un fuoco lungo. I secondi dichiararono l’onore soddisfatto e proposero ai due avversari di abbracciarsi. Ambedue accondiscesero all’invito e si mossero incontro. Al momento di abbracciarsi, l’avvocato Airaudi di Veglio cadde privo di sensi. La palla dell’avversario gli era penetrata nel petto senza ch’egli se ne fosse accorto. Avversario e padrini trasportarono l’avvocato all’ospedale, ove giunse in uno stato disperatissimo.

Dopo la morte dell’avvocato, vi fu un processo, seguito da numerose dispute; da pubblicazioni, da libelli, ecc., ecc. ma tutto finì con la condanna a quindici anni di relegazione da scontarsi, se non interviene la clemenza sovrana (!), in una delle galere dello stato.

Così prescriveva la legislazione sarda! [p. 115 modifica]


1854. Antonio Morani e Baldassare Bonfiglio. — Ai primi di gennaio del 1854 il tribunale criminale di Genova condannò a venti anni di relegazione (!!!) certo Antonio Morani, ajutante di campo nella Guardia Nazionale, per avere ucciso in un duello alla pistola un altro ajutante della stessa guardia, di nome Baldassarre Bonfiglio.

La corte d’appello ridusse la pena alla metà.... ma dieci annetti.... via, sono sempre parecchi; se non interviene la grazia sovrana a mitigare la severità della legge.


1855. Il bojardo Balsch e il conte Stolberg; De Hinckelbey e il luogotenente De Rochow. — Nel 1855, Bucharest veniva per la seconda volta turbata dall’emozione di un duello letale. Il bojardo Balsch, che funzionava pure da direttore di polizia, tornandosene verso mezzanotte a casa, incontrò per le scale il conte Stolberg. Questo incontro inatteso e non desiderato, svegliò nel bojardo sospetti atroci. Balsch invitò il conte a rifare le scale per fornire spiegazioni sulla sua condotta, in presenza della bojadera signora Balsch. Dapprima il conte di Stolberg si rifiutò, e Balsch, che era in uniforme, sguainò la spada minacciando di morte il conte, se avesse persistito nel suo rifiuto.

— Voi siete armato e padrone della situazione, osservò il conte, che era in borghese e senz’armi; quindi non mi resta che seguirvi.

Negli appartamenti della signora Balsch la scena raggiunse il tragico. Il marito, che si credeva oltraggiato, finì coll’ordinare alla moglie di abbandonare immediatamente il tetto coniugale. La signora Balsch, in preda all’angoscia più tremenda, ebbe appena le forze per recarsi a casa del fratello principe Ghika-Costaki, ministro degli esteri di Rumania. [p. 116 modifica]

I due avversari rimasti soli, Balsch trae la spada e la spezza, onde l’avversario non abbia nulla da temere di lui; ma soggiunge Balsch:

— Domani all’alba ci troveremo fuori di città, e mi renderete conto dell’accaduto colla pistola alla mano.

Accettato il convegno, i due avversari si separarono per mettersi alla ricerca dei padrini. Balsch scelse i cognati Ghika-Costaki, e Stolberg il bojardo Radunako-Rossetti e Cascaris-Rossetti, ministro di giustizia il primo, presidente del tribunale d’appello il secondo. Il principe reggente, informato dell’accaduto, accorse sul luogo del combattimento; ma troppo tardi, perchè strada facendo, s’imbattè nel triste convoglio, che gli riportava il cadavere del genero Balsch.


1855. — E dalla Gazzetta di Colonia del 14 marzo del 1855 traduco:

Scrivono da Berlino in data 10 corrente:

Voi avrete appreso senza dubbio l’avvenimento che da stamane è causa di una immensa commozione per la nostra città.

Il direttore generale della polizia, signor De Hinckeldey è stato ucciso in duello questa mattina, tra le dieci e le undici, a Carlottenburg, da un membro della Camera dei Signori, primo luogotenente De Rochow. La palla lo ha colpito al cuore, e dopo qualche secondo, l’infelice è morto.

Al duello è attribuita questa causa. Alcuni giorni or sono De Hinckeldey si sarebbe presentato in grande uniforme nei locali ove aveva luogo un carosello, organizzato dai principi della famiglia reale e dai membri dell’alta nobiltà. De Rochow, uno dei commissari, sarebbe andato incontro al direttore generale della polizia per osservargli che non c’era bisogno di alcun rappresentante di polizia. Ne sarebbe seguita una disputa grave e una sfida.

De Rochow s’è messo subito a disposizione del ministro dell’interno e del comandante militare, maggior generale de [p. 117 modifica]Schlichting, pregandoli di lasciarlo libero ancora per alcuni giorni.

Il testimone del direttore capo di polizia era un consigliere del governo, di cui si tace il nome. Rochow era assistito dal fratello25. Ha fatto meraviglia che De Hincheldey, eccessivamente miope, abbia accettato di battersi alla pistola.

Il cadavere è stato ricondotto da Witzleben, vicino a Carlottenburg, a Berlino. Durante la notte, che ha preceduto il duello, De Hinckeldey, che nessuno aveva supposto capace di tanto, aveva lavorato senza tregua e regolato tutti i suoi affari particolari. Già consigliere del governo a Merseburg, era stato chiamato nel 1848 a Berlino, come presidente di polizia, e dal 1854 era direttore generale, posto creato per lui. Consigliere superiore intimo effettivo del governo, con rango di consigliere di prima classe; direttore al ministero dell’interno; membro del Consiglio di Stato e decorato con dodici ordini cavallereschi, tra cui l’Aquila Rossa di seconda classe con ghirlanda di quercia; l’ordine di San Giovanni e l’ordine degli Hohenzollern, era, malgrado ciò, perito in duello!...


1856. Tra due ufficiali. — Nel Courrier de la Moselle dell’8 ottobre 1856, si legge:

«In seguito ad una vertenza che da molto tempo fa le spese di tutte le conversazioni di Metz, un duello alla pistola, dicesi autorizzato, è avvenuto jeri (7 ottobre) tra due ufficiali, allievi della Scuola di applicazione di artiglieria e genio. Uno di essi è rimasto ucciso. Questa notizia che si è sparsa in un baleno per la città, ha prodotto una penosissima impressione. [p. 118 modifica]

Buon Dio! è da ritenersi che una notizia di simil fatta non avrebbe potuto causare una piacevole impressione sui civili abitanti di Metz!...»


1858. — Rozier-De M** — Ai primi del 1858 (così c’informa la Gazette des tribunaux dell’8 giugno 1858) a Lione si consumò una tragedia delle più terribili e ch’ebbe il suo riepilogo davanti al Consiglio di guerra di quella città.

L’antipatia di vecchia data, frutto dell’invidia e della gelosia del tenente de M** contro un suo collega, fu il motivo da cui trasse origine la querela, di funesta memoria.

L’atto d’accusa26 dice:

«De M** non abbandona più, non lascia più in pace il tenente Rozier. Lo ferma sul suo cammino; fa nascere una discussione viva ed animata, e queste parole sono intese: «venite, partiamo!»

«Insieme salgono le sale dell’alloggio del tenente de M**.

«Che cosa successe?

«Solamente la vittima potrebbe raccontarlo; ma è morto troppo presto e dalle sue labbra non sono uscite che due esclamazioni: «Le lâche! l’assassin!»

«De M** bussa alla porta di un ufficiale vicino, e gli dice:

«Venite, Rozier è morto! E venuto ad insultarmi in casa mia, ci siamo battuti e l’ho ucciso!»

Ne seguì un lungo drammatico processo, che durò più settimane e che si chiuse con la condanna a morte di de M** pronunciata dal Consiglio di guerra di Lione. [p. 119 modifica]


1859. Lykof e Samoi-Lemski; Chaine e Broustet; il senatore Broderick e il magistrato Tarry. — In seguito a disparere di nessuna importanza, nell’ottobre del 1859, si batterono alla pistola in Pietroburgo due giovani ufficiali dell’esercito russo, Lykof capitano in seconda e Samoi-Lemski insegnante. Samoi-Lemski riceve la palla dell’avversario in pieno petto e cade fulminato senza gettare un grido.

Lykof è arrestato e, tradotto davanti ad un consiglio di guerra, viene condannato alla degradazione militare ed alla perdita delle decorazioni e d’ogni altro distintivo onorifico, che dalla benevolenza dell’imperatore autocrate gli erano stati conferiti.

Veramente la punizione non fu delle più gravi. Vada per la degradazione;... ma per il resto.... non pare una cosa medioevale? Ma, in Russia, si pensava diversamente a quanto sembra.


1859. — Nel marzo del 1859 il Courrier de la Gironde pubblicava i dettagli di un duello accaduto a Pessac, tra il signor Chaine, figlio di un armatore di Bordeaux e il signor Broustet di Tolosa.

«Circa tre mesi or sono, ci han detto, difficoltà molto gravi erano sorte tra i due giovanotti, per una questione di giuoco.

«Alcune persone non meno prudenti che sagge, avevano accomodato la divergenza, apparentemente almeno, con la soddisfazione delle parti.

«Le cose erano arrivate a questo punto, allorchè i due giovani s’incontrarono al Circolo, si scambiarono alcune parole vivaci, in seguito alle quali volò un guanto; uno schiaffo fu dato, e un duello fu convenuto per l’indomani mattina. [p. 120 modifica]

«Ed eccoci sul terreno.

«Dopo qualche minuto di lotta e durante un riposo di qualche istante, i padrini di Broustet avrebbero consigliato al loro cliente di presentare le scuse all’avversario. Il signor Broustet essendovisi rifiutato, i due avversari furono collocati nuovamente in guardia e dopo un breve attrito di ferri, il signor Chaine riceveva una ferita, che ne cagionava la morte immediata».


1859. — L’Écho du Pacifique del 20 settembre 1859, racconta:

«La città di S. Francisco era tutta sossopra per il duello accaduto tra il senatore al Congresso, signor Broderick e un magistrato della Corte suprema, signor Terry. Si sapeva che al primo sparo di pistola Broderik era stato colpito dall’avversario, e ch’era stato ricondotto in città quasi morto.

«Il duello ebbe luogo ieri 19, alle sette del mattino, nella contea di San Matteo, in un terreno di proprietà del signor Davis, posto a due miglia dal lago Merced, a dodici circa da San Francisco.

«Più di settanta persone erano presenti allo scontro.

«I padrini del senatore scelsero il posto e comandarono il fuoco. I due primi si collocarono a dieci passi. Le pistole erano state caricate dall’armaiuolo Bernardo Lagoarde.

«Broderick era assistito da J. C. Mekibbin e Coulton, già sceriffo della contea di Siskiyon; il giudice Terry da F. Hayer e C. Benham.

«Gli avversari, deposti gli abiti, si collocarono di fronte. Broderick sembrava agitato; la sua mano tremava. Non aveva paura; ma era nervoso. Il giudice Terry si teneva dritto, immobile, indifferente.

«Coulton comandò il fuoco; la palla di Broderick si ficcò nel suolo a pochi metri di distanza; Terry allora sparò, dicendo: «il colpo non è mortale, ho preso a due pollici dalla parte destra». Broderick fece un movimento come per [p. 121 modifica]voltarsi, poi si ripiegò su sè stesso e cadde disteso a terra. Non disse parola. Durante questo tempo, Terry non si mosse dal suo posto.

«I suoi padrini lo condussero via. I medici chiamati riscontrarono traccia del proiettile sul lato destro di Broderick. Era entrato da sotto il seno, aveva traversato la parte anteriore del corpo e si era arrestata a sinistra.

«La causa del duello fu la politica, o meglio le elezioni politiche».


1860. Il sottotenente S** e il signor B**; Pierre e Giraud. — Tolgo dal Corriere della Domenica di Buckarest, del febbraio 1860:

«Una questione per una carrozza pubblica sorse, alla sortita di un ballo in maschera, tra il sotto-tenente S** e un tal B**.

Nella disputa, il sotto-tenente passando dal torto all’ingiuria, dall’ingiuria alla violenza, dalla violenza allo schiaffo, rese necessario l’appello alla cavalleria armata. I due avversari, assistiti dai padrini, si trovarono all’ora indicata nel luogo prescelto per lo scontro; vennero collocati di fronte a quindici passi di distanza, con facoltà a ciascuno di avanzare di cinque passi.

Così volle l’offeso; così stabilirono i padrini. Il giovane ufficiale fece qualche passo mirando alla testa; ma l’arma gli fallì il colpo. L’avversario mirò senza muoversi, sparò e la palla portò via un pezzo del pantalone di S**, un poco al disopra del ginocchio.

Dopo qualche minuto di riposo l’ufficiale consente ad offrire le sue scuse; ma l’offensore rifiuta, sostenuto nel rifiuto da’ suoi padrini. Si ricaricano le armi e si provano se vanno bene; si ricaricano di bel nuovo, e i duellanti fanno fuoco. L’arma di S** falla ancora; la palla di B** sfiora la coscia dell’avversario.

Si caricano per la terza volta le armi e i due avversari, [p. 122 modifica]chiamati, depongono il sigaro per riprendere il loro posto di morte.

Al comando, le due pistole sparano insieme; la palla dell’ufficiale sfiora l’orecchio di B**, la palla del quale penetra nell’altra coscia del tenente S**.

La ferita, che sembrava lieve, si mostrò tosto mortale, perchè, non essendo stato possibile estrarre il proiettile, sopravvenne una infiammazione, che dopo dieci giorni di sofferenze terribili, condusse il disgraziato ufficiale nella tomba».


1860. — Il barone de Vaux27 narra, che nel 1860 ebbe luogo un duello, a Lunéville, fra Pierre, sergente del secondo lancieri, e Giraud, sergente nel dodicesimo dragoni. La vertenza ebbe origine in un caffè della città. I due avversari corteggiavano la stessa brunetta di diciott’anni, civettuola quanto bella, ed era bellissima, e che, nella qualità di figlia unica del padrone, troneggiava da mattina a sera alla cassa.

Pierre era un bel pezzo d’uomo di ventiquattro anni, dall’aspetto nobile, bruno, regolare, simpatico, distinto di modi e dalla voce insinuante.

Giraud aveva passato la trentina, aveva messo su pancia, aveva i cappelli biondi e radi; la fisionomia insignificante, la parola pungente; nulla insomma di quello che occorre possedere, perchè le ragazze si prendano per voi. Infatti, s’accorse che le sue galanterie erano accolte come i doni di Caino, mentre i più dolci sorrisi, le più amabili attenzioni, le piccole cortesie della bella bruna erano riservate al collega Pierre. Un giorno, all’ora dell’assenzio, i due rivali si trovarono alla stessa tavola, insieme a molti altri colleghi. Allorchè la prima passata fu centellinata, Giraud, volgendosi alla brunetta, che stava alla cassa, gridò brutalmente:

— Di’ su, ragazza, porta una seconda passata e più [p. 123 modifica]presto ancora di questa. Pierre si alzò subito e, sopraffatto dalla collera, avvicinò l’insultatore e preselo per un orecchio:

— A chi parlate voi dunque, maresciallo d’alloggio Giraud?

I due avversari erano lividi d’ira: i compagni li separarono e un duello al fioretto fu concordato nella serata.

Ambedue gli avversari erano forti in quest’arma, sicchè la prima ripresa riuscì brillantissima d’ambo le parti.

Alla seconda messa in guardia, dopo parecchi attacchi, parate e risposte inefficaci, Pierre, con una rimessa, toccò l’avversario violentemente al petto.

Trasportarono Giraud credendolo morto, ma non era che svenuto.

Dopo quella rimessa il maresciallo d’alloggio Giraud non prodigò più sorrisi, nè contumelie alla ragazza; nè comandò più passate di assenzio. Toccato al polmone, languì per molti mesi in sofferenze atroci, nè gli valse la nomina ad ufficiale per sottrarlo alla morte.


1862 (Luglio?). — Capitano Bozzano e tenente Grida. — Un duello di cui si parlò molto, fu quello del capitano Bozzano di fanteria col tenente Grida, ambedue comandati presso la scuola militare di Modena.

La determinante? Ciarle inconcludenti, di poca importanza, per non dire di nessuna entità, scambiate alla mensa.

Il capitano Bozzano era aitante della persona e giuocatore appassionato, d’umore variabile, come la maggior parte di coloro che onestamente si dilettano nel giuoco. Il tenente Grida, invece, era piccolo, e come il Bozzano, veniva da quell’esercito piemontese, che dette tanti soldati eroi alla patria italiana. Ambedue avevano veduto la Crimea e in quei gloriosi fatti d’arme, ambedue s’erano distinti come lo provava la medaglia al valore, che riluceva sul petto loro.

E sebbene il capitano Bozzano fosse più benefico che burbero, il tenente Grida non meno del Bozzano era amato per la mitezza del carattere. [p. 124 modifica]

Poche settimane prima del duello, che doveva trarlo alla tomba innanzi tempo, il tenente Grida era passato all’amministrazione, perchè in allora non esistevano gli ufficiali contabili, come oggi; ma quelli delle armi combattenti, a quell’ufficio venivano designati per turno.

Una sera il tenente Grida con altri colleghi s’era reso da Tagliazzucchi, fuori di Modena, a bere un bicchiere di buon Lambrusco di Sorbara. All’osteria rinomatissima, il Grida e i suoi colleghi trovarono il Bozzano, che con altri capitani aveva preceduto di poco i sopravvenuti. Le due comitive si fusero, per così dire, insieme, bevvero allegramente e venuto il momento di pagare lo scotto, il Grida si offrì di pagare lui per tutti. Gli altri, e specialmente il capitano Bozzano, vi s’opposero, esclamando: «No; facciamo alla Romana, come sempre!»28. Il tenente Grida insistette, per cortesia, nel voler pagare egli per tutti, provocando dal Bozzano la risposta scherzosa, in piemontese:

— E lassèle paghè, tant’à la cassa in custodia!

La parva favilla suscitò il grande incendio, perchè il Grida, che non aveva compreso il significato burlesco ed amichevole della frase, alquanto risentito replicò:

— Che venta nen fè del spirit sû certe cose, Capitani!...

La disputa s’accese e dalla disputa nacque un duello alla sciabola, senza esclusione di colpi, eccetto il fendente.

Lo scontro ebbe luogo presso il cimitero israelita. Ambedue poco abili nello schermire, provocarono un incontro, nel quale il capitano Bozzano pur ferito all’inguine, mentre trapassò da parte a parte il tenente Grida, facendogli una ferita a V al disotto della mammella destra, e facendo passare la punta della sciabola fuori dalla schiena.

Il tenente Grida muore quarantott’ore dopo il duello. Il capitano Bozzano guarda il letto per alcuni mesi.

La terribile ferita toccata al Grida fece supporre ai malevoli che il Bozzano si fosse condotto con astio e con malevolenza nel duello; ma quest’accusa immeritata svanisce, [p. 125 modifica]se si riflette, che la ferita fu arrecata quando appunto il Bozzano, ferito esso pure all’inguine e alla coscia, cadeva a terra in un mare di sangue.


1864. Il conte C**res e lo spagnolo H**. — All’epoca nella quale il generale Crespin prese il comando della Scuola di cavalleria di Saumur, un duello mise sottosopra il Ministero della guerra per la caparbietà dei duellanti.

Lo scontro ebbe luogo fra il conte de C**res ufficiale negli usseri e un giovane spagnuolo de H***, di cui il fratello, in qualità di ufficiale straniero, frequentava i corsi di quella Scuola.

Il conte de C** si distingueva per il suo carattere aggressivo e per la sua abilità nel maneggio delle armi da duello. Si racconta, che durante il suo soggiorno in Africa, molti furono i duelli nei quali egli uccise l’avversario; ciò che aveva ridotto gli stessi suoi colleghi a non vederlo più di buon occhio.

La causa di quest’ultimo duello fu il giuoco, durante il quale il conte de C**, lasciandosi trasportare dal suo pessimo carattere, finì col gettare in viso allo spagnuolo le carte, che teneva in mano.

Su due piedi si venne al duello con pistola e lo spagnolo fu ucciso.

Il giorno de’ funerali di questa infelicissima vittima dello stupidissimo duello, ai quali avevano voluto prendere parte tutti gli ufficiali della Scuola, il sotto prefetto di Saumur dava un gran ballo. Si trattava di un ballo ufficiale, al quale era invitata la burocrazia civile e quella militare della sotto-prefettura.

Il conte de C**, invece di seguire quanto l’educazione e la convenienza consigliano in simili circostanze, trascinato sempre dalla ingiustificata alterezza del suo carattere, si recò al ballo; ma al momento di entrare, il fratello della vittima gli sbarrò il passo, esclamando: [p. 126 modifica]

— Non avete vergogna di venire al ballo il giorno stesso in cui è stata sepolta la vostra vittima, il fratello mio?

— A fè di Dio, no!

— Ebbene, voi non entrerete!

In così dire lo schiaffeggiò alla presenza di molti ufficiali.

De C** si ritirò furioso e si sarebbe bruciato le cervella, se non fosse stato sostenuto dalla certezza di poter uccidere, all’indomani, l’ufficiale spagnuolo.

Il generale, informato dell’accaduto, indignato contro il de C**, dopo averlo accerbamente rimproverato, lo pose agli arresti.

Il duello fu rimandato e quando de C** terminò la punizione, di bel nuovo invitò l’avversario a duello. L’ufficiale spagnuolo accettò e si fece assistere dai tenenti Boucheron e Saint-F**; mentre de C** era rappresentato dai tenenti Merlot e Royer.

Fu deciso che lo scontro avesse luogo con la spada, nelle vicinanze della Loira, in una località chiamata Monopotapa. Malgrado la segretezza con la quale erano state condotte le trattative, al momento nel quale i due avversari deponevano gli abiti, il capitano Ch** (che da tenente colonnello perì da glorioso nella guerra del 70), li sorprendeva e, d’ordine del generale, faceva rientrare a Saumur i duellanti.

Il conte de C** fu condannato a due mesi di arresti di fortezza, e l’ufficiale spagnuolo coi padrini e coi medici militari furono posti agli arresti di rigore.

Terminata la pena, de C** trovò maniera di provocare di bel nuovo lo spagnuolo che, a sua volta, per farla finita, chiese di essere richiamato in patria.

Finalmente il combattimento potè aver luogo; e l’ufficiale spagnuolo regalò all’avversario un colpo dritto di spada pel quale il tenente de C** ne morì quattro mesi dopo.

— Tirate bene!... esclamò de C** cadendo.

— Non c’è male, come vedete: gli rispose lo spagnuolo mentre infilava i suoi abiti per lasciare sul terreno, senza speranza di salute, l’uccisore di suo fratello. [p. 127 modifica]


28 agosto 1864. Lassalle. — È proprio vero che, quando il diavolo ci ficca le corna, tutto va a ruzzoloni.

Guardate il povero Lassalle, l’eminente e mite socialista. Affranto, abbattuto nell’animo e nel fisico, riposa a Rigi Karlsbad per curare lo spirito e il corpo ed invece della pace, del benessere, della vita, vi trova l’inferno e la morte.

Il 20 luglio del 1864, mentre se ne stava tranquillamente scrivendo, gli annunziano la visita di una giovane signora, che insiste per vederlo.

Lassalle, meravigliato, ordina di lasciarla passare. Agli occhi del celebre socialista appare una creatura bella tanto, così bella, che Lassalle ne rimane profondamente colpito. Era la giovane Elena von Dönniges, figlia di una splendida donna giudea, unita in matrimonio al Dönniges, diplomatico bavarese, residente nella Svizzera.

Elena von Dönniges era tanto bella da non temere rivalità; ma era anche capricciosa e vana quanto bella, ed era, l’ho detto, bellissima! L’ingegno aveva pronto; l’immaginazione in lei era fervida, lo spirito ella aveva imperioso. Precoce in tutto; all’età di dodici anni ne dimostrava diciannove; giovanissima ancora, quasi fanciulla, fu fidanzata ad un italiano di quarant’anni.

L’atmosfera, che nella fanciullezza e nella gioventù alimentò i polmoni di questa bella Elena, pare non fosse della più pura; certo, non contribuì a conservarle l’innocenza, che rende tanta ammirata e rispettata la vergine; ma in lei sviluppò tendenze civettuole e romantiche aspirazioni.

Lassalle aveva conosciuto la giovane nel 1862 a Berlino, in casa dei parenti della madre di Elena, e lì seppe, che la bellissima von Dönniges era stata fidanzata due o tre volte e in quell’epoca (1862) lo era di bel nuovo ad un nobile vallacco — ancora studente — chiamato Rücowitz, descritto da Elena come un uomo piccolo, nero, bruttissimo, ma sfondatamente ricco! Oh, la ricchezza!... [p. 128 modifica]

La fanciulla perdeva la testa nell’intrecciare fraschette; ma come avviene talvolta, gli occhi abbaglianti di Lassalle, il suo tratto galante e allo stesso tempo composto; il suo parlare dolce, tranquillo, insinuante, l’ammaliarono al punto, che la giovane von Dönniges si decise di piantare in asso il ricco e brutto valacco per l’illustre pensatore!

L’amore, più che amore, l’attaccamento intenso che Elena dimostrava per Lassalle, era esso sincero? Pare di sì, perchè Elena si mostrava orgogliosa di avere attirata l’attenzione di un uomo, il nome del quale era sulle labbra di tutti; e si diceva felice d’avergli dato tutta l’anima sua, a quell’uomo, che sapeva farsi adorare come nessun altro al mondo.

E Lassalle di quell’attaccamento improvviso, violento, folle, pareva soddisfatto; certo n’era lieto.

Quest’amicizia affettuosa, questa comunanza di cuore, durò per più di un anno, senza che un impegno ufficiale lo rendesse moralmente insolubile.

Elena, venuta a cognizione del viaggio di Lassalle a Rigi-Karlsbad (in quel mentre essa si trovava a Ginevra) pensò di organizzare una escursione. Ottenne l’assenso e la compagnia di alcune amiche e con esse si pose in viaggio. Il 20 luglio, bussava alla porta del tenero amico. Non qui narrerò i momenti di squisita emozione che passarono i due innamorati nell’incontrarsi; e tacerò su quelli penosi della separazione, che all’indomani inducevano Elena a scrivere a Lassalle:

«Quando ti lasciai, mentre le tue labbra all’ultimo istante si posarono sulla mia mano, giurai a me stessa che prima di lasciare Weggios avrei deciso del mio avvenire. Ebbene, la decisione l’ho presa. Sappiate che la vostra beltà, la vostra magnificenza d’intelletto, la vostra sì piacevole vanità, mi hanno ammaliata, e desidero, e voglio essere vostra moglie.

«Voi mi diceste: ditemi un sì; e m’incaricherò del resto. Eccovi il mio sì; ma con due condizioni. Fate quello che potete, com’io farò quello che posso, perchè lo scopo nostro sia raggiunto in maniera convenevole. Voi, dunque: [p. 129 modifica]

     1.° dovete venire da noi per ottenere il consenso de’ miei parenti. Ma se non riesciremo, dopo aver esaurito tutti i mezzi per raggiungere le nostre aspirazioni, dobbiamo essere inesorabili; peggio per chi ci spinse; abbiamo l’Egitto e l’Italia che ci stendono le braccia29.

     2.° Io voglio e desidero che la faccenda scorra veloce. Gli ostacoli non mancheranno, e saranno grandi; ma voi avete dalla vostra il genio, che con l’ajuto di Dio ridurrà i macigni in sabbia e in polvere. La parte più dura tocca a me, perchè io debbo con mano ferma uccidere un cuore fedele (il cuore del valacco affezionatissimo, brutto e ricco), che mi professa un amore sincero. Io devo distruggere con riprovevole egoismo un sogno pieno d’amore e di giovinezza: la realizzazione del quale avrebbe portato la completa felicità ad un nobile uomo. Tutto questo per me sarà spaventevole; ma lo debbo, e per amore vostro sarò cattiva!».

E Lassalle, al colmo della sua felicità, grida come un bambino: «Tutti i miei mali sono spariti; e i miei dolori si son mutati in gioia». Ed all’amata e bella amica scriveva: «Voi siete il raggio di sole, che avete dissipato le tenebre dell’anima mia».

E decise di recarsi al più presto a Ginevra per ottenere l’assenso dei genitori di Elena, benchè l’incostanza della giovane Dönniges lo preoccupasse assai.

Intanto il tempo scorre; i Dönniges si stabiliscono a Berna e Lassalle vi accorre e si alloca vicino alla villa del padre dell’adorata fanciulla.

La madre della giovane, informata dalla figlia de’ suoi propositi, monta sulle furie e non risparmia mezzo per dissuadere Elena dallo sposare Lassalle.

L’amante riamata si mostrò fedele, tenace, talchè fu indispensabile l’intervento del signor Dönniges. Quello che accadde è più facile ad immaginarlo che a descriverlo; ma Elena, ferma come una roccia alle ondate furibonde della tempesta famigliare, scrive a Lassalle: «io sono ferma come [p. 130 modifica]un macigno; non vacillare tu! Mia sorella è sposa ad un conte; come mai Elena può sposarsi con un artigiano?... Questo, amico mio, l’abisso da colmare nella mente de’ miei genitori!

«Ti accusano di essere stato implicato in un ladrocinio e di essere stato in rapporti.... con una donna d’età».

Sopravviene la disperazione; Elena non sa più come resistere e corre a chieder consiglio, ajuto, assistenza, ad.... offrirsi all’amico, che trova in lagrime. Lassalle, onesto, prega Elena di tornarsene a casa e come la persuasione non vince la resistenza della fanciulla, Lassalle le offre il braccio e la riconduce sino alla porta di casa.

Questo atto nobilissimo di Lassalle fu qualificato di stupido anche da Elena, la quale cominciò a raffreddarsi negli entusiasmi del suo volubile amore. Gli avevo dato l’anima e gli offrivo il corpo.... pensava tra sè Elena e.... l’imbecille, m’ha rimandato a casa!

Lassalle comprende, e se n’affligge fino alle lagrime.

Da Berlino, prevenuto dai parenti di Elena, sopraggiunge Rücowitz ed alla fanciulla viene imposto di scrivere che s’è riconciliata col valacco.

Una corrispondenza grave s’intavolò fra i Dönniges, Lassalle ed altre persone. Una corrispondenza punto edificante. Fu chiesto l’intervento di personaggi eminenti, fin’anco di Vescovi.

Il ministro di Baviera si collega a tutta quella gente in danno di Lassalle, e nulla si risparmia, perchè egli abbia a lasciare per amore o per forza la Svizzera.

Il 24 agosto Rüstow telegrafa all’intimo amico, Lassalle: «le vostre azioni ribassano» ritenendo la partita perduta per Lassalle. Questi, esasperato pel tradimento di Elena, le augura che il destino faccia le sue vendette; ed Elena replica «il mio destino è nelle tue mani, ma se tu villanamente mi abbandoni, possa la sciagura mia ricadere sulla tua testa. Possa almeno io seguirti nella tomba; perchè è il mio cuore, da te spezzato, che così parla!» (lettera da Monaco del 20 agosto).

Sempre più esasperato il povero Lassalle manda a [p. 131 modifica]sfidare Dönniges che rifiuta, pur accettando di farsi sostituire dal giovane Rücowitz.

Il duello fu deciso alla pistola. Lassalle scelse a padrini il generale Bethlen e il signor von Hofstetten, e come se presentisse la sua fine, il povero Lassalle scriveva al Bülow: «Addio, caro amico, e ricordati che il mondo è tutta una commedia tessuta d’inganni!».

Il sommo scrittore non si preoccupò altrimenti del prossimo scontro; mentre il buon valacco non perdette un momento, onde le probabilità di vittoria fossero dalla sua parte.

Alla mattina del 28 agosto i due avversari furono posti di fronte nei pressi di Ginevra30. Lassalle scrisse il suo testamento in un albergo di quella città, legando alla sua provata e buona amica Contessa Hatzfeld 90 mila marchi; nonchè legati cospicui agli amici Rüstow, Lothar Bucher e Holtlsoff; che sempre furongli larghi di ajuto e di amicizia sincera.

I padrini di Lassalle alle tre del mattino andarono a scegliere le armi; alle cinque svegliarono Lassalle, che dormiva profondamente, e vedendo in mano degli amici le pistole, le tolse loro esclamando: «ora ho quanto mi occorre». [p. 132 modifica]

Alle sette erano tutti sul terreno. Lassalle perfettamente calmo, poco prima di incominciare il fuoco, esclamò: «La mia stella tramonta!».

Al comando, spara primo Rücowitz, seguito a cinque secondi di intervallo da Lassalle. Tutto era finito! Lassalle, il buono e mite Lassalle, aveva ricevuto la palla avversaria nell’addome.

— Siete ferito?

— Sì....

Fu subito trasportato all’albergo ove per due giorni rimase a letto in mezzo a sofferenze atroci, senza quasi poter parlare. Nella notte del 30 al 31 agosto spirò nelle braccia dell’angelica contessa Hatzfeldt.

Lassalle, sempre generoso, sentendosi morire, volle scrivere: «Io dichiaro di essere stato ucciso.... dalle stesse mie mani».

Temeva per l’avversario, quell’anima grande!

Così finì questo gladiatore del pensiero; così, senza orgoglio e senza grandezza, si spense l’uomo democratico, che predicava principii contrari al duello!31. [p. 133 modifica]

Dönniges (padre di Elena) morì in Roma il 5 gennajo 1872. Il giovane Rücowitz sposò Elena; ma un anno dopo morì. Rimasta vedova, la Rücowitz si ritirò a Berlino, ove si dette allo studio della scena, fidando più sulla bellezza che sull’intelletto suo. Ma tosto passò a nuove nozze con un attore tedesco di buona fama, credo ancora vivente.

Quando Elena si presentava sulla scena, gli spettatori la fissavano e il nome di Lassalle si ripeteva pietosamente sommesso da ogni parte.

Più tardi, Elena si separò dal secondo marito, e resasi in America, si pose a condurre vita bizzarra.

Il 14 settembre del 1864 la salma di Lassalle fu deposta nel cimitero di Breslavia, ove si legge la epigrafe: «Qui giacciono le ceneri di Ferdinando Lassalle pensatore e combattente».

«Morire per contesa è la legge della vita» dice Goëthe; e da quel valoroso combattente pel progresso della civiltà, [p. 134 modifica]Lassalle perì per contesa; ma con i mezzi condannati da’ suoi principî.

Dalla morte di Lassalle ad oggi, sulla terra che nasconde quelle ceneri sono nati molti cardi e molte spine; ma i pensieri che da quel cervello vivo scaturirono, hanno regalato alla umanità tante rose e tanti allori pe’ quali il nome di Lassalle oggi non è più una gloria della Germania, ma dell’umanità intiera!


Settembre-ottobre 1864. — Botta-Bottero; — Dopo le tristi giornate di Torino del 21 e 22 settembre 1864, per una querela insorta tra due giornalisti32 s’ebbe un duello grave assai, nel quale uno dei combattenti perdette la vita e che per poco, non prese proporzioni inquietanti, da ricordare le conseguenze del duello del duca di Castreis contro Lameth.

In questo duello Bottero sparò in aria, mentre Botta non voleva si facessero commedie; e commedie non si fecero, perchè il Botta colpito da pistola, vi perdette la vita.


1864-67. D’Anna e La Porta; Mazzola e Di Cesarò. — A Palermo, in seguito a.... cause che si chiamano intime, un duello colla pistola ebbe luogo nel 1864 tra il signor La Porta e il dottor D’Anna che vi lasciò la vita. [p. 135 modifica]


Nel 1867, pure a Palermo, il professore Mazzola perdeva la vita in un duello alla pistola col Di Cesarò, combattimento provocato dalle lotte intestine di quel municipio.


1868-70. De Broylie-de Trédern; il duca di Montpensier e l’infante don Enrico di Borbone. — Non è sempre vero che tra i parenti debba regnare sovrana la pace; anzi, spesso gli odii tra i parenti sono più profondi e più.... tenaci, che non tra coloro, che nessun legame di sangue o interesse di famiglia li unisce.

Un esempio di queste dolorose discordie famigliari ce lo dettero i signori de Broglie e de Trédern, cognati.

Il secondo, in seguito alle deposizioni del de Broglie in un processo a suo carico, ad Angers, scrisse al cognato una lettera ingiuriosissima, che provocò una sfida da parte del de Broglie, in seguito alla quale, fu concordato un duello alla spada. Nel combattimento il de Broglie fu ferito gravemente al costato.

L’esempio di combattimenti singolari tra parenti era stato dato in precedenza da Paul de Cassagnac e da Lissagaray, cugini germani, in seguito a insulti da quest’ultimo fatti alla famiglia Cassagnac. Il duello avvenne con la spada e l’offensore rimase ferito [agosto 1868]33. [p. 136 modifica]


E fu due anni dopo, cioè il 12 marzo del 1870, che il duca di Montpensier uccise, a Madrid, in un duello alla pistola, il suo cugino germano, l’infante don Enrico di Borbone.

Gli esempi dall’alto scendevano frequenti, come si vede; nè può quindi fare meraviglia, se due cognati attentassero più tardi alla propria esistenza duellando con la spada.


1869. Mazzacorati-Pizzardi. — Mai nessuna città si commosse quanto Bologna, quando tra le sue mura cadeva esanime al suolo, per ferita di duello, il marchese Giovanni Mazzacorati.

Le origini vere di questo terribile abbattimento cavalleresco non furono mai conosciute, per dirlo alla moderna, officialmente. Sta il fatto, che un alterco al Circolo, servì di buon pretesto ai due antagonisti di por fine, con un duello, ad una profonda scissura, molto intima e molto personale, tra di loro.

Il duello accadde il 28 febbraio 1869. La Gazzetta dell’Emilia di allora, però, non ne fa cenno; l’Ancora (clericale) si limita a stigmatizzare, inorridita, l’uso barbaro del duello; solo il Monitore34 ce ne racconta un po’ di più.

Bologna, ore 12.

«In questo momento ci si dice avvenuto un duello, di cui parlavasi da più giorni, fra i signori marchese Mazzacorati e marchese Pizzardi.

«Il Mazzacorati sarebbe stato gravemente ferito, alcuni anzi lo dicono morto. Il duello ebbe luogo alla pistola. La [p. 137 modifica]città è preoccupatissima dell’accaduto, che la civiltà dei tempi ripudierebbe come impossibile, se pur troppo non fosse un fatto».

Povero Monitore! Ci vuol altro che civiltà! Basterebbe che le belle e generose donne filassero diritte sul cammino della fedeltà coniugale...; ma lasciamo lì certi discorsi scabrosi e torniamo al Monitore del 1 marzo 1869.


«Era vero! Il marchese Giovanni Giuseppe Mazzacorati è morto.

«Incontratosi col marchese Pizzardi rimase spento al primo colpo dell’avversario. La palla lo ferì alla tempia a bruciapelo, perchè gli avversari avevano prese le mosse da una distanza di dieci passi e potevano avvicinarsi e pigliar di mira a piacimento. La premeditazione era implacabile, certo furibonda barbarie. La pena di morte fu chiamata un misfatto legale, questo fu un assassinio cavalleresco, se cavalleria è giuocare una nobile vita sul capriccioso volo di una palla.

«Il duello ebbe luogo a Caselvatico, in una villa di Marco Minghetti; la voce pubblica afferma che non ci fu padrini(?), ma testimoni. Strana differenza invero e sottil causistica per assistere senza rimprovero alla tragedia scellerata! Aspettiamo pertanto una relazione che dica se e come a taluno fosse dato di contemplare il truce spettacolo di questa scena di sangue.

«Ripetiamo ciò che abbiamo detto: è inconcepibile che una sfida, di cui tutta la città sapeva da più giorni, abbia potuto aver luogo in tali condizioni.

«Il giovane spento apparteneva, come l’uccisore, ad una delle più distinte e ricche case bolognesi. Dimostrò ingegno operoso e fu in molti studi versato, specialmente nei musicali. Dalla politica fu sempre lontano35; ma [p. 138 modifica]nell’ultima guerra36, quando si trattava di combattere non a parole, ma coi fatti, seguì Garibaldi nelle Guide volontarie, ed ebbe il premio dato al valore.

«Un sentimento forse esagerato, ma nobilissimo e tale che veramente riflette le tradizioni della vecchia cavalleria, lo trasse a provocare il pericolo ed affrontarlo: fu un’aberrazione crudele, un cuore pagato a prezzo di una nobile vita di operoso e distinto cittadino.

«Nulla diremo dell’uccisore; egli fu provocato in tali condizioni che gli sarebbe stato impossibile rifiutare il cimento. Giustizia vuole che, piangendo l’estinto, non si trasmodi contro il superstite, il quale fu messo in tale condizione da non poter esimersi dallo scendere sul terreno alle condizioni imposte dal marchese Mazzacorati.

«Fu quest’ultimo che regolò ogni cosa, e il marchese Pizzardi non ebbe che a piegare il capo, non senza avvertire fino all’ultimo, che in faccia ai presenti ed al paese intendeva respingere qualunque responsabilità di partecipazione volontaria a quanto stava per avvenire.

«Ecco un particolare dolorosamente futile. Quando furono sul terreno, il Mazzacorati dispose tutto; fu egli che scelse il campo su un seminato di canapa. Pizzardi sorridendo disse:

— Ma qui parmi che si farà danno al Minghetti, calpestando canapa in erba.

— Uno dei due, rispose cupo e serio il povero Mazzacorati, rifarà il danno e ingrasserà il terreno».


E al 2 marzo il Monitore rettificava:

«Le persone che furono testimoni senza essere padrini al duello (!), non poterono rifiutarsi alla preghiera di dovere [p. 139 modifica]colla loro presenza attestare al mondo, come quei due giovani sciagurati si fossero portati con rigorosa lealtà sul terreno, dove li aveva portati un reciproco accordo contrattuale, dibattuto fra loro punto per punto, parola per parola e di cui la conclusione doveva essere la morte di uno dei due.

«Non è vero che fosse data facoltà ai duellanti di avvicinarsi oltre i dieci passi stabiliti; fermi a quella distanza dovevano far fuoco, il Mazzacorati diede il segno e Pizzardi scattò il colpo fatale: la palla colpì nella tempia, spezzando il cranio e, penetrata nel cervello, spense istantaneamente la fiamma della vita; il ferito protese le braccia innanzi, girò e rigirò sopra sè stesso e cadde: tutto era finito.

«Tanto il Pizzardi che il Mazzacorati avevano portato con sè due revolvers. Quelli del primo comuni; quelli dell’altro di precisione. La sorte decise per questi ultimi!»


Il compianto nella sua giustizia equanime, abbracciò ucciso ed uccisore, perchè se il primo giaceva cadavere, il secondo non si dava pace del risultato funesto di un duello «illegale» a cui era stato trascinato dalla ferrea volontà del morto!

Ambedue ottimi giovani per elevatezza di mente e di cuore: ambedue eccellenti tiratori; tutti e due pieni di vita, di un grande sentimento della personalità, subirono l’impulso fatale del punto d’onore, che non concedeva loro transazioni o debolezze!

Così va il mondo! Per fare il bucato all’onore non c’è che il sangue.... Ma, quanto? chiedo io.


1870. Trombetta e Cognetti. — Se non erro, perchè incerti sono i dati che ho potuto procurarmi su questo duello [p. 140 modifica]mortale, lo scontro tra il signor Trombetta, assistito da Carlo Alberto e da Francesco Bracale, ufficiale, e il Cognetti, patrocinato dal march. Augusto Pulce Doria e da Filippo Carrilli, accadde il l.° gennaio del 1870.

Il motivo del combattimento fu una polemica giornalistica tra il Trombetta ed il sacerdote Cognetti (fratello della vittima), che in quell’epoca dirigeva il giornale clericale «La Discussione37».

Restando sempre nel campo impersonale e imparziale del narratore, dalle poche note raccolte pare che il Trombetta avesse attaccato con molta violenza il sacerdote Cognetti, che difendeva a spada tratta, e forse in buona fede, nella Discussione, le famose banche-truffe, che davano il 20 e perfino il 30 per cento al mese, sui denari presso di esse impiegati; banche tutte che finirono con un crach formidabile, l’eco del quale non è per anco spenta in Napoli.

Il direttore della Discussione, essendo sacerdote, non poteva scendere in sottana e cocolla nel campo del duello, benchè anticamente ciò facessero e preti e frati ed eminenti prelati; e perciò incaricò il fratello suo, di chiamare a singolar tenzone il giornalista Trombetta. I «si dice», farebbero ritenere che il Cognetti fosse uno schermitore di vaglia, e che prima della lotta cruenta avesse manifestato l’intenzione di segnare per l’eternità il volto del suo avversario.

Il Trombetta, informato di ciò, ne rise e benchè si dichiarasse profano nell’arte di maneggiar la sciabola, sul terreno offriva sempre il braccio al ferro dell’avversario, mantenendosi costantemente a regolare misura. Il concetto del Trombetta, infine, era questo: una sciabolata al braccio, che io mi pigli, non sarà gran male; ma per l’avversario spavaldo e per giunta schermitore, sarà uno smacco fenomenale quello di non aver potuto realizzare la minaccia solennemente ripetuta. [p. 141 modifica]

Ed il Cognetti, invero, mirava sempre al volto, aspettando che il Trombetta si scoprisse, o serrasse la misura. Ma il Trombetta, come Gosto del Guadagnoli: duro!

Dopo parecchie messe in guardia senza risultato, Carlo Alberti, figlio di quell’Adamo Alberti, allora impresario del teatro dei Fiorentini, e nella cui villa, parmi al Petrajo38 si faceva il duello, si avvicinò al suo cliente, Trombetta, per esortarlo a prendere qualche volta l’iniziativa dell’attacco, per non rimanere sempre sulla difensiva.

Il Trombetta non si fece ripetere il consiglio, e alla ripresa del combattimento, si mosse per l’avanzata scoprendosi. Il Cognetti, creduto il momento favorevole per segnare il viso dell’avversario, fa rapidamente un passo in avanti e si getta da sè sulla punta della sciabola avversa, che gli penetra nella parte superiore del ventre.

La ferita di per sè stessa non sarebbe stata mortale, almeno così opinarono i presenti; ma lo divenne, perchè il ferito, parando di quarta e di picco, quando era già stato toccato, costrinse la sciabola del Trombetta ad un movimento laterale, di modo che dal ventre, orrendamente squarciato, uscirono gli intestini.

Il Cognetti morì sul colpo, senza poter profferire una parola.


Altri invece così m’hanno informato su questo duello, ch’è sulla bocca di tutti a Napoli, mentre è difficile, se non impossibile, rintracciarne documenti attendibili.

Il Cognetti ex-ufficiale di cavalleria, forte schermitore, era ritenuto la lancia spezzata del Conciliatore, e prima di battersi col Trombetta aveva di già sostenuto, credo, quattordici duelli. [p. 142 modifica]

Il Trombetta, ex-garibaldino, aveva al suo attivo solamente cinque duelli, tutti a lui favorevoli, malgrado che una fortissima miopia lo affliggesse. Era, però, dotato di un sangue freddo meraviglioso.

I due avversari furono messi in guardia tre volte, perchè lo spazio era limitato; alle due prime, il Trombetta, che indietreggiava, fu toccato di piatto alla spalla e al braccio. Alla terza messa in guardia, l’Alberti invitò il Trombetta a tener duro. All’invito, il Trombetta avanzò con un colpo di punta, che ferì il Cognetti al 3.° spazio intercostale, recidendo la vena cava e forando il polmone destro.

Dopo tre minuti il Cognetti spirò, dando sangue per la bocca.

All’alt il Cognetti esclamò: «Io non sono ferito»; e Trombetta: «Ma io non l’ho toccato!»

Trombetta lasciò immediatamente il terreno, ma i padrini vegliarono il cadavere fino a che non giunse un parente dell’Alberti, a cui lo affidarono.

Al duello seguì il processo; il Trombetta fu condannato al massimo della pena: 5 anni di carcere. I secondi assolti.

Pendente l’appello contro questa sentenza, il Trombetta morì per tisi, e non era per anco trascorso un anno dal lugubre scontro.


1872. Conte de M** e l’ufficiale tedesco S**. — Il conte di M** durante la guerra Franco-Prussiana fu assegnato ad un reggimento di dragoni. A Sédan, seguì la sorte degli altri, fu fatto prigioniero; fu tradotto a Glogau, dove restò internato durante tutto il tempo della sua prigionia. Trattato abbastanza male da un ufficiale dell’esercito tedesco, certo S**, il conte di M**, tornato in Francia, non ebbe altro pensiero, tranne quello di provocare il suo insultatore. A questo scopo dette le proprie dimissioni ed appena le ottenne, scrisse una lettera quanto mai ingiuriosa all’ufficiale tedesco, che rispose: «Dopo il vostro insulto vi prego di farmi conoscere il nome e l’indirizzo dei vostri padrini». [p. 143 modifica]

Il conte di M** fu assistito dal conte H. de Villers e dal signor de Berny, suoi amici; l’avversario scelse due colleghi tedeschi.

I quattro padrini si riunirono, all’indomani, in casa della cognata del conte M** per intendersi sulla scelta delle armi, sul luogo del combattimento e sulle condizioni dello scontro. Proposta degli ufficiali tedeschi, fu accettata la sciabola; fu stabilito che il duello avrebbe avuto luogo alla frontiera austriaca; ma, dopo discussioni, si prescelse il granducato di Lussemburgo. I combattenti concordarono di portare la maschera da scherma durante lo scontro.

Il combattimento ebbe luogo il cinque di marzo del 1872. Alle due del pomeriggio, i due avversari furon messi di fronte in una località, distante circa due chilometri da Lussemburgo. Colla parte superiore del tronco nuda, i due avversari si precipitarono contro, non tirando di taglio, ma sempre cercando di ferire di punta. Ambedue, dopo il primo attacco, furono sobri di movimenti. Attaccarono con legamenti, con cavazioni, con leggere battute di sciabola, mantenendo per quanto possibile la punta in linea. Finalmente, l’ufficiale tedesco andò a fondo sull’avversario: il conte di M**, calmo e sicuro, retrocedette in presenza della punta nemica, parò, rispose e toccò il petto dell’ufficiale, il quale, non potendo parare col ferro, deviò il colpo mortale col dorso della mano sinistra, che ne rimase leggermente escoriata. Rinculando sempre, l’ufficiale tedesco cadde, ed il conte s’arrestò; anzi, aiutò l’avversario a rialzarsi. I testimoni ricollocarono i duellanti al posto del primitivo combattimento, e, circa dieci minuti dopo, l’ufficiale tedesco riceveva una puntata in pieno petto che gli traversava il fegato; mentre il conte di M** veniva toccato non gravemente nella parte superiore del petto. I padrini accorsero vedendo l’ufficiale tedesco annaspare, barcollare e cadere per non più rialzarsi.

Otto ore dopo egli era cadavere freddo. [p. 144 modifica]


Aprile 1873. Ritter-Appleton; il principe Nicola Ghika e il principe Soutzo. — Indovinate: perchè una freddezza straordinaria regnava tra il signor Ritter, ricevitore delle finanze e il signor Appleton, sottoprefetto!

Per visite fatte e non rese!...

S’incontrarono per fatalità in una serata, e dopo una lunga serie di spiegazioni incresciose, troppo lunghe a narrare, il signor Ritter ingiunse al signor Appleton di salutarlo, esclamando:

— Voi lo farete; o col mio guanto vi colpirò al viso!

Un pezzo di musica interruppe il diverbio.

Quando i suoni tacquero, il signor Ritter, volgendosi di nuovo al sottoprefetto ad alta voce e con tono di comando:

— Venite, signore, è giunto il momento!

E come il signor Appleton vi si rifiutò, Ritter gli scagliò il guanto sul viso.

Il sottoprefetto gli assestò un ceffone.

All’indomani, Appleton si reca da un amico e, narrandogli l’accaduto, gli dice che Ritter non gli ha per anco mandati i padrini, e chiede consiglio, se deve lui prendere l’iniziativa. L’amico lo consiglia di attendere e di considerare la cosa come esaurita, se Ritter non si fa vivo.

Ritter a sua volta resta in attesa dei padrini del sottoprefetto. Passano alcune settimane, durante le quali, gli abitanti di Mayenne tagliano poco cristianamente i panni addosso ai due avversari; li accusano di viltà, sicchè l’opinione pubblica li bolla e li costringe a muoversi.

Finalmente si viene allo scambio dei padrini, che, dopo interminabili discussioni, riconoscono ad Appleton la qualità di offeso. Il sottoprefetto sceglie la pistola e nel duello al segnale, al comando, il sottoprefetto vi lascia la vita.

«Au signal donné, dice l’atto di accusa39, la pistola [p. 145 modifica]del signor Ritter fece cecca; quella del sottoprefetto Appleton fece fuoco al terzo colpo (!) e la palla sfiorò il primo senza, però, ferirlo.

Fu osservato, che dopo aver constatato, essere la sua pistola rimasta muta allo sparo, il signor Ritter non l’aveva alzata immediatamente, ed aveva continuato a tener di mira l’avversario.

Ciò non era conforme alle leggi cavalleresche, perchè, se la pistola avesse fatto un long feu, cioè uno sparo in ritardo, avrebbe dato campo a giudizi severi sulla condotta del signor Ritter, benchè non fosse stato riconosciuto colpevole di alcuna slealtà durante lo scontro.»

E con queste argomentazioni bizantine, il signor Ritter se la cavò a buonissimo mercato.


1873. — Il 23 novembre 1873 alle nove del mattino, a Parigi, ebbe luogo il duello tra il principe Nicola Ghika ed il principe Soutzo. Si batterono colla pistola a venti passi di distanza. I testimoni avevano caricato le armi con doppia carica, fiduciosi che le palle, spinte da troppa forza, andassero a sbattere lontano dai duellanti. I due avversari spararono insieme e Ghika colpito al basso dell’anca, ricevette la palla avversaria nella vescica. Appena videro cadere l’infelice, Soutzo e i suoi testimoni fuggirono. I padrini di Ghika si precipitarono invece in soccorso del ferito, lo collocarono pietosamente in una vettura, e a piedi fecero le tre leghe che li separavano da Fontainebleau.

Trasportato dai medici e dai padrini all’albergo del Cheval Blanc, il principe Ghika fu curato con tutte le risorse, che la scienza poteva suggerire; ma che, davanti allo stato gravissimo del ferito, riuscirono infruttuose, talchè il principe in breve morì. [p. 146 modifica]


Il processo si svolse davanti alla Corte d’assise di Mélun, presieduta dal consigliere Try.

Insieme al principe Soutzo, che entra a testa fieramente levata, prendono posto i coaccusati Nicolaïdy e Mavromichalis, Gregorio Ghika e Cortazzi. Questi ultimi due padrini di Nicola Ghika.

L’atto d’accusa riassume brevemente il duello in questi termini:

«Il 23 novembre ultimo, verso le dieci del mattino, due carrozze si fermavano sulla strada della Belle-Croix, nella foresta di Fontainebleau.

In una si trovavano gli accusati Soutzo, Nicolaïdy e Mavromichalis; nell’altra Nicola Ghika, Cortazzi, Gregorio Ghika e il signor Valtat interno dell’ospedale della Riboisiêre. Soutzo e Ghika si battevano in duello; l’arma scelta era la pistola, e gli avversari, collocati a venti passi, dovevano sparare insieme al comando di: tre. Dopo di avere scelto il terreno, segnata la distanza, misurando con passi molto lunghi, e dopo aver caricato le pistole con carica eccessiva allo scopo di diminuire le probabilità di colpire, i testimoni collocarono i duellanti. Mavromichalis dette il comando di tre, seguito da due detonazioni; Nicola Ghika si ripiegava su sè stesso, mortalmente ferito. All’indomani spirava nell’età di 24 anni».

La suora che lo assisteva, dichiarò che Ghika, nel delirio, esclamava: «Non un uomo avevo di fronte, sibbene un barbaro!» Un ufficiale che aveva servito nello stesso reggimento di Soutzo, depose che sapeva l’antico compagno d’armi per un fortissimo tiratore di pistola, che più volte aveva duellato, e soggiunse: Quando vidi chiamare Ghika per collocarlo sulla linea, mi parve di vedere un agnello condotto alla macelleria. — L’autopsia constatò che Ghika era morto vittima di un’emorragia addominale, causata dal proiettile, che gli aveva attraversato tutto l’addome. [p. 147 modifica]

Il principe Soutzo, nato nel 1841 ad Atene, vi era professore di fortificazione; nel 1856 si recò a Parigi per fare gli studi classici; era entrato nella scuola d’applicazione di Metz, ne uscì per assumere servizio in un reggimento di genio, in qualità di ufficiale straniero. Nel 1869 andò in Rumania, ove condusse in moglie Natalia Maurogheni, figlia del ministro delle finanze rumene, da cui ebbe un figlio nel 1870.

In una sera di quell’anno, trovandosi il principe Soutzo al teatro dell’Opera di Bucharest con la principessa sua moglie e con la sua cognata, schiaffeggiò un tal Catargi, parente della moglie. Ne seguì un duello nel quale Catargi ebbe la peggio.

Nel 1872 si separò dalla moglie, che non voleva seguirlo in Grecia e riusciti vani i tentativi di riconciliazione da parte del suocero, il principe Soutzo condusse seco il figlio, attraverso la Bessarabia; ma ai confini fu arrestato e ricondotto a Bucharest. Negli uffici del prefetto di polizia, Soutzo s’incontrò con il principe Ghika, che, pare, si fosse interessato affinchè il piccolo Soutzo fosse restituito alla madre. Di qui l’odio profondo che il principe Soutzo nutriva per Ghika.

Nel 1873 il Soutzo raggiunse la moglie a Parigi, ove più volte ebbe occasione d’imbattersi in Ghika, parente di sua moglie. Il 23 novembre, incontratolo in via Saint-Petersburg, Soutzo scese di carrozza, schiaffeggiò il giovane Ghika e tranquillamente rimontato in vettura si allontanò. Più tardi Soutzo mandava il proprio indirizzo allo schiaffeggiato Ghika. Il duello fu deciso e Ghika, che era ritenuto come uomo di carattere dolce, pieno di cuore e franco, vi perì.

Il principe Soutzo fu condannato a quattro anni di prigione e i suoi testimoni a tre; i padrini di Ghika a due anni della stessa pena.


Nel 1873. Sciacca e Scelsi. — A Barcellona, grosso paese in quel di Messina, un duello con la sciabola aveva luogo tra lo Sciacca e lo Scelsi. Lo scontro fu provocato da un [p. 148 modifica]diverbio; ma se la causa era futile, lo scontro fu serio, perchè lo Sciacca vi perdette la vita.


1874 (6 gennaio). Falevolti e marchese Ridolfi. — La sera del 6 gennajo del 1874, a Firenze non si parlava d’altro:

«Falevolti è morto!».

«Ridolfi ha ucciso in duello Falevolti!»

I commenti più svariati succedevano ai commenti più stravaganti e tutti si chiedevano:

— Come mai il marchese Cosimo Ridolfi, che non sa tenere un’arma in mano, ha potuto uccidere il Falevolti, formidabile schermitore?

Il duello aveva tratto origine da un diverbio sorto tra alcuni spettatori del loggione del teatro della Pergola, troppo eccessivamente entusiasti di un certo ballo, e alcuni giovani eleganti della cosidetta barcaccia, da dove si suppose che fosse partita un’ingiuria all’indirizzo di coloro che si distinguevano nel focoso entusiasmo. Terminato lo spettacolo, i fanatici ammiratori delle danze e delle ballerine, aggredirono e percossero un marchese, ritenendolo autore della supposta ingiuria. Ma constatato l’errore enorme, all’indomani gli aggressori andarono a chiedere scusa al marchese percosso: T. de N. — Tra questi, chi si riteneva maggiormente offeso, era un certo Luigi Falevolti. Sotto l’irritazione della supposta ingiuria, l’irritato Falevolti credette opportuno di mandare a chieder ragione dell’insulto al marchese Cosimo Ridolfi, nuovo presunto autore di quella incerta provocazione.

Il marchese Ridolfi non sofisticò; cercato non si ritrasse, ed accettò la sfida senza preoccuparsi del perchè, del come e da chi gli veniva.

Affidò la cura di definire la vertenza a due suoi amici, Augusto Charles e Alberto Brugisser, ed attese.

Il Falevolti era rappresentato da certi signori E. Fontebuoni e Bacci. [p. 149 modifica]

Le trattative tra i rappresentanti furono lunghe e difficili; ma per superare le difficoltà, che ad ogni momento sorgevano e di non facile soluzione, i rappresentanti del marchese Ridolfi accettarono quasi tutte le condizioni di duello richieste dagli avversari.

Il Falevolti era un frequentatore assiduo delle sale di scherma; da venti anni si esercitava nello schermire di sciabola e godeva reputazione di forte sciabolatore. Il Ridolfi, invece, non s’era mai occupato di quella salutare arte, che s’addimanda scherma.

Il 6 di gennajo alle due del pomeriggio gli avversari s’incontrarono in una villa presso l’Antella. Messi di fronte con le formalità d’uso, il Falevolti attaccò vigorosamente l’avversario con un fendente, parato dal marchese, che rispose con un colpo di punta. La sciabola del Ridolfi incontrò il petto del Falevolti, e, penetrata nella cavità toracica, tra la settima ed ottava costola destra, per sette centimetri, aveva offeso l’aorta e provocato una emorragia interna che condusse a morte il ferito, dopo sei ore e mezza di atroci sofferenze.


1875. Mancini e Bennati40. — Il capitano cav. Eugenio Mancini, figlio di un celebre avvocato ed uomo politico di gran valore, era amicissimo del Giuseppe Bennati, addetto al Banco di Napoli e figlio al commendatore Filippo, direttore generale delle Gabelle.

Una lettera anonima mise l’inferno nel cuore al capitano Mancini. In essa lo si avvertiva del tradimento della moglie col suo più fidato amico, e gli indicava il modo di sorprendere i due colombi ne’ loro colposi colloqui.

Il marito oltraggiato si recò tosto al luogo designato [p. 150 modifica]dall’anonimo; entrò in una casa in via Unione, salì le scale e bussò all’uscio ch’eragli stato descritto. Purtroppo l’anonimo aveva denunciato giusto. Fu il Bennati in persona che, credendo fosse la cameriera, aperse la porta al tradito marito il quale, penetrando furibondo nella stanza, vi trovò la consorte.

Il giorno del Corpus Domini, mentre le campane rallegravano co’ loro squilli pettegoli la monotonìa della brughiera milanese, due carrozze si seguivano sulla polverosa strada di Bollate. I due veicoli abbandonarono la strada principale, al punto dove anche ora sorge una piccola casetta, sulla facciata della quale è dipinto lo stemma di casa Borromeo.

Dopo breve tragitto le due carrozze si fermarono allo sbocco di una viottola, in una radura, ombreggiata scarsamente da stentati salici. Dalla prima discesero il Bennati co’ suoi rappresentanti; dalla seconda il capitano Mancini, co’ suoi padrini ed il medico.

Le parti avversarie si aggrupparono ad una certa distanza, dietro una lunga siepe di biancospino in fiore.

Dalla cassetta della prima vettura furono estratte col loro astuccio, due pistole, che furono esaminate, esperimentate e poi caricate dai padrini avversari. Poi furono passate ai rispettivi duellanti.

Fino a quel momento, nessuno di tutti i presenti aveva aperto bocca, come se fossero stati sopraffatti tutti da un angoscioso presentimento.

D’un tratto s’udì la voce del direttore del combattimento, che con laconismo spartano, disse:

— Nemmeno è presentabile od accettabile qualsiasi proposta di schiarimenti e di spiegazioni?... adempio ad una formalità....

I due aversarî crollarono sdegnosamente le spalle.

— Sta bene! riprese il direttore del duello, alla sorte spetta indicare chi debba far fuoco per il primo, a venti passi e successivamente avanzando.

Con voce breve, nervosa, a scatti, riassunse le condizioni di scontro. Poi, la sorte decise che il capitano Mancini [p. 151 modifica]avrebbe sparato per primo. I padrini, frattanto, collocano i duellanti al limite fissato; si allontanano e dopo un secondo di sosta:

— Signori, a voi!

Il capitano Mancini raccolse il braccio sinistro sul petto; alzò col destro la pistola, mirò e fece fuoco. La palla era penetrata in pieno torace del Bennati, che girò su sè stesso e giacque al suolo.

Accorse il medico; accorsero i secondi; il projettile aveva leso i visceri, nulla c’era da fare. Il travaso di sangue soffocava il ferito, alle labbra del quale un singulto straziante faceva venire una schiuma sanguigna.

— È un uomo morto; non si salva! esclamò il medico apponendo il primo e sommario apparecchio.

Il corpo di Giuseppe Bennati, di cui non s’aveva altro segno di vita, che nel rantolo spasmodico dell’agonia, fu adagiato sopra un materasso posto in una terza carrozza, fatta venire in precedenza. Il medico gli si pose di fianco.

Il capitano Mancini e i suoi padrini avevano di già abbandonato il luogo ferale, seguiti quasi subito dai padrini del Bennati.

Ricoverato in una stanza di una casa di salute di Senaghino, il Bennati ebbe il conforto di rivedere il padre suo, nelle braccia del quale spirò l’8 di giugno.

La scienza pietosa fece sapere al pubblico, che il giovane Bennati era morto in conseguenza di una pleuro-pneumo-traumatomia! Ma il pubblico sapeva ch’egli era caduto sotto la palla di un marito, di cui aveva sedotto la moglie, lasciandosi da lui cogliere in flagranza di.... reato.

Di quel duello, scrisse Giarelli:

«Di quella coppia, di quell’amore illegittimo, di quella delazione della camerista, di quella sorpresa, di quello scandalo indicibile, dell’enorme impressione nel pubblico pel fatto in sè, per gli attori, e per le loro famiglie — pochi sono in Italia i quali potrebbero, come posso io, ricordare e narrare persino gli indistinti e minimi particolari. In quei tempi — come lo sono sempre ancora — io era intrinseco dell’avvocato Pier Ambrogio Curti, intimo di Pasquale Stanislao [p. 152 modifica]Mancini, padre del capitano Eugenio. E Mancini e la sua illustre signora Laura Beatrice Oliva Mancini avevano compromessa nell’avv. Curti ogni loro autorità e facoltà, affinchè le conseguenze del caso miserando fossero, al più possibile, attenuate. Anche Augusto Pierantoni, allora deputato, oggi senatore, cognato del capitano Eugenio, la cui colta sorella, Grazia Mancini, egli aveva sposata, venne a Milano, e cooperò col Curti a minorare, se fattibile, i tristi corollari della fiera anormalità.... Ed ecco come, di quella domestica tragedia, l’atto rappresentatosi a Milano, l’ho ancora tutto qui, integro e minuto, nel più riposto seno cerebrale.

Evelina Kattermol, nel 1875, aveva venticinque anni, ed era sposa ad Eugenio Mancini da parecchi. Nasceva a Firenze da un professore inglese, che insegnava il francese. Se non bellissima, piacentissima, era bionda, sottile, eterea, intelligente, fina e mordace. Alle sue nozze molti avevano auspicato, fra cui il povero Medoro Savini, grande amico di casa Mancini. La luna di miele — ahimè! — fu rapida. Ma non rimescoliamo le ceneri del passato. Non rettifichiamo tutte le inesattezze retrospettive, oggi gabellate per fatti, fra le quali l’accennata morte, per suicidio, della cameriera, che per rivalità sarebbe corsa a denunciare la sua signora in flagranza di fallo al marito, che in quel momento trovavasi in una trattoria di via Unione, e poco discosta dalla sua abitazione di via Torino: onde il fulmineo ritorno a casa del tradito consorte e la scena violenta che ne seguì, con difficilissima ritirata dei due complici. Suicidio compiuto non fu quello della camerista; ma solo tentativo: l’appressò alle labbra la fiala dell’acido solforico, ma non ingoiò il tremendo beveraggio, che le bruciò la gola, il palato, la bocca, e il viso: e la lasciò per del tempo, superstite, colla compagnia dell’orrendo rimorso per la successiva tragedia. Non ho dimenticato il tetro dibattimento, in cui difeso, non dal padre Mancini — come scrivono oggi — ma dal cognato Pierantoni e dal compianto Napoleone Perelli — il capitano Eugenio fu assolto, con ammissione per lui della discriminante prodotta dalla forza irresistibile, suscitata dall’onor suo oltraggiato. Ricordo le dimostrazioni patologiche della Kattermol, la quale, [p. 153 modifica]nel lutto più pesante, continuò per mesi a recare ogni dì una ghirlanda di fiori sul tumulo dello spento amico. Ricordo i suoi successivi conforti, nei quali ebbe parte — dicevasi — anche un antico amico collega nostro41, che talora viaggiava all’estero....

E tante altre cose ricordo — e tante altre potrei rettificare ed aggiungere sul poi....

Ma a che pro questa vivisezione d’una povera salma? Le sia lieve la terra e vi dorma in pace42.


Agosto 1876. Ollivier-Feuilherade43. — Il duello nel quale Ollivier lasciò la vita, non è certo tra quelli che si possono citare come esempio di scrupolosa osservanza delle leggi d’onore. Malgrado i pretesti co’ quali i padrini d’Ollivier velarono la verità sul cartello di sfida, fu confermato dal procedimento penale, che la causa determinante lo scontro fu la gelosia per una certa signora, che viveva alle spese dell’Ollivier, della quale questi era innamorato pazzo, mentr’ella lo ingannava col primo venuto.

Feuilherade, si disse, aveva ottenuto gli intimi favori di costei; quindi, uno scoppio d’ira, seguito da una grave provocazione da parte dell’Ollivier.

I rappresentanti di Feuilherade, invece di seguire quanto le leggi cavalleresche impongono ai padrini, invece di metter cenere sul fuoco suscitato dal risentimento dell’offesa, e ricondurre la vertenza alle sue giuste proporzioni, sostituendo ai motivi apparenti quelli reali, si lasciarono accalappiare dalla abilità diplomatica dei rappresentanti avversarî, che li [p. 154 modifica]confusero con ragioni e argomentazioni speciose, strappando bellamente loro tutti i diritti, che al signor Feuilherade garantivano le consuetudini cavalleresche.

Infatti uno dei padrini di quest’ultimo, interrogato dal presidente delle Assise della Senna (agosto 1876) confessa ingenuamente «di aver accettato l’inserzione sul verbale di parole molto esagerate»; mentre un testimone dell’Ollivier al presidente che domanda:

— Perchè avete inserito nel verbale le parole gravemente offeso, mentre sapevate, che per una causa di simil natura l’onore non c’entra per nulla?

Risponde:

— È vero; le parole «gravemente offeso» erano troppo forti; ma spettava ai testimoni del Feuilherade di opporvisi. Infine, bisogna bene che ciascuno reciti la sua parte. Noi avevamo ricevuto il mandato dall’Ollivier di ottenergli questo privilegio....

Sul terreno erano state portate alcune paia di spade da ciascuna parte. La sorte indicò quelle portate dal Feuilherade; ma i testimoni d’Ollivier non avendole trovate abbastanza acuminate, le respinsero e furono sostituite con quelle dell’Ollivier, contrariamente alle leggi d’onore.

Alla terza ripresa Ollivier va a fondo con una impetuosità estrema, attaccando senza curarsi di rimaner coperto; di conseguenza s’infilò e morì.

Il cadavere fu trasportato a Longwy per esservi imbalsamato.

In allora i medici constatarono, con grande loro meraviglia, che la parte destra dell’addome era protetto da una cintola munita di mia corrazzetta di circa 25 centimetri, capace di arrestare il più formidabile colpo di spada, senza che somigliasse a quei cinti in uso presso coloro che sono affetti da ernia; nè l’esame scrupoloso rilevò che l’ucciso soffrisse menomamente di tale infermità.

In grazia a questa corazza di nuovo genere, Ollivier, premunito da ogni pericolo nelle parti più pericolose e basse del suo corpo, coperto nelle linee alte dalla guardia, era pressochè sicuro di non esporre la pelle; ma, come il [p. 155 modifica]diavolo, se fa la pentola, non fa il coperchio, la temerità perdette l’Ollivier44.

Un’altra questione grave fu discussa nel dibattito davanti alle Assise; e cioè, se il combattimento doveva o no essere sospeso, quando uno dei duellanti fosse affaticato.

Nel processo di scontro non si tenne parola dei riposi, e delle riprese del combattimento. Però, sino dai primi attacchi, avendo l’Ollivier speso molta energia, da rimanere quasi esausto di forze, fece segno a uno de’ suoi padrini, che comandò l’alt, e ordinò il riposo, dopo averne strappato l’assenso ai testimoni del Feuilherade.

Dallo svolgimento, poi, del processo risultò una cosa ben più curiosa. In un precedente duello tra Ollivier e de Fontenay, questi toccò quelli all’addome; ma la spada dell’avversario si spuntò e piegò sulla pelle dell’Ollivier (sfido, vi era la corazza!) come se avesse urtato su un corpo duro. Risultò pure che uno dei testimoni dell’Ollivier nel duello con de Fontenay, e che pure assisteva l’amico nello scontro con Feuilherade, si accontentò di raddrizzare la lama, ordinando la continuazione del combattimento. Nè i testimoni del signor de Fontenay non si preoccuparono del fatto, nè si incaricarono di verificare la ragione, la causa inverosimile dell’accaduto, essendo fuori delle umane concezioni la credenza, che una spada ben aguzza non penetri, ma si spunti e si pieghi sulla pelle di un uomo.

Ma è pur vero: tanto va la gatta al lardo, che ci lascia lo zampino; e quello stinco di santo dell’Ollivier, malgrado la corazza, pagò caro la prodizione cavalleresca.


1877. Clovis Hugues e Daime. — Riassumo dalla Jeune République del 4 dicembre del 1877. [p. 156 modifica]

Gl’imputati sono Clovis Hugues, giornalista, di ventisei anni, nato a Ménerbes;

Mallet Antonio Bartolomeo, parrucchiere, di trentasette anni, nato a Marsiglia;

Mellau Bartolomeo, professore, di trentasette anni, nato a Marsiglia;

Daime Alessandro, piazzista, di ventitre anni, nato a Vitrolles;

Jourdan, impiegato, di vent’otto anni, nato a Marsiglia.

L’atto d’accusa dice che Clovis Hugues, redattore del giornale la Jeune République, avendo creduto di riscontrare alcune insinuazioni offensive per l’onore della sua signora, in un articolo pubblicato da Daime, detto Désire Mordant, redattore del giornale Aigle, gli mandò i suoi padrini, i quali abboccatisi con quelli avversari e non essendo riusciti a conciliare le parti, concordarono un duello alla spada fra i loro rappresentati. Il tre dicembre 1877, gli avversari si trovarono di fronte in un bosco deserto, nelle vicinanze di Marsiglia.

Riuscito vano un ultimo tentativo di riconciliazione, i due avversari furono collocati di fronte, essendo stato stabilito che il duello cesserebbe al primo sangue.

Sino dai primi attacchi, Daime sfiorò due volte la camicia e la spalla destra dell’avversario dicendo: vi ho toccato. Pochi istanti dopo Daime fu colpito in pieno petto e cadde tra le braccia del fratello, che restò solo col medico; qualche minuto dopo spirò nella vettura nella quale lo trasportarono a casa. L’autopsia dimostrò che la spada era penetrata all’insotto della mammella destra ed aveva attraversato il polmone da parte a parte, perforata l’aorta e lesa la prima parte del polmone sinistro. La morte era stata quasi istantanea.

I testimoni del duello si contraddissero ne’ loro interrogatori. Daime Alexandre, Jourdan e Marius dichiararono che Daime Joseph, toccato l’avversario, abbassò l’arma, e che di quell’atto profittasse Clovis Hugues per ferirlo.

Mellau e Mallet protestarono energicamente contro tale affermazione, affermando che il combattimento si svolse nella maniera più corretta. [p. 157 modifica]

E di questo parere furono i giurati, che con il loro verdetto assolsero tutti i prevenuti da qualsiasi imputazione.


1818. Ferruccio Polese e il capitano Giannini; Ciappa e Picciotto. — Dalla Gazzetta Livornese, dell’ottobre 1878.

Ferruccio Polese in seguito a vecchi rancori, sorti a Livorno durante un veglione al Teatro Rossini nel carnevale dell’anno 1877, ebbe a duellare col tenente dei bersaglieri Giannini.

Lo scontro, per molte peripezie, ebbe luogo solamente il 2 ottobre del 1878 a Firenze.

I due avversari schermirono per tre quarti d’ora e finalmente il Polese, ferito mortalmente, spirò tra le braccia de’ suoi padrini.

La politica, o meglio il partito politico, non fu completamente estraneo a questa uccisione cavalleresca.


1878. — Nel 1878 due studenti palermitani di appena diciott’anni, Ciappa e Picciotto, per piccole rivalità giovanili, si batterono alla sciabola.

Il Ciappa, attaccando con violenza, s’inferrò nell’arma avversaria, che gli penetrò in bocca45. Il povero giovane morì sul terreno.


Agosto 1879. Millelire e Gibelli sottotenente G** e il maestro F**. — Nell’agosto del 1879 una vertenza di onore sorse tra il pubblicista Millelire e lo studente Gibelli.

Il dibattito fu attribuito alle deliberazioni prese dalla [p. 158 modifica]cittadinanza genovese e dalle varie associazioni locali per onorare la presenza in Genova della Regina d’Italia.

Ma la determinante dello scontro fatale fu la cosidetta questione degli Ottanta, una poesia di Felice Cavallotti.

L’eco dell’attentato contro Re Umberto, compiuto a Napoli dal Passanante, non era ancora spento, quando il Re e la Regina d’Italia si recarono a visitare Genova. Ottanta giovanotti d’ogni ceto si proposero di formare una scorta d’onore alla vettura della Regina per tutto il tempo che la Sovrana avrebbe dimorato in Genova, dovunque si recasse.

Lo spettacolo dato da questi ottanta giovani che in frack e cilindro circondavano la vettura reale, seguendola a piccola corsa se i cavalli trottavano, poteva, come lo fu in effetto, essere variamente interpretato e non fu sempre benignamente giudicato.

La stampa radicale riscontrò in quest’atto di deferente abnegazione, che addimandava: servile cortigianeria, un vero e proprio oltraggio alla democrazia genovese in particolare, a quella italiana in generale. Dunque, dicevano i radicali, noi siamo in concetto di altrettanti Passanante? Dunque, si vuol far credere al mondo civile che il capo dello Stato e la sua signora, non possono passeggiare sicuri in una patriottica città, com’è Genova, perchè ci siamo noi?...

E in questo risentimento per l’offesa alla democrazia, più che la stampa genovese, era quella di fuori. Gli articoli e le note succedevano senza interruzione alle note e agli articoli di risentimento, esasperando sempre più gli animi, i quali raggiunsero il parossismo dell’irritazione, quando Felice Cavallotti stampò la sua poesia, che dai giovani di Genova fu appunto intitolata: Gli Ottanta.

Il Millelire, nipote dell’ammiraglio omonimo, un giovane piccoletto, magro, asciutto, bruno, con due occhietti neri pungenti e tutto fuoco, con le gambe leggermente arcuate, pubblicava in quel momento un giornaletto inspirato a idee ultra repubblicane; un giornale nervoso, che nervosamente sortiva, quando gli piaceva.

In questo foglio il Millelire attaccò con molta violenza gli Ottanta; dei quali uno solo, a quanto pare, mostrò di risentirsene, e quest’uno fu Mario Gibelli, studente. [p. 159 modifica]

Bello della persona, forte, piantato su due gambe ercoline, come un centauro della mitologia, aitante della persona, biondo, gentile d’aspetto e di modi, benchè alquanto bizzarro. Alle doti fisiche aggiungeva un’anima leale, un carattere aperto.... ed era di sentimenti ferventemente monarchici, i quali appunto lo indussero a far parte della schiera degli Ottanta.

Il risentimento contro gli articoli del Millelire e, di conseguenza contro l’autore di quelli, fu, adunque, di convinzione e non di persona.

Al risentimento tenne dietro una sfida accettata dal Millelire, che pochi giorni prima aveva ferito non lievemente in duello quel Gustavo Chiesi, animo nobile e mite, che ancor geme per ragione politica nel reclusorio di Finalborgo46.

Il duello fu concluso a condizioni gravi. La pistola fu l’arma scelta e tre colpi a tiro successivo dovevano essere scambiati dai due avversarî, alla distanza di quindici passi, con avanzata di cinque per ciascun colpo!

Come si vede, un duello dei più atroci, un duello all’americana, che il codice Zanardelli classifica tra gli assassinî. Se i sei colpi da spararsi avessero tutti colpito nel vuoto, alle pistole si sarebbero sostituite le sciabole, con duello ad oltranza.

La pugna crudele ebbe per teatro una località vicino a Monaco. Il Gibelli sparò primo; ma la pistola fallì il colpo.

La cortesia a questo punto subentrò al risentimento. Il Millelire, specialmente, sosteneva calorosamente come al Gibelli spettasse il sacrosanto diritto di riarmare il cane e di sparare di bel nuovo, poichè il colpo non era partito. Gibelli sosteneva il contrario con altrettanto calore e minacciò di andarsene, se non si obbligasse il Millelire a puntare e a sparare a sua volta. [p. 160 modifica]

Così venne deciso e così fu fatto.

La palla del Millelire colpì il Gibelli al fianco, sotto l’ultima costola, ed il ferito non piroettò; ma, fatti alcuni passi verso l’avversario, si ripiegò e cadde lentamente sul fianco non offeso.

Trasportato dai padrini e dai medici in un casolare, vicino, poche ore dopo rendeva l’ultimo sospiro.

Come dev’essere triste morire tanto crudelmente nel fiore degli anni, per un falso amor proprio, quando s’ha una famiglia, quando la sorte ci fu benigna in tutto; quando non s’è per anco goduta la propria parte di sole!


1879. — Per ragioni assolutamente intime, ma nelle quali il sottotenente di fanteria G** non c’entrava per nulla, un maestro di scherma F** percosse con la mano l’ufficiale.

Dopo varie peripezie lo scontro ebbe luogo il 24 dicembre 1879, vicino a Messina. Il maestro s’ebbe un traversone di piatto prima; poi una puntata all’inguine per la quale dopo due mesi moriva a Palermo.


187.... — A Palermo il duca di Cesarò per una polemica giornalistica ebbe un duello alla pistola col professore F** che vi lasciò la vita.


29 maggio 1880. — De Gil de Olivares-Conte De Lardi — Talvolta anche una semplice discussione politica sugli affari di Spagna può costare la vita ad un galantuomo che, se ha lo scilinguagnolo sciolto per discutere molto, non ha alcuna volontà di passare le onde tetre con Caronte. La prova ce la [p. 161 modifica]forniscono il marchese Gii de Olivares e il conte De Lardi. La discussione sulla Spagna si fece ardente e si scambiarono i testimoni. Signor de Maldespine e de Ulloa per il De Olivares; il cavaliere Deschamps e il visconte di Bordon per il de Lardi.

Alla frontiera belga i due avversari son posti in guardia, spada alla mano, la mattina del 28 maggio 1880 ed in pochi minuti il conte de Lardi rende l’anima al Creatore.


Dicembre 1880. — Marseul-Daudier47. — De Marseul s’imbatte in Daudier in una via di Laval.

Fra i due non correva buon sangue; anzi un odio sordo li separava da tempo.

De Marseul guardò fisso con aria provocatrice Daudier ed avendolo sorpassato, si voltò a più riprese per rimirarlo. Poi, fece un segno di disprezzo al suo indirizzo. Però, ciascuno continuò la propria strada.

Qualche giorno dopo, Daudier s’incontra con de Marseul e gli chiede se quel gesto era diretto a lui. De Marseul gli risponde che ciò non lo riguarda tanto quanto. Daudier perde le staffe e dà delle cinque dita, col resto della mano, sulla gota di de Marseul. Il primo còmpito dei quattro testimoni fu quello di appurare l’esattezza del primo incontro di de Marseul con Daudier; se il primo guardò fisso il secondo con fare provocante ed aggressivo; e se accompagnò la bieca guardata con gesto di disprezzo; e la natura di questo gesto.

Finirono per constatare che il racconto di Daudier era esatto; che la domanda rivolta dal Daudier al de Marseul era conforme alla narrazione; che la risposta di de Marseul non contraddiceva la verità; infine, discussero il contegno degli avversari e la natura delle vie di fatto.

Solo, dopo essersi trovati concordi sulla materialità del [p. 162 modifica]fatto, passarono a redigere un verbale di scontro; frutto di una logica discussione del valore comparativo delle offese, per la quale poterono stabilire quale, tra i due antagonisti, era l’offeso e ne aveva i privilegi.

Il duello fu combinato al fioretto francese, e Daudier pagò con la vita lo schiaffo dato a de Marseul.

La cosa andò semplicemente così!


1881 (21 aprile). Vivaldi-Fochessati — Ecco il fatto nella sua semplicità.

Nell’estate del 1880 il tenente Fochessati, un bell’uomo, aitante della persona, simpatico e mite, incontrò sulla spiaggia di Viareggio il signor Vivaldi, già ufficiale dei bersaglieri. Il Vivaldi, ricordando una lontana parentela col tenente Fochessati, desiderò presentarlo alla consorte sua.

Qualche giorno dopo il tenente Fochessati lasciò Viareggio per l’abituale sua guarnigione di Firenze.

Nel marzo del 1881, il tenente ha un duello nel quale anch’egli resta ferito al braccio, piuttosto gravemente.

Al primo di aprile, però, la ferita non gl’impedisce di correre a Roma per assistere, lui ufficiale di cavalleria e appassionato amatore di cavalli, alla riunione primaverile delle Capannelle.

Lo stesso giorno, sul prato delle corse, s’imbatte nel Vivaldi, cui fa di cappello. Ma il suo saluto non ha risposta.

Il tenente Fochessati non ci bada tanto quanto, pensando tra sè:

— Non mi ha riconosciuto sotto le spoglie di un semplice borghese (non militare).

Il fatto, però, si ripete più volte: talchè il tenente si persuade che il signor Vivaldi di proposito non ricambia il cortese saluto.

Non sapendo a che cosa attribuire l’attitudine ostile del signor Vivaldi, alla sera, il tenente Fochessati gli scrive un biglietto amichevole, che personalmente porta al domicilio [p. 163 modifica]del signor Vivaldi, per domandare la ragione del negato saluto.

Il Vivaldi scende per rispondere di persona al biglietto:

— Ti guardo, dice al Fochessati, ti fisso, e non ti saluto.

Così dicendo il Vivaldi alza la mano e colpisce. Il tenente Fochessati malamente può reagire, col braccio destro ferito; ma reagisce come può, e la sera stessa costituisce i rappresentanti, e torna a Firenze, da dove si era allontanato senza l’autorizzazione de’ superiori. La sera stessa in Roma è risaputo il fatto; e l’autorità militare di Roma telegrafa a quella di Firenze per gli opportuni provvedimenti disciplinari.

Ormai alea jacta est; si decide un duello. Si esclude la pistola, perchè il tenente Fochessati non può assolutamente servirsi del braccio destro offeso, minacciante flemone, nè del sinistro, che lo poneva in evidente inferiorità di fronte all’avversario.

Si sceglie allora la sciabola e, per iniziativa della parte avversa, viene stabilito che il duello si farà, quando il tenente Fochessati sarà in grado di maneggiare l’arma.

Frattanto, il tenente nulla trascura per guarir presto; ma occorrono sei mesi, avendo recisi due tendini ed offesa l’articolazione del gomito.

Impaziente nell’attesa, torna a Roma per sollecitare lo scontro. Tirerà, come potrà, colla sinistra, pur di finirla.

Su quest’intesa, il 21 aprile, i quattro rappresentanti con i rispettivi primi, assistiti dai medici, si trovano nella sala di scherma del quartiere del Macao, a Roma.

Si fanno sei assalti.

Il Fochessati, inesperto nel maneggio dell’arme con la sinistra, sta in guardia di buona misura, con la punta dell’arme bassa, che presenta all’avversario ad ogni attacco. Ciò non gli impedisce di ricevere alcuni formidabili colpi di piatto sull’omero sinistro, che producono grosse e dolorose echimosi. Alla sesta ripresa si ripete l’atto energico del Vivaldi e l’alzata di punta del Fochessati, il quale riceve una formidabile piattonata tra il collo e la spalla, perchè la sciabola del Vivaldi, non diretta dal pollice, girò su sè stessa nella vibrazione del colpo. [p. 164 modifica]

— Ma, perdio, non una goccia di sangue, per finirla! esclama un padrino, visitando il Fochessati nella parte colpita. E poi rivoltosi al Vivaldi:

— E te?

Vivaldi tace: ma nello stesso tempo impallidisce, straluna gli occhi e cade esanime tra le braccia dei presenti. Era colpito mortalmente; la sciabola del Fochessati, senza che alcuno se ne fosse avveduto, gli aveva reciso l’aorta!

Il Fochessati vien fatto allontanare; anzi, partire per Monterondo, ove apprende dai giornali, che il suo avversario sventuratamente era perito!

Ne seguì un processo, che si chiuse con la condanna del tenente Fochessati a sei mesi di confine.


1881. Dilluvio e Amari — A Palermo nel 1889 il signor Dilluvio per una frivolissima causa, ebbe a scambiare epiteti alquanto pungenti col signor Amari. Ne seguì un duello alla sciabola, riuscito fatale al Dilluvio.


Luglio 1881. Assalin-Saint-Victor. — A proposito di questo disgraziato duello, il Figaro del 9 luglio 1881, scriveva:

«Capirete facilmente l’emozione grande che la vertenza ha prodotto qui. Chalon-sur-Saône è divenuta un Parigi in miniatura. L’opinione pubblica anche qui è facile all’impressione; tutti compiangono la vedova e la figlia, giovinetta, di Saint-Victor, crudelmente ucciso in un duello fatale alla sciabola, provocato da una discussione di caccia.

Saint-Victor era un galantuomo, una persona perbene, compito, bravo e valoroso soldato. Aveva lasciata la carriera militare povero, accettando, con rassegnazione evangelica, il modesto impiego di fattore delle tenute della famiglia di Talleyrand. [p. 165 modifica]

Assalin, benchè congiunto alla famiglia Schneider, tanto e da tutti stimata, non è simpatico. Passa per uno spadaccino e per un buontempone; per un buono a nulla. Non era proprio capace di tutto; ma da vero, non era buono a nulla. L’ho veduto all’udienza, buttato là, sul banco degli accusati, ingarbugliarsi goffamente in ragioni sballate. È un uomo alto, vigorosissimo, di appena ventisette anni; ma non rappresenta di certo la Francia giovane e laboriosa.

Collo taurino; bruno; occhi grandi, impietriti; voce da ubbriacone. Assalin deve preferire lo champagne all’acqua fresca. Ciò gli si legge sul volto! Malgrado la sua reputazione di rompispade e di ammazzatutti, non m’impedirà di fare il suo ritratto esatto.

La sua esistenza si riassume in poche parole: caccia e scioperatezza a tutta oltranza. Se Balzac rivivesse farebbe uno studio interessantissimo di questo tipo di ricco villano, chiassoso, arruffone, spaccamontagne.

Assalin affetta di essere un buon figliuolaccio e una scorrettezza di parole..., ch’io giudico esagerata. Egli dice: «I miei testimoni sono stati leali» e, vuotando a sorsi un bicchier d’acqua pura con l’esitazione propria a chi è abituato a bere vino, sempre vino: «Sono io, che sono malato; ho la gola secca, e non posso parlare!»

Il presidente Bernard, che dirige questo processo scabroso con fine acume, gli ricorda che ha subito due condanne per reato di caccia; e una per vie di fatto. Gli rammenta che si è di già battuto un’altra volta con un giornalista e che dopo il duello espresse il dispiacere di non averlo ucciso.

Assalin protesta.

Entrando in materia del processo il presidente prosegue:

— Voi siete il capo della caccia al lupo48 e vi si accusa di avere avuto alcune questioni di caccia con parecchi [p. 166 modifica]proprietari, di qui, del paese, e particolarmente col marchese di Mac-Mahon.

Imputato — Gli scrissi una lettera in seguito a taluni discorsi ch’egli aveva tenuto poco favorevolmente sul conto mio. Egli stesso non credette, che quella lettera fosse una provocazione, perchè non mi rispose.

Il presidente legge una lettera del marchese di Mac-Mahon, diretta alla Corte, di cui, ecco il passaggio principale:

«Il signor Assalin mi ha scritto una lettera villana, che contiene una provocazione. Il tenore stesso della lettera mi ha esonerato dalla risposta».

Il presidente continua:

— Voi avete avuto analoghe difficoltà col signor Saint-Victor, nella sua qualità di gerente dei latifondi della famiglia de Talleyrand. Nel mese di aprile voi avreste fatto una battuta di caccia arbitraria sulle terre di questa famiglia, senza averne prima informati i proprietari.

Imputato — Era nelle mie funzioni di capocaccia di lupi. Inseguivo alcuni cinghiali che si erano rifugiati sulle terre dei Talleyrand. Quando giunsi per sboscarli, le guardie che li avevano fatto fuggire, mi stesero processo verbale. In quel fatto parvemi riscontrare una intimidazione e fu allora che scrissi al de Saint-Victor una lettera per lagnarmi con lui dell’accaduto.

Qui, il presidente dà lettura della corrispondenza che precedette il duello. Eccone il testo.


Prima lettera del signor Assalin al sig. de Saint-Victor.


Creuzot, 4/5 1881.

                Signore,

Una delle guardie dei Talleyrand ha tentato d’intimidirmi, venerdì scorso, nell’esercizio delle mie funzioni.

È assolutamente impossibile che i vostri padroni vi abbiano dato ordini in questo senso; e vi sfido a produrre una [p. 167 modifica]procura speciale, che giustifichi l’atto di minaccia e la slealtà da voi commessi a riguardo mio.

Professovi quei sentimenti che vi piaceranno di più.

L. Assalin.


Risposta del signor de Saint-Victor al signor Assalin.


                          Signore,

Ho presente la vostra lettera del 4 corrente. Non ne comprendo lo scopo, tanto più che lo stile, col quale essa è redatta, non mi è punto familiare.

Sorpassando su questi dettagli, senza importanza, tanto per la signora contessa di Talleyrand, quanto per me, veniamo alla questione.

Benchè il proprietario, nè i fittavoli, abbiano reclamato, la vostra caccia del 29 aprile ha tutta l’apparenza di una battuta regolare, salvo il giudizio della gendarmeria e dell’autorità municipale.

In tali condizioni (per lo meno lo supponiamo) potrà darsi che il processo verbale redatto dalla guardia Digoy, non abbia un seguito.

Ciò messo in chiaro, vi sarò grato se vorrete porre fine a una corrispondenza di cui la mia educazione, troppo trascurata, non mi concede di apprezzarne la finezza. Ricevete, ecc.

De Saint-Victor.


Seconda lettera di Assalin al signor de Saint-Victor.


9 maggio 1885.

                Signore,

È proprio doloroso che una famiglia tanto rispettabile, come quella dei Talleyrand, assuma al suo servizio persone delle quali sia stata trascurata l’educazione, come a voi. [p. 168 modifica]

Questo difetto di educazione v’impedisce, senza dubbio, di comprendere le cose dette sottovoce. Così, con mio grande dispiacere, mi costringete a meglio precisarle, dicendovi: che in quest’affare voi vi siete condotto da cima a fondo come un imbecille e un vigliacco.

Assalin.


Risposta di de Saint-Victor.


Montjeu, 11 maggio.

                Signore,

Senza alcun motivo plausibile voi scagliate le più basse contumelie contro di me. Per assumersi tanto diritto, bisognerebbe essere provveduti di una certa dose di onoratezza che a voi manca assolutamente. — Paragonate la mia vita seria e laboriosa con la vostra inutile e piena di crapule e di orgie, e vi persuaderete che le vostre ingiurie non possono colpirmi.

Se le mie parole sono severe, sono giustificate dalla vostra inqualificabile aggressione.

Volete fare l’ammazzagente e lo spauracchio a buon mercato, insultando senza ragione un uomo, la posizione del quale differisce tanto dalla vostra.

Ricredetevi; a capo del mio letto ho ancora il mio vecchio compagno di corazziere, e, malgrado il ridicolo di un simile scontro, non vi rifiuterei l’onore di far con lui la conoscenza. Misura novantasette centimetri dalla guardia alla punta. Ma, fate bene attenzione: disprezzo le vostre volgari ingiurie; voglio che voi solo abbiate da sopportare tutto quanto vi ha di odioso e di responsabile nella vostra folle condotta. Vi lascio piena libertà di fare i passi necessari per uno scontro, che mi arreca solamente disgusto.

De Saint-Victor.

[p. 169 modifica]

Commentando queste lettere, tanto differenti nella forma e nella sostanza, il presidente continua:

— La vostra prima lettera feriva l’amor proprio di de Saint-Victor. — Voi affettaste di parlargli de’ suoi padroni. Voi voleste umiliarlo.

Imputato — Certamente, non volevo fargli un complimento!

Presidente — Saint-Victor, al contrario, vi ha risposto assai dolcemente.

Imputato — Ma no; egli mi canzonava. E poi, invece di salutarmi con forma conveniente, egli terminava la sua lettera con queste parole: «Ricevete, ecc.»; con quattro punti di interiezione. Questi quattro puntini volevano dire tanto «pigliatevi quattro pedate nel....», quanto «abbiate rassicurazione della mia stima». — Fui adunque io il provocato e l’insultato da lui. Allora lo chiamai vile; cioè: furbo, poiché non volevo mettere in dubbio il suo coraggio.

Presidente — Ma voi, non gli mandaste mica, con la vostra lettera, la vostra interpretazione della parola vile?

Imputato — Il signore de Saint-Victor avrebbe dovuto in ogni circostanza mandarmi due padrini; ma egli preferì di scrivermi un’ultima lettera, nella quale egli parlava delle mie crapule e delle mie orgie. Senza questa lettera tutto si sarebbe accomodato facilmente!

Presidente — Dopo quest’ultima lettera voi mandaste a de Saint-Victor i padrini vostri, signori Bouillet e Rouget. De Saint-Victor fu molto garbato con loro e molto conciliante. Egli acconsentiva a ritirare la sua lettera, se voi aveste ritirato prima la parola vile. Voi rifiutaste.

Imputato — Se avessi ritirato la parola vile, sarebbe sembrato ch’io avessi avuto paura dei novantasette centimetri del suo squadrone. Poi, io ero stato insultato per primo con la sua formula impertinente, seguita da’ quattro puntini. Che cosa mi dava a ricevere? La sua considerazione o quattro ceffoni? Un duello era dunque inevitabile. Per mia disgrazia gli è stato fatale!

A sentirlo parlare si direbbe che la disgrazia è capitata a lui, a Assalin, e non a chi è andato per opera sua all’altro mondo! [p. 170 modifica]

Il presidente, infatti, osserva:

— Siete stato voi, che avete ingiuriato per primo. Toccava a voi di ritirarvi per primo, invece di esigere scuse da de Saint-Victor. Dopo voi, egli avrebbe ritirato tutto quello che voi volevate. Infine, il duello è stato giudicato inevitabile per vostra colpa e vi siete battuti alla sciabola.

Imputato — È stato Saint-Victor che ha scelto la sciabola. Io non avevo mai preso in mano quest’arma. Le armi sono state prese in prestito dagli ufficiali della territoriale (!) di Autun.

Presidente — Raccontateci il duello.

Assalin fa con volubilità il racconto che segue:

— Ecco qua. Giungemmo nella foresta di Planoise, viale dell’Épousée. I testimoni scelsero il terreno. Poi ci collocarono a posto. Passando vicino a de Saint-Victor io gli feci un gran saluto, ch’egli mi ricambiò. Il signor Rouget aveva scelto la sciabola e comandò: A voi, signori, fate il vostro dovere!...

Siccome Saint-Victor era molto alto e aveva la mano molto lunga, io mi tenevo fuori misura; e come mi attaccava con degli a-fondo, io indietreggiavo. Solo mi studiavo di tenere l’arma in linea e mi dicevo: «Figlio mio, la tua salvezza è nella tua mano; vediamo, vediamo, se tu hai proprio una mano buona!» Ad un tratto ho veduto l’arma di de Saint-Victor sul mio petto; ho parato di tasto, ed ho risposto. Senza accorgermi l’ho colpito all’inguine. Egli ha avuto ancora la forza di rispondere e di farmi queste sberleffe (indica le cicatrici) al viso e alla mano. Poi è caduto nelle braccia de’ suoi padrini. Io voleva stringergli la mano, ma egli aveva perduto i sensi.

Assalin, che in fin de’ conti, è più brutale che malvagio, sembra commosso. A suo modo, però. Beve alcuni sorsi d’acqua e si mette a sedere, ripetendo: «Sono io, che sono ammalato!»

Vengono interrogati i suoi due padrini. Rouget è un giovane benestante, cacciatore e buon compagnone, assolutamente insignificante, come la sua deposizione. L’altro, Bouillet, già segretario del presidente Schneider, cavaliere [p. 171 modifica]della Legione d’onore, è un vecchio amico degli Assalin, che racconta gli incidenti della sua missione con abbondanza di parole.

— Ho fatto quanto ho potuto, egli dice, perchè la vertenza non avesse un seguito. Spiegai in via privata al signor de Saint-Victor il significato che Asselin intendeva dare alla parola vile e gli chiesi di ritirare la sua lettera ingiuriosa. Vedete, che ho cercato di versare acqua sul fuoco. Saint-Victor esigeva che Asselin ritirasse formalmente la parola vile, e non potendoci accordare, ci ha messo in rapporto co’ suoi rappresentanti, intendendo di battersi con la sciabola, come aveva di già fatto capire all’Assalin. Benchè si reputasse l’offeso, Assalin lasciò all’avversario la scelta delle armi. Quanto a me, giudicando l’arma molto pericolosa, feci venire da Parigi due sciabole da duello, meno terribili della sciabola di ordinanza degli ufficiali di fanteria. Avevo fin’anco raccomandato all’armaiuolo di arrontondare la punta ed il taglio (!). Disgraziatamente, Assalin inconvenientemente provò una di queste sciabole, ciò che m’impedì — per delicatezza — di portarle al Saint-Victor, che del resto preferiva quelle d’ordinanza. Ciò nonostante, sul terreno, prevenuto da alcuni ufficiali del pericolo che presentavano tali armi, avevo portato le sciabole da me ordinate e proposi ai padrini di de Saint-Victor di farle provare al loro amico, ciò che avrebbe stabilito eguaglianza tra i due avversari. I rappresentanti di de Saint-Victor rifiutaronsi, opinando essersi sino dal giorno precedente esaurito l’incidente. Chiesi allora che fosse messo termine al duello alla prima ferita.

Il presidente a questo punto legge il verbale di scontro.

Art. 1.° — A richiesta del signor De Saint-Victor l’arma scelta è la sciabola d’ordinanza degli ufficiali di fanteria.

Art. 2.° — Ciascun avversario si provvederà delle armi, che saranno tirate a sorte sul terreno....

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

Art. 6.° — I testimoni si riuniranno alle sei del mattino, alla estremità del viale dell’Épousée, nella foresta di Planoise. [p. 172 modifica]

Art. 7.° — Il combattimento terminerà alla prima effusione di sangue.

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

Art. 9.° — Sulla domanda di ciascun avversario verranno accordati brevi riposi, di non oltre cinque minuti.

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·


Verbale di seguito scontro.

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

«Noi constatiamo che ad un primo attacco, sopra una cavata in tempo del signor Assalin, il signor de Saint-Victor ha ricevuto una ferita grave all’addome e che subito fu sospeso il combattimento; ma contemporaneamente al colpo dato, il signor Assalin veniva ferito alla guancia e alla mano con una leggera scalfittura.

«Addolorati per l’esito fatale di questo duello, rendiamo omaggio al coraggio dei due combattenti e dichiariamo che tutto è proceduto con la massima lealtà.

           per Assalin                                per De Saint-Victor
Bouillet Devoncoux
Rouget V. Berger


Il signor Bouillet termina, affermando che i padrini di de Saint-Victor avevano chiesto di servirsi della sciabola con soli colpi di punta. Egli attesta, sul suo onore, che Assalin aveva risparmiato da prima l’avversario, che, andando a fondo contro di lui, s’era scoperto il petto. Infine dichiarasi addoloratissimo dei risultati dello scontro, ch’egli avrebbe voluto fosse evitato a qualunque costo.

I padrini di de Saint-Victor sono due bravi ragazzi del [p. 173 modifica]paese. Il signor Berger, sostituto di notaio, di trent’anni, piccolo, macilento, mite e timidissimo come agnello. Il signor Devoncoux, già ricevitore di posta, di cinquantacinque anni, fisionomia pacifica e molto simpatico. Ambedue hanno accettato il carico di padrino, pel quale non erano tagliati, per dare una prova di amicizia a de Saint-Victor.

Devoncoux voleva sistemare la vertenza fin’anche sul terreno: «Voi avete una sposa, una figlia, signor de Saint-Victor. Assalin vuole scuse prima di ritirare la parola vile; volete ch’io le faccia per voi?»

De Saint-Victor rispose: «Volete dunque ch’io diventi lo zimbello di tutto il paese?»

Il signor Berger voleva che si facesse venire un maestro di scherma per parare i colpi pericolosi; de Saint-Victor non volle, da vecchio soldato, questa tutela umiliante.

Uditi i padrini, il presidente fa introdurre il dott. Gillot, medico, che presenziava lo scontro e che soccorse il ferito.

La piaga era all’addome, a sinistra, sotto il costato; con una larghezza di cinque centimetri ed una profondità di diciotto. La punta omicida era stata arrestata dalla colonna vertebrale. De Saint-Victor fu trasportato alla Canonica di Fragny; la sua agonia durò quattr’ore. La moglie, prevenuta, potè raccoglierne l’ultimo sospiro.

Una guardia privata depone su di una circostanza interessante del bracconiere di Assalin. Eccola:

— Il vostro padrone ha un figlio?

— Sì, una ragazzina di dodici anni.

— Peggio per lei! Sapete bene; sta per battersi con Assalin e uno dei due deve restare sul terreno.

Un’ultima deposizione, interessante assai, è quella del signor Landa, redattore del Progrès de Saòne-et-Loire, testimone di un suo confratello, Josserand, in un duello che questi ebbe dieci anni prima con Assalin. Trattavasi di un articolo che Assalin giudicò offensivo per la madre sua. Assalin che tirava basso, ferì leggermente l’avversario. Landa depose, inoltre, che tornando da questo scontro, Assalin disse, lui presente, di essere addolorato di non aver ucciso Josserand. [p. 174 modifica]

Assalin smentisce questa affermazione, urlando: «È una infame calunnia!»; ma un altro teste conferma la deposizione di Landa.

Questi aggiunge, poi, che recentemente, quando ferveva la discussione sulla caccia col marchese di Mac-Mahon, Assalin, con il suo fedelissimo Acate-Rouget, gli portarono una nota da inserire sul suo giornale; nota la quale non poteva non inasprire la questione e che egli si rifiutò di pubblicare.

Interrogato, Rouget, rifiuta ogni spiegazione, mentre Assalin ripete, che ciò è falso.

Prima di dare la parola a Carraby, che viene a sostenere le ragioni della sventurata vedova de Saint-Victor, parte civile, il presidente fa mostrare ai giurati le sciabole con le quali avvenne lo scontro. Quella di Assalin è ancora tinta di sangue. Vi sono pure le sciabole fatte venire da Parigi da Bouillet. Sono armi meno pericolose; la lama è più stretta e i tagli sono meno affilati.

Dopo le deposizioni, il signor Carraby prende la parola in nome della parte civile. La vedova di Saint-Victor è a Châlons; ma il suo avvocato per un sentimento facile a comprendersi, non ha voluto ch’ella venisse all’udienza. La famiglia è rappresentata da un fratello e da un cognato dell’ucciso.

L’arringa, commovente, calorosa e simpatica di Carraby favoreggia a meraviglia la causa per la quale ci vuole prima di tutto il cuore. L’avvocato della vedova non ha fatto la menoma allusione a compenso in danaro; ha chiesto una vendetta pubblica in nome di una vedova e di una orfanella, contro colui, che innanzi tempo le ha private del marito e del padre; contro colui che ha spezzata la felicità loro.

Carraby fa un parallelo tra de Saint-Victor, un gentiluomo, un nobile povero, non degradato, ma sollevato dal lavoro, marito modello, che aveva sposato una donna ricca e che ha restituita la dote per salvare il suocero da una crisi commerciale.

Questa famiglia onesta, nella quale non ci sono mai entrate donne, le quali abbiano guadagnato milioni col sacrificio del pudore; egli la pone a confronto di Assalin, un [p. 175 modifica]ozioso qualunque, sperperante ne’ vizi una sostanza guadagnata non certamente col lavoro; che fa bene ad alcuno; che cerca d’imporsi con la brutalità e la violenza; felicissimo forse di questo processo che lo consacra uomo d’onore e duellista terribile.

Saint-Victor è stato vigliaccamente aggredito e insultato da Assalin. Egli non voleva battersi, lui, padre di una famiglia che viveva del suo lavoro. Voleva che tutto si accomodasse; avrebbe fatto scuse; ma Assalin, esigente e insolente, l’ha costretto a scendere sul terreno e gli ha squarciato l’addome, tirando proprio lo stesso colpo che aveva tirato a Josserand. Carraby è convinto che, malgrado la clausola di cessare lo scontro al primo sangue, Assalin ha colpito l’avversario dopo essere stato ferito e quando Saint-Victor, sicuro di aver toccato, non era più sulla difesa. Infatti, l’ucciso sentendosi ferito a morte, esclamò: «Avevo toccato per primo!» Queste parole costituivano l’ultima e la più energica protesta del ferito contro il violatore delle leggi dell’onore e della lealtà.

L’asserzione di de Saint-Victor dice: «Assalin è un assassino!» perchè davanti alla morte non si mente!

Le parole dell’avvocato Carraby producono grande impressione. Assalin, che non ha mai avuto una parola di rimpianto o di pentimento, anch’egli si decide a mostrarsi un pochino commosso.

Alle sei di sera parla il procuratore della Repubblica, Thibault, al quale replica il difensore di Assalin, avvocato Lachaud.

Alle quattro del mattino, dopo calde repliche delle parti, il giurì si ritira per deliberare. Torna alle quattro e mezza assolvendo i quattro testimoni e condannando Assalin come reo di colpi e ferite volontarie.

Grande emozione nel pubblico che approva. Il giurì, si capisce, volle colpire un prepotente brutale, un accattabrighe, un fannullone, causa unica e sola della sventura che colpì de Saint-Victor e la sua famiglia.

Assalin viene condannato a quattro mesi di prigione e al pagamento di cinquantamila franchi alla vedova e di cinquantamila alla figlia dell’ucciso. [p. 176 modifica]


1882 (28 agosto e 7 settembre). — Dichard-Massas. — Al solito; se la penna è più lunga del pensiero e se il risentimento prende la mano alla ragione, ci vuole il sangue, per ridonare la calma agli spiriti turbati.

Dichard, direttore del Petit Caporal, ha una polemica giornalistica con De Massas, direttore del Combat.

Impossibile aggiustare la vertenza; quindi si decide un duello alla spada nella foresta di Saint-Germain pel 28 agosto 1882. Ma in sul più bello capita la gendarmeria, che pone in rotta duellisti e duellanti.

La sete della lotta non è ancora spenta; la polemica ripiglia vigore e un giurì composto di Paolo di Cassagnac e di Cuneo d’Ornano, dichiara essere necessario un novello combattimento.

De Massas è assistito da A. Petitjean e da Alessandri; Dichard da Giorgio Price e da Bois-Glavy.

Al mattino del 7 settembre i due avversari si trovano di fronte in un giardino privato di Nogeant-sur-Marne. Alla prima ripresa succede un incontro; i due avversari sono colpiti; Dichard da tre colpi di spada all’ascella, alla mano e alla testa gravemente; De Massas in pieno petto e muore sul posto.


1883. Lenning; Hanër e Arcier. — Con una nota del 18 luglio 1883, lo stato di Baviera, invocando l’articolo 1, n.° 10, del trattato di estradizione concluso il 21 gennaio 1874, tra la Svizzera e l’Impero tedesco, chiedeva l’estradizione di Eugenio Lenning, studente di chimica, di Filadelfia, arrestato a Basilea in seguito a mandato di cattura, spiccato il 17 luglio dal giudice istruttore di Würzbourg.

Lenning era incolpato di avere, con premeditazione, tirato [p. 177 modifica]in duello colpi e procurate ferite che causarono morte. Crimine questo preveduto dagli art. 206, 223 e 226 del codice penale.


(Dal Gil Blas).


Al signor Emilio Villemont.

                     Caro Confratello,

Ho letto il vostro articolo sul duello, e, benchè io condivida pienamente tutte le vostre idee su tale argomento, spero che mi permetterete di fare alcune rettifiche, che meglio chiariscono taluni dettagli, al dispaccio sul quale il vostro articolo si basa. I signori Arcier e Hanër, marescialli di alloggio alla 13.ª batteria del 25.° di artiglieria, si sono battuti al fioretto, e, come lo dice il telegramma, per un motivo futilissimo. Lo scontro ha avuto luogo a Châlons e non nel Campo. Ecco come stanno i fatti.

Due o tre batterie di artiglieria recantesi al campo di Châlons, o mentre ritornavano dal campo erano di passaggio per quella città.

C’è l’abitudine che quando un corpo è di passaggio da una città viene ricevuto, è il termine consacrante l’atto, dai reggimenti che sono di guarnigione nella località, per la quale passa il corpo in marcia.

Ora, come a Châlons risiedono due reggimenti d’artiglieria, l’8.° e il 25.° ciascuno di essi deve a turno ricevere i commilitoni di passaggio, e la settimana decorsa, questo turno spettava al 25.°

A proposito di questo ricevimento, al mattino sorse disputa alla tavola dei sott’ufficiali della 13.ª batteria, e il maresciallo Arder dichiarò, che non poteva assistere al ricevimento de’ compagni per un precedente invito a pranzo da persone del paese. [p. 178 modifica]

Fin qui, nulla di scorretto. Però, alla sera, Arcier era di già giunto in cantina e si disponeva a pranzare, quando giunsero gl’invitati. Si alzò, piegò il tovagliuolo e sortì.

Alla colazione del giorno seguente sorsero biasimi sul contegno dell’Arcier, che dai compagni veniva accusato di un atto assai scorretto; tanto più che la posizione finanziaria dell’Arcier non gli concedeva alcuna attenuante per la maniera con la quale erasi sottratto all’obbligo, che la tradizione e lo spirito di corpo imponeva a tutti i colleghi.

Furono scambiate parole agro-dolci e l’Arcier, non sapendo come cavarsela, ne fece rapporto all’ajutante maggiore di settimana.

Questi lo consigliò a domandare una riparazione e, all’osservazione di Arcier, ch’egli non poteva battersi con tutti i suoi colleghi, l’ufficiale rispose che scegliesse uno tra i colleghi che lo avevano censurato.

Arcier scelse il più anziano, Hanër, che era uno de’ suoi migliori compagni, e le loro famiglie legate da antichi rapporti di amicizia. Il colonnello Zurlinden49 fece quello che fanno tutti i colonnelli in simili contingenze, autorizzò lo scontro.

Il resultato fu fatale. Il duello doveva essere a primo sangue, perchè la causa non valeva la pena che si andasse più in là.

Hanër fu toccato per primo all’avambraccio; ma come il sangue non colava, i testimoni decisero che il combattimento dovesse continuare. Cattiva ispirazione, invero! Alla seconda ripresa, Arcier, colpito in pieno petto, si piegava sulle gambe e cadeva morto.

Da prima circolarono chiacchiere inverosimili. Dicevasi che Arcier era stato trapassato da banda a banda; che il polmone destro era stato trafitto dall’arma, e simili cose. Era una disgrazia irreparabile, della quale l’avversario non doveva ritenersi responsabile; i combattenti erano andati a fondo simultaneamente e si erano cozzati con le armi. [p. 179 modifica]

L’autopsia fece tacere tutte le chiacchiere. Provò che la spada di Hanër era penetrata appena un centimetro; che la ferita non aveva interessato alcun organo importante e che la morte istantanea era la conseguenza di una sincope violenta. Il fatto, almeno sembra, che sia raro. Ed ora, caro collega, dopo che la morte non è stata causata dalla ferita, ne consegue che tutti gli argomenti del vostro ragionamento restano senza valore?

Io non lo credo; dico anzi che non posso astenermi dall’aggiungere una prova provata a quanto voi avete già pubblicato.

La trovo nella partecipazione di morte, diretta ai sott’ufficiali della guarnigione di Châlons, della quale ho una copia sotto gli occhi:

«Les sous-officiers de la 13me batterie du 25me régiment d’artillerie, ont l’honneur de vous faire part de la perte douloureuse qu’ils viennent de faire en la personne de

M. Arcier.


décédé le....

victime des exigences del’honneur militaire, et vous prient etc.»


Questa «vittima delle esigenze dell’onore militare» vale un Eldorado!

Che cos’è l’onore civile? In che cosa consiste l’onor militare? Noi credevamo che ci fosse una sola specie d’onore, l’onore personale. E la prova n’è, che tutte le volte in cui uno dei nostri compagni di reportage (cronisti) annunzia che deve aver luogo un duello, si esprime semplicemente così:

«Il signor X** ritenutosi offeso nell’onore dal signor Z** ha nominato i suoi rappresentanti, incaricandoli di chiedere una riparazione all’offensore».

Ebbene; in questo caso, che è il caso di tutti i giorni, si tratti di posa o di convinzione, come voi opportunamente dite, forse che i rappresentanti incaricati d’intendersi con [p. 180 modifica]quelli di Z** diranno: «il signor Z** avendo offeso atrocemente il nostro rappresentato nel suo onore militare, esigiamo per lui una riparazione co’ fiocchi, mirabolante?»

Niente affatto. Il signor X** non ha che un solo ed unico onore; l’onore suo, proprio suo; e non è perchè egli porta perennemente un ombrello, o una sciabola, ch’egli potrà far distinzione tra le ingiurie che potremmo patire il giorno dell’ombrello o quello della sciabola.

Voi avete avuto ragione di dirlo: «la legge deve essere uguale per tutti», ed io mi associo con tutto il cuore alle vostre conclusioni.

Così scriveva Luciano Hennet a Villemont pochi giorni dopo il duello (1883) tra due sott’ufficiali d’artigliera. Per un nonnulla Arcier e Hanër, due amici d’infanzia, due amici del cuore, furono costretti a scendere sul terreno dalle esigenze stupide di una casta.

Alla seconda messa in guardia, Arcier colpito in pieno petto, grida: toccato! e come se fosse stato colpito dal fulmine piomba cadavere tra le braccia del tenente della batteria, direttore del combattimento, presenti l’ajutante maggiore, due maestri e due sotto-maestri di scherma, come è prescritto dai regolamenti francesi.


1884 (19 luglio). De Witt-Parrini. — Nel luglio del 1884 a Firenze si discuteva un processo per falsi e falsità a carico di Vittorina Venturini, donna, a quanto sembra, di costumi non eccessivamente rigidi50.

Una inesatta relazione del processo fatta da un reporters al prof. cav. Cesare Parrini, indusse questi a dare al giornale, di cui era corrispondente51, giudizi non precisi nel riferire i rapporti dell’imputata con uno de’ suoi.... protettori. E n’ebbe [p. 181 modifica]danno il povero Parrini, perchè le inesatte relazioni dei reporters lo condussero innanzi tempo alla tomba.

Il duello, nel quale il Parrini perdette la vita, si annota tra quelli che destarono una viva e profonda impressione nella stampa italiana, perchè alla maggioranza sembrava che la causa non fosse tale da giustificare un combattimento singolare; ma tutt’al più meritare l’indulgenza e la commiserazione della giustizia punitrice. E questo sentimento si propagò, forse più per l’esito funesto dello scontro, che pel duello in sè stesso.

Già si sa; l’offesa si sente in mille modi differenti, e non ha bisogno di dimostrazione il canone, confortato dall’esperienza, che nei duelli di qualunque specie, il caso, più che l’arte e la volontà, determina le conseguenze dello scontro. Superfluo, quindi, un maggiore esame, mentre torno al movente.

Il Parrini, dunque, tratto in inganno, sembra, da imperfetti e non esatti rapporti, mandò alla Gazzetta d’Italia, che lo pubblicò nel numero 196 (16 luglio 1884) il brano di corrispondenza, che segue testualmente:

«Nel processo contro la Venturini oltre alla sua figura caratteristica di avventuriera e di truffatrice, d’un genio malefico pieno di acume e d’intelligenza, ne sono spiccate fuori altre due, quella di Eugenio De Witt e Alberto Schmidt.

«Eugenio De Witt, figlio di un ricco banchiere di Livorno, ora domiciliato a Pisa, conobbe in epoca lontana la Venturini, se ne invaghì la tolse alla vita onesta e laboriosa, dandole a credere che sarebbe stata felice e le fece perdere la posizione d’istitutrice nella nobile famiglia Liscia. Questi son fatti. Vissero insieme più o meno nascostamente ed ebbero un figlio, Mario, che ha ora circa 7 anni, un amore di bambino. Questa donna, facile alle passioni e dedita a sensazioni svariate, sembra che non si comportasse col De Witt come egli sperava: l’allontanò da sè e la fece esiliare da Livorno.

«La Vittoria vagò, si dette in braccio a questo e a quello, e non paga delle sovvenzioni che il padre di suo figlio le faceva ogni tanto, si decise di recarsi a Livorno col figlio a fare una di quelle che si chiamano scenate. [p. 182 modifica]

«E la fece. Andò da Giacomo De Witt padre, fece chiamare in Questura il figlio, andò dal Prefetto, dal Sindaco, dai legali, fece tanto, insomma, che il figlio e il padre De Witt si decidessero a fare una posizione a quell’innocente. Le rilasciarono un libretto di chèques pel complessivo valore di parecchie centinaia di mila lire, col patto, però, che più non li molestasse. Essa coscienziosamente sapeva di avere un libretto di chèques, li spese o tentò di spenderli, ma furono riconosciuti non legittimi.

«Immaginarsi la rabbia della Venturini. Si recò da Eugenio De Witt, lo rimproverò, lo maledisse, gli imprecò dietro. Egli per quietarla, ritornò ai primi amori, veniva a Firenze a trovarla; e siccome suo padre lo teneva a stecchetto e aveva fatti molti chiodi, pare che spesso la Venturini lo sovvenisse, come farebbe credere una circostanza venuta a risultare dal dibattimento. Il De Witt assediato, bloccato, alla Locanda del Nord in Firenze da un creditore, certo N., si rivolse con un biglietto alla Venturini per avere 50 lire. La Venturini glie le mandò subito e il creditore si allontanò dalla Locanda!!... — Il De Witt all’udienza per questa circostanza disse «che fece per provare la donna». La Vittorina a sua volta mostrando quella famosa lettera che egli credeva bruciata, e nonostante i promessi compensi per riaverla, oggi riapparsa, replicò che non era lei che provava, perchè in tal guisa l’aveva provata altre volte e che un gentiluomo non prova una donna col chiederle del danaro, ma coll’offrirglielo»52.

E dopo aver parlato del pittore Alberto Schmidt, l’articolo concludeva:

«Strano processo invero, dove al pubblico è parso che qualchedun’altro sarebbe stato degno di sedere accanto all’accusata se non di prenderne addirittura il posto»53.

Fin qui, l’accusa. Ora sentiamo l’altra campana, affinchè il fatto genuino sgorghi quale fu, senza sottintesi, [p. 183 modifica]sensa malintesi, senza reticenze; poichè, qui si narra e non si giudica.

Il 12 settembre del 1884 alla Corte d’assise di Firenze fu chiamato il processo al carico del signor De Witt e dei quattro padrini. All’udienza il De Witt così rispose alla contestazione del Presidente del soggetto d’accusa:

«Il 16 luglio mi capitò fra le mani la Gazzetta d’Italia nella quale lessi una corrispondenza di Firenze piena d’ingiurie e di calunnio a carico mio e di mio padre. Telegrafai subito al Direttore della Gazzetta54 chiedendogli il nome del corrispondente; attesi una risposta fino alle ore pomeridiane; ma non essendomi pervenuta, impostai una lettera raccomandata, domandando il nome del corrispondente, pagato per insultarmi. Sperava che qualcuno mi rispondesse e attesi fino alla mattina del 17; finchè, non avendo nessuna risposta, partii per Firenze non senza avvertirne il proprietario dell’albergo Cavour.

«Giunto a Firenze vi attesi invano la desiderata risposta e intanto saputo che il corrispondente era il prof. [p. 184 modifica]Cesare Parrini, io, offeso anche da questo silenzio di due giorni, mi posi sulle traccie, e incontratolo il giorno 18 presso l’Ufficio del Giornale Il Fieramosca, gli domandai il suo nome e lo colpii nella faccia».

Presidente — Lo conosceva lei il prof. Parrini?

Imputato — No. Ne ebbi solamente i connotati. Non fuggii niente affatto, ma aspettai che il prof. Parrini entrasse ed allora detti la mia carta da visita al portiere della direzione del Fieramosca, dicendogli di portarlo al prof. Parrini e di dirgli, che quegli che l’aveva colpito nel viso era io. Non dissimulo la gravità di questo fatto, però dichiaro per la verità, che non credevo inevitabile un duello, perchè battendosi con me il prof. Parrini veniva a dare una smentita a sè stesso, mentre una querela, o un giury d’onore, avrebbero potuto dimostrare quanto fossero infondate ed ingiuste le calunnie delle quali il prof. Parrini si era reso autore. Il sig. Parrini, invece, mi sfidò inviandomi il signor conte Arrivabene e il cav. Malenotti, sfida che io accettai per mezzo dei miei rappresentanti signori avv. Muratori e Montepagani».


«Presa la determinazione di definire cavallerescamente la vertenza, il Parrini pregò il conte Giovanni Arrivabene e me, narra il cav. Malenotti, di rappresentarlo. E sebbene prevedessi che la faccenda sarebbe stata risolta sul terreno; sebbene mi fosse doloroso e difficile un incarico così delicato e grave, pure alle vive insistenze del Parrini non credetti di opporre un rifiuto.

L’accettare era quasi un dovere. Un anno prima, lo stesso Parrini, insieme al mio amico Luigi Arnaldo Vassallo, direttore del Capitan Fracassa, aveva assistito me sul terreno, nella medesima qualità di testimone, in un duello pure alla sciabola, a gravissime condizioni, nel quale rimasi ferito».

Avanti di recarsi dal De Witt, all’Hôtel Cavour, i rappresentanti del Parrini gli chiesero: [p. 185 modifica]

— Dunque, sei risoluto?

— Decisissimo.

— Vuoi proprio andare in fondo?

— Sì, o il sig. De Witt mi fa le sue scuse, o si batte. Pensate voi a tutto; io affido a voialtri due la tutela del mio onore.

E il Parrini consegnò ai suoi rappresentanti questa lettera:


Li 18 luglio, 1884.

«Miei cari amici, conte Giovanni Arrivabene e cav. dott. Gaetano Malenotti.

«Questa mattina essendo stato proditoriamente aggredito dal sig. cav. avv. Eugenio De Witt al mio ingresso al Fieramosca, vi incarico di recarvi al suo domicilio Hôtel Cavour, per chiedergli quella riparazione che nel vostro senno crederete opportuna.

«Affidandovi questo delicato mandato, ho piacere di dichiararvi che io sono pronto a qualunque evenienza. Il mio recapito è al Fieramosca.

«Di voi affezionatissimo

«C. Parrini».



Le pratiche che seguono una lettera di sfida sono troppo note anche ai profani, perchè qui si narri quanto operarono i rappresentanti dei due avversari. Sta di fatto che, alle 3 pom. del 18 luglio, veniva sottoscritto questo verbale:


Firenze, 18 luglio 1884 (ore 3 pom.).

In seguito ad una corrispondenza da Firenze alla Gazzetta d’Italia del 16 luglio corrente, nella parte che riflette [p. 186 modifica]il processo Venturini, avendo il Cav. Eugenio De Witt riscontrate delle frasi a lui ed al suo proprio padre atrocemente ingiuriose, questa mattina lo stesso signor De Witt ha atteso il cav. prof. Cesare Parrini, corrispondente fiorentino della Gazzetta d’Italia, all’ingresso della direzione del Fieramosca, e chiestogli se egli era il cav. Parrini, avutane risposta affermativa e declinato il proprio nome, lo ha percosso nel viso.

Conseguentemente il cav. prof. Cesare Parrini ha incaricato i sigg. conte Giovanni Arrivabene e cav. dott. Gaetano Malenotti di chiedere una riparazione colle armi al signor De Witt e questi, accettando, ha incaricato i suoi amici avv. prof. Angelo Muratori e Giovanni Montepagani di rappresentarlo nella vertenza.

Dietro di che, i sottoscritti si sono riuniti a ore 4 pom. di oggi in una sala dell’Hôtel Cavour e dopo aver esaurito ogni mezzo onde por termine alla vertenza, mediante amichevole conciliazione, hanno stabilito di comune accordo di addivenire ad una partita d’onore, scegliendo per arma la sciabola alle seguenti condizioni:

1.º Nessun colpo escluso;
2.º Guanto da sciabola;
3.º Lo scontro dovrà terminare, allorquando uno o entrambi i combattenti si troveranno per dichiarazione dei medici nella assoluta impossibilità di continuare.

Lo scontro è fissato per domani mattina all’alba con ritrovo alle 3 ant. sulla Piazza della Stazione.

G. ArrivabeneA. Muratori.

G. MalenottiG. Montepagani.



Alla mattina del 19 fu una gara, a chi primo giungeva sul piazzale della Stazione, pel timore di fare aspettare gli uni gli altri; talchè, le 3 di quel mattino sorpresero i duellanti già in moto per il parco della Villa Torrigiani a Quinto, nel mandamento di Sesto Fiorentino. [p. 187 modifica]

Lasciamo la parola all’avv. Muratori.

«Si discusse sulle armi e a chi spettava la scelta. Non eravamo concordi che la scelta spettasse al Parrini; noi opinavamo che, malgrado la violenza dell’offesa, spettasse al De Witt. In via conciliativa fu scelto la sciabola, alla condizione: nessun colpo escluso55.... Andammo sul terreno, ove fu estratto a sorte chi doveva sceglierlo e questa sorrise ai padrini di Parrini.

«Fu visitato il giardino e fu scelto il posto dai secondi del Parrini; messi in guardia, dato l’ordine del combattimento, col sacramentale «A-loro!» furono fatti diversi assalti, non so precisamente quanti, ma certo più di 2556. Il signor De Vitt attaccava con risolutezza, investendo sempre l’avversario e andava innanzi; mentre il signor Parrini parava i colpi e cercava di retrocedere57; ma la sua azione era sempre ponderata e misurata. Il De Witt andava innanzi e gli produceva delle ammaccature che furono impropriamente dette lesioni, perchè di lesioni anche leggiere non ve ne furono che due, al braccio e all’ascella.

«Dopo il decimo assalto fu ordinato ai combattenti di togliersi la camicia e furono interpellati a più riprese i medici sulle condizioni del Parrini, per le due ferite riportate, e benchè il padrino Montepagani affermasse che i medici avevano dichiarato «che in coscienza non potevano dirlo»; fu udito il Parrini, mentre faceva mulinelli con la sciabola, respingere le proposte conciliative dei rappresentanti e volere risolutamente continuare nella lotta, esclamando: «No, no, andiamo avanti!» [p. 188 modifica]

«All’ultimo assalto, il Parrini, afferma l’atto d’accusa, riporta l’ultima ferita alla regione cotica destra, profonda 14 centimetri circa; penetrante in cavità e che fu dai periti giudiziari ritenuta causa unica necessaria e diretta della morte del Parrini, avvenuta nel giorno 22 luglio successivo.

«Durante il combattimento due altre ferite erano state da mano chirurgica cucite, con un punto di sutura ciascuna, ed erano situate una nella parte media della faccia esterna del braccio e l’altra in corrispondenza della base del pilastro esterno dell’ascella destra; ma dalla giudiziale perizia tali ferite al pari delle altre 14 lesioni58 riscontrate sul corpo del Parrini, furono giudicate leggiere perchè nessuna avrebbe recato impedimento maggiore a giorni sei.»


Il verbale di seguito scontro fu firmato alle 10 di sera del 19 luglio dai quattro rappresentanti assorbiti dalle cure che esigeva lo stato del prof. Parrini e non certamente spaventati, come qualche maligno susurrò, dalle responsabilità loro derivanti dall’esito inaspettato e non derivato dal duello.


Firenze, 19 luglio 1884 (ore 10 di sera).

Questa mattina nei pressi di Sesto Fiorentino, a ore 5, ha avuto luogo lo stabilito scontro fra i signori cav. prof. Cesare Parrini e avv. cav. Eugenio De Witt.

Dopo vari e ripetuti assalti, nei quali il signor Parrini, insieme a diverse leggierissime scalfitture e a qualche colpo di piatto, riportava una leggiera ferita toccante l’epidermide, i sottoscritti, sospendendo il combattimento, si sono riuniti [p. 189 modifica]col concorso dei medici per discutere se era il caso di continuare o no lo scontro.

I medici interpellati se il signor Parrini fosse nell’assoluta impossibilità di continuare hanno risposto che, nella loro coscienza, non potevano asserirlo.

Non ostante ciò, i secondi del signor De Witt proposero a quelli del signor Parrini di sentire il medesimo se, considerandosi soddisfatto, voleva resistere. Al che il Parrini rispose che si sentiva pienamente in forze e intendeva di continuare lo scontro.

Conseguentemente, rimessi i due primi in guardia, dopo diversi altri assalti, il signor Parrini ha riportato una ferita di punta al basso ventre, la quale, per la sua gravità, ha fatto cessare lo scontro.

I sottoscritti dichiarano che ambe le parti si sono comportate secondo le regole della più perfetta cavalleria, e che quindi resta esaurita ogni vertenza.


G. Malenotti.


G. Montepagani.

A. Muratori.



L’emozione per la sventurata e grave ferita toccata al Parrini fu enorme a Firenze; grande in tutta Italia. Da Firenze a Sesto fu un continuo viavai di persone che s’interessavano della vita del Parrini; durante i tre giorni ne’ quali fu un alternarsi continuo di speranze e di disperazione per la salvezza del ferito. — E quando il 22 luglio il prof. Parrini spirò, circondato dagli amici, sorse persistente la voce, che nel fatale duello tutto non s’era passato lealmente; mentre alcuni giornali qualificarono assassinio quello scontro, falsi i verbali!

Voci sparse ad arte, e precisamente ribadite da colui, che dopo i reporters poco precisi, doveva sentire il maggior peso morale di tanta sciagura, ed invece gridava: «Ma se la giustizia umana tacerà e centinaia di persone sorgessero [p. 190 modifica]a smentirci, dovessimo pur restar soli a ripeterlo, noi diremo sempre: Parrini fu assassinato!»


Al Pancrazi rispondevano nel Fieramosca del 25 luglio 1884, i quattro padrini:

Alle voci infami e calunniose, che bassamente si fanno circolare per render grave la situazione di gentiluomini, che hanno compiuto con tutta coscienza uno dei più delicati e dolorosi doveri, rispondiamo, per ora, pubblicando i verbali per far conoscere intiera la verità:


Firenze, 18 luglio 1884 (ore 3 pom.).

In seguito ad una corrispondenza da Firenze alla Gazzetta d’Italia, del 16 luglio corrente, nella parte che riflette il processo Venturini, avendo il cav. Eugenio De Witt riscontrato delle frasi a lui ed al proprio padre atrocemente ingiuriose, questa mattina lo stesso signor De Witt ha atteso il cav. prof. Cesare Parrini, corrispondente fiorentino della Gazzetta d’Italia, all’ingresso della Direzione del Fieramosca, chiestogli se egli era il cav. Parrini, avutane risposta affermativa e declinato il proprio nome, lo ha percosso sul viso.

Conseguentemente il cav. prof. Cesare Parrini ha incaricato i sigg. conte Giovanni Arrivabene e cav. dott. Gaetano Malenotti di chiedere una riparazione colle armi al signor cav. De Witt e questi, accettando, ha incaricato i suoi amici avv. prof. Angelo Muratori e Giovanni Montepagani di rappresentarlo nella vertenza.

Dietro di che i sottoscritti si sono riuniti a ore 4 pom. di oggi in una sala dell’Hôtel Cavour, e dopo aver esaurito ogni mezzo onde por termine alla vertenza mediante amichevole conciliazione, hanno stabilito di comune accordo di addivenire ad una partita d’onore, scegliendo per arma la sciabola ed alle seguenti condizioni: [p. 191 modifica]

1. Nessun colpo escluso;

2. Guanto da sciabola;

3. Lo scontro dovrà terminare, allorquando uno o entrambi i combattenti si trovino per dichiarazione dei medici nella assoluta impossibilità di continuare.

Lo scontro è fissato per domani mattina all’alba, con ritrovo alle 3 ant. sulla Piazza della Stazione.


Gaetano Malenotti


Angelo Muratori

Giovanni Montepagani.



DICHIARAZIONI.


Firenze, 24 luglio 1884.

La Gazzetta d’Italia pubblica oggi un articolo mendace, calunnioso e vigliacco. Al signor Pancrazi, che ne è l’autore, non rispondiamo; egli è solo degno di sputi in viso; la galera colla sua presenza sarebbe infettata.

Angelo Muratori

Giovanni Montepagani.


Indignati che l’avv. Pancrazi ci telegrafasse ieri di rappresentare la Gazzetta d’Italia ai funerali, mentre oggi ci tratta pubblicamente di assassini da strada, ci associamo alla dichiarazione precedente.

Giovanni Arrivabene

Gaetano Malenotti.

[p. 192 modifica]


Nel Corriere della Sera giunto stamani, circa il duello Parrini-De Witt, è detto quanto segue:

«Il Parrini, poco esperto nel maneggio della sciabola, indietreggiava sempre. Riportò dapprima sedici scalfitture; ma quando si trovò vicino ad una siepe e non potè più indietreggiare, allora il De Witt gli vibrò una puntata al ventre. La lama penetrò quattordici centimetri!...

«Il ferito rimase in piedi e rivoltosi al Malenotti, direttore del Fieramosca, che era uno dei suoi padrini e che è noto in tutta Italia per le sue freddure, esclamò:

— Dimmi presto un motto per farmi ridere!»

Lasciando l’inesattezza delle parole attribuite al Parrini, che il dott. Malenotti non ha mai udite e che ad ogni modo non furono rivolte a lui, resta la falsità del fatto relativo alla siepe, motivo per cui il dott. Malenotti ha inviato stamani al Corriere della Sera il seguente telegramma:


                Corriere della Sera,

Milano.

Prego smentire recisamente asserzione calunniosa che Parrini sia stato ferito vicino ad una siepe. Siepe non esisteva e Parrini ricevette ferita centro combattimento.

Malenotti.



L’accusa di «macellaio» fu rivolta anche ai medici; ma ben rispose a queste accuse il prof. Carlo Vanzetti con la sua lettera del 26, apparsa nel n.º 208 della Gazzetta d’Italia del 28 luglio 1884. [p. 193 modifica]

Eccola:

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

«Il Correzionale e le Assise assorbono pure qualche cosa dal pubblico; e il pubblico non faceva che dire: come mai con quattordici, con diciassette ferite, i medici non hanno fatto smettere? Lasciamo ora da parte le solite esagerazioni del pubblico, ma pur troppo la prima colpa si attribuiva al medico, con tutto il resto poi che diceva quella cara bocchina.... del pubblico medico.... difatti i miei colleghi non avrebbero avuto torto comecchè la mansione del medico nel duello sia molto difficile, tanto davanti al codice cavalleresco, che a quello penale, all’umanità e alla coscienza. Ed è certo che se la soluzione di una partita d’armi per gravi offese, debba aver luogo soltanto per grave lesione, è altrettanto vero che quando l’avversario non ha saputo in venti assalti apportare detta lesione, e a forza di piccole lesioni ha impossibilitato l’altro a continuare la tenzone, non può da costui esigere che gli faccia da piattone, nè da servitore. Si conservi, per Dio, la sua vittima e tiri colpi mortali esponendo la propria pelle, ma per troppa prudenza non si rovini il boccone a smozziconi, apportando una somma di piccole ferite. Un medico può dichiarare inabilitato uno al proseguimento del combattimento anche senza ferite per la sola stanchezza, e può perfino dichiarare uno inabile anche prima che si batta, per il solo morale, che potrebbe, per esempio, ridurre uno al sub-deliquio. Che sono forse gli avvocati o i muratori o i falegnami che devono insegnare ai medici come si devono comportare sul terreno? Noi dobbiamo saperlo.

Dunque tutti i medici avrebbero criticato o criticavano di già l’operato mio quando io avessi lasciato passare il verbale.

Notisi ancora che ventidue medici, con qualcuno de’ quali ho potuto parlare, erano stati a visitare il professor Parrini durante la sua breve degenza a letto. E sulla bocca di tutti veniva una parola diretta a me «perchè non avete fatto cessare?»

Se, come si era fissato, non fossero stati stampati [p. 194 modifica]verbali nè risposte di sorta a chicchessia io non avrei parlato certamente, poco curandomi in fin dei conti delle ciarle, e aspettando tutti alle Termopili delle Assise, ma dal momento che si scrive entrando nella mia partita, io dico il vero, ributto dalla porta le noci, e che noci, che mi si gettano in casa dalla finestra.

E poi, c’è l’altro tribunale, quello delle Assisie; siamo 7 rei, tutti imputati, e tutti che cerchiamo di difenderci. Sonovi testimoni che diranno che cosa ha fatto il dott. A., il dottor B., il padrino C. e l’altro D. Oh! sarebbe bella ch’io dovessi dire una bugia per farmi condannare, mentre poi i testimoni affermerebbero la verità che mi salverebbe! Se il Foro dopo 19 secoli volesse un caso nuovo, ci sarebbe proprio questo!

Ma v’ha di più: di solito quando c’è un morto le cose, se non al tribunale del pubblico, vanno bene dinanzi alla legge, per la gran ragione che «interrogato il morto non rispose.... » ma stavolta il morto ha parlato quando il dottore gli aveva detto in coscienza che le cose erano messe malino.... e.... e.... non si sanno, non si possono mai sapere le rivelazioni d’un morto.... e la curiosità sfrenata di un giudice istruttore....

Dunque per lo meno bisogna andar cauti....

Deve sapere ancora, egregio direttore, che avendo io chiesta l’autopsia del cadavere del povero Parrini, mi fu risposto che sarebbe stata fatta da medici incaricati dal tribunale, per cui io, come lei, si capisce, perchè si voleva escludere me; o l’autopsia non si faceva per constatare se era stata la sciabolata di punta che aveva spento il Parrini (che certo non v’erano altre probabili cause di morte); ma era per sezionare altre cose.

E chissà che cosa avranno detto quei medici.... chissà cosa avrà chiesto quel giudice!

E si pretende che io per far un piacere agli altri mi senta a dire un giorno: Ella non ha fatto desistere da un duello mortale quando vi erano lesioni tali, che in coscienza, Ella avrebbe dovuto giudicare capaci di far interrompere il combattimento, come fu constatato e giudicato da altri [p. 195 modifica]medici; tanto più quando il leso si dichiarava a lei stanco e mezzo svenuto...; tuttociò suffragato da prove e testimonianze, ecc., ecc. Davvero bisognerebbe che avessi perduto il cervello.

I padrini hanno già, come si dice nel verbale, delle prove di fatto per esonerarsi da ogni responsabilità, permettano dunque, che il povero dottore ritiri la sua coda dalla trappola di S. Pietro, giacchè lo può fare al braccio della più bella cosa del mondo: della «verità».

La ringrazio, egregio direttore, della sua bontà. Le scriverò ancora se vorrà essere tanto buono di accogliere i miei scarabocchi tirati giù di prima mano, e mi tenga per


Suo devotissimo
Dott. Carlo Vanzetti».



Ed eccoci alla fine del doloroso dramma:


Udienza del 16 settembre.

«Da ultimo l’imputato avv. Muratori pronunzia alcune parole in difesa propria e dei coimputati, dichiarando, anche a nome del Montepagani, che essi vogliono dividere intiera la responsabilità col De Witt.

Alle 4,35 (16,35) il presidente legge le questioni59 ai [p. 196 modifica]giurati, alle quali essi rispondono con verdetto negativo, sicchè tra l’emozione generale il Presidente esclama:

— Per i poteri che mi accorda la legge, e secondo il verdetto dei Giurati in nome del Re assolvo Eugenio [p. 197 modifica]avvocato De Witt, avv. Angelo Muratori, Giovanni Montepagani, conte Giovanni Arrivabene e dott. Gaetano Malenotti dalla imputazione che gravava su di essi, e sempre per i miei poteri discrezionali ordino la immediata scarcerazione dell’avv. Eugenio De Witt.

L’impressione dei verdetto è stata ottima per parte del pubblico che ha prorotto in applausi.

Gli amici degli accusati si affollano intorno ad essi congratulandosi e stringendo loro la mano60.

[p. 198 modifica]


L’assoluzione di tutti gli imputati provò quanto fosse calunniosa l’accusa di dolo rivolta contro i compartecipanti al duello.

Questo è il riepilogo del combattimento singolare in cui lasciò la vita, compianto universalmente, il prof. cav. Cesare Parrini, nato a Firenze il l.° settembre 1835; insegnante privato a Torino, quando professare sentimenti d’italianità era delitto ovunque, tranne che in Piemonte; sotto-segretario di prefettura a Verolanova; professore alla scuola tecnica annessa al Liceo Dante Alighieri di Firenze; giornalista e scrittore distinto ed apprezzato, nemico del duello, perchè contro la barbara costumanza aveva, pochi mesi prima della sua morte, spezzata una lancia in una conferenza tenuta al Circolo Filologico di Firenze.

Strana fatalità!


1885 (Maggio). Chapuis-Dekeirel; Menvielle e Naquet; Contarini e Pensatore; Tornabene e Contarini. — Un duello che finì molto tragicamente e alla Corte d’Assise, è quello accaduto or sono pochi anni61, tra i signori Chapuis, tenente del 110.° di linea francese e il signor Dekeirel. Ecco come si svolse questo duello, che sollevò tante discussioni e destò tanta emozione per le circostanze che lo accompagnarono. (Illustration, Journal Universel, num. 2205, 30 maggio 1885).

Il signor Dekeirel, a quanto sembra, si preoccupò con viva sollecitudine dei suoi preparativi prima di scendere sul terreno.

Tale sollecitudine fu accolta da un’osservazione ironica, [p. 199 modifica]o, come altri dicono, beffarda, per parte di uno dei testimoni dello Chapuis, al momento di impugnare le armi. I padrini del Dekeirel, invece di protestare contro la poca correttezza della parte avversaria, rimasero, non troppo esperti delle cose d’onore, profondamente turbati dalla prospettiva dello scontro che stava per succedere, e che per la irritazione delle parti si annunziava difficile nella condotta e quindi facilmente di tristi conseguenze.

Collocati gli avversari e incrociate le spade, il signor Chapuis e il signor Dekeirel guadagnarono la distanza e lo Chapuis andò violentemente a fondo con un colpo di sotto, che passò tra le gambe del Dekeirel, il quale con una parata di quarta bassa, mantenne basso il ferro nemico.

Siete toccato; disse Chapuis.

Niente affatto; soggiunse Dekeirel.

Vuol dire allora che avete una corazza.

È falso!... e così dicendo il signor Dekeirel aprì le vesti per mostrare com’egli non indossasse maglia di sorta.

Il primo assalto non fu troppo cavalleresco e contribuì ad irritare vieppiù gli animi eccitati.

Rimessi in guardia, i due avversari si attaccarono di bel nuovo e si fecero tanto sotto, che sembrava assistere ad un pugilato e non ad una partita cavalleresca con le armi.

Ad un tratto i testimoni videro il Dekeirel fare un salto indietro; il suo braccio sinistro piombare giù e allontanare la spada dello Chapuis dalla parata; il quale, restato scoperto, cadde riverso al suolo, colpito al petto.

Siete toccato! esclamò Dekeirel.

Già; rispose lo Chapuis, ma voi mi avete trattenuta la spada, ciò che in un duello equivale ad un assassinio.

Il Dekeirel protestò contro l’accusa dell’avversario, dichiarando di essere stato toccato alla mano sinistra.

Intanto, militando a convalidare l’accusa dello Chapuis, i precedenti del duello, l’irritazione eccessiva dei combattenti, la ferita che il Dekeirel aveva riportata alla mano sinistra, e che il medico militare capo constatò «essere stata prodotta da un colpo di punta con lacerazione» il Dekeirel fu inviato alla Corte d’Assise per essere giudicato. [p. 200 modifica]


Il Verbale di seguìto scontro così narra il duello:


«Alla ripresa, Chapuis si portò rapidamente in avanti, e i due avversari si trovarono subito alle prese molto sotto misura.

«La mano del sig. Dekeirel si abbassò e fece deviare la spada del suo avversario.

«Nello stesso momento, Chapuis ricevette un colpo di spada che gli traversò il petto.

«Non fu possibile ai testimoni di vedere se la spada di Chapuis fosse stata solamente deviata, o se fosse stata veramente afferrata.

«Tuttavia, dopo il combattimento, il dottore constatò che Dekeirel era stato ferito all’indice della mano sinistra per circa un centimetro di lunghezza, ferita che sembrava prodotta da un’arma tagliante».

E qui, durante il dibattimento tornò in campo la ormai vecchia questione sulla: mano sinistra, questione della più grande importanza in materia di cavalleria.

Sorse la domanda: — Si può adoperare la mano sinistra per parare?

Sei uomini di spada, nel rispondere, si divisero in due campi.

Il Saucéde, un notissimo schermitore, molto stimato, e da tutti riconosciuto di molta competenza, interrogato dal giudice, diede il suo parere, cominciando dal dichiarare che non poche persone, anche aventi l’abitudine del terreno, fanno, durante il duello, gesti non veramente permessi.

— L’uso della sinistra è permesso? — chiese il giudice.

Il Saucéde rispose:

— Secondo me, no. Ma un numero grande di maestri, ed anche di miei amici, ammettono quell’uso perfettamente. E questione di scuola. Il movimento della sinistra per lo più è incosciente. Ove i secondi intervenissero, l’intervento [p. 201 modifica]sarebbe sposso più pericoloso che vantaggioso al loro primo. I secondi devono astenersi.

Trattenere la spada avversa per ferire, è slealtà; ma l’atto è scusabile, se è istintivo. E novantanove volte su cento è istintivo e macchinale.

Uno non sarebbe uomo d’onore, se andasse sul terreno coll’intenzione di servirsi della sinistra. Ma sul terreno si fa quel che si può.

In sala d’armi la parata con la mano sinistra non si insegna. E una parata non soltanto irregolare; ma anche pericolosa per chi la adopera. Infatti, lo schermidore che agita la sinistra, presenta tutto il corpo scoperto. Ma la sala d’armi è una cosa e il terreno è un’altra.

Il Vigeant, un maestro eccellente, fu assai più esclusivo nella proibizione della sinistra. L’uso della mano, egli disse, è un fatto sleale; ed è tanto più sleale, quando il combattente svia la spada nemica per colpir subito dopo.

Al contrario il Roulez, un dilettante fra i migliori, affermò che si può parare con la manca e quindi rispondere.

La scuola italiana, la scuola-madre, insegna la parata di mano sinistra. Quando poi uno ha parato, risponde istintivamente.

L’Oudard, maestro molto stimato a Lilla, aggiunse che egli non insegna in sala la parata in questione; ma che sul terreno la cosa muta. Sul terreno uno si difende come sa e può. Regole di duello non ci sono (!!!).

Molti altri dilettanti e maestri valentissimi espressero la stessa opinione in favore della mano sinistra: Féry-d’Esclands, Edmond, Dolfin, Villeneuve, Expeleta, Alfonso de Aldama, G. de Aldama, Wasckiewiz, e infine Mérignac.

Il barone di Vaux dichiarò:

— Quanto a me, io non penserei da prima a far uso della manca; ma se, nel calore del combattimento, mi si presentasse l’occasione, io mi crederei puramente e semplicemente nel diritto di parare in quel modo.

Paolo di Cassagnac invece, quello delle epistole al Laur, e Anatolio de la Forge, il gentiluomo senza macchia e senza paura, condannarono l’uso della sinistra assolutamente. [p. 202 modifica]

Il Cassagnac colse l’occasione per scrivere un’epistola, e conchiuse:

«In nessun caso, l’uso della manca può essere permesso. Quanto alla questione di sapere se l’uso della mano manca possa essere scusato come un moto d’istinto, io dirò che il duello è stato inventato apposta per impedire che l’istinto prenda il posto della lealtà.

Inoltre, Alfonso de Aldama, Roulez, Waskiewicz, Mérignac, Giulio Jacob, Oudard, Olsarale, Goupil indirizzarono al signor Hattu, difensore del Dekeirel la seguente lettera:

«I maestri Girard (1740), Angelo (1763), Pietro Grisetti (1811), Michele Cambogi (1837) nei loro trattati pubblici di scherma, insegnano a parare con la mano sinistra non solamente, ma anche a servirsi di questa mano per afferrare la spada dell’avversario.

Danet (1766), De Meuse (1778), La Boessière (1818), maestri eccellentissimi, insegnano a parare con la mano sinistra.

Gomard ammette la parata della mano sinistra nel duello e ne raccomanda lo studio.

Cordelois (1872) ammette, senza restrizioni, questa parata e la considera lealissima».


Domanda. Questo mezzo di difesa in duello deve considerarsi sleale?

Risposta. No.

D. Supposto che Dekeirel abbia, in un moto istintivo e non premeditato, fatto deviare, con la sinistra, rapidamente la spada avversaria, senza prenderla e tenerla, deve considerarsi sleale questa manovra di difendersi?

R. No».

Come i lettori vedono, anche in questa lettera abbastanza precisa e recisa entra la supposizione del moto istintivo. Ora a noi pare che la scusa dell’istinto non sia per niente necessaria, se si ammette che la parata della mano sinistra in duello è parata leale. [p. 203 modifica]

Cosicchè da tutto quel famoso dibattimento non emerse in verità, alcuna teoria chiara; o emerse questo: che la parata della mano sinistra è scusabile, se istintiva.

Ma quale criterio adopreranno i testimoni per giudicare l’istinto? — E con qual criterio sicuro si potrà affermare che il movimento è stato o no istintivo?

Questa scusabilità è molto elastica; è tanto elastica che, ove sia ammessa, equivale semplicemente alla permissione della parata.

Il Dekeirel fu assolto; ma, anche dopo l’assoluzione e dopo le approvazioni che la gran maggioranza del pubblico diede al tribunale assolvente, la questione cavalleresca rimase indecisa.


Infatti nel luglio (16) dell’87, a Grenoble, si vide il capitano Martin, testimone del signor Menvielle, redattore capo del Réveil du Dauphiné, schiaffeggiare, sul terreno dello scontro, Gustavo Naquet, redattore capo del Petit Dauphinois, perchè questi, al terzo assalto, afferrata con la mano sinistra la spada del Menvielle, lo feriva gravemente al fianco.

Il capitano Martin, sfidato dal Naquet, unì la sfida ai verbali e mandò il tutto al Procuratore della Repubblica.

Il Tribunale di Grenoble pronunziò la sua sentenza contro il Naquet, respingeva la premeditazione, ed affermava che la ferita fu volontaria, e ammise le attenuanti; condannava il Naquet a due mesi di carcere, a 200 franchi di multa e a un franco di danni, richiesta dal Menvielle.


1885. — Per una polemica giornalistica nel 1885 a Palermo, succede uno scontro alla sciabola tra certi Contarini e Pensatore, che vi rimase ucciso. [p. 204 modifica]


A Girgenti, nel 1885, due giornalisti, o per meglio dire, due signori, improvvisati giornalisti per le lotte intestine della città, in seguito ad ingiuriosi articoli, si battono alla sciabola e l’avv. Tornabene viene ucciso con una puntata dall’avversario Contarini.


Marzo 1886. Alvarez-Paradez. — Don Alvarez e don Paradez sono due messicani e parenti stretti. Ma, appunto perchè parenti, non vanno d’accordo, si odiano, si detestano, perchè ci sono di mezzo dissensi di famiglia e d’interesse.

Finalmente, nel marzo 1886, la tazza dell’amarezza è colma e trabocca sotto forma di un duello alla pistola, avvenuto nelle vicinanze di Chihuahua nel Messico. Un combattimento rumoroso, una vera battaglia.

Dieci palle sono scambiate dagli avversarî; ma all’ultimo colpo (l’esercizio era stato proficuo) don Alvarez ne riceve una nella fronte che lo fredda; ma don Paradez, che aveva tre ferite, spirò qualche giorno dopo.


1887. Tenente Cingia e Luigi Randesi. — Il 20 luglio del 1887 un duello alla sciabola accadeva, in una villa presso Suzzara, tra il tenente Pietro Cingia e il nobile Luigi Randesi.

La donna, dissero taluni; cause intime, riservate, accennarono altri, furono il movente dello scontro; ma la determinante del duello furono alcune scudisciate, che in luogo pubblico, il tenente Cingia assestò al nobile Randesi.

Questi era assistito dal dott. Marco Filippi e dal nobile [p. 205 modifica]Alfredo Campioni; l’ufficiale dal conte Ettore Armani e da Giuseppe Bernardi. Il conte Ettore Ferratis fu chiamato a dirigere lo scontro, alla sciabola, con guantone, senza esclusione di colpi, ad oltranza.

Alla prima messa in guardia, il tenente Cingia è leggermente toccato con un traversone; alla seconda il Randesi è leggermente ferito di figura alla guancia sinistra; alla terza il tenente è toccato al ciglio sinistro; il sangue, colando, esige la sospensione della lotta. Dopo la medicazione si viene alla quarta ripresa, durante la quale il Randesi è colpito gravemente di punta al fianco sinistro; per la ferita cade e nel cadere ferisce il tenente Cingia alla bocca dello stomaco, ferita che esigette quattordici punti di sutura.

Alla sera del successivo 21 luglio, il Randesi rendeva l’anima al Creatore.

Animati da reciproco risentimento, i due avversarî si attaccavano con impeto e con risolutezza. L’ultima passata d’armi poi fu di una vivacità straordinaria. Il Randesi mirava alla testa, e moltiplicava i traversoni; il Cingia tentava l’arresto e con un colpo d’arresto, invero, metteva fine al duello.


1888. Habert-Dupuis. — Nel 1888 (giugno) per dissensi futilissimi, che provocarono un articolo del signor Habert, pittore e critico d’arte a Parigi, avvenne un duello alla pistola tra l’articolista e il signor Dupuis, che vi rimase ucciso.

Durante il dibattimento penale a carico dell’uccisore, uno dei padrini risponde ai rimproveri rivoltigli dal presidente:

— Se una sventura è sopraggiunta, non è a me che dev’essere attribuita. Io non m’intendo proprio nulla di questioni d’onore.

Ecco la prova lampante che il più delle volte i duellanti scelgono padrini assolutamente inetti; i quali sono poi [p. 206 modifica]la causa involontaria di non volute uccisioni nel campo cavalleresco.

Aveva ben ragione A. Karr di sentenziare, che in duello non sono le pistole o le spade che uccidono, sibbene i padrini per la loro fenomenale ignoranza per tutto ciò che ha rapporto alle vertenze d’onore.

Dall’atto d’accusa si rileva:

«Habert costituì a padrini i signori X** e L**.

«X** avrebbe dovuto, in tutti i casi, declinare il mandato che gli veniva offerto, perchè aveva rancore contro Dupuis, avversario del suo mandante, non trovandosi nelle condizioni desiderabili di neutralità e d’imparzialità per tentare una conciliazione, che le circostanze rendevano necessarie.

«Ed è lui, infine, il nemico di Dupuis, che senza riguardo, accetta la direzione del combattimento».

È vero, però, che una proposta di conciliazione fu fatta; ma sul terreno al momento di comandare il fuoco, come risulta dal verbale di seguìto scontro!


1889. Panioutine-Lazareff; Tégalmy e il ciclista; il principe Baltazzi e il conte Hoyos; Pierotti e Belz de Villas; Triberti-Zanone; Antonio D’Anna e Zitello; Borba e Compagno. — A Pietroburgo, nel gennaio 1889, si svolse un processo per duello che aveva sollevato straordinaria emozione nell’aristocrazia russa.

Nell’estate 1885, alle acque di Kislowodski, celebre stazione balnearia del Caucaso, frequentatissima dalla high-life russa, il capitano Panioutine, uno dei più brillanti ufficiali della nobiltà di Pietroburgo, s’innamorò della signorina Nina Lazareff, figlia del generale vincitore di Kars nella campagna del ’77. Il capitano innamorato cotto confessò alla bella e gentile Lazareff, che questa passione gli aveva fatto dimenticare la principessa O**, della quale era già fidanzato.

La voce che il capitano Panioutine e la signorina [p. 207 modifica]Lazareff fossero fidanzati, corse tosto nei circoli militari e aristocratici di Pietroburgo e del Caucaso.

Il capitano, infatti, aveva presentata la sua domanda per autorizzazione di matrimonio ai superiori; ma la giovane non ottenne, come desiderava, il beneplacito da parte dei parenti del capitano.

E dopo un lungo, inesplicabile silenzio, Panioutine, tornato a Pietroburgo, scrisse alla signorina Lazareff, che per ubbidire alla madre egli doveva sposare, come precedentemente era stato deciso, la principessa O**.

La Lazareff rispose: «Nel momento di legare la mia vita ad uomo senza carattere, sono troppo felice di esserne avvisata in tempo».

Questa corrispondenza fu tenuta segreta; ma quando venne a conoscenza dei fratelli di madamigella Nina, convennero di mandare il fratello minore, Pietro Lazareff, a sfidare il capitano Panioutine. La lettera di provocazione fu sequestrata dalla madre di questo, la quale non volle turbata la luna di miele di suo figlio. Ma, alfine, l’incontro avvenne, il duello fu deciso ed ebbe luogo in una foresta presso Pietroburgo, alla pistola, 22 passi di distanza, con facoltà di avvicinarsi fino a 15 passi.

Padrini furono quattro ufficiali. Al primo comando di fuoco una palla di Panioutine sfiorò la testa di Lazareff, al quale l’arma fece cecca. Secondo gli accordi prestabiliti, cambiò la carica e questa volta ferì così gravemente il Panioutine, che ne morì all’indomani.

La legge russa determina: se l’offeso è ucciso, l’offensore sarà punito con 6 anni e 8 mesi di carcere; se l’offensore è ucciso, l’offeso sarà punito col carcere per due anni e sei mesi.

Il tribunale considerò il Lazareff come offeso dalla condotta di Panioutine, e condannò il primo a due anni e sei mesi di fortezza.

Questo duello ha un curioso e triste riscontro in quello accaduto nel 1838 tra il conte Paolo Petrowitch Novosiline e il figlio del generale Savatchernick.

Sola differenza, che qui c’era di mezzo una semplice [p. 208 modifica]promessa, e là.... un fanciullo; in questo duello perì un solo avversario, nell’altro ambedue.


Febbraio 1889. — Il 2 febbraio 1889, il capitano d’artiglieria Tégalmy ebbe da questionare con un volocipedista, al Calvayrac.

Un duello alla spada fu tosto combinato ed a Saint-Céré (Lot), ove avvenne, il povero capitano Tégalmy riceveva un colpo formidabile in pieno petto, che lo spediva all’altro mondo!


23 aprile 1889. — Il principe Enrico Baltazzi, in un duello accaduto a Meyerling (presso Vienna), rimase ucciso da un colpo di pistola del conte Hoyos.


14 luglio 1889. Pierotti-Belz de Villas. — «Scegliete padrini capaci, perchè tutto dipende dal senso della ragione, dalla calma di chi vi rappresenta. Sarete feriti, forse, ma non sarete assassinati».

Chi nella scelta dei padrini non è cauto, se lo ricordi, difficilmente potrà pentirsene, perchè novantanove su cento lascierà la vita nello scontro.

Eccovi un verbale che dà completamente ragione al vecchio asserto.

«In seguito ad una nota apparsa nel Petit Provençal di martedì, 9 luglio, in risposta ad altra precedentemente stampata nel Bulletin officiél revisioniste, M. Belz da Villas, ritenutosi offeso, ha inviato a M. Pierotti, autore della nota nel Petit Provençal, due suoi amici, signori Teofilo Fabre e Brégas. M. Pierotti ha nominato i signori Cabrol e Bouge. [p. 209 modifica]

Il 13 luglio, i quattro rappresentanti si sono riuniti presso il signor Chaix, farmacista (!), e M. Brégas in nome del signor Belz de Villas ha richiesto una rettifica alla nota, o una riparazione con le armi.

M. Pierotti, rifiutando qualsiasi ritrattazione o rettifica, fu stabilito che uno scontro tra i due avversari avrebbe luogo domenica, 14 luglio, alle sei e mezza del mattino nei pressi di Mazargues.

Le condizioni vennero stabilite in tal guisa: spada da duello con guanto ordinario, a volontà dei combattenti. Ciascun assalto non potrà durare più di due minuti; alla prima ferita il combattimento sarà sospeso.

Ma, se dopo due riprese, non si avrà alcuna lesione, il combattimento sarà subito sospeso».

Hanno firmato:


per Belz de Villas:

T. Fabre

A. Brégas.


per Pierotti:

A. Bouge

A. Cabrol.



«Il combattimento stabilito ha avuto luogo stamane, alle sei e mezza, nella località indicata. Al primo attacco, e dopo trenta secondi di combattimento, M. Pierotti è stato leggermente ferito alla bocca dello stomaco.

Durante la medicazione, fatta dal signor dottor Besson, una sincope è sopravvenuta, provocando l’immediata morte del signor Pierotti, malgrado tutte le cure prodigategli dai presenti.

Fatto in doppio originale a Marsiglia, il 14 luglio 1889».

Hanno sottoscritto:


per M. Belz de Villas:

T. Fabre

A. Brégas.


per M. Pierotti:

A. Bouge

A. Cabrol.

[p. 210 modifica]


La cronaca di questo duello ci informa:

«In seguito a questo scontro con esito fatale, il signor Belz de Villas se n’è andato al Circolo, ove s’è affacciato al balcone, e a mezzogiorno ha assistito a un banchetto revisionista, al quale i suoi padrini hanno avuto il buon senso di non comparire».


Ed eccoci al dibattimento.

Alla domanda:

— Voi riconoscete di aver causato volontariamente la morte di Pierotti?

De Villas ha risposto:

— Sissignore; senza riserva o esitazione.

Quindi ha riferito in dettaglio le circostanze del duello, dimostrando come lo scontro fu leale. Solamente quando gli posero le manette, il signor Belz si conturbò assai. Nè di questo turbamento glie ne faccio colpa.

Nel pomeriggio i signori Fabres e Brégas, padrini di Belz de Villas, si posero a disposizione del giudice d’istruzione. Ne seguì interrogatorio e confronto con i testimoni del povero morto.

Per richiesta della famiglia Pierotti, i dottori Fanton e Flavard si recarono a casa del defunto per constatare l’indole della ferita. Sondarono la piaga allo sterno e costatarono che la spada era penetrata per ben quattro centimetri e che la punta del cuore era stata lesa. Infine, constatarono l’esistenza di due altre ferite sul bicipite destro.

Il corpo, poi, fu fotografato in maniera da porre le tre ferite in evidenza.

Nel processo verbale non si faceva parola che di una sola ferita; e le altre? [p. 211 modifica]


Lo svolgimento del processo intentato contro Belz de Villas, che aveva ottenuto la libertà provvisoria, mediante una cauzione di 5000 franchi, fu fissato pel 9 agosto 1889; ma come spesso succede anche in Italia, non si discusse che in dicembre e la Corte d’Assise delle Bocche del Rodano condannò M. Belz de Villas a due anni di prigione, ad una ammenda di 6000 franchi alla vedova Pierotti e di 5000 franchi alla figlia dell’ucciso.


Come sempre succede, quando un galantuomo o una birba, poco monta, cade morto sul terreno, la pubblica opinione si commosse per l’uccisione del Pierotti e per la condanna di Belz de Villas.

I duellisti e gli antiduellisti scesero in campo per discutere l’ormai eterna questione del combattimento singolare. M. Cluseret propose financo una legge speciale sul duello, che provocò un articolo di Albert Wolf:

«M. Cluseret può ricacciarsi in tasca la sua legge sul duello, che d’altra parte non avrebbe avuto alcuna speranza di essere accolto dalla Camera. La Corte di Assise d’Aix, s’è incaricata di metter le cose a posto, condannando M. Belz a due anni di prigione. Gli sono state accordate le attenuanti, però, del che può andarsene contento il condannato! Una condanna più grave l’avrebbe reso interessante; mentre una assoluzione per le circostanze crudeli che hanno provocato lo scontro, sarebbe stato uno scandalo. Ora, dopo pochi mesi di prigione, si faccia grazia a Belz; è cosa che concerne l’uccisore e il ministero di Grazia e Giustizia».

«Ma un esempio ci voleva, perchè questo duello di Marsiglia non poteva proprio dirsi una questione d’onore. Quale fu il punto di partenza? [p. 212 modifica]

Quel certo non so che di inconfessabile di uno scrittore, che replica con sanguinose offese personali al rifiuto di pubblicare un romanzo!

Il signor Belz non era stato colpito nell’onore; ma nella sua vanità!

Questa maniera d’imporsi a colpi di spada, non ha nulla in sè che possa accaparrare le simpatie di una Corte d’Assise; questa maniera di comprendere la grancassa deve offendere i laboriosi, che lentamente conquistano i loro gradi a traverso alle mille difficoltà delle quali è irta la difficile êra della letteratura.

«Spingere un uomo agli estremi sotto lo specioso pretesto che non ha potuto dare la soddisfazione agognata dal nostro amor proprio; mettergli la spada in pugno e stenderlo inanime al suolo; far tutto questo a cuor leggero, senza una ribellione della coscienza, senza un rimorso, nemmeno apparente, ah! per Dio, costituisce un insieme di fatti riprovevoli, contro i quali il buon senso dei giurati doveva ribellarsi. Ora il signor Belz saprà che in mezzo alla libertà, o meglio, alla tolleranza del duello, la coscienza pubblica salvaguarda i suoi diritti, e che la legge non è disarmata62».


La causa del duello nel quale lasciò sì malamente la vita il Pierotti, mi fa rivivere nella mente l’aneddoto di quel direttore di un giornale chinese, che per sua grande jattura aveva a governatore della provincia un Mandarino, altrettanto bottonato quanto asino, benchè impenitente grafomane.

Ogni giorno il Mandarino spediva le sue elucubrazioni [p. 213 modifica]al direttore del giornale, perchè le pubblicasse. Non era facile dire di no; eppure quella roba non si poteva assolutamente stampare, perchè priva di senso comune.

Il direttore un bel giorno, seccato, respinge i nobili scritti, accompagnandoli con una lettera:

«I tuoi scritti, o figlio di Dei, sono ispirati dalla Luna e dal Sole; contengono concetti così elevati, talmente sublimi, che solo i figli del cielo possono comprendere. Noi siamo indegni di leggerli; indegno è il mio giornale di comunicarli alle turbe.... ecc., ecc.».

Il Mandarino, mangiò la foglia, e all’indomani.... oh, non temete, non mandò a sfidare il giornalista, perchè.... dondolava attaccato pel collo ad un lungo palo!...

Starebbero freschi i giornalisti italiani, se i metodi chinesi prendessero piede nel bel paese!


14 agosto 1889. Triberti-Zaccone. — Ecco perchè due bravi giovanetti scesero in campo uno contro l’altro armati; ecco perchè una giovane esistenza veniva sacrificata alla stupida costumanza del duello; alle grottesche esigenze di una mal interpretata disciplina militare.

Triberti di Brescia e Zaccone di Biella sono due allievi della Scuola Militare, due bravi giovanetti e buoni amici. Durante una lezione, il professore interroga Triberti che non risponde; rimprovero di prammatica, seguito da relative scuse.

— Dal mio posto non vedo ciò che è scritto sulla lavagna, perchè sono miope.

— Anch’io sono miope, esclama lo Zaccone che gli sta accanto, quasi scherzando, e pur ci vedo....

Terminata la lezione il Triberti attende lo Zaccone fuori della classe e gli assesta uno schiaffo.

Corre nomina dei rappresentanti con relativa sfida; ma, essendo principiati gli esami, vien deciso di rimandare lo scontro al termine di questi.

Nel frattempo colleghi e superiori fanno a gara per [p. 214 modifica]tentare una conciliazione; ma sempre invano, perchè allo Zaccone brucia ancora la gota percossa.

Il 14 agosto (1889), alle sette di sera, i due allievi si trovano a Saliceto-Panaro, ove, assistiti da quattro colleghi, impugnano la sciabola e si attaccano con violenza. Al secondo assalto il giovane Triberti riceve una ferita al collo, che gli recide i grossi vasi, provocandone l’immediata morte; lo Zaccone constata di essere rimasto ferito leggermente alla spalla destra.

Il cadavere del giovanetto venne subito portato nella camera mortuaria del vicino villaggio.

Più tardi si fece processo; lo Zaccone fu condannato a sei mesi di confine a Parma; ma in appello (18 dicembre 1889) la pena venne ridotta a due mesi di confine a Chiavari!


Nel novembre 1889 il direttore del giornaletto Forbice, Antonio D’Anna in seguito a polemica, schiaffeggiò il collega del Caporal terribile, Giuseppe Zitello.

Un duello alla pistola fu riconosciuto necessario, e nei pressi di Palermo, a Verdesi, al terzo colpo, il direttore del Forbice, colpito all’occhio destro, cade fulminato al suolo.

È inutile aggiungere che dopo il combattimento gli avversarî non si strinsero la mano!

Ma tra le sue braccia la giustizia strinse lo Zitello e il capitano d’artiglieria Galassi e il rinomato maestro Franco Vega, e i padrini del defunto D’Anna, capitani de’ bersaglieri Giuliano e Scarfaro.

Il 19 luglio cominciò al tribunale penale di Palermo il processo contro Giuseppe Zitello, contro il barone Giovanni Patti, e contro Franco Vega maestro di scherma, imputato il primo di omicidio in duello contro Antonio D’Anna e gli altri come secondi del Zitello per istigazione al duello.

Furono interrogati gli imputati e sentiti i capitani dei bersaglieri Scarfaro e Giuliano padrini di D’Anna.

Il pubblico ministero concluse ritirando l’accusa, per [p. 215 modifica]inesistenza di reato, contro il barone Patti e il maestro Franco Vega, padrini dello Zitello, imputati d’istigazione al duello e chiese per il Zitello il rinvio degli atti al giudice istruttore, con mandato di cattura per omicidio volontario.

Il tribunale riconobbe essersi osservate nel duello le regole cavalleresche.

Assolse conforme alle conclusioni del pubblico ministero i signori Patti e Vega, condannò difformemente dalla detta conclusione lo Zitello ad un anno di detenzione ed a cinquecento lire di multa per reato d’omicidio.

Lo Zitello interpose appello, chiedendo una diminuzione di pena, ritenendo che le regole cavalleresche gli avessero imposto di condursi come si condusse, sul terreno.


Pure nel 1889, il signor Borba viene a vie di fatto col signor Compagno.

Il fatto essendo avvenuto in un teatro di Palermo, obbligò i due avversari a scendere sul terreno.

Il Borba ricevette un fendente al capo che gli produsse una ferita grave. Sopravvenuta una eresipela, il Borba morì.


1890 (17 ottobre). — Due duelli misteriosi. Il conte Adeleski e il conte Clermont-Tonnerre; Isabella Hernandez e Rosa Gusman; Duval e Marcel; Parteneut e Mac-Evoy; in America; Policastrelli e Ranchibile. — Il giorno 17 ottobre del 1890 si svolse dinanzi il consiglio della marina di guerra a Tolone il processo del sotto-ufficiale Wernert accusato di diserzione. La sua comparsa dinanzi i giudici militari non fu che l’episodio di un dramma intimo, il mistero del quale non venne ancora svelato.

«Carlo Wernert ha 27 anni. È un giovane sotto-ufficiale di alta statura, dalla fisonomia aperta e simpatica. Alsaziano, [p. 216 modifica]appartenente ad una famiglia borghese di Schlestadt, s’arruolò nella fanteria di marina. Si distinse per coraggio ed abilità nella campagna del Tonkino e durante l’epidemia colerica, ciò che gli valse le spalline. La sua condotta era irreprensibile.

Imaginate ora la sorpresa dei suoi superiori, dei suoi amici quando si venne a sapere il 24 dello scorso maggio, che Wernert era scomparso. Lo si ricercò invano per più settimane. La deposizione di un soldato che aveva scoperto delle tracce di sangue nella sua abitazione, fece ritenere che il Wernert fosse stato assassinato.

Più tardi corse la voce che il giovane sotto-ufficiale avesse disertato la bandiera francese e fosse ritornato in Alsazia presso i suoi parenti, deciso di vivere tranquillamente nella città natìa, ridivenuta tedesca. Qualcuno aveva insinuato il sospetto che si fosse reso colpevole di un tradimento e che avesse venduto dei documenti militari alla Germania».

Mentre sul suo conto correvano così fatte voci, il giorno 9 ottobre, Wernert ricomparve a Tolone e si presentò al suo colonnello chiedendo di essere giudicato.

Il sotto-ufficiale fece conoscere al suo capo che la sua partenza non era stata che l’epilogo di due drammi sanguinosi, nei quali aveva successivamente ferito mortalmente due uomini.

Egli aggiunse, senza entrare in particolari, che un odio di famiglia l’aveva posto nella necessità di battersi a duello con una persona, non militare, abitante a Lione e che occupava un posto elevato nella società.

Lo scontro ebbe luogo di notte, al chiarore delle fiaccole, nel giardino della casetta abitata dal giovane sott’ufficiale. Ferito gravemente l’avversario, di cui non volle dire il nome, venne trasportato in una vettura che lo condusse alla stazione. Qualche giorno dopo questo incognito moriva a Lione.

Ma non è tutto. Pochi giorni dopo un secondo duello, alla spada, di notte come il primo, ebbe luogo in quel medesimo giardino. Anche questa volta l’avversario del giovane Wernert, ferito gravemente, venne trasportato dai testimoni alla stazione e morì a Lione dopo qualche giorno. [p. 217 modifica]

Fu allora che, vedendo spezzata la sua carriera, impressionato dalle prospettive di un processo alla Corte d’Assise, egli abbandonò Tolone e si rifugiò presso la sua famiglia, dove egli si troverebbe ancora, se l’odiosa accusa di spionaggio politico non lo avesse obbligato a tutela del suo onore a costituirsi prigioniero.

«Queste sono le circostanze in particolar modo toccanti, per le quali il giovane sott’ufficiale compariva davanti i suoi giudici militari. Chi sono i due uomini morti nei due tragici scontri? Quale ragione d’odio mortale li aveva posti di fronte al loro avversario? Che avvenne dei loro cadaveri? Che significa che nè a Lione, nè sul tratto ferroviario da Tolone a Lione, nessuno s’accorse dei due feriti? Sono questi altrettanti punti interrogativi. Malgrado il mistero che avvolge questa narrazione, nessuno però l’ha posta in dubbio».

Durante il dibattimento, che commosse in sommo grado la popolazione tolonese, il sott’ufficiale Wernert ripetè esattamente il racconto fatto al suo colonnello e volle persistere nel tacere i nomi dei suoi due avversari, così pure quelli dei suoi quattro testimoni e del medico, che assisteva agli scontri.

Vennero uditi quattro testimoni. Il procuratore militare pur rendendo omaggio al nobile passato e al merito del Wernert, chiese in nome della disciplina l’applicazione della pena da sei mesi a due anni di prigione prevista contro i disertori.

Il difensore seppe toccare la corda sensibile, egli supplicò il Consiglio di guerra di non togliere alla Francia un ufficiale di cuore, del quale un fratello corazziere aveva versato il sangue per la patria, e che fu vittima d’un momento di follia, procurato da un terribile dramma intimo.

Dopo breve deliberazione, il Consiglio di guerra pronunciò ad unanimità un verdetto di assoluzione.

Il giovane venne circondato dai suoi camerati, che si congratularono vivamente per l’assoluzione.

È incomprensibile, però, come le autorità non abbiano cercato di vederci chiaro in un mistero che ha costato la vita a due uomini. Questo mi dico io, mentre copio dai giornali di quel tempo le parti virgolate. Come sono.... credenzoni.... taluni Consigli di Guerra!... [p. 218 modifica]


1890 (31 dicembre). — Sulla fine del dicembre del 1890, se non erro, un duello alla pistola, ravvolto nel mistero più assoluto, turbò la pace de’ gioviali marsigliesi.

Si diceva che c’erano due morti; poi si venne ad un accomodamento e si ridusse il morto ad uno; finalmente si squarciò parte del velo, che nascondeva il mistero, e si accertò che di morti non ce n’era; ma un sol ferito gravemente, e sulla buona via della guarigione.

I giornali scoprirono il segreto e dai giornali appunto dell’epoca tolgo queste notizie.

«Oggi i nomi sono conosciuti. Il ferito è il conte Adeleski, gentiluomo ungherese, parente del già ministro Tisza, l’altro è il conte di Clermont Tonnerre, giovine di 24 anni.

Il conte Adeleski, nonostante i 50 anni suonati, aveva sposato, tempo fa, una bella ragazza di Vienna, la quale non recava in dote che la sua bellezza, giacchè era di bassa condizione e viveva del lavoro delle sue mani.

Innamorato della ragazza alla follia, il conte non volle ascoltare le rimostranze della famiglia. Il suo matrimonio, male assortito, gli procacciò tali e tanti dispiaceri, che fu obbligato ad espatriare.

Per altro, fin da quando stava a Vienna, aveva ricevuto il giovane conte, la cui bellezza e i modi distinti produssero un gran colpo sulla mente e sul cuore della ragazza.

Ne seguì un romanzo, i cui principali capitoli si svolsero prima a Vienna, poi a Parigi e finalmente a Cannes; ma, secondo molte testimonianze, la relazione non uscì dallo stato platonico. Comunque sia, una circostanza saliente mise il conte Adeleski al fatto della cosa. Fu deciso il duello. La ferita riportata dal conte non ha quella gravità che si credeva: Tra breve sarà ristabilito.

La contessa, cui fu vietato l’accesso nella camera del conte, è tornata a Parigi». [p. 219 modifica]


3 agosto 1890. — Si ha dal Messico, che un processo a sensazione deve aprirsi nella corrente settimana in quella capitale.

Una donna, Isabella Hernandez è processata per avere ucciso in duello una sua rivale, Rosa Gusman.

Le due donne si erano incontrate sulla via, or son due mesi. Avevano attaccato lite e finalmente si erano accordate per finire la loro rivalità con un duello.

Il motivo del duello? Isabella era innamorata d’un uomo che, stanco di lei, s’era messo a corteggiare Rosa Gusman.

Lo scontro avvenne, infatti, secondo tutte le regole e, dopo un combattimento accanito, Isabella finì coll’uccidere la Gusman.

La Hernandez fu arrestata, assieme ad un’altra donna, che aveva fornito i pugnali e che sarà al pari dell’Isabella processata.

Questo tolgo da un giornale del Messico: e lascio ai messicani di provare la verità del racconto.


6 giugno 1890. — In seguito ad una polemica vivaciscissima tra l’avvocato ventisettenne Paolo Duval, con Giovanni Marcel, ex segretario del deputato boulangista Laguerre, fu deciso un duello alla pistola, presso il confine belga.

Paolo Duval cadde fulminato da una palla al cuore!


8 marzo 1890. — Duello al revolvers. — Costumi americani. Un duello alla rivoltella ebbe luogo a Pearl-River-Station, l’8 marzo 1890. [p. 220 modifica]

I combattenti erano il capitano Porteneut, direttore dell’East-Louisiana-Mailroad e Mac-Evoy, negoziante.

Quei signori erano cugini, e avevano, per ragioni d’interesse, della ruggine tra di loro.

Il signor Porteneut aveva sfidato il sig. Mac-Evoy, ma senza precisare l’arma, il luogo, l’ora.

In America, ciò vuol dire che quando i due avversari si incontrano, si picchiano di santa ragione, come possono.

Il signor Porteneut un giorno entrò in uno spaccio di liquori, ove incontrò suo cugino. Tratto di tasca il revolver, picchiò leggermente col calcio di esso sulla testa dell’altro, come per dirgli «Ohe! cugino; sono qua!»

L’altro trasse di tasca il revolver e.... cominciò il fuoco.

Risultato del duello:

Il signor Porteneut ha un braccio fracassato.

Il signor Mac-Evoy ha una palla nell’addome e un’altra in una spalla.

Il padrone del locale ha una palla in una gamba.

Una donna, che si trovava lì per caso, ha una palla.... in fondo alla schiena.

Un gatto è rimasto freddo cadavere.

Gravemente feriti uno specchio, due vasi di cristallo e una sedia.

Una poltrona è stata mortalmente colpita al basso ventre, sebbene abbiano prontamente ricucita la ferita.


Aprile 1890. — Il codice penale di quasi tutti gli stati dell’Unione (Stati Uniti), classifica duellanti e padrini alla pari coi più volgari assassini da strada. Ad ogni modo, la guisa di combattere in queste particolari tenzoni erasi fin qui limitata quasi esclusivamente alle armi bianche e da fuoco portatili, non escluso in certi casi il pugnale.

Ora, da S. Antonio (Texas) giunse la notizia di un duello, combattuto fra due messicani, e che, quantunque stranissimo per la sua eccentricità, non è però nel fatto più barbaro di [p. 221 modifica]quello in uso presso i nostri eleganti cavalieri della civile Europa.


Due cowboys, certi J. Corrasco e Mantenna Basso, essendo venuti fra loro a diverbio per futili motivi, decisero di appianare i loro dissensi mediante un duello a morte, sciegliendo come arma di combattimento, il famoso laccio di cui essi si servono tanto destramente per catturare cavalli o buoi allo stato selvaggio.

Montati ambedue sopra focosi cavalli, cominciarono, galoppando uno contro l’altro, a lanciarsi il laccio fatale, mirando ognun d’essi a cogliere in quello il collo dell’avversario.

Vigorosi e sveltissimi ambedue, per un po’ di tempo si mostrarono di eguale abilità, schermendosi con rapidi movimenti, con agilità incredibile contro le strette della corda fatale.

Finalmente Corrasco, con un colpo da maestro, riuscì a passare il laccio attorno al collo di Basso; quindi, lanciando il cavallo a gran carriera, strappò di sella l’avversario, trascinandolo dietro di sè per un percorso di quasi due miglia. Naturalmente il povero Basso rimase strangolato sul colpo ed orribilmente sfracellato pel continuo sbattere contro le pietre, durante quella corsa vertiginosa.

Anche ora, dopo dieci anni, la polizia americana continua a ricercare attivamente il Corrasco; il quale, se acchiappato, secondo il codice del Texas, sarà condannato a morte per assassinio in primo grado.


Un dispaccio del maggio 1890 da New-York all’Agenzia Daziel parla di un terribile duello allo stile, combattuto da due italiani stabiliti in quella città. [p. 222 modifica]

Entrambi i duellanti erano esperti nel maneggiare l’arma; il combattimento durò più ore. Gli antagonisti erano in una lunga stanza vuota; una mezza dozzina d’italiani funzionavano da testimoni. Uno di questi perì insieme ad uno dei combattenti.


Nel 1890 un duello tra il marchese di Policastrelli e il signor Ranchibile ha luogo in Palermo.

L’arma scelta è la sciabola; la causa determinante lo scontro: intima. Ranchibile vi muore.


1891 (3-4 febbraio). Cingia e Nardi; Z** e Sch**; Lomonossow e Wadbolski; Corcoran e Lavia; Contarini e Dosi. — La notte dal 3 al 4 febbraio 1891, il tenente di cavalleria Pietro Cingia se n’andava da Vicenza a Reggio Emilia, sua città natale. Colà si recava per dare un abbraccio alla madre e ai fratelli, prima di salpare per la Colonia Eritrea, ov’era stato destinato.

Il tenente vestiva in borghese.

Giunto da Mantova a Modena vi lascia il bagaglio e sale in uno scompartimento di prima classe sul treno diretto a Reggio.

Lo scompartimento era quasi al completo: due signore, due signori; nell’angolo sinistro di chi montava un signore; da destra un uomo lungo disteso, con la testa appoggiata sul cuscino presso lo sportello; i piedi sull’appoggia-gomiti, e sotto il naso di una bella signora bruna!...

Il tenente teneva a mano una valigia piuttosto pesante, e mentre il treno si muove, il tenente Cingia vuol porre la sua valigia sulla apposita rete.

Il solo posto vuoto è, però, al disopra di quel signore che fa il suo comodo, e per non disturbare il dormiente, egli appoggia la valigia sul sedile per porla a posto. [p. 223 modifica]

— Auff!... con malo modo sbuffa l’uomo sdraiato, mentre slancia un calcio alla valigia.

Il tenente correttamente:

— Scusi!

— Ma che scusi d’Egitto; guardi piuttosto a quello che fa! e cambiando postura volge la schiena al tenente che manda giù amaro, per non offrire uno spettacolo di poca correttezza alle signore presenti.

Collocata la valigia, il Cingia s’accorge che mentre tutti stavano pigiati come sardine, il suo uomo occupava più posti del prescritto, anche quello che a lui, nuovo venuto, sarebbe toccato.

Si arma di tutta la sua pazienza e con fare cortese:

— Signore, lo prego di farmi posto.

Il dormiente tiene duro.

Allora il tenente risolutamente:

— Signore, lo prego di farmi posto.

Il dormiente si volta e indicando un piccolo spazio tra il signore d’angolo e una signorina:

— Si segga lì!

— Niente affatto; non vo’ incomodare una signorina; mi faccia posto lei, o chiamo il conduttore.

Il dormiente si alzò e prendendosi l’angolo, con villania esclamò:

— Poveretto! non sarebbe buono proprio ad altro!

Il tenente Cingia, giovane di 25 anni, di carattere mite, ma risoluto, a quella canzonatura prese fuoco, come suol dirsi, e consegnando la sua carta di visita replicò:

— Badi, illustre signore, che sono buono anche ad altro.

— Pietro Cingia, tenente cavalleria, squadrone esploratori indigeni-Africa! Già non poteva essere che un ufficiale per avere tanto albagia; ma una le paga tutte, caro giovinetto; e le darò io la lezione che si merita!

Alzatosi in piedi l’interlocutore presenta la sua carta all’ufficiale, aggiungendo:

— Sono diretto a Milano; mi troverà all’Hôtel de France.

Il tenente che in quel momento sopportava per riguardo alle signore un nuovo affronto, si fece pallido dal risentimento; ma si frenò, pur rispondendo: [p. 224 modifica]

— Quando, dove e come vorrà, io sarò a sua disposizione; però l’avverto, caro signore, che prima di venderne la pelle, bisogna che l’orsacchiotto sia ben morto! Lo ricordi....

Il tenente Cingi a prosegue per Milano, e manda subito i suoi rappresentanti63 al signor avvocato Andreolo Nardi, giornalista (?) — che designò i suoi64.

Le qualità d’offeso spettarono al Cingia. Egli propose la pistola; che venne respinta per l’offerta fatta dal Cingia «dove, come e quando ella vorrà, ecc.».

Fu proposta la sciabola; ma l’avvocato Nardi, siciliano, preferì la spada65.

Lo scontro ebbe luogo alle 9 del mattino del 7 novembre, presso un’osteria nelle vicinanze di Chiasso. Messi di fronte i due avversari, sembrava di assistere al combattimento di Golia, essendo l’avvocato Nardi un pezzo d’uomo di non comune mole, e David, rappresentato dal tenente Cingia, piuttosto mingherlino.

Al comando scesero in guardia, ambedue calmi, studiosi l’un dell’altro. Uno dei padrini così descrive in una lettera lo scontro mortale:

«Dato il carattere dei due, io m’aspettavo che al comando d’attacco si sarebbero precipitati l’un contro l’altro. Invece, nulla. Calmi entrambi, con le lame appena incrociantesi verso la punta; attenti, tasteggianti, si studiavano prudentemente.

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

Dopo dieci minuti fu comandato il riposo.

Ma trascorsi pochi istanti furono ricollocati in guardia.

Ci aspettavamo una seconda ripresa di studio; ma mentre il Cingia si manteneva calmo per la parata e la risposta, l’avvocato Nardi si precipitava sull’avversario. Cingia [p. 225 modifica]retrocesse, parò con maestria parecchie puntate e riprendendo l’offensiva obbligò il Nardi a retrocedere.

Con grande vigore il Nardi torna all’attacco con una botta dritta al cuore dell’avversario e lo arriva per quasi due centimetri sopra la mammella sinistra. Cingia spicca allora un salto indietro; e trovandosi in misura va a fondo con uno sbasso e colpisce sì tremendamente il fianco dell’avvocato, che la punta, traversandolo, gli uscì per un palmo dalle reni. L’avvocato Nardi gettò un grido straziante e cadde faccia terra!

Il Cingia addolorato, più che sorpreso, trasse la lama dalla ferita e gettò via l’arma.

Tutto questo si passò in un attimo, tanto presto, che i padrini non s’erano accorti della ferita toccata al tenente.

Una donna che aveva assistito, non vista al duello, inorridita, sviene; mentre il Nardi pallido come la morte, coi denti serrati dal convulso, pieno la bocca di bava sanguigna, gli occhi stravolti, vien portato via.

Malgrado le cure assidue affettuose di tutti, l’avvocato Nardi il 10 novembre non occupava più due posti in ferrovia, ma uno solo nella bara.

Morì crudelmente, anzi stupidamente, a soli 35 anni, perchè stupido è il duello.».


Fine marzo 1891. — Sulla fine marzo del 1891 un duello alla pistola ebbe luogo a Goettingen tra un certo signore Z** assessore del Governo e il signor Sch** referendario di Heiligenstadt.

L’assessore, colpito da una palla al basso ventre, spirò poche ore dopo nella clinica della città.

La causa dello scontro: una animosità che da molto tempo esisteva tra i due funzionari tedeschi e che condusse prima alle vie di fatto, poi al duello mortale.

Qualche anno dopo i giornali annunziavano, che l’imperatore di Germania aveva ordinato di agire energicamente [p. 226 modifica]contro quattro funzionari, che avevano assistito due colleghi in un duello nel quale uno aveva trovato la morte.

Poveri travetti!


Aprile 1891. — Il 9 aprile del 1891, il Figaro annunciava la morte del tenente della guardia Lomonossow per ferite riportate in duello e la condanna del principe Wadbolski a tre anni di fortezza, autore di quella uccisione.


Giugno 1891. — Leggiamo nel Cristoforo Colombo di New York del 16 corrente:

«Sabato scorso in una piccola trattoria del Mercato Poydras a New Orleans seguì un ferocissimo scontro a revolverate fra Dennis Corcoran e Tony Lavia, italiano. Il secondo attaccò il primo, tirandogli il primo colpo nella schiena, e seguitando a far fuoco fino ad esaurimento delle cariche.

Il Corcoran, benchè ferito da sei colpi, non si mosse e rispose al Lavia, colpo per colpo. Questi, quando ebbe l’arma scarica, corse a cercarne un’altra, e, avutala da un amico, riprese il fuoco, e sparò altri sei colpi; il Corcoran, benchè rimasto col revolver vuoto, rimase fermo al suo posto.

Sparati dodici colpi, il Lavia volle fuggire, ma fatti pochi passi, cadde morto di due ferite ricevute una nel collo, l’altra al cuore. Due italiani suoi amici, che erano con lui quando entrò nella trattoria, vedutolo cadere, fuggirono. Il Corcoran, malgrado le sue molte e gravi ferite, sopravvisse.

Fra i due v’era un odio mortale: si contendevano un posto di commissario del Mercato. E utile a sapersi, si è che il Corcoran, avvocato politicante, ed uno dei più pericolosi soggetti della città, era stato fra i primi ad aizzare la folla [p. 227 modifica]contro gli italiani, imputati dell’assassinio del capo di polizia Hennessey, quattro anni prima del duello. Il giorno della esecuzione sommaria degli undici italiani, egli era penetrato alla testa dei linciatori nella prigione col revolver alla mano e più tardi si era vantato sovente della parte da lui presa in quel tragico fatto. Non è quindi improbabile, che nelle cause di rancore fra lui e il Lavia vi potesse essere anche un resto di ruggine, mai sparito, dopo quella sinistra faccenda.».


1891. (9 novembre) Contarini-Dosi. — Guardate come va il mondo!

A Messina nel mese di ottobre del 1891 due duelli che avevano tutte le probabilità di riuscire funesti, furono incruenti; a Messina il 10 di novembre, pochi giorni dopo, dunque, un duello, che per la causa e per la speranza si riteneva incruento, riescì fatale.

A distanza di un anno circa dal giorno in cui un avvocato italiano moriva a Mendrisio per ferita di spada infertagli da un ufficiale d’Africa, un ufficiale periva a Messina per ferita in duello infertagli da un borghese.

Col tenente Dosi, del quale qui parlo, sono diciassette almeno i cadaveri di duellanti che in dieci anni stanno dinanzi all’opinione pubblica italiana, che non ancora si rivolta contro la nefanda istituzione del duello.

Capisco; diciassette morti sono un nonnulla di fronte alle migliaia di persone che scendono sul campo dell’onore per uccidersi legalmente; che diciassette morti sono trascurabili di fronte a’ sacrificati alla vanità del duello in altri secoli. Ma io a’ que’ tempi non penso; di que’ fatti non mi curo, perchè non c’ero, nè mi appartengono. Inorridisco, invece, nel pensare a’ que’ diciassette sventurati, che giacciono morti per la cosa più stupida e più cretina della terra, cioè pel duello.

In dieci anni sono diciassette famiglie immerse in un [p. 228 modifica]lutto irreparabile; sono quattordici spose prive del loro marito; sono venti innocenti creature che non hanno più il conforto delle carezze del padre; e di queste non poche dall’agiatezza sono cadute nella miseria per quella aberrazione del sentimento del giusto e dell’onesto che si chiama il punto d’onore od onore cavalleresco.

Al pensiero di quei diciassette cadaveri sento l’animo mio a rivoltarsi e maledico i duellanti; maledico quella genia di gentiluomini battagliantisi per un nulla; maledico quei padrini che per la vanità di leggere il loro nome stampato sulle gazzette, hanno portato al macello, alla morte, tanti figli e tanti padri di famiglia, condannando alla miseria e alla disperazione tante famiglie!...

Questo scrissi io, fautore del duello in talune circostanze peculiari quando lessi:

«Sabato sera (8 novembre) al circolo degli impiegati, alcuni ufficiali, finito il trattenimento danzante andarono in una sala per prendere un boccone, insieme ad alcuni borghesi e ad alcune signore.

In una sala attigua si faceva del chiasso; un ufficiale si credette in buon diritto di chiudere la porta di comunicazione. Ciò urtò qualcuno, che inveì contro coloro che nella stanza si trovavano.

Il primo, che a quelle invettive immeritate si fece sull’uscio fu il tenente Dosio Dosi, che si trovò di fronte a Totò Contarini, impiegato municipale.

Il Contarini pronunciò parole d’offesa contro il Dosi; ma ben presto venuti a reciproche spiegazioni tutto fu accomodato come tra gente civile si conviene.

Almeno così sembrava; ma così non fu perchè tra il Dosi e il Contarini corse una sfida; e dal Contarini, abilissimo tiratore, fu scelta la pistola.

Le condizioni erano gravi; trenta passi di distanza con avanzata fino a dieci passi. Combattimento ad oltranza, cioè: fino a tanto che uno dei duellanti non cadrà al suolo per ferita.

Alle 3 del 9 di novembre 1891 lo scontro ebbe effetto nella caserma Basicò. [p. 229 modifica]

Il tenente era assistito dal capitano del 67.° fanteria Macchi e dal tenente del 68.° De Tullio; il Contarini da Giovanni Noè e dal signor Parlavecchio.

Furono scambiati due soli colpi. Al secondo il tenente Dosi colpito alla tempia destra, brancolò, girò su sè stesso e cadde a terra, come corpo morto.

A nulla valsero le cure affettuose de’ medici e dei rappresentanti; perchè adagiato, su una barella, spirò prima che giungesse allo ospedale militare.

All’inaspettato annunzio la emozione fu grande in tutta la cittadinanza e la camera, ove vegliato pietosamente dai compagni d’armi giaceva esanime il Dosi, fu la meta di un pellegrinaggio per tutti coloro che avevano mite il cuore.

Al duello tenne dietro un funerale imponentissimo; una di quelle manifestazioni solenni per numero, qualità e contegno che una città di coscienza, può fare in un momento di ribellione contro un barbaro uso di uccidere legalmente un ottimo cittadino».


Più tardi, il 4 giugno 1892, si fece il dibattimento, nel quale il Tribunale pronunciò la condanna del Contarini a cinque mesi di detenzione, assolvendo i padrini.

Chi si occupò di verificare se il genere del combattimento era regolare o eccezionale; se era conforme o meno alle prescrizioni del codice cavalleresco e di quello penale, perchè fosse considerato e trattato alla stregua di un duello?


1892 (9 Marzo). Barcich-Schäedle. — Per chi non lo sapesse, a Fiume esiste una Società di Veterani di cui all’epoca di questo duello era presidente il signor Edoardo Schäedle.

Dalla causa che determinò il duello fatale, pare che la Società dei Veterani di Fiume non godesse la simpatia dei [p. 230 modifica]Croati, perchè in una riunione a Tersatto, l’avvocato Erasmo Barcich, figlio al capo del partito croato, sfuggirono alcune parole punto benevoli all’indirizzo della Società dei Veterani.

Fu in seguito a questi detti, che il signor Schäedle sfidò lì, su due piedi, l’offensore che non si fece pregare per raccogliere l’appello alle armi.

Lo Schäedle era rappresentato dai tenenti Dubravcich e Ivcich del 79.° reggimento fanteria, l’avv. Barcich dal dottore Andrea Bacarcich e dal candidato d’avvocatura dott. Luigi Luttenberger. I medici erano i dottori Petrovich e Kiseljak. L’arma scelta per definire la vertenza, pel lavaggio — per così dire — delle parole offensive pronunciate dal Barcich, fu la pistola, arma inocua se non colpisce bene; micidiale se per disgrazia la palla colpisce il segno66. Le condizioni per lo scontro erano: Scambio di una palla a 40 passi di distanza con diritto ai combattenti di avanzarsi fino a 10 passi.

La polizia, avvertita in tempo, che lo scontro avrebbe avuto luogo il mercoledì 9 marzo, per impedirlo sguinzagliò guardie e agenti in tutte le direzioni del territorio di Fiume. I duellanti, che avevano una voglia matta di darsele, più solleciti della polizia, avevano oltrepassato il confine ungherese, quando questa si pose alle loro calcagna.

Giunti sul territorio istriano, i duellanti si riunirono alle 3 del pomeriggio nella località detta Stefani, e precisamente in una campagna appartenente al signor Giuseppe Stefani.

Alle 3 e mezzo i padrini misurarono scrupolosamente il terreno; separarono le distanze; caricarono le pistole e le consegnarono ai due avversari, collocati all’estremità della direttrice del duello.

Alle 3 e tre quarti in punto fu dato il segnale del fuoco, si udì una detonazione sola e si vide il Barcich barcollare prima, stramazzare poi al suolo, come corpo morto. [p. 231 modifica]

La palla del signor Schäedle aveva colpito il dottore Barcich in pieno petto, alla regione del cuore; la pistola del Barcich aveva «raté son coup», aveva fatto cecca.

Accorsero i padrini e i medici; aprirono al caduto panciotto e camicia; verificarono la ferita; riconoscendone la gravità e constatando essersi il proiettile conficcato nel petto di guisa che rendeva impossibile l’estrazione sul campo.

Il ferito fu trasportato a braccia in una carrozza, che lo ricondusse a Fiume, nella casa paterna.

Pochi minuti dopo l’avvocato Barcich, giovane di 29 anni, spirava.

Il 13 marzo si fecero i funerali di questa vittima del punto d’onore. Vi assisteva tutto Fiume, tanta gente da impedire il passaggio del corteo. Il feretro era letteralmente coperto di splendide corone tra cui era notata quella della giovane sposa!

All’estrema dimora i vecchi genitori, che muovevano a pietà, vollero accompagnare il caro estinto, e vi fu condotto senza le onoranze religiose, perchè rifiutate, malgrado l’indignazione generale, dal parroco Bedini.

L’autorità che non aveva potuto o saputo impossessarsi dei duellanti vivi, prese possesso del Barcich morto e ne ordinò l’autopsia, dalla quale risultò che la palla aveva risparmiato il cuore del povero giovane; ma che, fracassandogli la quinta costola a pochi centimetri dallo sterno aveva traversato il polmone sinistro per sortire di sotto all’ascella.

Ultimo particolare: i quattro padrini seguivano il feretro.

Ne seguì il processo relativo, chiuso con la condanna di Schäedle a due mesi di prigionia di Stato a Szeghedino.


Giugno 1892. Morès-Meyer. — Nel luglio 1892 il senatore Maxime Lecomte depose agli uffici del senato una proposta così concepita:

«Il duello è un delitto. Chiunque si sarà battuto in duello verrà punito con prigione da un mese a un anno e con una multa da 100 a 200 franchi». [p. 232 modifica]

«L’autore di ferite fatte in duello sarà punito con due mesi a due anni di prigione e con una multa da 200 a 2000 franchi. Se le ferite avranno cagionato la morte, la pena sarà da uno a tre anni di prigionia e la multa da 500 a 10,000 franchi!».

Questa proposta pareva nuova ed era vecchia, con tanto di barba. Con altre parole era la stessa che al senato presentò nel 1877 il senatore Hérold; che viceversa poi ripeteva il testo del progetto elaborato nel 1851 da una commissione dell’Assemblea Nazionale, che l’aveva a sua volta, non so da chi, copiata. Al progetto del signor Lecomte si poteva proprio appioppare il detto di Verdi «torniamo all’antico».

E perchè questo ritorno all’antico? Perchè una quindicina di giorni innanzi il marchese di Morès aveva ucciso in duello il capitano Mayer, incaricato della sorveglianza della sala di scherma della Scuola politecnica.

La causa del duello è semplicissima.

In seguito ad un articolo pubblicato dal conte Lamase nel giornale antisemita «La Libre parole» diretto dal Drumont, intitolato: «Gli ebrei nell’esercito» un capitano israelita, il signor Cremieu-Foà si ritenne offeso e chiese soddisfazione al direttore Drumont.

Questi accettò la sfida; i due si batterono e Drumont rimase leggiermente ferito di spada.

Poi il capitano partì in servizio.

Quattro giorni dopo ricevette un dispaccio dall’autore dell’articolo, così concepito:

«Mi avete insultato chiedendo soddisfazione a Drumont di un articolo firmato da me; vi chiedo ragione di questa ingiuria.

«Firmato: Lamase.»


Cremieu-Foà rispose tosto mettendosi a disposizione del conte di Lamase. Questi scelse a padrini il marchese De Morès e Guerin, i quali scrissero al Cremieu-Foà che li [p. 233 modifica]mettesse in rapporto coi due suoi rappresentanti. Ma intanto il capitano viaggiava per ragioni di servizio, la lettera di Morès e Guerin non l’ebbe subito, e questi due, visto il ritardo, gli scrissero una seconda volta, minacciandolo di pubblicare che egli scappava a bella posta dinanzi al nuovo avversario.

Quando il Cremieu-Foà ebbe questa seconda lettera, se ne offese, massime col De Morès che gli era stato compagno di promozione alle scuole di Saint-Cyr e Saumur, e nominò il capitano Mayer e il tenente Trouchu a padrini contro il Lamase; mentre insieme, incaricò due altri amici di chiedere soddisfazione a De Morès e Guerin della loro seconda lettera ingiuriosa.

Il 20 giugno Cremieu-Foà e Lamase si batterono alla pistola senza colpirsi; il verbale delle condizioni, fatto prima del duello, doveva rimanere segreto fino a duello compiuto, invece la stessa mattina alcuni giornali lo pubblicarono, onde il De Morès, venendo sul terreno, era irritato, e volgendosi ai padrini avversarî si lagnò di tale pubblicazione e disse al capitano Mayer:

— Io e voi soli avevamo copia di questo verbale; io non l’ho data a nessuno; dunque, se i giornali lo pubblicarono l’ebbero da voi.

E il capitano Mayer rispose:

— Io non commisi simile indiscrezione (e risultò infatti che egli non c’entrava); però, ne assumo la responsabilità e sono ai vostri ordini67.

E così fu deciso il duello fra lui e il De Morès, mentre già il De Morès doveva battersi col Cremieu-Foà.

Il duello ebbe luogo giovedì (23 giugno) mattina alle 10 [p. 234 modifica]in una sala coperta: arma la spada; quasi al primo attacco il De Morès penetrò colla sua punta sotto l’ascella destra del Mayer, gli attraversò il polmone e si fermò contro la scapola. Il capitano stese il braccio, lasciò cadere la spada e portando la mano sinistra all’ascella:

— Sono ferito profondamente.

Il De Morès gli andò incontro:

— Signor capitano, permettetemi di darvi la mano.

Il capitano moribondo gli stese la sua. Poi, fu adagiato su di un materasso e medicato: la ferita dava poco sangue, ma il respiro cominciò a farsi affannoso.

Un medico corse innanzi ad annunziare l’arrivo del ferito all’ospedale militare. Intanto il ferito si sentiva perduto e diceva:

— Lasciatemi respirare, lasciatemi respirare!

Alle due del pomeriggio, disteso in un landò, giunse all’ospedale.

Il padre e la madre sua non sapevano niente; solo il fratello aveva letto nei giornali del mattino la notizia del duello, ed era corso in cerca di notizie. Alle ore 2 ½ padre, madre e fratello erano al letto del ferito.

— Chi ve l’ha detto? chi vi ha avvertito che io era ferito? chiedeva il povero Mayer con la voce quasi spenta.

Bevve due bicchieri di champagne; ma verso le 4 non parlò più; la respirazione si fece sempre più breve, una schiuma sanguigna apparve agli angoli della bocca; sopravvenne il coma e alle 5 ¼ spirò.

Il padre e la madre avevano seguito coll’angoscia più orribile le ore dell’agonia, e quando tutto fu finito, si inginocchiarono presso al loro morto, piangendo in modo straziante.

— Che cosa ha fatto? Che cosa ha fatto, per morire tanto crudelmente? chiedeva incessantemente la madre; appena ieri era così pieno di vita!....

Il cadavere fu portato a casa della famiglia, in una vettura d’ambulanza militare, trascinata da quattro soldati comandati da un caporale.

Il capitano Mayer aveva 34 anni; era dell’arma del [p. 235 modifica]genio; era buono, era mite, era colto, ottimo tiratore di scherma; rimase ucciso da chi forse era meno abile di lui. L’ora fatale era giunta pel povero Mayer, compianto da tutti coloro che lo conoscevano.

E la sua disgraziata fine commosse talmente, che non solo se ne intese la eco dolorosa in Senato, ma anche nella Camera dei deputati di Francia.

Il 25 giugno, il ministro della guerra, Freycinet, rispondendo all’interrogazione di Dreyfus, relativa alle sfide dirette contro gli ufficiali israeliti dal giornale la Libre parole, dichiara che il fatale esito del duello fra il marchese Morès ed il capitano Mayer, lo impressionò vivamente. Soggiunge «io non conosco nell’esercito che spade francesi»68.

«Rimprovera gli attacchi di certa stampa, che commette un crimine contro la patria.

Suplica gli ufficiali di mantenersi calmi, al disopra delle ingiurie. Essi hanno per loro le Camere, il governo ed il paese. (Applausi ripetuti).

Cassagnac, bonapartista, avendo tentato di interrompere, provoca delle energiche proteste da tutte le sinistre.

Cuneo D’Ornano trasforma la sua interrogazione in interpellanza, per chiedere che gli ufficiali israeliti non sieno maggiormente protetti di quelli appartenenti ad altre religioni. (Mormorii).

Le sinistre, unanimi, addottano, senza scrutinio, l’ordine del giorno approvante le dichiarazioni del governo.»

Il De Morès venne arrestato dal capo della polizia Goron e, dopo un breve interrogatorio, fu chiuso nelle carceri di Mazas. Non oppose alcuna resistenza e si mostrò spiacente del fatale esito del duello; disse, però, che anche da parte del Mayer la partita si era messa sul serio, giacchè la mira del suo avversario, era quella di colpirlo al ventre.

Il De Morès fu processato in virtù dell’ultimo [p. 236 modifica]paragrafo dell’art. 309 del Codice penale francese, il quale stabilisce che «ogni individuo il quale abbia ferito o portato volontariamente dei colpi, senza intenzione di dare la morte, ma avendola occasionata, è punito coi lavori forzati a «tempo». Si aggiunga ancora che a termini dell’art. 463: «Se il colpevole ottiene le circostanze attenuanti, la Corte deve applicare la pena della reclusione, o del carcere, da due a cinque anni, senza poter ridurre la durata del carcere al disotto di due anni».

Questi erano e sono gli articoli; ma in un caso simile i giurati assolvono, sembrando loro la pena troppo severa.


Il capitano Cremieu-Foà, che si battè con Drumont e con Lamase, dopo scontati gli arresti per tali duelli, tornò a Parigi, deciso di battersi col De Morès. Volle prima vedere il cadavere dell’amico, capitano Maver, e quando fu in sua presenza, lo abbracciò singhiozzando.

Il vecchio Mayer, padre dell’estinto, che non lo conosceva, gli chiese:

— Ma chi siete voi, che vi mostrate così addolorato della morte del mio povero figliuolo?

— Sono il capitano Cremieu-Foà, rispose questi con voce trattenuta.

E il vecchio padre, certo pensando che in parte a lui doveva la morte del figlio, non disse più una parola e uscì di camera.

Quasi subito uscì anche il Cremieu-Foà, e si mise in cerca del De Morès. Fu alla casa di lui, al giornale la Libre parole, al Club, senza trovarlo, e dovunque lasciò una carta da visita così concepita: «Il capitano Cremieu-Foà alla ricerca del marchese De Morès».

«In questa faccenda vi ha però una persona sulla quale pesa una grande responsabilità e che comincia a essere biasimata anche dai giornali: e questa persona è il fratello del capitano Cremieu-Foà. Fu lui, che contro l’accordo preso dai [p. 237 modifica]padrini di suo fratello capitano e del conte Lamase, portò ai giornali del mattino i verbali dello scontro perchè li pubblicassero69, e quando il De Morès rimproverò al Mayer di aver commessa quella indiscrezione, il Mayer, che non aveva colpa, volle accettarne la responsabilità e consentì a battersi col De Morès; e il vero colpevole, questo signor Cremieu-Foà, lasciò che si battessero senza intervenire e dire ch’era stato lui a portare i verbali ai giornali».


L’autopsia fatta sul cadavere del capitano Mayer diede luogo ad altre scene strazianti colla famiglia di lui, che non voleva cederne il corpo e fece di tutto per opporsi.

L’autopsia venne fatta il sabato mattina all’Ospedale militare; durò dalle 8 alle 10 ½. Risultò da essa che la spada era penetrata per 30 centimetri nella gabbia toracica, perforandola nello spazio fra la 2.ª e la 3.ª costa sulla linea ascellare anteriore: e dirigendosi d’alto in basso, la lama aveva attraversato i due lobi, superiore e posteriore, del polmone; era scivolata sulla 8.ª vertebra dorsale e si era fermata sulla 9.ª: il che solo aveva impedito che il capitano venisse passato da parte a parte.

Poi il cadavere dell’infelice venne ricondotto a casa.

I funerali ebbero luogo all’indomani, alle 3 del pomeriggio, e secondo il rito ebreo, il corpo fu direttamente portato al cimitero.

Assistette gran folla, ma non verificaronsi incidenti di sorta.

Il processo contro l’uccisore del capitano Mayer si svolse alle Assise della Senna, nell’agosto successivo. Fu piuttosto breve, sommario e il De Morès fu assolto. [p. 238 modifica]


Parigi, 1.° settembre 1892.Gli strascichi del processo Morès. — «Un reporter dell’Agensia Datziel si è recato alla Banca Dreyfus, dove Ernesto Cremieu è impiegato come procuratore, e lo ha intervistato.

Cremieu confermò i fatti già noti, della sfida da lui rivolta al capitano dei dragoni Trouchu prima, ed agli ufficiali del di lui reggimento, poi, collettivamente, dicendo che tale era il mandato lasciatogli dal fratello, partendo pel Dahomey. Appare abbattutissimo, non sapendo come uscire dalla situazione fattagli dal rifiuto degli ufficiali di battersi con lui».


Parigi, 31 agosto. — «Durante il processo per il duello Morès-Maver, Ernesto Cremieu-Foà, fratello del capitano, che aveva avuto un duello col Morès e procuratore del banchiere Dreyfus, venne molto malmenato, perchè risultò all’evidenza (?!!!) che era stato lui a pubblicare indebitamente il verbale del duello seguito tra suo fratello e il Morès, pubblicazione che fu poi la causa del duello Morès-Mayer.

Chi l’aveva sopratutto caricato, durante il processo, fu il capitano dei dragoni Trouchu.

Oggi il Cremieu si recò a Mebux, dove sono di guarnigione i dragoni, per provocare il Trouchu.

Questi gli rispose sprezzantemente, dichiarando di non volersi battere con lui.

Il Cremieu penetrò nella sala da pranzo, dove gli ufficiali dei dragoni stavano riuniti, c gettò il proprio guanto in faccia al Trouchu.

Gli ufficiali poi l’espulsero dalla sala, usandogli violenza.

Il Cremieu-Foà ripartì per Parigi, sfidando gli ufficiali collettivamente.

Ma per ordini superiori la cosa non ebbe seguito cruento. [p. 239 modifica]


Ecco il riepilogo del dibattimento contro Morès:

Dopo le calorose difese dell’avvocato Demange (30 agosto 1893) e degli altri difensori, Morès e i suoi coaccusati sono assolti, e il presidente li rimette subito in libertà.

Tanto nell’aula che per le vie la folla li fa segno ad una calorosa dimostrazione alle grida di «Viva Morès; abbasso gli ebrei!»

Le testimonianze dei maestri di scherma della Scuola politecnica: Rixier, Rouleau e Senille hanno sostenuto che le spade portate dal Morès, e delle quali si parlò nell’udienza di jeri, erano troppo pesanti, e che il Mayer soffriva realmente d’un dolore al braccio.

Ammettono però, che i testimoni del Mayer dovevano rifiutare il duello, in quanto che il dolore al braccio poteva provenire dalla malattia chiamata il crampo degli schermitori.

Il Mayer fu riconosciuto abile a maneggiare la spada, ed i medici Renard, Vibert, Faivre e Pasquelin, malgrado qualche critica, riconobbero il duello regolare.

I maestri di scherma periti, Vigeant e Merignac, sostennero che malgrado le spade pesanti, il dolore al braccio del Mayer non poteva essere stato cagione d’inferiorità per lui, anche in vista della brevissima durata del duello.

Quando Leo Taxil sostenne in udienza d’aver udito dire da Guérin in tribunale, mentre si discuteva il processo Burdeau-Drumont: «Bisogna finirla con gli ebrei; bisogna appiccare Rotschild alla lanterna del suo palazzo; noi vogliamo un cadavere israelita!», Guérin lo smentisce gridandogli:

«Voi commettete un’infamia! Siete un brigante!»

Il presidente ammonì Guérin, dicendogli che non bisognava insultare i testimoni ed intimatogli di ritirare l’espressione «brigante»; altrimenti avrebbe dovuto applicargli una severa penalità. [p. 240 modifica]

Guérin esclama: «Io non ritiro niente!»

Allora l’uditorio si appassiona alla contesa fra Guérin e il presidente.

Molti chiamano Taxil rinnegato e canaglia.

L’udienza è sospesa.

Quando è ripresa, Guérin, dietro una esortazione del presidente, ritira l’espressione: «brigante» per non complicare il processo.

L’incidente è esaurito; ma l’avvocato Demange nella sua difesa stigmatizza violentemente il Taxil, che prima fu autore d’opere anticlericali, e adesso è collaboratore di giornali cattolici, e fu condannato per offesa ai buoni costumi.

L’uditorio ha applaudito, a questo passo, fragorosamente il Demange.

È stato notato che il procuratore generale della Repubblica, nella sua requisitoria, attaccò più la campagna antisemitica fatta dal Morès, che la regolarità del suo duello col Mayer».


1892. Valentini-Torre. — All’ultimo ballo dato dal Circolo italiano di Buenos-Ayres, nel 1892 (2 ottobre), mentre l’orchestra suonava i Lancieri, un signore Angelo Schejola promise quattro schiaffi a un signore Erminio Torre, commerciante in «oro sellado», ch’è quanto dire in oro napoletano, di poco valore.

Da ciò una lunga vertenza, rimasta insoluta per lungo tempo, malgrado le infinite pratiche dei padrini, e l’abuso di tutte le carabattole cavalleresche, che governano le cosidette vertenze d’onore.

Fra i rappresentanti, però, e in compenso, sorse un incidente, per risolvere il quale furono nominati come arbitri certi signori F. Romano e Julio Popper, col mandato di nominare un terzo collega.

Il prescelto fu appunto il povero Valentini.

Nel giurì, il Popper rappresentava la parte dei padrini [p. 241 modifica]del Torre. Ora, fra il Popper e il Romano, durante il dibattito del giudizio, sorsero vive contese, tanto che il Popper dichiarò che non avrebbe firmato il verdetto.

Il Popper, ingegnere della Terra del Fuoco, a quanto pare, portò nella vertenza l’indole vulcanica del suo paese.

La miccia prese fuoco e la prima questione Torre-Schejola, dilagando, dette origine ad una nuova vertenza tra il Romano e il Popper; vertenza, che per l’intromissione dei padrini, terminò con un non luogo a combattimento.

Frattanto il Valentini, usando semplicemente di un suo diritto, scrisse il verdetto ed il Popper, lungi dal volerlo firmare, dichiarò sui giornali che non ne teneva conto, narrando a suo modo i fatti.

Da ciò un’altra questione personale, la terza, tra Valentini e il Popper. Il Valentini, da buon romagnuolo, si pose a disposizione del Popper, inviandogli i signori avvocati Ottolenghi ed Alfredo del Bono, ma per una semplice partita d’armi. Mandato limitato, ma risoluto!

Durante le trattative, il Popper dichiarò, però, di non avere autorizzato in alcun modo la pubblicazione della sua lettera, la quale doveva attribuirsi ad una indiscrezione. Con tale dichiarazione il motivo della sfida cadeva di per se stesso; talchè, i rappresentanti del Valentini stimarono opportuno ritirare la pubblicazione di una risposta del mandante loro a quella del Popper.

Furono fatti i verbali delle due parti e qui — nuova fatalità — avvenne che i padrini li comunicassero ai contendenti con lettere stese in forma molto diversa, e che il verbale venisse pubblicato adulterato — afferma la Patria Italiana — su un altro giornale, e precisamente sull’Operaio Italiano, mettendovi in grosso, come titolo, la parola «Ritirano».

Ed ecco sorgere una quarta vertenza, in derivazione sempre dell’«oro sellado».

Valentini, giustamente offesosi, mandò il signor Vincenzo Franco a chiedere spiegazioni all’Operaio Italiano, ed il Franco ebbe per risposta, da parte del dottor Torquato Sacchi, direttore del predetto giornale, che il verbale era [p. 242 modifica]stato pubblicato «col suo consenso, dietro presentazione fatta dal signor Erminio Torre, quello dell’«oro sellado» e previo pagamento della somma convenuta coll’amministrazione.

La parola «Ritirano» era stata messa sull’originale dal Torre. Cose d’America!


Da tutto questo pasticcio doloroso, per non dire di peggio, sorse la quinta vertenza Valentini-Torre, una vertenza funesta, perchè fu causa della morte di un uomo valoroso per mente e per cuore.

Valentini mandò i propri rappresentanti, F. Romano ed L. Ranzanici, al Torre, che si fece rappresentare da Emilio Mitrè e dal dott. Manuel F. Sanchez, i quali, a nome del Torre, confermarono la verità dell’asserito dal dott. Sacchi; ma soggiungevano: «avere il Torre agito per mandato del signor Popper».

In seguito a ciò il Valentini scrisse un articolo violento, in cui attaccava il Popper per alcune gesta di pirateria (!) attribuitegli nella Terra del Fuoco, e chiamava «lega fraudolenta e di malafede» quella esistente fra lui e il Torre.

Da ciò nuova sfida (la sesta) e il successivo duello, al quale andarono poi unite altre sfide da parte dei vecchi padrini di Valentini, Ottolenghi e Del Buono, per la falsificazione del noto verbale70.


Ed eccoci alla parte tragica, che tanto impressionò la opinione pubblica dell’Argentina e non meno quella d’Italia, ove Valentini era stimato, apprezzato ed amato moltissimo. [p. 243 modifica]

Il Valentini, a rigor di codice cavalleresco, ch’è là, fatto per impedire il sopruso, onde la calunnia non abbia a trovare una consacrazione in un duello provocato per.... rimpannucciarsi a spese altrui, poteva rifiutare (doveva, anzi), le chieste riparazioni per le offese provocate e meritate; ma sempre generoso, volle pagare anche questa volta, com’era suo costume, di persona, ed accettò il duello del signor Torre, a cui lasciò (buon Valentini!) la scelta delle armi e delle condizioni dello scontro.

I padrini del Torre, colonnelli Espiria e Belisley, imposero la pistola a cinque passi di distanza, puntando!

Roba da fare inorridire; roba da.... mandare in galera padrini e duellanti, non solo in Italia, ma in qualunque paese civile del mondo, compreso lo Scioa!

I rappresentanti del Valentini, signori Felice Romano e Luigi Ranzanici, dichiararono che il loro rappresentato non aveva difficoltà ad accettare un duello, anche a soli due passi di distanza; ma che il Codice cavalleresco in uso presso la gente civilizzata, stabilisce come minimum 15 passi.

Il colonnello Espina, volendo restare sullo spartiacque della barbarie e della civiltà, taglia corto, e propone un temperamento uso Salomone, stabilendo la distanza a sette passi!...

Ai padrini di Valentini non restava che accettare, ed accettarono.

Ma lo fecero così, tanto di malavoglia (e non avevano torto), che dichiararono a Valentini che non lo avrebbero accompagnato sul terreno.

Valentini li pregò, li scongiurò di voler continuare nel loro ufficio, perchè deciso com’era a non ritrattare una sola parola, sarebbe andato a battersi, magari assistito da due facchini presi a nolo.

Dopo la pubblicazione del verbale adulterato, un accomodamento pacifico della vertenza, avrebbe fatto tacciare il Valentini di debolezza; tanto più che era lecito supporre che i padrini del Torre avessero imposte condizioni gravi per fare impressione sull’animo gagliardo del Valentini.

Il duello doveva aver luogo nel pomeriggio di martedì [p. 244 modifica]4 ottobre; ma la polizia, che n’ebbe sentore, perseguitò con tanta insistenza i duellanti, che si videro costretti a rinviare la partita all’indomani.


Il mercoledì, 5, per evitare le noie della polizia, pensarono di recarsi alla Colonia, sulla costa orientale, nel vicino Uraguay.

Una volta sul terreno, pare che i padrini del Torre chiedessero se il dott. Valentini era disposto a fare ampia ritrattazione; e la risposta fu quale da Valentini si poteva aspettare: «Son matti!»

Sopraggiunge l’avvocato Delcasse con intenzioni di pace; ma il buon avvocato sprecò il suo latino. Però, ottenne che i sette passi si cambiassero in quattordici, un po’.... lunghi.

— Correte il rischio di uccidervi entrambi, dice Delcasse. Vediamo se si può accomodare!

— Questo poi no — replica Valentini — io non voglio uccidere nessuno, perchè desidero conservare le mani nette di sangue.

E da anima generosa, quale era, mantenne, come sempre, la promessa, puntando basso, tanto che la sua palla andò a conficcarsi nel suolo davanti, ma molto davanti al Torre.

Delcasse:

— Da che parte, Valentini, portate l’orologio?

— A sinistra, come di costume.

— Mettetelo a destra, perchè è sempre un riparo. Molte volte l’orologio ha salvato la vita al suo proprietario.

— E perfettamente inutile, caro avvocato; se la palla ha da arrivare, arriverà con o senza orologio.

E scosse le spalle, Valentini, con suprema indifferenza.

L’avvocato Delcasse, che amava il Valentini, insiste e finisce per dargli il suo orologio, dicendogli:

— Mettetelo nel taschino di destra. È un ricordo di mia madre; vi porterà fortuna. [p. 245 modifica]

Ma la preziosa reliquia a nulla gli valse.

Intanto i padrini procederono alle formalità d’uso.

E, prima di comandare il fuoco, i signori Ranzanici e Romano, tornarono a pregare, se c’era modo di evitare il duello, a cui il colonnello Espina:

— Non ce n’è che uno; che il dott. Valentini s’impegni a pubblicare una ritrattazione esplicita su quanto ha scritto.

— Bravo, replica Ranzanici, ritrattare il vero per far trionfare il falso e rovinare un giornale....

— Che importa tutto ciò? — contesta il mite colonnello Espina — quando si tratta dell’onore e della vita di un uomo.

— Desidereremmo sentire il signor Torre..., esclama il signor Romano.

— Al duello!... gridò il Torre.

I duellanti occuparono il loro posto; il volto di Valentini era sereno.

Tranne che sulla fisionomia del colonnello Espina, raccontarono i presenti, indarno si sarebbe cercato un sentimento ostile su quella dei combattenti.

Nessuno più fiatò e all’ordine del colonnello Espina le due pistole spararono contemporaneamente.

La palla di Valentini, dicono, sfiorò il petto del Torre, (ma se si conficcò nel terreno due passi innanzi!); mentre quella del Torre colpì il povero Valentini al cuore!

— Bravo, Torre! Bene!... esclamò Valentini, e cadendo al suolo spirò in pochi secondi!

Torre, vedendo Valentini morto, scoppiò in pianto, talchè furono costretti a condurlo via71.


Ecco i verbali nel loro testo originale:

En la ciudad de Buenos Aires, á los tres dias del mes [p. 246 modifica]de octubre de mil ochocientos noventa y dos, reunidos por una parte los señores Félix Romano y Luis Ranzanici en representacion del Dr. Atilio Valentini, y los señores coroneles Mariano Espina y Pablo C. Belisle en representacion del Sr. Herminio Torre, los segundos expusieron que en nombre de su representado exigian una retractacion ó una reparacion por las armas, con motivo dell’articulo de La Patria Italiana, fecha 2 de octubre, firmado por el Sr. Valentini y altamente ofensivo para su representado. Los representantes del Sr. Valentini expusieron que su mandato era ponerse á las órdenes de los representantes del Sr. Torre para la reparacion por las armas, procediéndose en consecuencia á fijar las bases del duelo, designándose por los representantes del señor Torre la pistola á cápsula, á siete varas de distancia, á la voz de mando y tiro simultáneo, hasta quedar imposibilitado á juicio de los facultativos.

En fé de lo cual se firmaron dos de un tenor: — Mariano Espina — Félix Romano — Pablo C. Belisle — Luis Ranzanici.


En la Colonia, República Oriental del Uruguay, reunidos los Sres. Dr. Félix Romano y Luis Ranzanici, en representacion del doctor Atilio Valentini, y los coroneles Mariano Espina y Pablo C. Belisle en representacion del Sr. Herminio Torre, acompañados de los facultativos Dr. Jorge Rossi y Dr. Tancredi Botto, se procedió á cumplir en acta anterior, modificándose de mutuo acuerdo la distancia convenida hasta catorce pasos.

Puestos en frente uno de otro y á la señal convenida, hicieron fuego simultáneamente, cayendo muerto el Dr. Valentini. — Octubre 5 de 1892. — Mariano Espina — Pablo C. Belisle — Luis Ranzanici — Félix Romano — Doctor Jorge Rossi — Dr. F. Botto.

El coronel Espina fué designado para dirigir el combate. [p. 247 modifica]


Appena si sparse la voce dell’esito fatale del duello, fu una commozione generale ed un accorrere alla Patria italiana.

Trentamila persone accompagnarono la salma del Valentini al cimitero. Il presidente della Repubblica permise l’intervento di tutte le società italiane con musiche e bandiere72; i teatri Politeama, Odeon, Doria e San Martin sospesero in quel giorno gli spettacoli; quasi tutti i negozi vennero chiusi in segno di lutto; più di cento corone vennero mandate e ne fu ripieno un immenso carro tirato da quattro cavalli.

I giornali dell’Argentina e quelli dell’Uraguay escirono con necrologie piene di affetto.

Il pellegrinaggio della camera ardente fu enorme; tanto grande che dalla sera della morte al momento dei funerali (alle 3 del venerdì 7 ottobre) più squadroni di vigilanti a cavallo furono adibiti a regolare la circolazione nelle vie adiacenti.

Al cimitero della Recoleta il ministro d’Italia attendeva il corteo, e con lui erano tutte le signore di animo gentile, che spargendo fiori freschi sulla bara, vollero ancora una volta dare prova della simpatia che presso tutti godeva il defunto e la derelitta sua sorella Cesilda.

La famiglia Roverano volle accogliere nella propria tomba la salma di Valentini; ed alla sera passavano le diecimila le carte da visita lasciate alla direzione della Patria italiana.

Così miseramente finì Attilio Valentini. Morì vittima [p. 248 modifica]della sua temerità, eccitato in quell’ambiente semi-selvaggio dell’America meridionale.

Nel suo giornale vibrava una nota sola; quella della patria!


Sul defunto, Dario Papa scrisse:

«Valentini era di Recanati.

Aveva già avuto tanti duelli (di uno teneva il ricordo entro il corpo sotto forma di una palla di pistola, che non gli era mai stata estratta), tante polemiche violenti, tante diatribie personali; eppure era buono come una dolce fanciulla. Non c’è cosa che non gli si potesse dire a tu per tu. Era docile, mansueto, fin timido davanti alla parola dell’amico. Era leale a tutta prova.

Ma una volta che aveva la penna in mano, era tutt’altro. La sua violenza di parola, sempre nuova, qualche volta assurgente ad invettive di un vero valore letterario, non aveva più limiti, nè misura.

Fu la sua condanna, la sua morte. Egli è andato all’altro mondo combattendo, con le armi in pugno, come spesso ci aveva detto di desiderare.

In tanti anni, da che siamo nel giornalismo, non abbiamo conosciuto nessuno che avesse tanta rapidità di comprensione, tanta facilità ad eseguire, ad assimilare.

Nel 1884, quando infieriva il colera a Spezia, egli — sconosciuto a noi — ci comparve in ufficio all’Italia con una lettera di F. Turati che lo presentava.

— Ho estremo bisogno di lavoro, disse. Non ho un soldo in saccoccia, e ho fatto la strada da Como a Milano a piedi.

— Ma gli è che in questo momento non c’è alcun posto libero....

— Mandatemi alla Spezia. Vi scriverò delle lettere sul colera.

La sera stessa egli partiva, e le sue lettere furono così belle, vive, interessanti, che il giornale se ne avvantaggiò non poco. [p. 249 modifica]

Per poter meglio fare il giornalista, fece l’infermiere.

Tornato, si mise a lavorare con noi. Il suo posto era quello di chiunque mancava, perchè sapeva fare di tutto. In meno di un mese aveva appreso il mestiere così da parere un giornalista provetto.

Per noi andò poscia corrispondente a Roma. Di là fu a Mantova, dove assunse la direzione della Provincia, indi a Cremona per un altro giornale; indi ancora a Genova all’Epoca e da ultimo a Buenos Ayres, dove, succeduto al Cittadini, aveva fatto della Patria Italiana un gran giornale, il più diffuso dei giornali italiani all’estero.

Non era un giornale italiano di partito, è ben raro che se ne facciano all’estero. Era eclettico. Prima di partire l’Attilio ci aveva detto:

— Credilo, non c’è sugo a logorarsi l’anima e la vita per delle idee, dei principî. Chi ci crede? Chi ti segue davvero anche credendoci?

Con questa scettica idea aveva abbandonata l’Italia, che non doveva rivedere mai più. E invece di morire almanco per una idea, è morto per Dio sa quale sciocco pettegolezzo giornalistico e personale.

Che splendida natura sciupata! Era di grande ingegno, era coltissimo, era buono. Ma non sapeva aver freni. Registriamo commossi la sua morte a 35 anni, col cuore pieno dei ricordi d’altri giorni, quando, fido come Acate, egli era per noi il più utile compagno di lavoro, uno dei più cari ed affezionati amici, un fratello.»


Poco prima il povero Valentini aveva avuto un altro duello con Giuseppe Magrini, direttore del Roma, di Buenos Ayres. Per dare un saggio delle polemiche che si fecero proprio all’americana prima del duello, riproduco un brano di una risposta di Angelo Sommaruga, coinvolto nella polemica, al Magrini:

«Il signor Magrini non trova padrini che lo vogliano [p. 250 modifica]assistere contro di me; non accetta quelli che, per levarlo d’imbarazzo, gli si offrono — insulta tanto per mantenersi in carattere e..., fuori delle regole della cavalleria, anche i miei rappresentanti — e mi lascia senza la chiestagli riparazione, e tutto ciò perchè — dice lui — io sono stato condannato per truffe e ricatti.

«Lasciamo andare che i pretesi truffati da me, hanno protestato contro la sentenza che, tra parentesi, di ricatti non parla — lasciamo andare che il Carducci (gli chiedo perdono se lo nomino in una polemica con Magrini) la qualificò un’infamia dicendomi — in una pubblicazione recente — molto migliore di coloro che mi sorsero giudici addosso, mentre cadevo vittima delle Forche Caudine.

«Se il signor Magrini vuol leggere ciò che in proposito dice il codice cavalleresco dell’Angelini, io glie ne manderò una copia.... gratis.

«Tanto e tanto i libri a me non costano nulla.... perchè li rubo.

«Soltanto, poichè il Magrini mi rifiuta quelle riparazioni che, ripeto, i gentiluomini, quando offendono sanno, occorrendo, accordare, io procederò legalmente contro di lui domandando che venga nuovamente condannato come diffamatore.

«Dico «nuovamente» perchè condannato come diffamatore lo fu altre volte.

«Ci vorranno avvocati e denari. È vero. Ma avvocati non ne mancano mai, pur troppo! — Quanto ai denari c’è sempre qualcuno cui fare ricatto!

«Ci sono abituato!».


1893. Nani-Grassi; Gillain e Verderberghe. — (Catania, 21 febbraio). L’avv. Francesco Grassi provocato dall’avv. Enrico Nani — cercate la donna e la troverete — lo percosse in viso: onde una sfida alla sciabola con guanto di spada. Erano rappresentanti del Nani i signori dott. F. Migneco e D. Amato; [p. 251 modifica]del Grassi i signori avv. G. Giuffrida Monaco e Anfuso. I signori Nani e Grassi si batterono in una stanza. Dopo il secondo assalto i secondi invitarono, inutilmente, le parti a conciliarsi. Al terzo assalto — secondo dice il verbale, stato presentato in ritardo alla Procura, perchè dopo il duello, padrini e medici si resero latitanti — fuvvi un vivace scambio di sciabolate ed all’alt, ripetutamente chiamato, non essendosi subito fermati i combattenti, i secondi misero, per separarli le loro sciabole in mezzo. Il Nani, che non si era fermato e che anzi impetuosamente erasi avanzato accusò, a un tratto, di essere stato ferito al fianco destro, attribuendo la ferita alla sciabola che il signor Giuffrida aveva messo in mezzo. La ferita, come risultò dall’autopsia cadaverica, essendo il Nani morto qualche ora dopo, era lunga più di 18 centimetri e aveva forato il diaframma, i polmoni, il fegato.

Sul fatto nacque fra i quattro rappresentanti una seria contestazione; chè da una parte riproduce il verbale — «i signori Amato e Migneco ribadirono l’affermazione del loro primo, riconoscendo altamente che solo per la massima scrupolosità del signor Giuffrida, avvenne l’accidente; dall’altra il signor Giuffrida dichiarò di non essersi accorto della ferita toccata al signor Nani e di credere difficile che la sua sciabola abbia prodotto quella ferita; che, in ogni modo, se così fosse stato, sarebbe dolentissimo che una sua eccessiva preveggenza, per garantire gli avversari, avesse prodotto un danno maggiore».

Al Nani furono fatti per iniziativa del Circolo Artistico, di cui lo sciagurato giovane era socio e consigliere, solenni funerali. Sul feretro erano bellissime corone: splendida fra tutte era quella del Circolo, e quella della famiglia Grassi, dei parenti cioè dell’avversario del Nani. Parlarono dell’estinto il comm. Dibartolo presidente del Consiglio di Disciplina e l’avv. Antonino Defelice.


Per non dare in ciampanelle tolgo dai giornali di Catania quanto segue: [p. 252 modifica]

Catania, 27 luglio 1893. — Ricorderete che nel duello successo alcuni mesi or sono tra gli avvocati Francesco Grassi ed Enrico Nani di qui, quest’ultimo rimase ucciso, non dall’avversario, ma dal padrino di questi, signor avvocato Giuffrida.

Tale grave caso a tutta prima pare spiegarsi col non avere l’avvocato Nani, udita la parola «alt» pronunciata dal direttore dell’assalto avv. Giuffrida, e dall’essersi per fatalità infilzato sulla sciabola da questi interposta fra i combattenti per farne cessare l’assalto.

In seguito a tale grave fatto l’autorità giudiziarsa accusò l’avvocato Giuffrida di omicidio involontario. Appurate però bene le cose, discusse le varie fasi dell’assalto, uditi i testimoni, i medici e consultati dei periti schermitori, quali il deputato Aporti, il Tagliaferri e altri, il giudice istruttore si formò l’opinione che ben lungi dal doversi attribuire a sgraziata casualità tale morte, essa era avvenuta niente affatto accidentalmente, e che l’avv. Giuffrida era colpevole di omicidio volontario. In seguito a tali risultanze l’Autorità giudiziaria spiccò mandato di cattura contro il signor avvocato Giuffrida.


Maggio 1894. — Giorni sono le Assisie di Catania giudicavano certo Giuffrida, studente73 che, facendo da padrino in un duello, mentre i due combattenti lottavano, egli gettandosi in mezzo per dare l’alt, aveva ferito mortalmente l’avversario del proprio patrocinato, certo Nani.

Ieri l’altro il processo è terminato.

I giurati ammisero che la ferita che causò la morte del Nani, fu prodotta dal Giuffrida volontariamente, per cui la Corte lo condannò a dieci anni di reclusione.

La sentenza fu accolta sfavorevolmente dal numeroso pubblico. [p. 253 modifica]

Appena il Presidente pronunciò la sentenza contro il Giuffrida, il pubblico che gremiva l’aula, credendo la condanna eccessiva, apostrofò i giurati.

Accadde una scena straziante fra il condannato e il padre suo.

Intanto si formava nell’atrio, nella corte e in piazza del Duomo un grande assembramento di popolo in attitudine minacciosa.

Il condannato per motivi d’ordine pubblico non si fece uscire.

Sopraggiunti i questurini, i carabinieri e la truppa, dopo due squilli di tromba si sgombrò la piazza.

Il condannato in una vettura a due cavalli, scortato dalla truppa, fu condotto in carcere per vie recondite.


1893. — Nella Villa Spada presso Bruxelles, di proprietà del fu A. Fierland, distinto dilettante di scherma, nel gennaio 1893, ebbe luogo un duello tra i maggiori Gillain e il signor Vendenberghe, che vi lasciò la vita.


1894. Colonnello Romero e Verastegui — Nel 1894 un duello coronato da tragiche conseguenze, avvenne nella città di Messico, tra il colonnello Romero, dell’esercito messicano e un tal Verastegui, capo ufficio del bollo.

Il duello fu provocato da una lettera ingiuriosa che Romero scrisse a Verastegui a proposito di una.... donna.

I due aversari duellarono entro un cimitero, con la pistola, nel quale avevano prima fatto scavare una fossa per ricevere colui che sarebbe rimasto sul terreno74. [p. 254 modifica]

Al primo colpo il colonnello Romero si fa il suo uomo, che cade stecchito al suolo.

Il 26 agosto dell’anno successivo (1895) il duello tragico ha una coda in tribunale.

Al colonnello Romero si faceva l’accusa, tra le altre, di non aver sparato al comando; di aver portato sul terreno pistole rigate; infine, di aver fatto un passo avanti prima di sparare.

I giurati dettero verdetto affermativo sui quesiti proposti loro, e il colonnello Romero, fu condannato a 3 anni e 4 mesi di lavori forzati; a 1800 dollari (pari a lire italiane 9000, non valutato il cambio) da commutarsi in 100 giorni di galera in caso di mancato pagamento.

Inoltre, fu condannato alle spese del processo, dei funerali della sua vittima e a pagare, durante 18 anni, 4500 dollari all’anno, alla vedova e ai figli di Verastegui. I quattro padrini furono assolti; ma il presidente si appellò contro questa liberazione, chiedendo che almeno si colpisse il generale Rocha, che aveva diretto lo scontro.

Ed ora, andate a battervi nel Messico, se ne avete la voglia!


1895. Harry-Alis e Le Chântelier; il maggiore Shacklett e il colonnello Robinson; Benedetti e Alessandri; Lahovary e Catagrin; Niculescu e Filipescu; Russo e Cianciolo; Pruder e Berlinower; i tenenti Khün e Joachin. — Nel 1887 Harry-Alis pubblicò nel Débats una cronaca sulla scherma e sul duello. Ai principio di questa cronaca Harry-Alis faceva elogio della scherma, ma non risparmiava epigrammi marzialeschi a certi tipi assidui delle sale d’armi. Poi, satireggiava il duello e soprattutto quelli nei quali non si tira che.... alle estremità.

Egli scriveva: «Volontariamente, trattando della scherma attuale, non ho parlato del duello, che dovrebbe avere con essa (la scherma) un rapporto diretto e invece non ne ha [p. 255 modifica]alcuno. Io opino, che mai i duelli furono così frequenti, come oggi (1887). Ciò costituisce un fatto particolare nella storia; questo costume che soppravvive alle cause che lo giustificarono, ora ha preso un nuovo slancio, che m’auguro sia l’ultimo per l’onore dell’umanità. Senza rimontare sino al medio evo, si può affermare che sino alla seconda metà del nostro secolo, il duello ebbe per lo meno un carattere serio; perchè fosse utile od abbominevole la causa, l’effetto fu sempre grave. In questi ultimi tempi, non so perchè e come, il duello è trasformato. Trovavasi l’abitudine vecchia troppo pericolosa; ebbene, l’han modificata senza sopprimerla. La prima locuzione che ha caratterizzato il nuovo duello era così ingenuo, così stupido e ridicolo, che è subito scomparsa: ora ci si batte al primo sangue.

Ora, ci si batte fino a che una ferita renda «l’ineguaglianza manifesta tra i due feriti».

«Talune volte, si procede a questa constatazione (d’inferiorità) prima del duello, che ipso facto, vien rimandato. Ci si batte al più, fino a tanto che uno degli avversari si trova nell’impossibilità di continuare. Testimoni e medici operano di comune accordo per mantenere il buon ordine.

«Talvolta nel duello d’ultima forma, si sono verificati guai funesti; ma de’ ben più gravi si verificano nei ginnasi, alle corse, ecc.

«Sembrerebbe che un combattimento così puerile non dovrebbe avere troppa importanza; ciò sarebbe forse se Parigi, cervello della Francia, non fosse sotto il dominio del mondo del «boulevard;» popolazione internazionale, chiassona, agitata, che impone le sue mode, che ha i suoi teatri, i suoi giornali, e soprattutto la sua morale. Ora il duello è il dogma, il più incontestato di questa moralità singolare; esso ha tutte le virtù, e soprattutto un paracadute per le virtù un po’ avariate. Quando ha un abbonato nell’imbroglio gli capita un guaio spiacevole; quando un giornalista ha esaurito i suoi argomenti; quando un uomo politico è accusato di scroccheria, si mette alla ricerca di duello, scende nello steccato e si fa pungere il braccio; l’onore è soddisfatto e l’uomo torna a galla. [p. 256 modifica]

«È un mezzo comodo di cui si abusa!

Ebbene, l’uomo, il pubblicista che scriveva nel 1887 in questi termini sul duello, nel febbraio (15) del 1895 moriva in duello, nella maniera la più spaventole e stupida, che mente umana può concepire.

E moriva nell’isola della Grande-Jatte, per una polemica futile, schiocca, ucciso netto da Le Chântelier, antico ufficiale.

Non c’è da incriminare il vincitore di questo terribile combattimento; le cose si passarono con molta lealtà; ma anche la spada passò lealmente a traverso il corpo del povero giornalista.


Luglio 1895. — Erano a tavola da buoni camerati il maggiore Shacklett e il colonnello Robinson. Cos’è, cosa non è? una parola oltraggiosa esce dalle labbra del maggiore per colpire il colonnello. Alla parola segue il lampeggiare e lo sparo delle rivoltelle. Il maggiore Shacklett spara per primo e traversa con una palla la testa del colonnello. Questi cade; ma appena a terra, fa fuoco a sua volta e fracassa la spalla destra del maggiore, che a suo turno si ripiega su sè stesso.

I colpi continuano fino a che ci son cartucce nell’arma.

Finita la battaglia accorsero gli amici. Robinson era morto; aveva ricevuto altre tre palle: una nel braccio sinistro, una nel ventre e l’altra attraverso il collo.

Il maggiore era vivo; ma in che stato! Ciò non gli impedì, però, di far buon viso alla sfida di un parente del colonnello, che pretendeva essersi il maggiore servito del revolver, mentre il colonnello offeso aveva il diritto di scegliere la lotta. Quindi, rispondere di sopruso.

Questo fatto, che sembra favola, è vero? l’ho letto nei giornali del Kentucky, che ne davano un lunghissimo resoconto con testimonianza di autorità, cittadini, negri, ecc. [p. 257 modifica]


Agosto 1895. — In seguito ad un articolo apparso nel Bastia journal del Benedetti, che sosteneva di essere stato eletto consigliere generale contro il dottor Alessandri, proclamato dai presidenti dei Seggi, l’Alessandri saputo il Benedetti ad Ajaccio, incaricò Astima e Giacobbi, vice-presidenti del consiglio generale, di sfidarlo a nome suo.

Benedetti scelse a rappresentarlo Balesi e Giuseppe Farinola.

Il duello accadde il 29 agosto 1895, con la pistola, a 30 passi, al comando. Al primo sparo Alessandri scattò prima del comando; Benedetti tirò in aria. Al secondo scambio di palle l’Alessandri fu colpito mortalmente, e il Benedetti costituitosi prigione, fu posto in libertà sotto cauzione.


Settembre 1895 e 1898. — Da Bucarest un telegramma dei primi di settembre del 1895, annunciava che il capo dello Stato maggiore rumeno, il generale Giacomo de Lahovary era stato mortalmente ferito in un duello alla spada con il signor Niculesco ex-tenente dell’esercito di Rumania.

Questo duello era la coda delle dimissioni di un certo numero di ufficiali di cavalleria e fu preceduto da un grave scandalo, che aveva avuto a teatro il casino di Sinaïa.

Alcuni giorni prima, il generale Lahovary e il signor Catagrin, ministro serbo a Pietroburgo, che insieme giocavano al casino Sinaïa, ebbero tra loro un diverbio, per giuoco terminato in vie di fatto. All’indomani del pugilato, i due personaggi si batterono alla pistola; una palla fu scambiata senza risultato e la vertenza chiusa. Ma nel giorno successivo al duello, un giornale di opposizione di Bucarest, pubblicava un articolo violento censurante con molta [p. 258 modifica]severità la condotta del capo di Stato maggiore, tanto nella faccenda degli ufficiali di cavalleria, come in quella del Casino.

Il firmatario dell’articolo si chiamava Niculesco, ex-tenente dell’esercito romeno, cancellato dai quadri per l’incidente degli ufficiali di cavalleria già citato.

Il capo di Stato maggiore messo così alle strette da un civile, non poteva ritirarsi davanti ad un duello.

Nel frattempo il Catagrin credette prudente di presentare le sue dimissioni, che furono accettate dal governo serbo.


Più tardi, circa due anni dopo e cioè nel febbraio del 1898, un altro Lahovary direttore dell’Indipendenza Armena di Bucarest, trovò la morte in un duello alla pistola per mano del signor Filipescu, direttore dell’Epoca. Causa del duello una polemica giornalistica.

Il fatto suscitò enorme impressione in Rumenia, essendo i due avversari persone assai riguardevoli e conosciute. Sebbene di solito le autorità rumene non facciano mai processi per titoli di duello, in questo caso si sentì la necessità di dare una soddisfazione al sentimento pubblico e si procedette contro il Filipescu.

All’indomani del tragico scontro, furono presentati alla Camera e al Senato, fra vivissimi applausi delle tribune, vari progetti di legge che tendevano ad inasprire sensibilmente le sanzioni penali contro il duello. Ma l’opinione pubblica calmata, il Senato e la Camera non pensarono più a quei progetti.

Però, l’autorità pensò al processo, che si svolse in otto sedute nel mese di aprile, e che terminò con la condanna del Filipescu a sei mesi di prigione. [p. 259 modifica]


1895. — Nel settembre 1895, per questioni assai intime, entro la cittadella di Messina, ebbe luogo uno scontro alla sciabola tra l’avvocato Salvatore Russo e il sergente di cavalleria Vincenzo Cianciolo che vi rimase morto.

Dai giornali messinesi rilevo che l’ucciso apparteneva a nobile famiglia di Messina, presso la quale era venuto a godersi un po’ di.... licenza.

Padrini dell’avvocato Russo erano l’avvocato Francesco Crisafi e il signor Giovanni Calamarà; il defunto sergente era assistito dal furiere Pizzi e dal sergente Calassano del 25.° reggimento d’artiglieria.

I duellanti, col busto intieramente nudo, e senza guanti, fecero due assalti.

Al primo il Cianciolo dava al Russo un fendente, con cui lo feriva alla testa, e lo avrebbe ucciso se la sciabola non gli fosse girata in mano, ciò che succede spesso a chi schermisce secondo il metodo ufficiale italiano, in vigore.

Alla seconda messa in guardia, mentre il Cianciolo colpiva l’avversario al braccio destro, il Russo gli vibrava un colpo di punta al lato destro del petto. Il colpo fu mortale, perchè squarciò la vena aorta.

L’infelice Cianciolo girò su sè stesso e cadde a terra cadavere, in un mare di sangue.

Il feritore e i suoi padrini si posero in salvo; mentre i due sottufficiali si costituirono a’ loro superiori.


1895. — Il 5 gennaio 1895, nella villa Fontana Rom, ebbe luogo un duello alla pistola tra il signor Prudier, ricco negoziante di Algeri, e il conte Berlinower, suddito austriaco, [p. 260 modifica]per una disputa avvenuta al Café Riche75 per questioni.... femminili.

Al primo colpo il bravo negoziante cadde mortalmente ferito al capo; e a me pare che egli avrebbe potuto vivere in pace più lungamente, se fosse rimasto ad Algeri a negoziar tabacchi e sali, come era costume suo.


29 dicembre 1895. Tenenti Khün e Joachin. — Il 29 dicembre 1895, a Thionville, avvenne un duello fra il tenente Khün del 6.° dragoni e il tenente Joachin del 35.º fanteria.

Il duello si svolse sul campo di manovra di Thionville, e al primo colpo il tenente Khün si ripiegò su sè stesso ferito mortalmente.

Il suo avversario Joachin, era figlio del celebre violinista, professore del conservatorio di Berlino.


1896. Capitano e referendario; Berchert e il tenente di artiglieria; Kettelholdt e Zenker. — A Berlino il 18 gennaio 1896 un duello con esito letale avvenne tra un capitano di cavalleria e un giovane referendario, per una quistione sorta in una brasserie. Il capitano aveva insultato, maltrattandola, una di quelle signorine che tengono luogo dei camerieri, e che noi alla tedesca chiamiamo chellerine e le reputiamo fanciulle generose delle grazie loro.

Il referendario, per spirito cavalleresco o per altro.... sentimento, si alzò a protettore della donna insultata, rimproverando al capitano la sua condotta poco.... educata.

Discussione violenta; vie di fatto; sfide e una palla nel basso ventre del povero referendario, che ne morì. [p. 261 modifica]


1896. — Duello a Koenigsberg tra un giovane funzionario, signor Berchert e un tenente di artiglieria, che aveva mancato di rispetto alla sorella del funzionario in un ballo in maschera.

Lo scontro avvenne nel febbraio 1896, alla pistola, a quindici passi di distanza.

Le prime quattro palle furono scambiate senza risultato; ma alla terza ripresa il tenente è ucciso sul colpo.

Narro brevemente questo duello, perhè fu causa di una dimostrazione antiduellista da parte del clero protestante tedesco.

Il cappellano, o elemosiniere del reggimento, aveva accettato di celebrare i funerali della vittima del duello e di pronunciare un discorso sulla tomba del defunto tenente. Tutti gli ufficiali della guarnigione, e quelli delle guarnigioni limitrofe, erano accorsi in massa per porgere l’ultimo tributo d’affetto al compagno perito così crudelmente. Finite le preghiere rituali, il cappellano militare pronunciò un discorso assimilando il duello all’uccisione e all’assassinio.

Il povero pastore non aveva tutti i torti.... ma non così la pensavano i presenti, che scattarono in proteste violenti, allorchè il sacerdote pronunciò l’Amen finale.

Due giorni dopo l’elemosiniere ricevette dal generale comandante il corpo d’armata un avviso officiale col quale gli si annunciava essere egli destituito dalle sue funzioni pastorali-militari.

Il suo posto reso vacante fu offerto ad altri pastori, che lo rifiutarono, dichiarando ch’essi erano solidali col confratello destituito pel giudizio sul duello.

Dopo aver fatto il giro di tutti i presbiteri protestanti del distretto, con risultato negativo, e dopo di avere inutilmente fatto appello agli altri presbiteri per mezzo della stampa, il generale, di fronte a questo inaspettato boicottaggio, si vide costretto pregare l’elemosiniere destituito a riprendere le sue funzioni religiose presso i militari. [p. 262 modifica]


27 marzo 1896. — Il tenente di Marina Kettelholdt, appartenente allo stato maggiore dello Yacht Hohenzollern, uccise il 26 marzo 1896, in duello alla pistola, l’avvocato Zenker di Postsdam, ufficiale della riserva, col quale la moglie di Kettelholdt aveva stretto intima relazione durante i bagni.

Zenker spirò tra le braccia del fratello, medico.

Colla morte dell’avv. Zenker, la signora di lui vinceva il processo per divorzio intentato contro il marito, dal quale s’era divisa per ritirarsi con i suoi due bambini a Dehmold.

Il tenente Kettelholdt, frattanto, fu posto agli arresti, mentre il truce fatto veniva comunicato all’imperatore, che in quei giorni trovavasi a Napoli.


1896 (16 aprile). Schraeder-Kotze; Fejervary-Bernath; Vinardi-Zemos; Servonnet-Maillet. — Mentre in Francia, per le gesta Sagan-Hermont, il duello moveva a ridere, a Berlino il duello tra von Kotze e von Schraeder faceva piangere, e commoveva l’opinione pubblica; perchè altre lacrime sarebbero state versate, se per opera di influenti amici, non fosse stato impedito al figlio del signor de Schraeder, studente, di battersi, com’era determinato, con l’uccisore del padre suo. Quegli amici pietosi risparmiarono una nuova sventura alle due famiglie e sottrassero alla funesta suggestione del punto d’onore una novella vittima.

Ed i tedeschi, lasciando alle donne, ai congiunti e agli amici lo sparger lagrime sui morti, approfittarono della commozione generale per portare la questione in Parlamento; per chiedere provvedimenti legislativi, onde il combattimento singolare avesse a scomparire dai costumi loro. Questo compito, arduo in tutti i paesi, più arduo si presenta in Germania, ove [p. 263 modifica]l’onore militare si sente in una maniera del tutto speciale. Difatti, fu questo particolare apprezzamento dell’onore militare, che indusse i due ciambellani della Corte imperiale tedesca a scendere sul terreno e ad uccidersi. Fu per questo malinteso giudizio dell’onore, che dopo il duello letale, non si trovò che l’ira partigiana dei liberali, capace di stigmatizzare l’ignobile uccissione, perchè la Società di Corte non si rifiutava di vedere dei delinquenti nei due campioni del duello al Lago del Diavolo; ma giudicava delinquenti l’uno o l’altro dei combattenti, a seconda delle simpatie e dei vincoli d’amicizia. Sicchè, una parte salutava nel Kotze il predestinato alla vittoria «nel giudizio di Dio»; mentre l’altra ricopriva di fiori la fossa del caduto.

Durante i funerali dell’ucciso, celebrati con mesta pompa e senza l’intervento del sacerdote, nella selvosa Ratzeburg76, una sola cosa rattristò i partigiani del defunto: la mancanza di una corona di fiori e il saluto dell’Imperatore.

In quel mentre l’Imperatore era in Italia; ma lui, gentile e premuroso con tutti, non rispose nemmeno all’annunzio telegrafico della morte del suo cerimoniere. Se ne condolse con la famiglia Schraeder la Imperatrice madre; ma, per telegrafare severe rampogne contro il duello.

I fautori abolizionisti del duello sono pochi anche in Germania, perchè il buon senso e il giusto sentire della civiltà, non è roba da dozzina, nè si vende a chilogrammi e ad etti il coraggio che fa argine ad una triste abitudine sociale. Ma, benchè in pochi, traggono coraggio dalla condanna imperiale del duello; e concordi tutti nel biasimarlo, tentano ogni lecito mezzo per muovere, contro la stupida abitudine, l’opinione nazionale; e finiscono per proporre al Parlamento mille modi e mille mezzi per reprimere la imbecillissima costumanza di andare ad ammazzarsi con un duello per un nonnulla.

Ma ogni sforzo, come da secoli avviene, cadde nel vuoto. Gli uomini politici tedeschi si trovarono imbarazzati nella scelta [p. 264 modifica]e l’onor dell'uomo d'arme, dell’uomo feroce, dell’uomo micidiale, trionfò77.

È inutile; le rivoluzioni morali non possono farsi che col tempo, con chiarezza d’idea e severa praticità di mezzi.

Ma per dare un’idea della mancanza d’ogni concetto determinato nell’agitazione tedesca contro il duello, provocata dalla morte di quel disgraziato Schraeder, basti riferire gli episodi, che seguono:

Il 21 aprile si doveva discutere in Parlamento la faccenda Kotze-Schraeder; ma ciò che il paese voleva, lo si sapeva? No. Infatti, gli ultramontani avevano deposto una interpellanza; i progressisti una mozione, colle quali si esortava il governo a prendere delle misure per impedire i duelli anche nelle sfere ufficiali.

E col crescere dell’agitazione contro il duello, quasi tutti i partiti si trovarono concordi nel domandare rigorosi ordinamenti.

La Centrum-Correspondenz invitava il Governo a presentare alla firma dell’Imperatore un decreto, che proibisse il duello agli ufficiali.

La Koelnische Zeitung sperava che il Ministero saprebbe impedire che si facesse grazia ai condannati per duello.

Il Reichsbote annunziava che nei prossimi sinodi si proporrebbe un’agitazione per rendere moralmente impossibili i duelli.

Ma, quando si venne alla discussione della interpellanza Bachem contro il duello, Benningsen fece un discorso notevolissimo; Richter stigmatizzò con calore le classi dirigenti, che dànno il cattivo esempio del duello; Manteuffel — che fu breve — si associò in nome dei conservatori ai liberali e [p. 265 modifica]ai socialisti nel disapprovare il duello. Finalmente si conchiuse: approvando ad unanimità una mozione del deputato Adt, chiedente che il duello sia combattuto energicamente con tutti i mezzi (!!!).

Quanta accademia!

Ah! non era proprio necessario condurre la Germania al trionfo del settanta, per avere un Parlamento capace di sì gravi deliberazioni. Ah, no!


Il duello tra i due ciambellani fu provocato da un grave pettegolezzo di Corte, originato da lettere anonime, attribuite ad alto loco. I circoli di Corte propendevano in favore di Kotze. Il duello ebbe effetto sulle rive del Lago del Diavolo, alla pistola, a quindici passi. Si fece fuoco e il barone Schraeder cadde per non più rialzarsi.

Il figlio del barone Schraeder, chiamando traditore l’uccisore di suo padre, voleva battersi con lui.... Ma amici comuni e potenti ne lo dissuadessero e con la solita apatia si dimenticarono tutti i buoni propositi per la repressione del duello!

Il mondo è fatto così!


Fejervary-Bernath. — Durante la seduta del 22 aprile 1896 della Camera ungherese, il deputato Béla Bernath si avvicinò al ministro barone Fejervary, e, mostrandogli un documento, lo pregò di voler provvedere perchè fosse sollecitamente evaso. Il barone Fejervary gli rispose brevemente: «Favorisca rivolgersi a Kassits: questi fa per il caso suo». Kassits è un consigliere ministeriale, che mosse gravi accuse contro il ministro Fejervary.

Il deputato Bernath rimasto sorpreso da questa risposta, seguì più tardi il ministro fino al suo gabinetto, ove ebbe la conferma delle identiche parole di prima. [p. 266 modifica]

In seguito a ciò, il Bernath mandò i colleghi Giulio Horwath e Geza Melzer a chiedere soddisfazione al ministro, che dichiarò loro non essere stata sua intenzione di offendere il deputato Bernath; però, soggiunse, che come ministro era a disposizione di tutti; ma che non intendeva usare cortesie di sorta ad un deputato del partito nazionale, per la semplice ragione che questo partito si era dichiarato solidale col consigliere Kassits nelle accuse scagliate contro la sua persona.

Bernath non si accontentò della risposta avuta e decise di sottoporre la questione al suo partito.

In seguito ai consigli avuti dal deputato Bernath, i suoi padrini si recarono di bel nuovo dai ministro per chiedere una riparazione cavalleresca.

Il ministro rispose loro che, avendo parlato in qualità di ministro, non si riteneva obbligato ad accordare la soddisfazione richiestagli.

Uno dei padrini gli osservò, allora, che la sfida non partiva dal deputato al ministro; ma bensì dal capitano Bernath al maresciallo Fejervary.

In seguito a questa osservazione, Fejervary dichiarò di accettare la sfida.


Il duello ebbe luogo alle nove del mattino del 26 aprile nella caserma Francesco Giuseppe, a Budapest.

Fu scambiato da prima un colpo di pistola a 30 passi di distanza, con facoltà di avanzare. Sparò primo Bernath, sbagliando il colpo; mentre la palla del sessantenne ministro sfiorò così da vicino l’avversario, che questi trasalì, talchè lo si credette ferito.

Constatato ch’era incolume, il duello continuò alla sciabola. Nel primo assalto Bernath ricevette un terribile fendente alla tempia destra; egli cadde a terra grondante sangue. I medici constatarono ch’erangli state tagliate parecchie vene. I duellanti non si riconciliarono. [p. 267 modifica]

I nemici di Fejervary avevano diramato dei manifestini eccitanti il pubblico a radunarsi davanti alla caserma dove aveva luogo lo scontro; ma l’invito riuscì completamente vano.

Fejervary, intervenuto alla seduta della Tavola dei Magnati, ricevette calorose felicitazioni. Fu biasimato il partito nazionale, che istigò Bernath, una simpatica e pacifica persona, a volere ad ogni costo il duello. La ferita del Bernath fu giudicata assai grave e imminente la morte dello sventurato deputato.


Questo duello, specialmente per la posizione sociale dei combattenti, commosse grandemente l’opinione pubblica; forse anche, perchè avvenuto a pochi giorni di distanza dal duello di Berlino, nel quale lasciò la vita il barone Schraeder.


15 settembre 1896. Vinardi-Zemos. — Nel gennaio del 1896, in seguito ad attriti sorti fra la popolazione di Savigliano e l’ufficialità del 17.° reggimento di cavalleria (Caserta), il signor Attilio Vinardi mandò alla Luna una breve corrispondenza, la quale conteneva qualche allusione allo Zemos, tenente in quel reggimento.

Il direttore del foglio umoristico non ritenne opportuno di pubblicare la lettera del suo corrispondente, e la mise in disparte, forse con l’intendimento di restituirla al suo autore; ma ai primi di settembre, nell’assenza del direttore, il manoscritto capitò fra le mani di un redattore della Luna, il quale senz’altro lo inserì nel giornale, all’insaputa anche — almeno pare — del Vinardi, che non rammentava più di aver mandato quella corrispondenza.

Il tenente Zemos, cui quello scritto, in parte, era diretto, ritenutosene offeso, mandò a sfidare il direttore della [p. 268 modifica]Luna, che rispose di mettersi a disposizione del signor tenente, qualora il signor Vinardi avesse declinato la responsabilità dell’articolo offensivo. Ma il Vinardi si dichiarò prontissimo a dare la soddisfazione che il tenente chiedeva, e senz’altro furono stabilite le condizioni dello scontro.

Si prescelse la sciabola, senza esclusione di colpi, alla condizione che il combattimento cesserebbe, allorquando i medici dichiarassero che uno dei duellanti fosse impossibilitato a proseguire nella lotta.

Il duello ebbe luogo il 15 settembre, alle ore 18 (6 p.), in una palazzina posta sullo stradale di Marene, poco lungi da Savigliano.

L’avvocato Vinardi era assistito dal cav. Calieri, direttore del Fischietto e della Luna di Torino, e dal signor Sapelli, redattore dei due giornali.

Il tenente Zemos era accompagnato dai tenenti Gelmi e Guiscaroli.

Al comando «A-loro» i due avversari si attaccarono con estrema violenza; ma nel primo assalto ambedue restarono illesi. Alla terza messa in guardia, con l’attacco non meno violento dei precedenti, il tenente Zemos ricevette la punta avversaria al costato sinistro e stramazzò esanime al suolo.

L’arma avversaria io aveva trafitto da una parte all’altra, squarciandogli il cuore.

I quattro padrini affermarono che i duellanti si erano comportati secondo le più rigorose norme della cavalleria!

Alla sera stessa, mentre l’avvocato Vinardi guadagnava la frontiera, la salma dell’infelice tenente Zemos entrava nell’ospedale militare, suscitando immensa, penosissima compassione.

Il defunto contava appena 33 anni; era nato a Courmayeur, e s’era conquistate le spalline da semplice soldato!


All’indomani, Savigliano rese solenni onoranze, le estreme, alla salma del povero ufficiale Alessandro Zemos. [p. 269 modifica]


Poco dopo, il 26 marzo 189778, si leggeva nei giornali dell'Alta Italia:

«È ormai abbastanza noto il nome del pubblicista Attilio Vinardi, direttore della Gazzetta di Savigliano, per avere egli ucciso in duello il tenente di cavalleria Caserta, Alessandro Zemos, duello avvenuto in seguito a polemica giornalistica.

Ma in quell’epoca — nel settembre del 1896 — il Vinardi pare abbia voluto attaccare con una serie di pungentissimi trafiletti tutto il reggimento di guarnigione a Savigliano. Fra gli altri ne scrisse uno, ritenuto per sè offensivo dall’avv. Biancotti Sassini, notaio alla residenza di Genova, ed ufficiale di complemento nel reggimento Caserta. L’avvocato-notaio preferì rivolgersi al tribunale di Saluzzo il quale, ammesso che la persona indicata nell’articolo del Vinardi, sebbene non nominata, appariva esser il notaio-ufficiale querelante, ed ammessa altresì l’ingiuria e la diffamazione, condannava il Vinardi ai soliti 10 mesi ed alle ancor più solite 833 lire di multa. Appellarono tanto il Vinardi, quanto il procuratore del re, e questa Corte d’appello, accogliendo le ragioni di quest’ultimo, portava la pena a 18 mesi di reclusione e a 1500 lire di multa.

Il Vinardi trovasi all’estero».


Dicembre 1896. Servonnet-Maillet. — Il capitano di fregata Servonnet, addetto navale alla residenza di Francia, a Tunisi, sulla fine di dicembre del 1896, veniva ucciso in duello [p. 270 modifica]alla spada dal signor Maillet, redattore (?) del Governo Tunisino.

Il resultato di questo duello, di cui le cause molto intime vollero e vogliono essere segrete, era preveduto da chi conosceva l’animo dei due antagonisti.

Appena trentenne, mingherlino, agile, elastico, il signor Maillet era uno dei migliori allievi del maestro Berlet, del 4.º reggimento dei cacciatori d’Africa.

Il capitano Servonnet al contrario, tozzo e sulla cinquantina, da tempo non aveva toccato un fioretto.

I padrini dei duellanti erano il colonnello Ribillet, addetto militare alia Residenza, ed un ufficiale dello stazionario Condor per il capitano Servonnet; due avvocati di Tunisi per il signor Maillet.

Il duello non durò a lungo, perchè un colpo di spada, portato con maestria, atterrava, agonizzante, l’addetto navale.


1898, 3 marzo. Sacco-Serraino; Cavallotti-Macola; Vitale-Tagliapietra. — La baronessa Sacco, non aveva che un figliuolo, Giovanni, sottotenente nel 61.° fanteria, di stanza a Trapani, un giovane d’oro, stimabilissimo.


Si rileva dai verbali dei secondi, che la sera del 24 febbraio, il predetto sottotenente Sacco Giovanni trovavasi al teatro Garibaldi, e la poltrona situata dinanzi alla sua era occupata da uno dei fratelli del signor Rosario Serraino. Nella retro-spalliera di detta poltrona, come in tutte le altre, trovandosi un congegno che serve a deporre il copricapo, il sottotenente signor Sacco si sforzava a far rientrare tale congegno nel gancio apposito da cui era sfuggito, ed in tale movimento scuoteva involontariamente la poltrona [p. 271 modifica]medesima, occupata, come già si disse, dal fratello del signor Rosario Serraino.

Questi, che trovavasi in un palco soprastante, credette che il suddetto ufficiale urtasse volontariamente la poltrona occupata dal di lui fratello, traendo convinzione dai fatti che l’ufficiale in quel momento stesso sorrideva con un signore suo vicino e che il fratello voltavasi indietro.

Risentitosi, il signor Rosario Serraino indirizzava al sottotenente Sacco l’epiteto di «asino» e siccome questi si voltava meravigliato verso il palco, non comprendendo a chi e perchè fosse indirizzata quella parola, il signor Serraino Rosario aggiungeva, additandolo: «lo dico a voi».

Il sottotenente mandò i suoi padrini, tenenti Domenico Frezzi del 61.° e Francesco Bivona del 57.° fanteria al Serraino, il quale scelse a rappresentarlo i signori di Xirinda e Francesco La Porta.

Il 28 febbraio i rappresentanti del Serraino scrivono al loro mandante:


                Sig. Rosario Serraino,

Trapani.

«In esecuzione dell’incarico che gentilmente avete voluto affidarci d’accettare la sfida che il sottotenente signor Sacco Giovanni vi lanciava per mezzo dei signori tenenti: Domenico Frezzi e Francesco Bivona, crediamo rendervi conto del nostro operato.

«Ci siamo riuniti la stessa sera del 24 corrente mese, ed esaminando il movente che diede luogo alla sfida, i signori rappresentanti il signor Sacco hanno riportato l’accaduto per come l’abbiamo saputo da Voi; però escludevano che il Sacco avesse sorriso in modo canzonatorio alle spalle di Vostro fratello. Ci dissero altresì d’averlo avuto assicurato (sic) dal loro Primo.

«Trattandosi di un equivoco preso da parte Vostra, [p. 272 modifica]abbiamo creduto giusto proporre un verbale chiarante i fatti e riportante le più sentite scuse da parte Vostra79.

«Siccome poi si pretendeva che le scuse si fossero rese pubbliche, perchè pubblica era stata l’offesa, così noi abbiamo acconsentito a rendere pubblico il verbale da redarsi, e per mezzo dei giornali80. Si sospende la seduta e si riapre oggi alle ore 10.

«I signori Fressi e Bivona non vogliono più parlare di accomodi conciliativi, considerando l’offesa assai grave perchè lanciata pubblicamente in teatro.

«Si vuole mia riparazione e noi gliel’abbiamo accordata; però si pretende da parte loro che l’arma venga scelta dal loro primo. (Storia assai vecchia e discussa tante e tante volte e sempre decisa per come noi abbiamo sostenuto81.

«E siccome tanto in Sicilia che nel Napoletano, l’uso inveterato da tanti anni s’imponeva a qualunque codice cavalleresco, così ci riusciva impossibile cedere in loro favore».

«Fu inutile il fare osservare che in tutte le altre partite d’onore, avvenute fra militari e borghesi82 si era sempre fatto e secondo le nostre usanze che nessuno aveva mai insistito su questa pretesa83». [p. 273 modifica]

«Ci si chiama allora ad un giurì d’onore e noi, sia perchè le cose sarebbero andate troppo alle lunghe, sia perchè non abbiamo creduto il riunirlo, a causa della grande evidenza di fatto confermata, per come si è già detto, da tutti i precedenti fatti, non abbiamo creduto acconsentirvi».

«Ci si riunisce, per la terza volta, alle ore 12,30 ed i signori tenenti Brezzi e Bivona non avendo voluto accordare, per come è nostro diritto, la scelta delle armi, declinano il loro mandato».

«Questi sono i fatti per come stanno fino in questo momento in cui abbiamo il piacere di salutarvi e reputarci vostri sinceri amici.

Trapani, 22 febbrajo 1898, ore 14.

Thom di Xirinda.

Francesco La Porta.



Senza mancare di rispetto a’ quattro rappresentanti, vale la pena di fare poche osservazioni su questa lettera, che non essendo stata smentita dai rappresentanti del defunto tenente Sacco, diviene più che attendibile.

I rappresentanti dell’ucciso avevano, conforme le prescrizioni cavalleresche, l’obbligo di accettare la dichiarazione e le scuse dei rappresentanti del Serraino, che ponevano fine alla vertenza, con onore delle parti. Eccedettero coll’insistere per la riparazione con le armi.

Dal canto loro i rappresentanti mal si apponevano negando al Sacco il diritto della scelta delle armi, ed eccedettero pure rifiutando di sottoporre il punto discorde al giudizio di un tribunale d’onore. [p. 274 modifica]


La vertenza, com’era da prevedersi, dopo la lettera ora riferita, si inasprì al punto che i due antagonisti si permisero di scambiarsi lettere insultanti!


I rappresentanti delle parti furono sostituiti e i nuovi riunitisi riconobbero al sottotenente Sacco il diritto alla scelta delle armi. L’ufficiale volle la pistola, mentre i rappresentanti del Serraino proposero di sottoporre all’esame di un giuri d’onore il grado dell’offesa.

Il giuri d’onore composto dal Cav. Giulio D’Alì-Staiti, dal Cav. Francesco Minaudo, dai tenenti colonnelli Chiotti e Cavalli e dal maggiore Inverardi, sentenziò che l’offesa era gravissima con oltraggio.


Malgrado l’apprensione, che dominava in tutti, per la specie del duello cui andavano incontro i due avversari, la mattina del 3 marzo alle ore 6 ¾ gli antagonisti si trovarono di fronte sulla pianura della Salina Grassa, dei signori Piacentino.

Il Serraino faceva fronte a Sud-Ovest ed aveva come sfondo il monte Erice; il Sacco guardava a Nord-Est, facendogli di sfondo il gruppo delle Egadi. Il sole nascente illuminava egualmente i due combattenti. Lo spazio, che separava i due avversari, era di 25 metri.

Il sottotenente Sacco tirò per primo. Il Serraino, illeso, rispose e la palla entrò nel fianco destro del sottotenente, penetrando fino nel bacino.

Il Serraino si appressò, commosso, all’infelice Sacco e gli stese la mano, e il sottotenente, sorridendo, la strinse. [p. 275 modifica]

Il ferito, appena ricevute le prime cure, fu adagiato sopra una barella e trasportato da otto soldati alla sua abitazione.

Medici, superiori, amici, conoscenti corsero dal disgraziato ufficiale.

L’on. Lampiasi, i medici Turretta, Scio, Cassisa, Salvo, Messina, ed il capitano medico tentarono tutte le risorse della scienza; ma il povero sottotenente morì in meno di due ore.


Imponenti furono i funerali. I fiori ricoprivano la bara; il rimpianto fu generale; ma le ultime e straordinarie onoranze rese al cadavere del povero giovane non restituirono alla madre derelitta il figlio adorato; nè le furono di conforto gli elogî, che dello sventurato sottotenente fecero superiori ed amici!


Il 14 luglio del 1898 si chiuse al Tribunale di Trapani il processo contro il Serraino, pel duello riescito fatale al povero tenente Sacco.

Erano imputati, oltre l’uccisore Serraino Rosario di Mario, di anni 29, commerciante da Trapani, i 4 padrini e i medici:

Nani Antonio di Pietro, di anni 26, da Treviso, capitano al 61.° fanteria;

Ursida Pasquale fu Carlo, tenente nel detto reggimento;

Todaro Stefano fu Pietro, possidente da Trapani;

Lombardo Felice di Vito, medico chirurgo da Trapani;

Bivona Francesco fu Gaspare, tenente del 57.º fanteria, in servizio a questo distretto militare;

Brezzi Domenico fu Giovanni, tenente nel 61.° fanteria.

Il tribunale condannò Serraino a un anno e mezzo di detenzione e ai danni da liquidarsi in sede civile, e gli altri imputati a un mese della stessa pena. [p. 276 modifica]

Tra i difensori erano gli avvocati Tripepi e Pipitone Federigo, entrambi deputati.


1898. — Cavallotti-Macola84. — Nel Secolo di Milano del 24 febbraio 1898, veniva pubblicata questa lettera di Felice Cavallotti:


Roma, 23 febbraio 1898.

                «Cari amici,

«Non iscrivo alla Gazzetta di Venezia perchè non ci è sugo nè buon gusto a polemizzar coi mentitori di mestiere. Ma, poichè, come antico giornalista, più volte ho trattato della questione morale nei riguardi della stampa, non mi pare privo di interesse istruttivo il porre in luce in che modo certi giornali del partito dell’ordine, che la pretendono a educatori delle masse, intendano la dignità del proprio ufficio e il rispetto dei proprii lettori. Si tratta di un caso semplicemente patologico, che nel suo genere è perfino divertente.

«Un bel dì la Gazzetta di Venezia — portabandiera dei conservatori veneti, trovandosi a corto di frottole e di argomenti per difendere il domicilio coatto, e le leggi restrittive del voto, scopre e inventa che anche Cavallotti ne aveva espresso a Rudinì il suo parere favorevole!!! Era grottesco, nè v’avrei dato peso: ma nossignori, la Gazzetta di Venezia sente anche il bisogno di rincarare la dose, aggiungendo che la notizia non temeva smentite! e allora, per rispetto di [p. 277 modifica]me stesso e degli amici, la smentita ho dovuto stampargliela sul muso.

«Pareva — nevvero? — che la lezione potesse bastare. Gnornò! lo scorso dicembre, nei giorni della crisi avendomi il presidente di Rudinì fatto l’onore di pregarmi per iscritto di un colloquio al quale acconsentii e i giornali avendone parlato, la Gazzetta di Venezia si fa mandare un telegramma specialissimo, in caratteri distinti, da Roma, per annunziare ai suoi lettori che la cosa era tutt’altra, che cioè io avevo domandato una udienza e che il presidente del Consiglio si era visto, poveretto, nella impossibilità di rifiutarmela!!

«Il buffonesco telegramma (e dico buffonesco, per tutti quelli che mi conoscono e sanno se io sono tipo da chieder udienze a chi non mi cerca e dar consigli a chi non me ne chiede) mi venne sott’occhi per caso molti giorni dopo: allora, non francando neanche la spesa di una smentita, e trovandomi di buon umore, mi limitai ad avvertire, per cartolina, il direttore che nelle bugie su di me non ne aveva proprio la mano felice: che per quest’altra volta glie la passavo, per non comprometterlo coi lettori suoi; ma badasse a non incappare in una terza. Credete che il mònito lo abbia guarito? neanche per sogno!

«Ecco, càpita l’adunanza della giunta parlamentare incaricata di riferire sulla domanda di autorizzazione a procedere contro di me.

«E subito la Gazzetta ad annunziare testualmente, per dispaccio telegrafico da Roma, in prima pagina ed in posto distinto:

«Il deputato Cavallotti volle intervenire alla seduta della Commissione, benchè non invitato, per dare spiegazioni sugli articoli incriminati.

«L’on. Bonacci che fa parte della Commissione, non consentì alla pretesa del Cavallotti, essendo estraneo alla funzione della Commissione il discutere in merito della domanda.

«E il deputato Cavallotti dovette ritirarsi senz’altro. Dopodichè la Commissione all’unanimità deliberò di proporre l’autorizzazione.» [p. 278 modifica]

«Cosa vuol dire essere disgraziati!

«Più bugie in meno parole non si potevano impastare! Ma siccome il signor Lelio io l’avevo ammonito, stavolta merita ch’io mi diverta a sue spese.

«Diciamo dunque al povero signor Lelio che io andai in seno alla Commissione non già non invitato, ma, ahimè! solo quando uno dei membri della Commissione stessa, venne in persona, d’incarico e a nome di tutta la giunta e del suo presidente, a invitarmi, e recatomi alla chiamata, il presidente Bonacci, a nome dei colleghi, con una cordialità squisita e affettuosa di parole, di cui gli sono grato, mi spiegò come la Giunta appena appreso ch’io desideravo essere udito, fu unanime immediatamente nel pensiero di chiamarmi.

«Ringraziato che ebbi il presidente e i colleghi, diedi alla Giunta, che onorommi dell’attenzione più cortese, spiegazioni «non già sugli articoli incriminati», i quali viceversa non sono che poche parole della mia unica lettera a Vassallo (!!) intorno al caso Perrone-Mosconi, ma sul perchè io desideravo che il processo si facesse, avendo dal primo giorno che entrai nella Camera combattuto sempre il privilegio dell’art. 45, e parendomi che nel caso cencrete meno che mai ci fossero ragioni di servirsene, e di rifiutare l’autorizzazione: sicchè la commissione aderì a prender atto, come fece l’egregio relatore espressamente, del mio desiderio, avendo accondisceso alla mia preghiera anche quei Commissari che l’autorizzazione volevano rifiutare.

«Esposi poi particolareggiatamente ai membri della Commissione il perchè, rispetto alle origini dell’articolo, per il quale pregavo a non negar l’autorizzazione, mi era caro più che mai rivendicare con orgoglio la loro stima e quella dei miei colleghi della Camera. Ed espostole minutamente, e «illuminata che ebbi la Commissione sulle origini dei fatti» come dice testualmente la relazione, e rinnovata che ebbi, in base a ciò, la mia dichiarazione che il relatore trascrisse, «che esulava dal fatto la garanzia statutaria» il presidente, a nome dei colleghi, con nuove parole cordialissime ci tenne a ringraziarmi, e su questo ringraziamento, a mia volta ringraziando, mi accomiatai. [p. 279 modifica]

«Ed è in questo modo che il presidente Bonacci non «consentì alla mia pretesa» e che io «dovetti ritirarmi senz’altro».

«Oh povera Gazzetta di Venezia! — Ma servirà la lezione?

«Che, che! a rivederci alle bugie prossime. Un po’ di spasso, in mezzo alle noie della politica, non guasta mai.»


A questa lettera, la Gazzetta di Venezia, del 25, diretta dall’on. Macola, rispondeva:

«Quel paglietta della democrazia secolina che è il deputato Cavallotti, se la prende con la Gazzetta di Venezia a proposito della seguente notizia mandataci dal corrispondente romano, in data del 16 febbraio ultimo scorso:

«Il deputato Cavallotti volle intervenire alla seduta della Commissione, benchè non invitato, per dare spiegazioni sugli articoli incriminati.

«L’on. Bonacci, che fa parte della Commissione, non consentì alla pretesa del Cavallotti, essendo estraneo alle funzioni della Commissione discutere in merito alla domanda.

«E il deputato Cavallotti dovette ritirarsi, senz’altro.

«Dopo di che la Commissione ha all’umanità deliberato di proporre alla Camera l’autorizzazione.»

«Nel prendersela colla Gazzetta, il deputato Cavallotti cita anche una cartolina scritta all’on. Macola tempo fa, ma dimentica di citare la lettera in risposta ricevuta.

Sappiamo intanto che il nostro direttore, quantunque all’oscuro dell’origine della notizia, data dal corrispondente, perchè assente dalla capitale, e da Venezia, chiederà al bardo ragione delle parole contro la Gazzetta di Venezia, non avvezza ad incensare i ciarlatani.

Il nostro corrispondente da Roma ci manda poi su tale questione la seguente dichiarazione: [p. 280 modifica]


«Roma, 24, ore 6,25 p.

«Leggo nel Secolo una lettera del deputato Cavallotti che attribuisce al direttore, on. Macola, il telegramma da Roma, 16 corrente, nel quale rendesi conto della riunione della Commissione incaricata di riferire sulla domanda di autorizzazione a procedere contro esso Cavallotti. È probabile che nella foga del lavoro serale le informazioni telegrafate contenessero qualche inesattezza; ma per la verità dichiaro che il telegramma fu scritto ed inviato da me alla direzione in Venezia, da dove Macola era assente, come eralo da Roma, onde egli non potè averne cognizione, se non dopo la pubblicazione fattane.

«Ferdinando Miaglia

«Corrispondente della Gazzetta di Venezia».


Nello stesso giorno, 25 febbraio, il Secolo riceveva i seguenti telegrammi:

«Roma 25, ore 19.20. — In seguito alla lettera apparsa nel Secolo di ieri, Macola incaricava i deputati Valli Eugenio e Santini di chiedere a Cavallotti una riparazione.

Cavallotti sceglieva a rappresentarlo i deputati Giampietro e Marazzi Fortunato.

I quattro padrini si incontreranno stasera a Montecitorio.»

«Roma, 25, ore 23. — I rappresentanti di Cavallotti e di Macola si riunirono stasera in una sala di Montecitorio. Mentre iniziavano le trattative per lo scontro, pervenne loro una lettera di Miaglia, corrispondente romano della Gazzetta di Venezia, che, per debito di lealtà, affermavasi autore dei telegrammi, causa della lettera di Cavallotti.

Di comune accordo, esaminata la nuova fase della vertenza, visto che la dichiarazione di Miaglia cambia assolutamente la posizione della vertenza, considerando la condotta [p. 281 modifica]di Macola e di Cavallotti, corretta e cavalleresca, considerando che la ragione della presente vertenza cessa dacchè il Miaglia si assume la paternità dei telegrammi dimostrati inesatti da Cavallotti, e dichiarando inoltre lo stesso Miaglia che, nella foga del lavoro, sarebbe incorso in inesattezze, epperciò gli apprezzamenti di Cavallotti non sono di pertinenza di Macola, i rappresentanti delle due parti dichiarano esaurita la vertenza, invitando gli avversari a stringersi la mano.»

Ed il 27-28 febbraio il Secolo stampava altri telegrammi sulla vertenza, speditigli da Roma:

«Roma, 26 febbraio, ore 8 p. — Essendo l’on. Giampietro partito e dovendo stasera partire l’on. Marazzi per Siena, Cavallotti incaricò gli on. Niccolini e Socci di abboccarsi coi rappresentanti di Macola, e dichiarare loro che riteneva come non avvenuto il verbale del quale non eragli ancora stata data comunicazione formale, e che vista la condotta della Gazzetta di Venezia, di cui Macola è responsabile, intendeva di continuare la vertenza.

Domattina, quasi sicuramente, i rappresentanti di ambe le parti, decideranno le modalità dello scontro.»

«Roma, 24 febbraio, ore 9 ant. — Dopo un lunghissimo abboccamento avvenuto in una sala di Montecitorio fra i rappresentanti di Cavallotti e quelli di Macola, si constatò che il contegno della Gazzetta di Venezia risaliva ad una data anteriore al primo abboccamento dei rappresentanti delle stesse parti. Quindi, addivenuti a reciproche spiegazioni, i rappresentanti, hanno redatto di pieno accordo un verbale negativo, che comunicheranno nel pomeriggio alle parti interessate.»

La vertenza rimase così esaurita onorevolmente.

E la Gazzetta di Venezia del 1.° marzo stampava:

«Ci telegrafano da Roma 28 febbraio, sera:

La vertenza fra gli onorevoli Macola e Cavallotti fu composta con verbale steso ieri dai padrini.

Il verbale dice che i quattro padrini ritenevano concordi come gli onorevoli Cavallotti e Macola non abbiano alcuna ragione di venire ad una soluzione cavalleresca, mentre vi sono più chiari motivi di reciproca stima personale. [p. 282 modifica]

Il verbale è firmato dai deputati: Socci, Niccolini, Santini ed Eugenio Valli.

Pare che l’on. Cavallotti si sia messo in conflitto con i suoi padrini, perchè ritiene che la Gazzetta di Venezia abbia pubblicato parole offensive al suo riguardo, pendente la vertenza.

L’on. Macola, malgrado che il verbale sia chiuso, fece avvertire l’on. Cavallotti d’essere sempre a sua disposizione».

Gli amici di ambedue i contendenti nell’apprendere la soluzione pacifica della vertenza respirarono a larghi polmoni; ma la gioia reciproca fu di poca durata, perchè sul Secolo del 1.° marzo lessero:

Roma, 28 febbraio, ore 5 p. — Cavallotti non intendendo accettare il verbale della sua riaperta vertenza con Macola, concordato ieri fra Santini, Valli, Niccolini e Socci, questi ultimi rassegnarono il loro mandato.

Cavallotti con la lettera ai detti suoi rappresentanti intendeva recisamente da parte di Macola la sconfessione di un fatto, che violando le norme e le consuetudini dei gentiluomini, renderebbe impossibile ogni riparazione di onore; Cavallotti non intese in modo alcuno di rinunziare all’esplicita dichiarazione, omessa nel verbale da lui rifiutato, che il Macola dichiarasse che l’articolo apparso sulla Gazzetta di Venezia del 25 febbraio fosse scritto a sua insaputa, non potendo Cavallotti stesso ammettere che Macola stabilisca un precedente non rispondente alle consuetudini, specialmente nel campo del giornalismo, quello cioè di continuare una polemica vivace, annunziando nelle stesse colonne del giornale di essere in corso una vertenza cavalleresca.

Cavallotti dichiara nulla importargli che il Macola la sua domanda l’abbia fatta pro forma e che la rottura delle trattative abbandoni al giudizio dei gentiluomini chi ostenta di promuovere delle questioni d’onore, violandone i precetti e ponendosi espressamente nella condizione di restare senza soddisfazione di nessun genere.

Così è chiusa la vertenza85[p. 283 modifica]


Ma purtroppo la vertenza non era terminata. Infatti, Cavallotti pubblicava nel Don Chisciotte la lettera che segue e che riassumeva lo stato della questione:

Roma, 2 marzo 98.

Il deputato Macola non vuol capire che tutti hanno già capito ch’egli ama di far del rumore intorno a sè, con molte [p. 284 modifica]vanterie e niente fatti. A me pare che, avendo dell’ingegno com’egli ne ha, ci siano modi migliori per farsi della réclame e farsi strada nel mondo.

Prima mi manda a sfidare domandandomi «o spiegazioni o riparazione per le armi» e appena da me accettata la sfida, le spiegazioni invece di domandarmele, me le dà. Tanto valeva non incomodarsi. E mentre qui a Roma fa il pacifico, a Venezia nel suo foglio fa il bellicoso, e lassù annunzia la [p. 285 modifica]sfida con insolenze, per metterle quaggiù all’ombra del componimento amichevole.

Rifiutate da me le spiegazioni, per non battersi lui, quest’originale vuol far batter me coi miei padrini! Ma ai miei carissimi amici Niccolini e Socci io non avevo e non ho altro che da dir grazie! e di cuore, una volta ch’essi aveano ufficialmente fatto sapere, per lettera, al Macola, e scritto a me che ritenevano «le trattative pel componimento non riuscite» e perciò declinavano il mandato.

Avuto da essi questo annunzio e poichè il Macola domandava «o spiegazione o via delle armi,» non restava più, mi sembra, che quest’ultimo corso del dilemma. Ed è li che io lo aspettavo, non per cattiveria, nè per gusto o voglia di fare il 32.° duello, ma solo per insegnargli a far l’uomo serio e non disturbare chi non ha tempo da perdere.

Cosa fa invece il deputato Macola? La sua strana insistenza mi obbliga a completare il racconto.

Rifiutati da me gli accordi, vado la stessa sera del 28 alla posta della Camera e trovo una lettera che dalla soprascritta riconosco di carattere di Macola! (Usai il riguardo di non parlar di questo nella mia precedente; ma poichè il Macola nelle lettere alla Tribuna e al Don Chisciotte allude di nascosto al fatto, e se ne serve senza dire la verità, mi sento da riguardi prosciolto). Riconosciuto il carattere e la provenienza sull’esterno della busta, senza aprirla, scrivo che il deputato Cavallotti non può ricevere per lettera comunicazioni di nessun genere e la rimetto all’impiegato da restituire al Macola.

Per un uomo che «aveva avvisato gli onorevoli Anzani e Donati di tenersi pronti» era venuto, mi pare, il momento di adoperarli.

Nossignori, di lì a dieci minuti, l’on. Donati (il cortese intermediario di cui ieri parlavo) mi raggiunge per dirmi, a nome di Macola, che mi pregava a ricevere la lettera da me respintagli, assicurandomi, sotto la sua parola, di lui Donati, che la lettera era tutt’altro che offensiva. Preso atto di ciò, per riguardo al collega e preavvertendolo che tenevo lui responsabile se una parola men corretta nella lettera si trovasse, presi dalle sue mani la lettera e l’apersi. [p. 286 modifica]

La lettera, in data «Roma, 28 febbraio sera, 9 ¾ pom.,» era infatti cortesissima e diceva fra l’altro:


                «Caro Cavallotti,

«.... Sono venuto a Roma credendo di battermi subito. I nostri rappresentanti hanno giudicato non fosse il caso di venire agli estremi. Io rispetto i giudicati, ma siccome tu non sei del parere mio.... io non tollero le situazioni incerte. Io non ho tutto il tuo brillante stato di servizio, anche perchè sono più giovane di te, ma sono, come te, uomo d’azione. Vuoi che la finiamo? Non sarebbe bello che tu tentassi di sopraffarmi colla superiorità del tuo passato, conquistato a furia di abnegazione e di coraggio, quantunque io senta di avere il fegato sano come il tuo.... Da ieri sera, dopo che ho saputo il pensiero tuo sul verbale, sono qui con padrini nuovi in attesa di decisioni tue.... farò lo sfidante o lo sfidato, poco importa, purchè si esca una volta da questa noiosa situazione.... Abbimi intanto

«Tuo aff.mo Macola».


Fu appena letta questa lettera (poichè a pigliarmi colle buone, io divento un pan di zucchero) che io dichiarai subito, lì per lì, al porgitore collega Donati, che mi felicitavo assai di veder il Macola, finalmente, in queste buone disposizioni: che il suo desiderio era anche il mio: e cordialità per cordialità, lo prendeva subito in parola.

Felicissimo io poi che, non potendo contraddirmi, egli sfidante non avesse, come serivevami nulla in contrario a rimanerlo: perchè ciò eliminava fin l’ultima difficoltà. Mi mandasse pur dunque immediatamente i padrini che diceva d’aver pronti, purchè venissero con incarico, non più di discutere, ma di fissare nelle 24 ore lo scontro. E il cortese intermediario partì subito con questa mia risposta, che a lui non dispiaceva, intanto che io mi recavo la sera stessa ad [p. 287 modifica]impegnar Bizzoni. Il giorno dopo dell’intermediario Donati vengo a sapere che il Macola (dopo avermi scritto di «bramar d’uscirne, sfidante o sfidato poco importa» e di aspettar le mie decisioni), adesso che lo sapeva, aveva mutato di parere e non accettava il mio consiglio.

E allora, domando io, valeva la pena di far tanto chiasso? e che profitto ci trova a continuarlo?



Fu dopo questa lettera che Macola mandò i deputati Donati e Fusinato a sfidare Cavallotti.

Questi nominò suoi padrini il pubblicista Bizzoni e il deputato Compans. Alle 17,30 del 4 corrente, i quattro rappresentanti si abboccarono, ma essendo sopraggiunta la febbre a Compans, questi venne sostituito dal deputato Tassi.

E furono così Donati e Fusinato, Bizzoni e Tassi che fissarono le modalità del duello che ebbe sì tragico risultato.


I verbali dello scontro:

Roma, 6 marzo, 7 ore pom. — Eccovi i verbali fatali della vertenza.

Roma, 4 marzo 1898 — Verbale primo: Oggi in una sala di Montecitorio si radunavano Carlo Donati e Guido Fusinato, rappresentanti dell’on. F. Macola e l’on. Camillo Tassi e signor Achille Bizzoni, rappresentanti dell’onorevole Felice Cavallotti. Gli onorevoli Donati e Fusinato, a nome del loro rappresentato, dichiarano di portare sfida a cagione della lettera in data 2 marzo 1898, pubblicata nel Don Chisciotte, del 4 marzo, lettera che l’on. Macola ritiene per sè offensiva. [p. 288 modifica]

«I rappresentanti dell’on. Cavallotti, dichiarano di avere mandato preciso dal loro rappresentato di accettare la partita d’onore con l’on. Macola. L’on. Cavallotti dichiara per mezzo dei suoi rappresentanti, di non entrare nel merito della questione lasciando ad essi di fissare le condizioni dello scontro.

«Per conto loro i rappresentanti dell’onorevole Cavallotti si riservavano di fare delle dichiarazioni, a tutela della propria responsabilità e del proprio onore per avere accettata la partita d’onore senza discussione in merito.

«I rappresentanti dell’on. Macola, constatato che la dichiarazione di non voler entrare nel merito della questione venne fatta dall’on. Cavallotti, dichiarono che le riserve dei rappresentanti dell’on. Cavallotti non li riguardano in nessun modo. Si fissa un ulteriore convegno per domani 5 marzo, alle ore 11 ant. per concordare le condizioni dello scontro.

Firmati: Carlo Donati, Guido Fusinato, Camillo Tassi, Achille Bizzoni.

Verbale secondo:

Roma, 5 marzo 1898. — In esecuzione dell’accordo intervenuto ieri, oggi, in una sala di Montecitorio, si radunarono gli onorevoli Carlo Donati e Guido Fusinato, rappresentanti dell’on. Macola, e l’on. Tassi e Achille Bizzoni, rappresentanti di Felice Cavallotti, per convenire le condizioni dello scontro.

Si stabilisce che lo scontro avvenga alla sciabola affilata ed appuntata, senza esclusioni di colpi, con guanto di scherma da decidersi, se da fioretto o da sciabola.

Il combattimento continuerà sino a che uno dei duellanti sia giudicato dai medici in condizione di assoluta impossibilità a proseguire. I duellanti non vestiranno maglia; porteranno camicia non inamidata, con colletto inamidato.

Lo scontro avverrà nelle ore pomeridiane di domenica 6 corrente, in luogo ed ora da convenirsi.

La direzione dello scontro sarà decisa dalla sorte, fra i signori Bizzoni e Fusinato. Riservato ad entrambi l’ordine di alt.

Si fissa un ultimo convegno per domani, domenica, alle ore 9 ant. [p. 289 modifica]

Verbale terzo:

Roma, 6 marzo 1898. — In seguito all’accordo contetenuto nel verbale di ieri, oggi, in una sala di Montecitorio, alle 9 antimeridiane, si radunarono Carlo Donati e Guido Fusinato, rappresentanti l’on. Ferruccio Macola, e l’on. Camillo Tassi e il signor Achille Bizzoni, rappresentanti l’on. Felice Cavallotti, per definire l’ultima questione rimasta sospesa relativa al guanto da usarsi nello scontro.

«I rappresentanti dell’on. Macola ritenendo che il duello riveste carattere di speciale gravità per l’indole dell’offesa, che si concreta nella accusa di viltà, che il guantone, oramai è entrato nelle consuetudini cavalleresche dei duelli di condizioni gravi, impedendo così che lo scontro cessi per una lieve ferita al braccio; che, per queste ragioni il loro primo pone condizione assoluta l’uso del guantone da sciabola: che qualora l’imbottitura del guantone impedisse all’onorevole Cavallotti il libero maneggio dell’arma non si oppongono a che si addotti altra guantiera con guanto di spada: tutto ciò ritenuto, chiedono come condizione assoluta l’uso del guantone.»


«I rappresentanti dell’on. Cavallotti, constatato che i rappresentanti dell’on. Macola avevano il diritto della scelta delle armi, non possono per loro parte rinunciare al diritto che loro compete di fissare le condizioni e modalità dello scontro, essendo rimasto unicamente a decidere se i duellanti dovessero usare il guanto di scherma da fioretto o da sciabola, i rappresentanti dell’on. Cavallotti hanno scelto il guantone da fioretto.

Ora i rappresentanti dell’on. Macola esigendo come condizione sine qua non dello scontro, il guantone da sciabola dai rappresentanti dell’on. Cavallotti assolutamente respinto, questi osservano che potrebbe proporsi un arbitrato. Ma quantunque per le condizioni del duello in Italia, il guanto di spada ed il foulard bagnato, a difesa del polso, non [p. 290 modifica]possono essere negati alla libera scelta dello sfidato da nessun perito in materia, essi non credono invocare estraneo giudizio, mentre si sentono sicuri del loro pieno diritto. I rappresentanti dell’on. Cavallotti soggiungono che la scelta del guanto di spada e foulard non è ispirata dallo scopo di menomare la gravità dello scontro, tanto più che il cuoio del guanto di fioretto e il foulard difendono l’avambraccio quanto il guanto di sciabola. I rappresentanti dell’on. Macola, insistendo nelle loro conclusioni primitive, i rappresentanti dell’on. Cavallotti, serbando nel pensiero di non prolungare la vertenza, subirono la condizione imposta, accettando il guantone di sciabola.

Lo scontro viene fissato per le 3 pom., in un casale convenuto, fuori di porta Maggiore».


Le ultime lettere di Cavallotti e di Macola prima del duello. — Il Don Chisciotte del 3 corrente pubblicava:

Ecco la lettera già annunciata dall’on. Macola:

Roma, 2 marzo 1898.

                Signor Direttore,

Una parola ancora, perchè mi spetta, e se il pubblico si secca passi oltre: non sono io che ci prendo gusto! Le differenze che l’on. Cavallotti ha coi suoi padrini per eventuale errata interpretazione del mandato non possono riguardarmi. Gli on. Niccolini e Socci si presentarono ai miei con pieni poteri e lo dichiararono; discussero, conchiusero, firmarono e basta. Il loro silenzio durante tutta questa faccenda lo dice chiaro.

Qui adunque finisce la vertenza.

L’on. Cavallotti non ne fu contento. Ebbene: aveva due mezzi, o sconfessare i suoi padrini, o farmi rispondere ( [p. 291 modifica]avendo saputo che io era sempre a sua disposizione) che egli preferiva definire la cosa altrimenti. La soluzione sarebbe stata immediata; tanto che io avevo pregato gli on. Anzani e Donati di tenersi pronti.

Che colpa ne ho io se la vertenza si è risolta in polemica?

Quanto ai pourparlers, corsi fra me e l’on. Cavallotti, ecco come stanno le cose. La proposta di definire senz’altro la vertenza, è partita da me per amore di serietà: e la proposta fu fatta in modi e forme eque, così che nè l’uno, nè l’altro avesse a soffrire nella sua dignità. Ma all’on. Donati che la portava, il Cavallotti dopo molte parole disse sì, che vi avrebbe accondisceso, purchè gli avessi mandato una lettera, nella quale press’a poco fosse detto: che avendo egli Cavallotti rifiutato le chieste spiegazioni, nè accettato come definitivo il verbale (lo chiama schema), gli chiedevo una soluzione per le armi. Lasciando stare, che io non potevo tornare sul verbale concordemente fatto, ma agire ex novo, io domando se chi, avendo per sè il più stretto diritto cavalleresco, poteva ricevere a quel modo l’elemosina di uno scontro!

Io rispetto i trenta duelli dell’on. Cavallotti, e credo ormai che essi diano a lui diritto di farsi chiamare uomo zenza paura; ma quantunque io non conti che la metà precisa del suo stato di servizio sul terreno e parecchie ferite, voglio almeno sperare che non mi si farà l’ingiuria di supporre, che oggi trovo poco igienico lo scambiare due sciabolate col mio avversario, soltanto perchè tutelo serenamente la mia dignità personale.

Con osservanza,

Dev.mo Macola.



Il duello avvenne a Villa Cellere, fuori di porta Maggiore. [p. 292 modifica]

Alle 2,10 Cavallotti, accompagnato da’ suoi padrini Bizzoni e Tassi, giunse sul terreno dello scontro e pochi momenti dopo vi giunse Macola, insieme ai suoi padrini Fusinato e Donati e al medico Cervelli.

Molti deputati ed amici dei duellanti attendevano le notizie sull’esito della lotta nei pressi della Villa.

L’on. Tassi così narrò lo svolgersi del combattimento:

«Comandava il terreno l’on. Fusinato; assistevano come medici, i dottori Montenovesi e Cervelli. Il primo fu per Cavallotti, il secondo per Macola.

«Dopo le formalità d’uso, gli avversari furono posti in guardia.

«Macola manteneva una guardia bassa; Cavallotti, dopo qualche istante attaccò e il Macola, senza parare, allungava il braccio, dirigendo la punta in alto86. Vi fu un momento che parve che la punta della sciabola di Macola avesse toccato il petto di Cavallotti. Fu intimato l’alt; ma non si constatò alcuna lesione.

«Alla seconda ripresa del combattimento il giuoco da ambe le parti non mutò; e negativi furono gli attacchi.

«Il terzo assalto non differì dai precedenti; si gridò alt essendosi vista la punta della sciabola di Macola colpire Cavallotti alla bocca, mentre Macola scartava a destra.

«Cavallotti non se n’era accorto. Però, fermatosi, portò la mano alla bocca e mentre chiedeva a Montenovesi ed a Bizzoni, che lo osservassero: — Che cosa è? — gli uscì un fiotto di sangue.

«Appoggiato al braccio di Tassi e di Bizzoni, Cavallotti camminando per cinque passi entrò nel piccolo oratorio della villa, ove tutto era preparato largamente per le medicature.

«Al dottor Montenovesi si unirono subito i dottori Cervelli e Ascensi.

«Cavallotti fu fatto sedere, mentre seguitava a uscire il sangue a fiotti. Era difficilissimo scoprire il punto leso, [p. 293 modifica]anche perchè Cavallotti stringeva forte i denti. Ma apertagli la bocca, i medici dubitarono, e con ragione, che fosse lesa la jugulare interna.

«Steso subito sul tavolo il ferito, si operò la respirazione artificiale. A questa pietosa funzione attesero Tassi e la contessa Cellere. Così si potè sgombrare la bocca dal sangue e visitare il fondo della gola ove, pur troppo, si verificò la lesione sospettata. Si fecero le allacciature interne ed anche un’altra tagliando il collo esternamente per meglio operare. Ma durante quest’operazione Cavallotti spirò».

Dalla ferita alla morte erano appena trascorsi dieci minuti.

La scena di costernazione che seguì l’annunzio della morte di Cavallotti non si può descrivere.

Ed anche il Macola, che co’ suoi padrini si era ritirato per vestirsi, attendendo l’esito dell’esplorazione chirurgica, alla ferale notizia sembrò esterrefatto.

Pregati dalla contessa di Cellere, Macola e i suoi padrini si allontanarono e la salma di Cavallotti fu trasportata da Tassi, dalla contessa e da’ suoi dipendenti sopra un letto in una camera del piano superiore della villa.

Alcuni amici restarono a vegliare l’estinto, mentre altri corsero a Roma ad annunziare il tristissimo avvenimento.

Cavallotti andando sul terreno era ilare e sereno e con gli amici si compiacque della bellezza della villa, ammirando la maestà della campagna romana.

Mentre si davano le ultime disposizioni per il combattimento, Tassi, porgendo un guanto a Cavallotti, gli disse:

— Sono sicuro, caro Felice, mi sento tranquillo dell’esito.

E Cavallotti di rimando:

— Tante volte non si sa mai! quando ci si crede ben sicuri....

Triste presentimento!

Il terreno per lo scontro era stato scelto da lui! [p. 294 modifica]


Così crudelmente, per il falso punto d’onore, lottando, chiuse la sua vita di lottatore Felice Cavallotti, l’alfiere della democrazia italiana, che se talvolta fu avventato ed ingiusto ne’ suoi giudizi contro amici e nemici, fu anche un gran cuore ed una mente elevata, onore del suo partito e dell’Italia87.


1898. Vitale-Tagliapìetra. — Il 5 aprile 1898, moriva all’ospedale militare di Savigliano il tenente Armando Vitale, del 18.° cavalleria, che tre giorni prima veniva ferito in duello dal tenente C. Tagliapietra.

La causa dello scontro letale?

I due tenenti, pare per causa intima, vennero a diverbio. Durante il quale il tenente Tagliapietra, che vestiva da borghese, con un bastoncino percosse il Vitale. Questi all’atto ingiurioso trasse la sciabola, ma fu impedito da un agente delle guardie municipali di colpire l’avversario.

Al secondo assalto il Tagliapietra colpiva mortalmente al ventre il tenente Vitale, cui invano fu fatto subire la laparatomia. [p. 295 modifica]


1898 (16 luglio). — Il sedici di luglio, lo studente di medicina Colomano Ghizi, parente dell’ex-ministro dello stesso nome, tentò di avvelenarsi con la morfina, nella località di Slokof.

Il giovane Ghizi, in un pubblico ritrovo a Berlino, alcune settimane innanzi, aveva avuto un diverbio con un ufficiale per una ragazza, della quale i due giovani ambivano l’esclusiva.... proprietà.

Dal diverbio erano passati alla sfida.... in seguito alla quale fu concluso un duello all’americana, nel quale, al povero Colomano toccò la palla nera, la palla fatale, quella del suicidio.

Il Ghizi alcuni giorni prima, e sempre in seguito al patto diabolico della palla nera, aveva tentato di suicidarsi a Vienna, gettandosi da una finestra di un quarto piano. Però, era rimasto appeso per gli abiti ad una imposta del secondo piano, che lo aveva salvato da certa morte.

Ma, l’avviso della Provvidenza, che gli rammentava la sciocchezza della presa determinazione per una più stupida ragione, non lo distolse dalla morfina, che fu meno pietosa della finestra!


1898 (15 settembre). Capitano Pietro Cingia ed Enrico Donado. — In seguito a questioni d’indole molto privata, due duelli alla sciabola accaddero il 15 settembre, nelle vicinanze di Chiasso, tra il capitano di cavalleria Pietro Cingia e i signori Enrico Donado di Udine e Giuseppe Marsich di Verona.

Lo sfidante fu il signor Donado, ed il capitano Cingia accondiscese a scendere sul terreno solo quando, dopo ripetuti tentativi di amichevole conciliazione, gli era divenuto impossibile rifiutare. [p. 296 modifica]

Ciò dico, perchè a cagione di questa terza uccisione in duello, il capitano Cingia fu da una parte della stampa sospettato provocatore ingiusto e peggio di questo nuovo duello.

Egli, il capitano Cingia, aveva tutte le ragioni per resistere fino all’estremo alla sfida: poichè, per una fatalità che pare lo perseguiti, duellare con lui vuol dire quasi certa morte per i suoi avversarî.

Messo, successivamente, di fronte a’ suoi avversarî, il capitano, con un gran taglio alla faccia, segnava per la vita il signor Marsich, e con una puntata al polmone poneva fuori di combattimento il Donado.

I medici presenti allo scontro constatarono subito la gravità delle ferite; ma credettero opportuno di trasportare i sofferenti a Como, anche per sottrarlo alle noie e alla severità delle leggi svizzere contro i duellanti.

Ma a Como, mentre il signor Marsich guariva perfettamente, il signor Donado andava aggravandosi, e l’11 di ottobre cessava di vivere.

Chi vide in quei giorni a Reggio Emilia il capitano Cingia, affermò che il suo stato morale era abbattutissimo, e che una tristezza immensa ed inconsolabile lo aveva invaso.


1899. Tenente Schlieckmann e Tillemont; Tenente Koepe e Klöevekorn; Oberschaller e Tutuoki. — La corte marziale di Metz agli ultimi di gennaio condannava a due anni di detenzione in una fortezza il tenente Schlieckmann, per avere ucciso, poche settimane prima, in duello alla pistola, il giovane Tillemont, figlio del concessionario dei mulini di quella città.

Il padre dello sventurato giovane cercò conforto al suo dolore nella carità ed in memoria dell'adorato figlio consegnava all’ufficio di beneficienza pubblica mille marchi. [p. 297 modifica]


Aprile 1899. — Dopo Montigny, Coblenza!

In sessanta giorni due ufficiali dell’esercito germanico sacrificano alle stupidissime esigenze del punto d’onore militare due poveri giovani studenti, gettando nel lutto le famiglie Tillemont e Klöevekorn.

Del duello Tillemont-Schielckmann non era ancora spenta la eco dolorosa, quando accadde l’abbattimento per mano del tenente Koepe, del povero Klöevekorn, studente di matematiche a Coblenza.

Ai primi di aprile lo studente Klöevekorn e il tenente Döring si incontrarono a un ballo pubblico di Coblenza. Tra il tenente e lo studente, pare, che non regnava buon sangue, forse per rivalità d’amore.

Se Klöevekorn era capace di risolvere le più ardue formule di calcolo differenziale, sembra che non lo fosse altrettanto nel dimenare le gambe, secondo le buone regole della danza; talchè l’ufficialetto, che nell’arte di Tersicore era provetto, si credette autorizzato a rivolgere alla ragazza, con la quale aveva ballato fino allora ed era stata nuovamente impegnata per gli altri balli da Klöevekorn, queste parole:

— Non ballare con quell’imbecille!

La ragazza che, a quanto pare, aveva del tenero per lo studente, gli riferì le parole del tenente Döring.

Klöevekorn seccato dal giudizio punto benevole dell’ufficiale, lo avvicinò o lo pregò di seguirlo fuori della sala, per ottenere spiegazioni sull’accaduto. Il tenente Döring seguì Klöevekorn; ma con quell’albagia, che l’era propria, rifiutò ogni spiegazione e trattando lo studente con sommo dispregio, gli dette del mascalzone, del vagabondo, del cialtrone e peggio.

Lo studente, a quel parlare, perdette le staffe ed assestò sul viso del tenente un solenne ceffone, a cui fece seguire una pioggia di pugni e di calci, che non ebbe termine, se non quando alcuni accorsi tolsero Döring dalle mani di Klöevekorn, per metterlo a letto. [p. 298 modifica]

Secondo l’uso tedesco e in omaggio ai regolamenti dell’esercito tedesco lo spiacevole incidente fu portato dinanzi al tribunale d’onore, che sentenziò: Non potere il Döring battersi in duello con Klöevekorm.

Dopo questo verdetto pareva che la cosa non dovesse aver più seguito: ma il tenente Koepe, amico dell’ufficiale bastonato, si fece avanti reclamando una riparazione d’onore per le busse toccate al collega.


Le leggi d’onore di tutti i paesi, non esclusa la Germania, avrebbero autorizzato il Klöevekorn di trattare il Koepe nella stessa guisa di come aveva trattato il suo collega Döring; nè si capisce come lo studente potette cedere alle pretese di questo terzo, che s’intrometteva in una vertenza d’altri, per farsi vindice di offese altrui.

Fatto sta, che un duello alla pistola, a condizioni eccezionalmente gravi, fu stabilito tra il tenente Koepe e lo studente Klöevekorn.

Il patto era: il duello cesserà quando uno dei duellanti sarà posto fuori di combattimento per ferita.

Giunti sul terreno, e messi di fronte gli avversarî, fu comandato il fuoco. I primi due colpi furono senza risultato; al terzo, lo studente ricevette la palla in una gamba. I suoi testimoni chiesero che in base ai patti convenuti, il duello dovesse cessare; ma non furono dello stesso parere quelli del tenente Koepe, che imposero, minacciando, la continuazione dello scontro.

Lo studente, atterrato, sparò senza colpire; il Koepe fece il colpo suo ed uccise l’avversario.

La morte del Klöevekorn produsse una tristissima impressione a Coblenza; la cittadinanza qualificò il duello «assassinio» e, commossa, una folla enorme tributò grandi onoranze alla salma dell’ucciso.

Il colonnello del 68.° reggimento, superiore diretto dei tenenti Döring e Koepe, fu chiamato a Berlino per rendere [p. 299 modifica]conto all’imperatore dell’accaduto, allo scopo di stabilire le responsabilità!

E nell’attesa della vendetta imperiale il povero Kloëvekorn ora giace freddo cadavere nel camposanto di Coblenza e il tenente Koepe, è probabile, se la caverà con un migliajetto di marchi di multa e con un anno, o meno, di fortezza!

Tanto e non più, a quanto pare, costa in Germania la vita di un giovane studente di matematiche.... ucciso da un ufficiale!...


1899 (1 giugno). — A Klansenburg, per un diverbio che tenne dietro ad una disputa avvenuta in un caffè, il professore dell’Università, Oberschaller e il possidente Tutuoki duellarono alla pistola. Il possidente ricevette la palla dell’avversario in piena fronte, e cadde per non più rialzarsi.






Note

  1. Comte de Pontécoulant, Audience de 1858.
  2. Ma.... i padrini erano essi pure degli imbecilli?
  3. Fougeroux de Campigneulles, Histoire des duels, t. 1.°, pag. 368.
  4. Gaz. des tribunaux, 27 ottobre 1830.
  5. Gaz. d. Trib., 3 agosto 1833.
  6. Cioè, distanza minima tra i duellanti: venti passi.
  7. Allora si diceva: primo tenente.
  8. L’ing. Carlo Dembowsky era figlio di un generale che Napoleone I aveva creato conte, e di quella Matilde Viscontini, che fu amica e più che.... amica, devota a Ugo Foscolo. Nutrì sentimenti liberali; fu amica di Stendhal, che se ne innamorò pazzamente, ma inutilmente; e di Federico Confalonieri, in casa del quale, in via dei Tre Monasteri, ora del Monte di Pietà, spesso si recava a congiurare contro gli austriaci. Il figlio di lei, Carlo, era lontano parente di quell’Ercole Dembowsky, pure nato a Milano nel 1812 e morto nel 1882, che fu astronomo di vaglia.
  9. Quest’abitudine del resto vive ancora al S. Carlo di Napoli, nel quale due file di poltrone sono riservate all’ufficialità italiana.
  10. Colombey: pag. 217.
  11. Celebre maestro di scherma francese, che pubblicò un interessante trattato sull’arte sua.
  12. «Le National getta un biasimo severo su E. de Girardin, per non essersi di preferenza servito della stampa.

         Questo rimprovero manca di quella lealtà che viene attribuita al carattere di Carrel. Certamente, il rimprovero sarebbe meritato se le Bon Sens, fosse rimasto all’esame critico e severo della base economica sulla quale la Presse è fondata. Ma non è stato così; le accuse più odiose e più personali, sono state accumulate contro E. de Girardin.... Malgrado il desiderio nostro non c’è possibile di starcene in silenzio, e scendiamo sul terreno verso il quale siamo spinti. Ma infine, se persistono a volerlo, noi l’accetteremo e pubblicheremo che le Bon Sens, le National e le Temps sono costati cari ai loro azionisti. Noi faremo a nostra volta, i conti di questi giornali, giacchè si prendono la briga di fare i nostri. Le indicazioni in proposito non ci farebbero difetto, tale quale come quelle necessarie per le biografie di parecchi redattori di quei fogli; ma siamo alieni dal pubblicarle. Comunque, anche su questo punto ci manterremo scrupolosamente alla verità dei fatti. Noi non avremmo, poi, a predire fallimenti imminenti; ci basterebbe di accennare al ministero degli usceri del tribunale di commercio i fallimenti consumati».

         Quest’ultimo periodo si riferiva alla vetreria di Choisy, di cui fu direttore Thibeaudeau. La frase della biografia si riferiva a Carrel.
  13. Durante il delirio esclamava: M’hanno combattuto, m’han calunniato, m’hanno odiato.... Ma la Francia forse si ricorderà di me.
         E veramente se ne ricordò; perchè a Carrel, nel cimitero di Saint Mandé, per sottoscrizione pubblica, fu elevata una statua in bronzo.
  14. Eccone la dichiarazione:
         «I sigg. Martin Maillefer, redattore del Bon Sens, e Germain Sarrut si sono presentati oggi al sig. Emile de Girardin, al quale avevano annunciata la loro visita. De Girardin aveva pregato i generali Excelmans e Delart di recarsi da lui; ed essi hanno ricevuto i due amici di de Feuillide. Questi signori, dopo aver ricordato la citazione che il signor Feuillide imputava a de Girardin, hanno consegnato ai generali Excelmans e Delart una provocazione, alla quale gli onorevoli generali hanno risposto che, dopo lo scontro disgraziato di Carrel e di Girardin, duello nel quale tutto si passò onorevolmente per le parti, erano intimamente convinti che De Girardin dovesse respingere qualsiasi provocazione, la quale avesse rapporto con quella vertenza, o che vi avesse tratto origine».
  15. I funerali di Dujarier.
  16. Gaz. d. trib. 30 gennaio; 2 febbraio; 23 luglio, 7, 14 e 25 agosto 1837.
  17. Si vegga la Gazette des Tribunaux del 1838 e 1839.
  18. Pag. 95. Histoire anecdotique du duel.
  19. Gaz. des Tribunaux, 24 gennaio; 20 febbraio; 14 marzo 1842.
  20. Inconveniente grave, e già condannato, è quello di permettere ai primi di assistere ai colloqui dei rappresentanti.
  21. Questo duello tragico è descritto nella Gaz. des trib. del 26 novembre 1842.
  22. Del 31 marzo; 4 aprile; 21 novembre; 2 decembre 1846.
  23. Veggasi Gaz. des Tribunaux, 36 luglio e 3 settembre 1847.
  24. Che maniera curiosa di trattare le vertenze aveva quel signor Ollivier. Non volle battersi con Escande, perchè non gli andava a genio, e mentre erano gli offesi che avevano il diritto di designare il loro campione, no, è sempre il signor Ollivier che si sceglie il Ginestous.
  25. Un padrino per duellante oggi non sarebbe permesso; nè potrebbe un fratello assistere il fratello.
  26. Gaz. des trib., 11 al 16 marzo, 30 marzo al 17 aprile; 4 al 6 maggio, 22-30 maggio; 8 giugno 1858.
  27. Les dueles celebres.
  28. Cioè, ciascuno doveva pagare la propria quota.
  29. Questo si chiama parlar chiaro!
  30. Ecco le condizioni dello scontro come risultano dal verbale pubblicato dall’amico buono e fedele di Lassalle, il colonnello Rüstow.
    «Quindici passi e posizione di riposo; colpo in 20 secondi, segnati da 1, 2 e 3, corrispondenti all’avvertimento, alla mira e al fuoco; pistola ad anima liscia, con mira; posizione a piacimento; tre palle per ciascun duellante; colpi mancati sono contati; ciascuna volta lo stesso padrino carica le due pistole; la sorte decide il turno dei padrini per la carica delle pistole; il conte Hayserling e il D.r Arndt s’incaricano di cercare il medico. — Riunione: Omnibus Halteplatz in Carrouge, alle 7 e mezzo del mattino del 28 agosto. — R 1, A 2, B 3.
    Ciascun combattente rilascia a’ suoi padrini una dichiarazione scritta nella quale dichiara che si è suicidato, e ciò per i casi impreveduti.
    «Conte Bethlen.
    «Von Rustow, colonnello di Brigata.
    «Conte Hayserling.
    «D.r Wilhelm Arndt».
  31. Il colonnello Rüstow, che diresse il duello di Lassalle, così descrive gli ultimi momenti del Mirabeau tedesco:
    «A mezzanotte entrai nella camera di Lassalle per coricarmi. Alle tre del mattino mi alzai per recarmi nel mio appartamento a vestirmi. Poi andai dall’armajuolo per ritirare le pistole, che gli avevo dato ad accomodare e tornai all’albergo. Alle cinque svegliai Lassalle che dormiva tranquillamente. Il suo primo sguardo cadde sulle pistole. Egli ne prese una, ed abbracciandomi esclamò: ecco quanto mi ci voleva. Andammo a Carrouge in vettura. Durante il tragitto Lassalle mi pregò a più riprese che il duello accadesse sul suolo francese, onde potesse aggiustare le sue faccende con il vecchio disertore; e, abbenchè io mi rallegrassi del suo sangue freddo, trovavo il desiderio di Lassalle fuori di posto.
    Giungemmo a Carrouge prima delle sette; gli altri non erano per anco giunti. Lassalle che era tranquillissimo, prese una tazza di thè. Alle sette e mezzo precise giunsero gli altri con il dottor Seiler, che ci condusse in una località a lui ben nota. La sorte decideva che io per primo caricassi le armi e comandassi il fuoco. Mentre accudivo a tale bisogna, i duellanti vennero collocati a posto. Fui pregato di dare il comando a voce alta, concedendo per ciascun colpo 20 secondi di tempo, di maniera che il comando di avvertimento fosse dato al 1.° secondo, quello di mira al 10.º secondo e quello di abbassare le armi al 20.°, usando la numerazione 1, 2 e 3. Ciò che feci scrupolosamente.
    Comandai uno; ma appena trascorsi cinque secondi il primo colpo partì dalla parte di Rücowitz; ma nemmeno un secondo più tardi partiva il colpo di Lassalle. Egli sparò, mancando di mira, essendo di già stato colpito a morte. Fu, anzi, un vero miracolo, s’egli potè far fuoco.
    Dopo avere sparato fece due passi a sinistra; e solo allora intesi qualcuno, credo Bethlen o il dottor Seiler, esclamare: Siete ferito? Lassalle tranquillamente rispose: Sì. Lo facemmo sdraiare sopra una coperta e gli facemmo una fasciatura provvisoria. Mentre gli avversari si allontanavano, il dottor Seiler ed io aiutammo Lassalle a montare nella vettura, poi noi lo seguimmo. Durante il ritorno noi lo sostenevamo il meglio che ci fosse possibile ed ordinammo al cocchiere di prendere strade senza selciato, di maniera che non avevamo più di 200 passi da fare sul lastricato.
    Lassalle era tranquillo e solamente nel traversare il selciato si lagnò di dolori alla ferita e chiese se saremmo giunti presto a casa.
    Con passo fermo, malgrado la lesione gravissima, salì le scale dell’albergo per non spaventare la contessa Hatzfeld, che aspettava ansiosa il risultato dello scontro. Egli soffrì ancora per tre giorni di dolori atrocissimi che si tentò di calmarli con l’oppio. Noi sapevamo sin dal primo momento che la ferita era mortale; infatti egli spirò il 31 agosto.
  32. Bottero della Gazzetta del Popolo di Torino contro Botta direttore della Gazzetta di Torino.
  33. Gaz. des Trib., 31 agosto e 1 settembre 1868.
  34. Il Monitore di Bologna del 28 febbraio 1869.
  35. Ecco una nuova conferma della vecchia idea, che la politica tutto corrompe e ammorba!
  36. Quella del 1866, dell’Italia contro l’Austria, per la liberazione della Venezia.
  37. Altre informazioni dicono che la sfida fu originata da un’aspra polemica giornalistica tra il Conciliatore e il Contro-Scilla: il primo era diretto dal Sacerdote Salvatore Cognetti, e sosteneva ad oltranza le famose Banche-usura; nel secondo collaborava il Trombetta, che era poi il direttore di fatto, se non di nome, e che attaccò violentemente le nefaste banche.
  38. Il Petraio, sito ameno presso il forte S. Elmo e limitrofo al Vomero.
  39. Assises Mayenne. Gaz. des trib., 2 et 3 avril 1873.
  40. Ne fa cenno il Secolo di Milano del 28-29, 29-30 maggio 1875; numeri 3269-3270.
  41. Cioè un giornalista di Milano.
  42. Questo scrisse il Giarelli quando la Contessa Lara, morì a Roma uccisa dall’ultimo amico.
  43. Gaz. des trib., 4 août 1876.
  44. Si vede che i rappresentanti dell’Ollivier o erano d’accordo con lui, o che conoscevano meno, o quanto quelli del Feuilherade, la prescrizione cavalleresca, che vuole la visita dei duellanti.
  45. Proprio come nel duello Cavallotti-Macola.
  46. Gustavo Chiesi, animo buono, generoso, leale, amico sincero, e non di ventura, fu condannato dal Tribunale Militare di Milano a gravissima pena pe’ fatti di Maggio del 1898. Povero amico! Chi ti conosce, sa quanto immeritata sia la sofferenza che, per la follia di pochi, tu sopporti!
  47. Gaz des trib., 14 gennaio 1881.
  48. Louveterie: il necessario per la caccia del lupo; louvetier: lupajo, sopraintendente alla caccia del lupo; e anche il possidente che si è obbligato a tenere il necessario per detta caccia, in seguito ad un compenso prestabilito d’accordo con le autorità.
  49. Fu poi generale, Ministro della guerra, comandante militare di Parigi e.... partigiano dell’antidreifusismo.
  50. Fu condannata a otto anni di carcere.
  51. Gazzetta d’Italia, diretta dal Pancrazi, a Roma.
  52. Fieramosca: n. 219 del 6 agosto 1894.
  53. La Gazzetta d’Italia, n. 205 del 25 luglio 1884, pubblicò tosto:                           «Regia Procura di Firenze,

         Certificasi dal sottoscritto che nel processo Venturini Vittoria per falsi e falsità portante il n. 2307 del 1883 di quest’uffizio a riguardo del signor Alberto Schmidt fu dichiarato non farsi luogo a procedere con ordinanza del 4 febbraio 1884 e che lo stesso signor Schmidt non fu carcerato».

         Seguono le firme e i bolli del Segretario e del R. Procuratore.
  54. Dalla deposizione del sig. Malenotti, uno dei testimoni del Parrini, si rileva come dopo l’ingiuria (ceffone) ricevuta dal De Witt, giungesse al Parrini un piego da Roma, contenente un dispaccio. Era quello spedito all’avv. Pancrazi dal De Witt, nel quale in margine di carattere del Pancrazi stesso erano scritte queste parole: Mandalo al diavolo, o in questura. Allora Parrini, porgendo il telegramma al Malenotti, mentre indicava lo scritto del Pancrazi, esclamò: «Ecco chi m’ha rovinato!» (sante parole!), alludendo certamente alla tardività nella trasmissione del telegramma De Witt, concepito: «Suo corrispondente Firenze fattosi eco infami calunnie mio carico del resto già smentite interamente. Invito declinarne nome. Pubblichi presente termini legge. Regolamento telegrafi obbligami moderazione termini. Supplisca pure».

    Eugenio De Witt».

  55. Non si possono, invero, ideare duelli con esclusione di colpi. Escludere poi il colpo di punta è una utopia; per non dire una follia, che non può avere sul terreno un resultato pratico, ed anzi aumenta la responsabilità dei secondi e dei primi, esponendoli a gravi responsabilità dipendenti esclusivamente dal caso, e non dal volere.
  56. Altri testi concordano affermando che furono 25 o 26.
  57. È ritenuto quale canone nell’arte della scherma e anche in quella del duello, che chi avanza si scopre e corre rischio di essere colpito da chi indietreggiando para e risponde!
  58. Erano ammaccature, lividure, perchè fu provato non potere il De Witt dirigere opportunamente l’arma, perchè ferito in precedente scontro.
  59. Questioni che si propongono ai signori Giurati per Eugenio De Witt:

         Prima Questione Principale. — Siete convinti che l’accusato Eugenio De Witt abbia nelle prime ore antimeridiane del 19 luglio 1884, nel Parco di una Villa a Quinto, Mandamento di Sesto Fiorentino, durante un duello alla sciabola avuto col prof. Cesare Parrini in seguito a disfida da esso accusato accettata, cagionato al Parrini stesso, durante il duello, fra le altre, una lesione al basso ventre che fu la causa unica, necessaria e diretta della di lui morte, verificatasi nel 22 di questo stesso mese?      Seconda Questione Principale. — Data risposta affermativa alla Prima Questione. Siete convinti che l’accusato Eugenio De Witt abbia commesso i fatti affermati a suo carico colla risposta data alla Prima Questione, mentre si trovava nello stato di chi non hà libertà di elezione?

         Terza Questione. — Data risposta negativa alla seconda questione ed affermativa alla prima:

         L’accusato De Witt è egli invece colpevole di avere dolosamente nelle circostanze di luogo e di tempo, di cui nella prima questione e durante il duello, cagionato al Parrini mediante un colpo di punta dato colla sciabola, la lesione al basso ventre, che fu causa unica, necessaria e diretta della di lui morte?

         Quarta Questione Principale. — Data risposta affermativa alla prima questione e negativa alla seconda ed alla terza.

         L’accusato Eugenio De Witt è colpevole di avere accettato la disfida a duello a lui trasmessa dal cav. Cesare Parrini, com’è detto nella prima questione e di esser venuto nelle circostanze di luogo e di tempo di cui nella detta questione, facendo anche uso dell’arme destinata al combattimento, a fronte del suo avversario?

         Quinta Questione. — Data risposta affermativa alla prima questione e qualunque sia alle altre di N. 3 e 4.

         L’accusato Eugenio De Witt ha commesso il fatto affermato come sopra a suo carico colla circostanza di averlo eseguito in uno stato vicino a quello di ohi non ha libertà di elezione?

    Questioni che si propongono per i Padrini.


         Prima Questione Principale. — L’accusato.... è colpevole di avere assistito come secondo a uno dei combattenti in un duello alla sciabola che nella mattina del 19 luglio 1884 ebbe luogo entro il Parco di una villa a Quinto, mandamento di Sesto Fiorentino, fra il professore Cesare Parrini ed il cav. Eugenio De Witt?

         Seconda Questione. — Data risposta affermativa alla prima Questione. Lo stesso accusato.... ha commesso il fatto affermato a suo carico colla risposta data alla prima Questione colla circostanza di avere Esso prima del duello procurato di conciliare le parti?

    Il Verdetto.


         Alle ore 5.34 il Presidente termina il suo chiaro, preciso ed imparziale riassunto. Consegna quindi al Capo dei Giurati le questioni che devono risolversi e lo invita insieme ai colleghi di ritirarsi nella

    sala delle deliberazioni.
         Alle ore 7 precise i Giurati rientrano nell’Aula ed il loro capo legge il resultato delle deliberazioni da essi prese, che è il seguente:

    Per De Witt avv. Eugenio

    Alla 1ª domanda: Sì a maggioranza;
    » 2ª » Sì a maggioranza.

    Per Montepagani Giovanni

    Alla 1ª domanda: Sì a maggioranza;
    » 2ª » Sì a maggioranza.

    Per Muratori avv. Angelo

    Alla 1ª domanda: Sì a maggioranza;
    » 2ª » Sì a maggioranza.

    Per Arrivabene conte Giovanni

    Alla 1ª domanda: Sì a maggioranza;
    » 2ª » Sì a maggioranza.

    Per Malenotti dott. Gaetano

    Alla 1ª domanda: Sì a maggioranza;
    » 2ª » Sì a maggioranza.

  60. La Corte era presieduta dal cav. avv. Narciso Massa; Giudici: Miliani ed Arrighi; P. M.: Ferretti; Cancelliere: Tommaso Grossi.
         Difensori: avv. on. Pelosini, Cassuto e Barsanti per De Vitt; avvocati De Vitt e De Notter per Montepagani; avv. Bioci, Pucci e on. Villa per l’avv. Muratori; avvocati Burresi e Belloni Della Pace per il conte Arrivabene; avvocati Arnolfo Zei e De Franceschi per Malenotti
  61. 19 febbraio 1885.
  62. Al dibattimento fu provato che il Belz, prima di battersi, era stato da un cartolaio, consigliandogli di procurarsi molte fotografie sue, di Belz, perchè tra poche ore egli sarebbe stato.... popolare, uccidendo un povero padre di famiglia!
    Dell’uccisore di Pierotti abbiamo campo di accennare nel duello Meyer.
  63. Furono il conte Antonio Rossetti e il capitano Giorgio Ferrari.
  64. Erano il pubblicista Corazzini e il dottore Alfredo Ferranti.
  65. In quest’arma i siciliani sono in generale destrissimi, perchè quasi o ben poco coltivano la scherma di sciabola.
  66. La statistica del duello del Gelli dà infatti:

         Dal 1879 al 1895 (1.° semestre) in Italia si ebbero 213 duelli alla pistola, in 186 dei quali rimasero illesi gli avversari. E in 118 duelli accaduti con la pistola in Francia, si ebbe, che in 76 duelli rimasero illesi gli avversari, ma in cinque solamente l’esito fu letale.
  67. Nella Inchiesta della Cassazione sull’affare Dreyfus, pubblicata nel Figaro, è interessante la deposizione di Grenier, figlio del generale Grenier, di cui il famigerato Esterhazy fu ufficiale d’ordinanza. Il Grenier depone: «Fu Esterhazy che pubblicò il verbale del duello Lamase, pubblicazione che dette origine al duello Morès e Meyer, nel quale quest’ultimo perì. Ma, alle Assise, il famigerato Ulano si guardò bene di dire una sola parola della propria responsabilità». Oh, il coraggio dell’Ulano!
  68. Allude alla frase del Drumond, da lui usata nel rispendere alle sfide inviategli da alcuni ufficiali israeliti: «per ogni spada ebrea vi sarà una spada francese pronta a rispondere».
  69. Dalla nota che riproduce la testimonianza del signor Grenier, si rileva l’ingiustizia e la falsità di questa censura.
  70. Note tolte dalla Patria Italiana del 2 ottobre 1892.
  71. Pietro Torre, o Torres che sia, fu giudicato per questa uccisione dai tribunali argentini sulla fine di agosto 1898, ed assolto.
  72. Dopo l’ultima rivoluzione era stato sospeso a Buenos-Ayres il diritto nelle associazioni politiche di fare processioni in città con le bandiere sociali.
  73. Era avvocato o studente?
  74. Pare impossibile che i duellanti abbiano sempre ispirazioni così macabre nella soluzione cavalleresca delle vertenze.
  75. Montecarlo.
  76. Quivi gli Schraeder hanno la tomba di famiglia.
  77. Nel mese di marzo 1898 a Trapani rimane ucciso in duello il tenente Sacco; ma nessuno fiata; quattro giorni dopo in duello, a Roma, perisce Cavallotti e la bomba scoppia contro i duelli e i duellisti. Non s’ha più pace; i giornali non parlano che dell’abolizione del duello; i conferenzieri reclamano vendette atroci; i deputati propongono nuove leggi...; ma dieci giorni dopo muore a Savigliano in duello il tenente Tagliapietra, e più nessuno fiata.... e le proposte cadono nel vuoto.
  78. Lombardia del 27 marzo 1897, n.° 85.
  79. Fin qui tutto era andato secondo le norme cavalleresche, e secondo giustizia e buon senso.
  80. E fin qui va benissimo.
  81. Qui non è esatto. La storia è stata discussa, è vero; ma fu sempre riconosciuto conforme anche ai codici cavallereschi napoletani (Bellini e De Rosis), che tale costumanza, essendo un controsenso e una ingiustizia, non aveva più ragione di esistere. Anzi, potrei citare più di un verdetto di giurì d’onore, che dà completamente torto all’asserto dei redattori di questa opinione.
         Si consultino infatti, Chateauvillard cap. I, n. 9.°; Angelini capitolo VI, n. 2.°; De Rosis cap. II, 9.° e 10.° e cap. II, 27.° e 28.°, non chè Gelli: art. 162; Viti, Tavernier, Croabbon; e cento altri, i quali tutti concordano sulla iniquità di tale abbandonata usanza. — I rappresentanti dell’avversario del povero tenente Sacco certamente non conoscevano tutti questi giudizi e si basarono esclusivamente sulla tradizione, nè, per questo, c’è da farne loro carico.
  82. Dove?
  83. Non è esatto. Potrei citare una quindicina di duelli avvenuti in Sicilia e a Napoli ne’ quali si fece proprio il contrario.
  84. L’ultimo, il supremo giudizio del magistrato e quello della storia non è stato ancora pronunciato. Perciò mi limito all’esposizione pura e semplice dei fatti, astenendomi da qualsiasi apprezzameuto, che sarebbe inopportuno.
  85. Da parte sua l’on. Macola inseriva nella Tribuna del 2 marzo (che la stampava sotto la firma del gerente) la seguente lettera:      Una pubblicazione del Don Chisciotte in data odierna, poco esatta nella esposizione dei fatti, obbliga me a pubblicare il verbale, che chiude una mia vertenza coll’on. Cavallotti; verbale che faccio seguire da poche altre righe di spiegazione.

    «Roma, 27 febbraio 1898.

         «Il giorno 27 febbraio 1898, in una delle sale di Montecitorio si sono riuniti gli on. Felice Santini ed Eugenio Valli padrini dell’on. Macola, e gli on. Ippolito Niccolini ed Ettore Socci padrini dell’on. Cavallotti. In seguito ad una lettera pubblicata nel Secolo di Milano in data 24-25 corrente dall’on. Cavallotti all’indirizzo dell’on. Macola, e per la quale quest’ultimo gli chiede una spiegazione o una riparazione per mezzo delle armi.
         «Che l’on. Cavallotti si mise a disposizione completa dell’on. Macola col mezzo dei suoi padrini onorevoli Giampietro e Marazzi.
         «Che in seguito alla dichiarazione del signor Miaglia, dalla quale appariva che il telegramma da lui spedito alla Gazzetta di Venezia, come corrispondente ordinario e che diede origine alla lettera al Secolo dell’on. Cavallotti, cessava ogni ragione di soluzione cavalleresca fra gli on. Macola e Cavallotti.
         «Che mentre il verbale era stato concordato in questo senso dai quattro rappresentanti, l’on. Cavallotti venne a leggere nella Gazzetta di Venezia, in data 25 febbraio corrente, un articolo che lo riguardava o che secondo lui riapriva la questione.
         «Che essendosi assentati da Roma per loro particolari interessi gli on. Giampietro e Murazzi, l’on. Cavallotti li sostituì cogli on. Niccolini e Socci.      «Che le ultime parole stampate nella Gazzella di Venezia furono originate dalla necessità di ribattere la lettera dell’on. Cavallotti nel Secolo di Milano e scritte precedentemente all’incarico dato ai padrini, come i medesimi hanno chiaramente verificato, quantunque, data la situazione delle cose, si potesse anche sospendere questo accenno nel giornale suddetto.
         «Che perciò i quattro padrini ritengono, concordi, come entrambi gli on. Cavallotti e Macola, chiariti gli equivoci, non abbiano alcuna ragione di venire a una soluzione cavalleresca per mezzo delle armi, mentre vi wono invece i più chiari motivi di reciproca stima personale.
         «Per queste ragioni i sottoscritti dichiarano chiusa onorevolmente la vertenza e passano a firmare il presente verbale, augurandosi che i loro rappresentati vogliano stringersi la mano.
    «Ippolito Niccolini
    «Ettore Socci
    «Felice Santini
    «Eugenio Valli».


         Da questa pubblicazione appare adunque assodato che la vertenza coll’on. Cavallotti fu chiusa in via assoluta col verbale concorde dei quattro padrini. Risulta inoltre che i padrini non ebbero proposte a fare o a ritirare, e che non avevano obbligo di accettare le conclusioni del verbale stesso ad referendum. Posso aggiungere anche, per dichiarazione esplicita fatta dagli on. Niccolini e Socci ai miei rappresentanti on. Santini o Valli, oltre che altri colleghi, che non solo il loro mandato era illimitato, ma che non lo avrebbero accettato se non era a questa condizione.
         Come di mio stretto dovere, mi sono rimesso alle conclusioni dei quattro padrini; pur facendo conoscere all’on. Cavallotti (che sapevo scontento del verbale) che mi sarei tenuto a sua disposizione, malgrado la intangibilità della mia posizione, assodata dal surriferito documento. Naturalmente spettava e spetta non a me, ma all’on. Cavallotti di entrare in questa nuova fase risolutiva, cui accennava il Chisciotte odierno.

    F. Macola.

  86. Infatti i tecnici consigliano di agire in tal guisa per arrestare l’avanzata dell’avversario e per conservare la misura.
  87. Il 28 marzo 1899 la Corte d’Appello di Roma emise sentenza con la quale ammise a favore dell’on. Macola il beneficio dell’art. 240 del codice penale (provocazione per grave onta) e ridusse quindi la pena dai tredici mesi, comminati dal Tribunale, a sette soli mesi di detenzione.