I duelli mortali del secolo XIX/Prefazione

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Nomi citati Cronistoria dei duelli mortali del XIX secolo

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PREFAZIONE


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Il mondo cambia; ma i sentimenti dell’io, rimangono sempre gli stessi, sempre minacciosi contro chiunque voglia attribuirgli responsabilità che non gli spettano, o che non gli convengono.

Partendo da questo principio assoluto, un libro sui duelli mortali del secolo XIX potrebbe anche rappresentare una pazzia; una follia, per lo meno, toccare a quelli recenti: a quelli di jeri, per così dire, non ancora acquisiti dalla storia come i duelli di tempi più remoti.

A questo ho pensato lungamente, quando mi sono accinto a evocare colla narrazione i fantasmi; a far sortire dall’ombra gli spettri delle vittime della più stupida costumanza della società nostra: il duello.

E il duello è cosa stupida, perchè non cancella le ingiurie; non le vendica; ma quasi sempre ribadisce la calunnia e consacra l’equivoco con una forma convenzionale, dalla modernità addimandata pomposamente: cavalleresca.

Perciò, mi sono studiato di rimuovere con bel garbo le ceneri, ancora calde, di queste sventurate vittime del combattimento a due, per non sollevare proteste e peggio; per non far divampare nuovamente fuochi spenti o quasi; per creare nuove querele; per non suscitare odî novelli, che si risolvessero in novelle uccisioni cavalleresche.

E, questo ho cercato di raggiungere con la scrupolosa [p. 2 modifica]esattezza del racconto, desunto dalle sorgenti più sicure, quali i documenti che ho potuto raccogliere o consultare.

Se i documenti mi hanno tratto in inganno, il compito di rettificare spetta ai vivi tra coloro, che, direttamente o indirettamente (rappresentarono una parte qualsiasi nel somministrare vittime a quel raffinato e convenzionale assassinio, che diciamo duello).

Lo scopo, poi, di questi truci racconti di sangue versato, di petti generosi squarciati, di cuori nobilissimi trafitti, è quello di dimostrare con gli esempi la sciocchezza umana, la bruttezza e la incoerenza del combattimento singolare; in una parola, l’aberrazione della nostra società nel valutare la dignità dell’ente «uomo».

Narrerò, quindi, come taluni, spinti da un falso sentimento e da un non giusto apprezzamento del punto d’onore e della personalità, poterono macchiarsi di sangue umano, portando il lutto e la rovina in tante famiglie, talvolta in una nazione intera, per una amante pagata, che oggi, forse, fa la signora pia. Dirò, come e perchè tal’altri uccisero in duello un rivale per una femmina, oggi dimenticata, o caduta tra le braccia di mille: forse ammazzata dall’ultimo amico o protettore, raccolto nei bassi fondi sociali. Racconterò come altri freddarono l’avversario per opinioni politiche, che più tardi cambiarono con quelle della loro vittima. Dimostrerò come gli amici spedirono all’altro mondo gli amici per un nonnulla, per una parola innocente; ma pronunciata o udita sotto l’influenza di false esigenze sociali, le quali misurano le parole e le offese a un tanto al centimetro cubo di sangue umano, anche le parole e le offese di nessuna entità, dette o arrecate senza l’intenzione di apportare onta all’onore altrui.

Delittuosa esigenza questa della società nostra, per la quale in altri tempi, dei nostri meno civili, si indussero al combattimento singolare anche le donne, tra le quali resterà famosa la cantatrice Maussin1, che dopo di avere ucciso [p. 3 modifica]in duello tre uomini, riparò a Brusselle per finire amica retribuita tra le braccia dell’Elettore di Baviera.

Ma ben altre sono le glorie della cavalleresca abitudine di uccidere legalmente il prossimo.

Caduto in disuso il duello giudiziario; proibito con cento gride; colpito da scomuniche, da anatemi e da forche il combattimento singolare, si ricorse al duello alla macchia, costume particolare del mondo moderno, nato e cresciuto sotto il bel cielo azzurro del Reame di Napoli2, perchè quivi, la legge era più indulgente pe’ volgari baruffatori che per i compiti duellanti.

Ed allora, nel seicento, si vide il combattimento singolare, assumere le forme di una guerra in piccolo, con tutti gli orrori di una guerra in grande, con tutte le atrocità e le ribalderie, che alla guerra andavano congiunte.

Dall’abitudine napoletana di combattere alla macchia derivò l’uso di duellare nelle vie dei borghi e delle città, spalleggiati da un numero più o meno ragguardevole di bravi, che uccidevano l’avversario del padrone, colpendolo proditoriamente alle spalle, quando il padrone stava per soccombere, o per rendere l’anima a Dio! Questo nuovo costume di battersi in duello si diceva a Milano: gire in quadriglie; cioè: andarsene, girsene in gruppo alla ricerca di avversari da ammazzare3.

Che gente curiosa, strana, que’ gagliardi vecchi! Fieri, intolleranti d’ogni freno; capaci di ogni nobile azione, come di qualsiasi brigantesca birbanteria, riboccavano di coraggio; e meraviglioso era in loro il disprezzo per l’esistenza!

Che tempi erano quelli!

Il simulacro di una singolare tenzone giustificava ogni sorta di artifizi, ogni specie di malizie, qualsiasi furfanteria. C’erano le botte segrete e le botte nuove, con le quali si spacciavano il marito e il fratello, o il padre della donna rapita il giorno innanzi. E in queste spaventevolissime [p. 4 modifica]uccisioni, mentre i primi si picchiavano gagliardamente e si uccidevano tra di loro per la vanità, pour se faire mettre dans les chroniques; i secondi, o padrini (leggasi bravi), si scannavano senza rimpianti pour le plaisir du coeur; e senza scrupoli e senza rimorsi, i vincitori si ponevano in due o in tre, talvolta aiutati dai lacchè, a finire quello tra gli avversari che non per anco aveva reso l’anima al Creatore! Allora non si guardava tanto pel sottile:

— In guardia! e giù, botte di stocco e di taglio e pugnalate a non più finire. Non testimoni; non medico. Se a uno si spezzava la spada; se uno scivolava.... era perduto!

La religione, malgrado tanti e tanti sforzi nobilissimi, non aveva ottenuto risultati duraturi. I duellanti andavano alla messa prima del duello, se ne avevano il tempo; magari si confessavano e si comunicavano, se il tempo non mancava; ma se questo era limitato, niente paura dell’inferno; quattro stoccate e uno almeno spirava, rimpiangendo di dover lasciare ad altri la soddisfazione di trapassare l’uccisore.

Non eguaglianza d’armi, non parità di condizioni; ma duello improvvisato, duello alla macchia; vera rissa, nella quale il meno previdente, o il meno disonesto, periva di sicuro.

Questa piaga sociale non era un privilegio esclusivo dell’Italia. La Francia ne era afflitta ben maggiormente, poichè nel 1604, nella Seconda Marca del Limosino, furono proprio 120 i cavalieri che perirono in duello; e a più di settemila sommarono le lettere di grazia spedite tra il 1589 e il 1608, perchè ottomila e più furono i gentiluomini uccisi nel combattimento a due.

Sono cifre queste da fare accapponare la pelle a chi ha l’abitudine di riflettere un poco; tanto più che allora, nel secolo XVI, le qualità morali erano, più che al presente, valutate per essere ammessi a duellare. Ricordo d’aver letto che nel 1534 il patrizio cremonese e capitano cesareo, Sebastiano Picenardi, rifiutava reiteratamente di battersi col proprio concittadino Cesare degli Asii, dichiarando, essersi costui reso «dishonesto et infame,» e a viemmeglio avvalorare il suo rifiuto, appellavasi al giudizio di molti cospicui personaggi dell’epoca. Fra questi nomino: il Castellano di [p. 5 modifica]Cremona, Pier Antonio Gargano; i due Gonzaga, Gian Francesco, detto Cagnino, e Luigi Alessandro, marchese di Castelgoffredo; nonchè i due celebratissimi guerrieri, Antonio da Leyva, luogotenente generale di Carlo V, e Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, Pesaro e Camerino4.

Figuriamoci, dunque, se non fossero state valutate le qualità morali quante migliaia di cavalieri sarebbero ancora perite in duello!


Tante lordure cavalleresche non potevano perpetuarsi. L’anarchia assoluta nel rispetto della vita e della proprietà doveva necessariamente, per lo sforzo stesso delle cose, avere un fine. E, forse, più per ragione storica, che per volontà degli uomini, fu visto il duello a perdere prima il carattere cavalleresco e poi quello politico; e nel secolo delle voluttà, dopo Luigi XV, frammischiarsi ai divertimenti ed ai piaceri, per montare pian piano sino ai gradini del trono, e ridiscendere nei ranghi inferiori della società, sotto l’ondata sempre crescente dei principi di eguaglianza e di libertà.

Così, anche il duello, al pari di tutte le arti, di tutte le scienze, di tutti i costumi, subì la sua evoluzione, e per una continuata opera di selezione, adagio adagio andò trasformandosi; si purificò; si ingentilì a tale punto da diventare in oggi quasi sempre una commedia tutta da ridere, nella quale la fanno da eroi pure i vili, consacranti col simulacro di una lotta cruenta e pericolosa la bugia, la calunnia e l’equivoco. [p. 6 modifica]


Oggi la Cavalleria non va intesa nel significato antico della parola. La borghesia ormai ha esautorato l’aristocrazia. Essa ha sostituito alla forza la fortezza; al coraggio militare quello civile; alla spada l’idea. Ma questo trionfo dell’umanità sui diritti e sulle prepotenze della nascita è stato completo? Non lo credo. L’aristocrazia, debellata, si è rifatta della sconfitta, regalando ai nuovi arrivati i vecchi ferri; e mentre il borghese irride i titoli nobiliari, si affanna dietro ad una miserabile croce di cavaliere e sfida a singolar tenzone e, quando può, uccide chiunque gli ostacoli la via del piacere, della ricchezza, o della vanità.

E siamo giunti a tal punto oggi, che se un calzolaio fa delle buone scarpe, vuol essere creato cavaliere, onde gli sia lecito, quando occorre, di sfidare e uccidere in combattimento singolare colui che non trovò le scarpe di suo aggradimento.

Questa inondazione di gentiluomini fa sì, che il duello viva di vita rigogliosa e, come nei tempi andati, non è difficile di trovare un villan rifatto, invece di un balocco tutto vestito di ferro, girsene in cerca di qualche bietolone che sia disposto a farsi storpiare, o a farsi ammazzare per un nonnulla, o per una sciocchezza. Talvolta, anzi, sembra di essere tornati alla Ristorazione «sotto la quale si mandavano cartelli di sfida anche al gran Cancelliere per questioni di tributi e di legislazione; o si battevano i medici per le consulte, ed ogni vanerello si cimentava colla spada nei caffè, sulle piazze e nei teatri»5.

Ma, quello che succedeva durante la Ristorazione, era avvenuto prima e s’è ripetuto poi. Il duello soddisfa troppo la vanità, perchè il buon senso, quello comune, n’abbia il [p. 7 modifica]sopravvento. «Mettete tre francesi,» scrive Montaigne, «nel deserto della Libia e non passerà un mese che si batteranno a duello!»

Sant’Ignazio di Loyola sfidava a duello tutti i Mori che avessero negata la divinità del Nostro Signore; il cardinale di Retz, durante la Fronda, si batteva due volte in duello; mentre il cardinale d’Este presiedeva un duello in Ferrara. Ed allora, come ora, come ai tempi della Ristorazione, si duellava per futili ragioni. Melchiorre Gioja afferma6 che «un gentiluomo si battè a duello diciotto volte, per sostenere l’Ariosto essere miglior poeta del Tasso.» Pur è vero, narra il Gioja, che, trafitto infine da punta mortale, confessasse morendo di non aver mai in vita sua letto alcun chè de’ due grandi poeti!


Ma se muove a meraviglia la pazzia del difensore d’Ariosto, ha da farci strabiliare la futilità delle cause che inducono a duello i nostri contemporanei.

Per convincersene, basta dare un’occhiata alla statistica del duello che da oltre venti anni redigo7 e si rileverà che le cause presunte degli scontri sono da attribuirsi prima alle polemiche giornalistiche, poi ai diverbi, poscia alle dispute politiche, quasi che il buon governo di uno Stato si trovasse concentrato sulla accuminata punta di una spada, o sul taglio bene affilato di una sciabola.

Quei dati, chiaro dimostrano uno fenomeno curiosissimo e cioè, che quanto più ci allontaniamo dal medio evo, l’età classica delle istituzioni cavalleresche, tanto più il duello è frequente. [p. 8 modifica]

Ho detto che i giornalisti sono in prima linea. I duelli dei giornalisti si dividono in due grandi categorie: duelli tra giornalisti, e tra giornalisti e privati. Nell’esercizio indipendente ed imparziale (!!!) di un ufficio, che è sindacato continuo di tutto quanto accade giornalmente nella vita pubblica di un paese è facile, anzi facilissimo, che la critica e la censura, per quanto aliene da personalità, abbiano da incappare nella suscettività più o meno legittima di questo o di quel cittadino. Il quale crede, o almeno finge di crederlo, che sfidando a duello l’articolista o il direttore del giornale, la ragione a lui venga col treno lampo o per telegrafo, anche quando ha torto. Ma se il giornalista coscienziosamente ha adempiuto al proprio ufficio, denunciando all’opinione pubblica un errore, o un abuso, senza scopo di scandalo, senza l’impulso di personale malevolenza, perchè accetta, invece di respingerla, la provocazione cavalleresca? O non s’accorge che, accettando, riconosce implicitamente nel privato cittadino la facoltà di menomare la libertà di stampa e di discussione?

O quanto il giornalista ha detto è vero, o non è vero. Se è vero, perchè cede alle prepotenze altrui? E se non è vero, perchè onestamente non rettifica senza attendere lo spauracchio di un duello? Se accetta la sfida, — e l’accetta quasi sempre — egli ha un bell’accumulare riserve nei verbali regolatori della questione d’onore, in pro’ del diritto del pubblicista! Con la sua accettazione egli ha annullato in fatto quello che teoricamente dichiara, e crea un positivo ostacolo alla libertà di discussione avvenire, e cioè: finisce per darsi la zappa sui piedi e contribuisce largamente all’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, al duello, testimonianza di una specie di sovraccitazione morbosa, che raggiunge il massimo della sua intensità nei periodi più caldi dell’anno8 [p. 9 modifica]

Contro questa morbosità manesca il giornalista onesto dovrebbe apporre una forte resistenza, sicuro che troverebbe nell’opinione pubblica un sufficiente presidio per la difesa della sua onorabilità e della sua reputazione. E se oggi questo presidio al giornalista manca; gli fa difetto, perchè egli è troppo proclivo a dare parvenza di verità a calunniose dicerie, per attirare l’attenzione pubblica sul foglio suo.

Ma quello che è assolutamente incomprensibile è la facilità con la quale i giornalisti duellano tra di loro. Quali sono le cause di questi scontri? La risposta è ovvia. La causa si trova sul modo particolare e più che medioevale di condurre la polemica giornalistica, che dal campo delle idee e delle questioni teoriche, passa alla violenza di frasi e agli insulti, spesso plateali, contro gli antagonisti. Deficienza, quindi di mezzi intellettuali, e di coscienza, perchè dall’esame della vertenza la questione personale viene fuori non richiesta, non necessaria; ma come un’ancora di salvezza per colui che si è trovato a corto di buoni argomenti nella discussione impegnata.

Da questa sorte di.... lotte cruenti, chi ci scapita è la serietà del giornalismo e i giornalisti; perchè il pubblico, che sta alla finestra e vede come si macellano nell’onore i due [p. 10 modifica]colleghi, non può certamente restarne edificato: si secca, e pone i duellanti.... nello stesso crogiolo della disistima.... conquistata.

Per frequenza, ho detto, seguono i duelli provocati da diverbio. Questi scontri dànno pur troppo un termometro della civiltà nostra. Accattabrighe o maleducati? questo è il dilemma cornuto che s’imporrebbe all’osservatore, se non avesse in contradditorio un altro fatto doloroso a constatare e che, cioè: la maggior parte dei duelli per diverbio avvengono nell’esercito nostro, tra quei bravi ufficiali, esempio costante di valore, di abnegazione e di corretta civiltà in pubblico. Ma, a questo triste predominio non è estranea quella stupidissima credenza che un ufficiale sia disonorato, se non battaglia, se non ferisce, o se non uccide per un nonnulla, per uno scherzo innocente, per una parola un po’... ardita, il collega, che in un momento di impazienza, ma senza l’intenzione di offendere, ebbe la lingua più lunga della volontà.

In America, negli Stati Uniti, un ufficiale che si batte in duello è invece cacciato dall’esercito, o dall’armata, come un cane idrofobo. Oh, santi costumi militari degli Stati Uniti.... per quello che si riferisce alla singolar tenzone, siate benedetti!


Ma, i fautori più colpevoli del reato di duello, sono i nostri onorevolissimi deputati; i nostri legislatori. Ricordo, che all’indomani del discorso inaugurale dell’anno giuridico, proferito a Roma dal Senatore Auriti (1892), veniva pubblicata la relazione dell’On. Nocito sulle domande di autorizzazione a procedere per reato di duello contro parecchi deputati.

La relazione, lasciando da una parte la prerogativa parlamentare, consacrata nell’art. 45 dello Statuto, proponeva l’autorizzazione; ma in quella lista dei deputati rei di duello (oh, disuguale e ingiusta applicazione della legge!), mancavano i protagonisti del duello più clamoroso avvenuto nel 1891 in Roma, sotto le ali protettrici del Governo e della polizia, [p. 11 modifica]e sotto l’occhio vigile dei magistrati, il difensore dei quali, appunto il giorno innanzi, tuonava dalla Corte di Cassazione, tessendo gli elogi di una problematica imparzialità! O, non c’è da piangere?...

Il duello politico è invenzione del tutto moderna. Nella politica le opinioni esasperano l’animo degli avversari; creano odi profondi, rancori côrsi, che si attenuano o si spengono sovente con un combattimento singolare.

Al duello politico facilmente si ricorre, perchè un colpo d’arma, bene aggiustato, spesso decide di tutto: della vittoria o della sconfitta di un partito politico; del vero o del falso; della ragione o del torto. A questa stregua, in verità, non dovrebbe essere difficile conquistare un portafoglio ministeriale! Oh, coerenza umana!

L’assioma enunciato, a vero dire, ha più valore per la Francia, che per l’Italia, ove gli uomini politici raramente sono indotti al combattimento a due da astio politico, in quanto che, conquistato il seggio di Montecitorio, più o meno, diventano quasi tutti conservatori di quel seggio, avvenga che può. E quando il risentimento politico è causa apparente del duello, siatene certi, esso nasconde, novanta volte su cento, altri risentimenti personali, spesso vergognosi, che le parti contendenti arrossirebbero di doverli rendere di ragione pubblica.

Se all’esempio funestissimo di duellare per un nonnulla, dato su larga scala dai deputati e dai senatori, aggiungete quello che scende dall’alto, e dalla magistratura, anch’essa pronta a battagliare piuttosto con le armi in pugno, che con la ragion di legge; ditemi, se è mai possibile, non dico sperare, ma solamente ambire di veder abolito l’uso del duello da’ nostri costumi.

E, non può essere altrimenti; perchè il pubblico, quello che giudica all’ingrosso, ma giustamente: quando vede un presidente di tribunale, o un giudice, o un procuratore del re, o un procuratore generale scendere a polemiche scandalose con i superiori, con i colleghi, o con i cittadini, e risolverle in campo chiuso, si domanda: o che razza di leggi hanno costoro, e che giustizia amministrano essi, se ai loro ferri [p. 12 modifica]civilissimi antepongono quelli puntuti e taglienti di una illegalità, che ha la sua base sulla stupidaggine di costumi stupidissimi? E come volete che quei magistrati chiamati a punire col Codice penale alla mano i duellanti, lo facciano seriamente, pensando all’hodie tibi, cras mihi?


Le armi più frequentemente adoperate nei duelli per l’uccisione del prossimo sono, in Italia: la sciabola; in Francia, la spada; ma tra gli americani la rivoltella, il fucile, la dinamite e altre delizie di simil fatta. Però, tutte ammazzano egualmente; di meno in vero la spada, chè i francesi sanno adoperare con molta intelligenza, onde non abbia a produrre sull’organismo umano guasti troppo profondi9. Ma, tanto di qua, quanto di là dalle Alpi si fa uso, di quando in quando, pure della pistola, arma punto pericolosa se, rimanendo nel comune, i padrini caricano le armi in modo che i duellanti abbiano tutto al più a contundersi con le palle, piuttosto che a ferirsi. Difatti, sono ben pochi i morti in confronto dei colpi sparati nei numerosi duelli a pistola. E quei non molti defunti si debbono ascrivere quasi tutti ai duelli all’americana, fatti da matti, presenziati da pazzi, con forme e a condizioni dettate da folli.

L’italiano si batte in duello quasi sempre con la sciabola, la quale nella statistica dei duelli rappresenta il 95 per cento dei combattimenti singolari. Qui viene spontanea la domanda: perchè contrariamente agli usi francesi gli italiani — tanto [p. 13 modifica]propensi a scimmiottare gli stranieri — antepongono la sciabola alla spada nei duelli loro?

Ecco: la sciabola è un’arma più pericolosa della spada; questo è risaputo da coloro che di armi s’intendono; ma se è usata con intelligenza da ambo le parti, produce molto più effetto apparente della spada, e quanto e come questa produce in sostanza poco o punto danno.

Ed è per tale intelligenza, lo si sappia una buona volta, che i duelli sono tanto frequenti da noi. Se questa intelligenza reciproca mancasse: affè mia, pochi scenderebbero sul terreno per sembrare eroi, pur essendo notoriamente vigliacchi!

La sciabola s’impara a maneggiarla come si apprende a scrivere, a ballare, a correre in bicicletta, a nuotare: coll’esercizio. E quando, dopo averci perduto dietro un bel po’ di tempo, si è imparato a maneggiare l’arma da taglio e da punta, si hanno questi sicuri vantaggi: ci si muove e si salta in su e in giù pel terreno della pugna, senza inciampare e senza incespicare con un piede nell’altro; senza esporsi insomma a ruzzolare al suolo come un imbecille qualunque. Tranne il caso in cui l’avversario sia un potentissimo schermitore, non si lascia mai cadere l’arma a terra; ma la tiene salda così da colpire l’altro con taglio e non di piatto; da reggere alla parata con molta forza, ecc., ecc. Tutto questo e ben altro ancora nella teoria corre da sè liscio come l’olio; ma nella pratica le cose volgono ben diversamente, se i combattenti hanno dignità e fegato e non si adattano a fare la figura di un sur Panera qualunque. Allora la faccenda volge alla tragedia e, purtroppo, in tragedia involontaria si traduce talvolta la grottesca commedia di un duello.


Un altro e molto importante elemento por giudicare sfavorevolmente i costumi della nostra società nell’apprezzare la personalità umana, lo troviamo nei centomila espedienti che dalla testa quadrata dei nostri legislatori scaturiscono contro la costumanza di duellare, ogni qualvolta una uccisione [p. 14 modifica]cavalleresca turba la quiete, o commuove l’opinione pubblica. Espedienti bislacchi, sempre privi di pratica applicazione, spesso mancanti di senso comune.

Come nel passato, anche oggi, dopo un duello fatale, nel quale resta vittima una persona nota, si inalzano grida, e si reclamano editti e nuove e atrocissime leggi repressive contro i duellanti. E la rettorica dei nostri politicanti parolai che trova il suo sfogo; ma non conclude nulla, perchè il tarlo non si uccide con la iniezione più o meno profonda di pene, sibbene con l’educazione della massa gentiluomo, pari all’uomo onesto, come si praticò in Inghilterra.

Senza l’educazione civile le leggi servono a un bel niente. Impiccate, fin che volete; ma non impedirete al fanatico, al teppista, al camorrista e al mafioso di lavorare di coltello, se prima non lo avrete educato ad avere un santo orrore per l’uso di quell’arma micidiale!

Riandando il passato, trovo che la condizione fatta ai duellanti dalla legge del Reame di Napoli, la terra classica del duello alla macchia, non era delle più invidiabili. Tant’è, che nel 171810 il duca Tommaso Caracciolo fu condannato a ventimila ducati per reato di duello; nel 1720 una multa di diecimila ducati colpì un tale Orazio di Luca; mentre il duca di S. Elia e il marchese Dell’Oliveto furono processati per ordine del conte Carlo Borromeo, viceré di Napoli, e condannati a ingenti multe, previa confisca dei beni! Nel 1722 Antonio e Aniello Albani pagarono ciascuno diecimila ducati e subirono 5 mesi di prigione (viceré: Cardinale Althan); e al cavaliere Autellis furono sequestrati e venduti carrozze e cavalli per ducati 206 e tarì 7 e fu tenuto per 6 mesi in prigione, dalla quale uscì sborsando una multa di dodicimila ducati. Ma quale ne fu il risultato? Nulla!

Più tardi a Firenze e a Milano, per l’energia dei governatori, specialmente del Ferrer, e per l’indole della nobiltà, piuttosto superstiziosa, il duello trovò un forte ostacolo nel [p. 15 modifica]suo sviluppo e ben pochi furono li scontri che, dalla fine del secolo decimottavo ai moti del risorgimento italiano, destarono molto fracasso. Mentre a Napoli, ove i Borboni vi contrapposero leggi severissime, rimase celebre, benchè di poco effetto, l’ordinanza tremenda che Ferdinando emanò nel 1841.

La tremenda ordinanza fu assaggiata da due giovani della società eletta di Napoli, Bruno e Legnani.... ma poi? Successe come in Toscana ove rimase più che impunito il duello di Gabriele Pepe (fratello del generale) con Alfonso Lamartine, duello provocato dai famosi quanto insolenti versi del Pellegrinaggio di Aroldo.


Nel 1861 vediamo Garibaldi (che per poco non duellò con Cialdini) ribellarsi alle sciocche esigenze del falso punto d’onore, E quando al suo campo per uno sciagurato equivoco corse sfida tra un generale e un colonnello, s’interpose. E, sebbene dall’equivoco fosse sorto un alterco e da questo ne fosse sortito uno schiaffo, Garibaldi impedì che il duello a morte convenuto tra i due avversari avesse luogo. Intervenne nella lotta fraticida e ricordando agli antagonisti che erano ambedue soldati per la difesa della patria, a cui solamente apparteneva la vita loro, li fece giurare sul proprio onore, che non avrebbero fatto più nulla fino a che la guerra si guerreggiasse; anzi, fino a che le condizioni della terra liberata non fossero militarmente assodate.

Non, però, riescì Garibaldi a pacificare gli animi; perchè era troppo radicata in quelli l’idea che uno schiaffo, anche dato per un diverbio, originato da un equivoco, non si potesse cancellare altrimenti che col sangue. Infatti, di lì a due anni i due avversari, egualmente noti pel valore e per l’intrepidezza, scesero sul terreno del combattimento singolare e molto bravamente si sciabolarono, come se al mondo avesse potuto esservi un mentitore capace di accusarli di viltà, se civilmente e per le vie pacifiche avessero risolto la triste vertenza. [p. 16 modifica]

Dopo Garibaldi, molti illustri personaggi sorsero a gridare contro la stupida e crudele costumanza di uccidere il prossimo cavallerescamente. Ma la voce loro si ripercosse nel vuoto, perchè declamavano la solita rettorica; dimenticando che il duello si combatte sui banchi della scuola, educando fino da giovani i cittadini al rispetto dei diritti reciproci, all’osservanza della legge, anche s’è male amministrata da giudici politicanti, nevrotici, o paurosi.


Il duello in Germania è in ribasso, perchè nella scuola appunto s’insegna a detestare il supruso; e vi si predica il rispetto dovuto a tutti indistintamente, e la fiducia in una imparziale applicazione delle leggi.

Ed in questa missione di alta civiltà, la scuola trova un alleato nell’Imperatore, il cui atteggiamento contro i duellanti, dopo il caso dello Schrader, prova ch’egli divide l’opinione del gran Federico, il quale, severamente rampognando degli ufficiali che stavano per battersi:

— Evvia, signori! loro disse; gli Hohenzollern, che attraverso i secoli ne hanno pure intese d’ogni fatta, non si sono mai battuti a duello; e, gli Hohenzollern, credo, sono tanto buoni gentiluomini quanto voi.


I giapponesi poi che in tutto vogliono somigliare agli europei, per timore che il mal seme del duello germogliasse nei loro costumi, recentemente hanno provocato dal loro Imperatore una legge severissima contro coloro che volessero introdurre nell’impero del Micado questa barbara costumanza.


La stessa commozione che in Italia produsse la morte in duello di Felice Cavallotti, la produsse in Inghilterra quella [p. 17 modifica]del colonnello Fawrett, ucciso, duellando, da suo cognato il tenente Monro, e in Germania la morte del barone Kotze per mano dello Schrader. Alla commozione tenne dietro in tutti e tre i paesi una agitazione minacciosa contro i duellanti. Ma, in Italia, l’agitazione sfumava in una fiacca accademia bizantina; mentre in Germania si trasformava in nuove disposizioni regolamentari e restrittive dell’uso del duello. Solo in Inghilterra, nel paese in cui la gioventù non mente, si raggiungeva l’abolizione assoluta dell’abitudine di duellare.

Lo spirito pratico del principe Alberto, avo dell’Imperatore Guglielmo II, lo indusse a mettersi allora, nel 1843, a capo dell’agitazione antiduellistica ed ottenne che queste idee trionfassero. A tale uopo il Prince Consort si mise innanzi tutto, in relazione col duca di Wellington, il comandante in capo dell’esercito. E s’impegnò allora fra i due un dialogo, che rappresentava due programmi.

— Io — disse il vecchio soldato — sono pure nemico del duello e vedo con piacere che l’opinione pubblica già comincia ad essergli avversa: ma questa corrente è ancora troppo debole e devono succedere ben altre sventure, prima che essa s’imponga.

— Da parte mia invece — rispose il principe — credo sia dovere di noi, uomini di cuore e di mente, di dirigere, di precedere, ove occorra, la pubblica opinione. E poichè nell’esercito le autorità militari hanno una influenza più sicura, è dall’esercito che bisogna cominciare....

La discussione continuò a lungo e venne a prendervi parte il maresciallo sir George Murray, che non voleva saperne di riforme e deplorava si volessero ledere le usanze cavalleresche. E soggiungeva, ma non senza dolore: «Avete la legge, perchè non ve ne servite?»

Il principe Alberto, però, tenne duro e non si dichiarò soddisfatto, se non quando il ministro della guerra aggiunse ai regolamenti, che fanno legge per ogni ufficiale, un paragrafo che diceva e dice ancora:

«È degno del carattere degli uomini d’onore che essi debbano chiedere scusa de’ torti usati e delle offese e dichiararsi pronti a riparare al mal fatto, ed altrettanto è degno [p. 18 modifica]della parte offesa, che essa accolga apertamente e cordialmente le dichiarazioni di scusa del torto che le fu usato».

L’associazione contro il duello, sotto il protettorato del principe Alberto e la presidenza del lord ammiraglio della flotta, mise poi i punti sugli i, in una seduta memorabile, cui erano intervenuti numerosissimi gli ufficiali dell’esercito e dell’armata, proclamando: «Chi non domanda scusa del torto fatto ad altrui danno non è uomo d’onore, e se è ufficiale, deve uscire da questo corpo onorato. È biasimevole non soltanto il proporre il duello; ma anche il consigliarlo o l’accettarlo». Il principe Alberto — soggiunge un suo biografo, il Martin, — il principe Alberto ebbe la compiacenza di vedere che non aveva invano sollevato la questione ed ottenuto che la riforma de’ costumi cominciasse appunto da quell’ordine di persone, che più ha famigliarità con le armi. I duelli vennero d’allora sempre più in discredito, e ben mezzo secolo è passato senza che una «singolare tenzone», come cantavano i poeti, abbia più avuto luogo in Inghilterra.

In Italia s’è tentato di formare una associazione antiduellista; ma purtroppo, gli sforzi di pochi generosi sono rimasti senza imitatori.

Dato l’ambiente nostro, dati i nostri costumi, data la incoerenza dei propositi di chi dovrebbe essere di esempio alle masse, il duello durerà per un pezzo in Italia, e non si potrà uccidere che educando; che mostrando quante birbanterie si commettono da noi sotto la forma cavalleresca, e che mettendo in burletta il valore dei campioni del combattimento singolare.

Le leggi che governano da noi il duello sono buone; ma sono applicate a vanvera e perciò non servono a nulla. Per questo appunto nutro fiducia che la narrazione nuda e cruda di tante uccisioni in duello possa, più delle leggi, indurre gli uomini gentili ad avere avversione, orrore addirittura, per questo stupido quanto raffinato assassinio cavalleresco.



Note

  1. Cantù: lib. 16, cap. 7.
  2. Brantôme: Discours sur les duels.
  3. Brantôme: opera citata.
  4. Sommi Picenardi Guido; Castelgoffredo e i Gonzaga. Milano, Lombardi, 1864, pag. 43.
  5. Cantù; lib. 16, cap. 7.
  6. Filos. per uso dei giovani.
  7. L’ultima statistica la pubblicai in appendice al mio Manuale del duellante (Hoepli, Milano 1896) e va sino al luglio 1895, e contiene i duelli accaduti in Italia dal 1879 al 1895 (1 semestre) e in Francia dal 1880 al 1889.
  8. Infatti l’autunno registra un minor numero di duelli che l’inverno; questo che la primavera; e la primavera che l’estate. Eccone una prova, visto che le cifre e l’aritmetica non sono una opinione. Dal 1 giugno 1879 al 1 luglio 1895 in Italia s’ebbe notizia di 3365 duelli, ripartiti così a seconda delle stagioni, divise per gruppi atmosferici e astronomici.

    STAGIONE ASTRONOMICA.

    Inverno: duelli 904

    (Gennajo, Febbrajo, Marzo)


    Estate: duelli 1140

    (Luglio, Agosto, Settembre).

    Primavera: duelli 995

    (Aprile, Maggio, Giugno)


    Autunno: duelli 326

    (Ottobre, Novembre, Dicembre)


    STAGIONE ATMOSFERICA.

    Inverno: duelli 680

    (Dicembre, Gennajo, Febbrajo)


    Estate: duelli 1312

    (Giugno, Luglio, Agosto).

    Primavera: duelli 887

    (Marzo, Aprile, Maggio)


    Autunno: duelli 584

    (Settembre, Ottobre, Novembre).

  9. Il numero dei duelli in Italia fu di 2759 pel decennio 1879-1889; e di 754 dal 1890 al 1.° luglio 1895. Dei 3513 duelli 140 accaddero con la spada, 3138 con la sciabola e 223 con la pistola. In Francia, invece, dal 1880 al 1890 accaddero 467; di cui 329 alla spada; 12 alla sciabola e 118 alla pistola. Dunque, parlò a sproposito quel perito cavalleresco durante il processo pel duello Macola-Cavallotti quando volendo fare il saccente, addusse a sostegno delle sue affermazioni dati assolutamente cervellotici.
  10. Queste note l’ho tolte da un manoscritto inedito del secolo scorso, conservato alla Braidense, nella collezione Morbio.