Per la storia della cultura italiana in Rumania/I. Primi contatti fra Italia e Rumania/III. Relazioni storiche e contatti di cultura

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I. Primi contatti fra Italia e Rumania - II. Corrente filologica II. Pietro Metastasio e i poeti Văcărești
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III

Relazioni storiche e contatti di cultura


1. Contatti di cultura e condizioni sociali della Rumania
nel secolo XVIII.

a) Condizioni sociali della Rumania nel secolo XVIII.

„Nel secolo XVIII, molteplici influenze fecero sì che i Rumeni dei due principati di Moldavia e di Muntenia (Valachia) partecipassero della letteratura e dello spirito dell’Europa civile. La lingua francese divenne la lingua internazionale delle classi superiori e illuminate e penetrò anche in Rumania dalla Polonia, dalla Russia e da Costantinopoli, per mezzo dei Greci del Fanar. Avventurieri stranieri, — francesi, o sotto l’influenza della cultura francese,— vennero in gran numero a stabilirsi in Rumania per cercarvi fortuna. Eran d’ordinario medici, segretarii, maestri, architetti, negozianti pronti a cambiar di mestiere a seconda della fortuna dei loro successi; ma anche stranieri costretti da necessità politiche ad abbandonar la patria loro d’origine. Costoro soprattutto venivano assai volentieri ospitati dai boieri di quel tempo, curiosissimi di tutto quanto valesse a dar loro un’idea degli usi e della civiltà occidentale. Relazioni commerciali furon stabilite, essendo stati i Turchi costretti dai trattati ad aprire i due principati rumeni (Moldavia e Valachia) alle merci europee. Per proteggere il commercio, per diffonderlo, e, col pretesto della preparazione degli addetti commerciali, vennero i consoli delle diverse potenze europee: [p. 27 modifica] della Russia, dell’Austria, della Francia, della Prussia, e quella medesima influenza europea che prima diffondevan l’ufficiale russo, il nobile polacco, il negoziante italiano, il funzionario fanariota del Dragomannato divenuto Vodă o consigliere del Vodă, venne d’ora innanzi diffusa anche dai consoli stranieri. A queste influenze già notevoli di per sè stesse, vennero ad aggiungersi in seguito anche gli esilii, i viaggi di piacere, l’abitudine di andarsi a perfezionare negli studii oltre i monti, non più in Italia, ma in Francia, in Germania, in Russia, tutti paesi dominati allora dallo spirito riformatore che veniva di Francia, e, ben presto, insieme con la zimarra all’uso turchesco, il berretto di pelo e il mantello foderato di pelliccia, i boieri e le cucoane di Valacchia e di Moldavia scagliarmi lungi da loro le vecchie usanze, i vecchi costumi, i vecchi sentimenti e le vecchie idee, per europeizzarsi, per civilizzarsi, secondo la nuova ricetta produttrice di miracoli che davano i Francesi. Educati da maestri stranieri, lettori di libri stranieri, visitatori di paesi stranieri” 1, i Rumeni del secolo XVIII si posero a contatto colle diverse tendenze, che, intorno a quel tempo, si manifestarono nel pensiero dei popoli dell’occidente.

a) Posto che spetta ai contatti italiani.

Tra codeste influenze, se il primo luogo spetta indubbiamente a quella francese, il secondo può ben attribuirsi all’italiana, giacché, se a prima vista può sembrare che la cultura neoellenica, diffusa ne’ principati danubiani dalla dominazione fanariota appunto intorno a quest’epoca, debba aver la precedenza; è pur vero che la maggior parte de’ greci che pubblicarono in Rumania le loro opere o vi esercitarmi l’insegnamento pubblico e privato, avevan fatto i loro studii in Italia 2 sicchè, [p. 28 modifica] come ben mostra l’Erbiceanu3, la cultura neo-ellenica dell’epoca fanariota può ben considerarsi come non altro che un riflesso di quella italiana del Rinascimento.

Tra gli stranieri, che, sia come segretarii, sia come precettori, furono, specie nella seconda metà del secolo XVIII, ospiti alla corte dei Principi o in casa di nobili boieri, gl’Italiani non furono nè i meno numerosi, nè i meno ricercati. La lingua italiana, fin dai tempi della superba egemonia di Venezia sulle cose d’Oriente, era, in certo qual modo, la lingua degli affari e della diplomazia. Fin dalla seconda metà del secolo XVI, troviamo che un pretendente al trono di Valacchia e di Moldavia (Ioan Bogdan) scrive in italiano una lettera, in cui si raccomanda al Duca di Ferrara, e, verso la fine dello stesso secolo, un altro pretendente (Ștefan Bogdan) si firma: „Despot Steffano Bogdan Vaivoda, principe legitimo di Moldavia, Vlachia, ecc.”, quasi ad appoggiar la domanda d’aiuto che rivolgeva alla Serenissima, col mostrarsi esperto nella lingua dei potenti dominatori dell’Oriente. Un’altra lettera in italiano scriveva il 1691 Alessandro Mavrocordato al conte Chinski e non son certo queste le sole 4 che furon scritte nella nostra lingua a Papi, Dogi e altri Principi italiani e stranieri per sollecitarne l’aiuto, dagli innumerevoli pretendenti, che, nel secolo XVI, e più specialmente nella seconda metà di esso, pullularono non solo in Rumania, ma possiam dire in tutto il Levante ai troni di Valacchia e di Moldavia 5. Siano esse schietta farina del sacco di codesti signori, o, come par più verosimile supporre, siano state scritte

[p. 29 modifica] da segretarii italiani (o che sapevan l’italiano); per noi vale lo stesso. Certo molti di quei Principi avevano avuto l’occasione d’imparar la nostra lingua, sia studiando in Italia (a Padova la maggior parte, ma anche a Pisa), sia facendosela insegnare da qualcuno fra i molti italiani, che, specie nel secolo XVII, vissero in Romania, facendo i segretarii e i maestri di lingua.

2. Italiani in Rumania.

A costoro, ai missionarii cattolici, quasi sempre di nazionalità italiana, e a qualche viaggiatore, che, allettato dalle promesse di qualche Voda, finì collo stabilirsi in Rumania o col restarvi troppo più a lungo di quanto da principio non si fosse proposto, converrà necessariamente limitare il nostro discorso, giacché non è il caso d’intrattenerci a fare, attraverso i secoli, il censimento dei mercanti veneziani e genovesi6che vennero [p. 30 modifica] in Rumania a comprar grano, pelli, carni salate, legna, caviale, (...schiavi anche, purtroppo!) e a vender broccati, pepe di Brussa, gottoni, „cappelli pilosi”, taffetà, spade „alla facione valachesca” fabbricate a Genova 7, e tutta la minuteria profumata e fastosa dei ninnoli e degli amuleti comperati in Oriente e smerciati poi, prima che in Italia, sui mercati dei paesi che le galee tocca van nel viaggio di ritorno.

a) Primissimi contatti militari: romano-dacici, e commerciali: veneto‐rumeni.

Italiani in Rumania ce ne furono infatti, sarei per dire, fin dai tempi di... Traiano, e, con ogni probabilità, anzi, anche prima, poi che una conquista a mano armata suol quasi sempre esser preceduta da un’altra economica e commerciale che la determina e rende necessaria. Non è quindi il caso di cominciar le cose ab ovo, tanto più che, d’altra parte, nè quei coloni furono italiani nè il paese che andavano ad abitare era la Rumania, così come oggi la intendiamo. Ci contenteremo perciò di rilevare soltanto, come, dopo la conquista della Dacia, le comunicazioni fra la nostra penisola e la nuova colonia romana divenissero ancora più frequenti di quanto non fossero state fino allora, come appare dal moltiplicarsi delle pietre funerarie8 dei centurioni e dei soldati romani, le cui voci fioche sembrano indicarci dal sepolcro la via ch’essi percorsero un giorno pieni di fiducia nell’avvenire e nella grandezza di Roma e che non avrebbero percorsa a ritroso mai più. Da Sirmio, Aquileia, Salona, Adrianopoli, Tomi vengono quelle voci, cristiane la più parte, poi che nella milizia come tra gli schiavi il Cristianesimo gittò da principio con frutto la rete; e, quando cessano, già spuntano all’orizzonte „i gran corni veliferi” dei galeoni [p. 31 modifica]veneti e genovesi che il vento gonfia e spinge per l’ampio mare a disputarsi il predominio commerciale nei porti del Mar Nero e del Danubio: a Chilia, a Moncastro, a Giaffa, a Tana. Ma neppure a queste vele— candide vele genovesi dal bianco stendardo crociato di rosso, vele multicolori veneziane fregiate della croce monogrammatica— possiamo troppo a lungo volgere lo sguardo. Volumi e volumi della Collezione Hurmuzaki narrali le loro gesta, il loro tenace lavoro, l’attività incessante, la ricchezza delle stoffe, dell’oro, delle armi (non di rado dei manoscritti e delle stampe) ch’esse vendevano nei porti rumeni, in cambio di grano e caviale. Oh tempi gloriosi nei quali Venezia era per davvero padrona del mare! Padrona al punto, che, quando il Vaivoda Stefano di Transilvania volle andar pellegrino in Terra Santa, fu ad essa che dovè rivolgersi per avere una galea, che, col solo stendardo di S. Marco, valesse a tenere in rispetto i predoni! Leggiamo con venerazione il documento che ci parla dell’impero che altra volta ebbe in Levante, e, affrettando col desiderio l’avvento dell’alba radiosa, in cui l’Italia apparirà alle genti secondo il voto del Poeta „nuova sul mare”; stacchiamo una buona volta l’occhio da quelle vele che van troppo lontano nell’oceano, perchè possiamo qui indugiarci a fantasticarne il cammino! Il documento è del 1376. Dice: „Cum magnificus dominus Stephanus Vayvoda Transilvanus per eius litteras et nuntium amicabiliter nos rogaverit quod complaceamus sibi de una galea cum qua ire et redire possit ad sanctum sepulcrum, cum personis XIV vel arca, et omnibus consideratis faciat pro honore nostro conservare et augere amicitiam suam, et sibi complacere, maxime quia bene reperitur modus habilis in hoc; vadat pars quod respondeatur ei, quod parati sumus libenter et amicabiliter compiacere sibi in faciendo ipsum conduci libere cum una nostra galea Barectum (Beirut), de quo loco poterit commode ire ad sanctum sepulcrum et cum eadem galera redire Venetias. Verum expedit quod ipse sit Venetiis9 cum comitiva sua usque dies XV mensis augusti proximi”10 [p. 32 modifica]

b) Medici.

Ma non soltanto per galee si ricorreva alla Serenissima! Per medici altresì ed architetti. Nel febbraio infatti del 1501, due ambasciatori di Ștefan-cel-Mare (Stefano il Grande) erano inviati a comprar „panni d’oro” a Venezia e, bisogna men lieta, a chiedere alla Signoria un medico per il loro vecchio e glorioso Voda seriamente ammalato. Giunsero i messi felicemente e riferirono al Doge il desiderio del morituro: il medico doveva essere scelto fra i medici veneziani „li amici miei li qual son certo me amano”; ed il senato, accogliendo la richiesta, sceglieva Matteo da Murano, ciroico famoso per i suoi tempi. Tutto compreso dell’onore che il Senato della sua Venezia gli faceva, Matteo partì subito per la Moldavia, dove rimase tre anni al capezzale del vecchio soldato, che, nelle lievi migliorie e quando i dolori della gamba gli concedevano un momentaneo riposo, gli parlava della sua vita trascorsa quasi per intero tra le fatiche e le privazioni della guerra, mentre forse rivedeva colla fantasia i campi delle sue vittorie, con

.......le mobili
tende, e i percossi valli,
il lampo dei manipoli
e l’onda de’ cavalli,
e il concitato imperio
e il celere ubbidir!

„Io” — diceva infatti al suo medico il vecchio Voda ammalato — „io sono circondato da inimici da ogni banda, e ho avute bataie 36, dapoi che son signor de questo paese, de le qual son stato vincitore di 34 e 2 perse.” E Matteo riferiva puntualmente [p. 33 modifica] quanto avveniva, descrivendo il Voda „huomo sapientissimo, degno de molta laude, amato molto da li subditi, per esser clemente et justo, molto vigilante et liberale, prospero de la persona per la età sua, se questa infirmità non lo avesse oppresso”. Nè manca di aggiunger notizie sull’esercito dei moldavi „valenti huomini et huomini de fatti, et non de star so li pimazi, ma a la campagna”, e che erano in grado di fornir 40.000 cavalieri e fanti 20.000; medico scrupoloso e onesto, ma veneziano anzi tutto, che mandava a comprar le medicine a Venezia11 ed il Senato della Repubblica minutamente informava d’ogni novità colla solerzia di un vero e proprio ambasciatore 12. Matteo [p. 34 modifica] da Murano morì un anno prima del suo reale ammalato; ed ecco il 1503 un altro ambasciatore di Stefano presentarsi alla Signoria e chiederle un altro medico, non solo, ma „il conseglio de medici di Padoa” sulla strana malattia del Voda che oramai „di li piedi et di le man ”non si poteva più „mover di ajutar”. Oltremodo affettuosa fu la risposta del Doge: „Col sangue, potendo, lo voria varir”, e fra i tre medici (Zorzi di Piamonte, Alessandro Veronese, e Hieronimo da Cesena) che chiedevano di andare in Moldavia, scelse Hieronimo 13 che partì subito alla volta di Suceava, l’antica residenza dei Principi rumeni. Ma Stefano ormai agonizzava. Nel luglio 1504, troviamo infatti a consulto con Hieronimo da Cesena e il medico ebreo del Gran Can dei Tartari un altro italiano, che pare facesse il barbiere a Budapest, pur esercitando a tempo perso l’arte del „ciroico”. Curioso consulto, in cui, mentre il grave dottore di Padova e il non meno grave protomedico del Gran Cane discutevan tra loro dottamente, il fisico-barbiere Lionardo de’ Massari applicava le mignatte a un gran principe, che, dopo aver seminato la strage fra gli eserciti ottomani e arrischiato cento volte la vita nel folto della battaglia, pendeva ora dalle labbra di quei due uomini di scienza (ahi quale scienza!), sperando ancora di poter conservar un rimasuglio misero e dolorante d’un corpo giovine e bello ch’egli aveva pur mille volte, nel primo vigore delle sue forze, offerto in bersaglio agli archibusi e alle scimitarre [p. 35 modifica]nemiche. Del resto, anche prima che si decidesse a mandare a chiedere un medico alla Serenissima, Stefano si era affidato alle cure di un italiano, un tal Branco, siciliano e prete, del quale però, malgrado gli fosse stato mandato dall’Imperatore Massimiliano (o magari appunto per questo) non si fidava affatto, e lo diceva chiaro e tondo agli „amici suoi” veneziani, per bocca dell’ambasciatore venuto a chiedere alla Serenissima il medico che avrebbe dovuto sostituirlo. Di medici italiani del resto si servirono non il solo Stefano il Grande, ma anche molti de’ suoi successori, come p. es. Stefano IV il Giovane (Ștefaniță Vodă), Neagoe Basarab, ed Alexandru Lăpuşneanu ecc. ecc., chè abbiam detto non essere nostra intenzione far qui il censimento di tutti i medici che si recarono in Valachia e in Muntenia, abbandonando, per „disio d’onore” più che di sperate ricchezze, le fiorite piagge d’Italia. Sappiamo infatti da un documento della Marciana 14 come intorno al 1519, Antonio Paicalas, aratore” di Ștefăniță Vodă, approdasse a Venezia, e, pochi giorni dopo il suo arrivo, vestito di „panni d’oro” regalasse nella Sala del Gran Consiglio il Doge di non so quante pelli di zibellino e chiedesse il solito medico per il solito Voda ammalato. Quasi contemporaneamente, un documento dell’archivio veneto di Stato ci mostra alla corte del Voda di Valachia — mentre in Moldavia regnava Stefanità, in Valachia dominava Neagoe Basarab — un tal Girolamo Matievich „medico-ciroico” di Bagusa, del quale però Neagoe, che, a quanto pare crepava di salute, si serviva piuttosto come ambasciatore. Lo troviamo infatti il 1516 a Venezia, mandatovi dal Principe a farvi compere per suo conto 15. Di uno poi dei medici di Alessandro Lapușneanu (il Voda [p. 36 modifica] feroce che negoziava in porci e in buoi con mercanti veneziani e fiorentini colla stessa fredda abilità con cui in una sola notte faceva trucidare quarantotto boiardi e ne disponeva colle sue mani a piramide le teste sanguinose sulla medesima tavola, seduti attorno alla quale avevan pocanzi allegramente insieme banchettato) sappiamo ch’era italiano e nativo „d’Asolo di Bressana”16

c) Architetti, ingegneri, costruttori, appaltatori, decoratori.

Tralasciando ora di menzionar altri minori, e dopo aver accennato brevemente a quel Iacopo Pilarino (1659—1718), greco d’origine ma italiano d’adozione17, che, prima di recarsi in [p. 37 modifica] Russia, dove Pietro il Grande lo nominava protomedico della sua Corte, aveva esercitato in Valacchia il medesimo uffizio sotto il regno di Șerban-Vodă Cantacuzino (1678— 88) e di Constantin-Vodă Brâncoveanu (1688 — 1714); e tornando per poco all’epoca di Stefano il Grande (1457— 1504); converrà osservare, come ai primi anni del regno di lui si possa far risalire l’immigrazione in Rumania degli architetti, costruttori, appaltatori, decoratori, pittori, spesso semplici muratori italiani, durata si può dire fino a qualche anno fa, e, per quanto riguarda i capomastri e gli operai (muratori e terrazzieri nella maggior parte) esistente tuttora, benché in proporzioni assai minori che per l’addietro. Italiani possiamo in fatti considerare a buon diritto gli architetti dalmati, ragusei, albanesi e levantini, che, fin dai tempi di Stefano il Grande e Neagoe Basarab, furon chiamati per conto di varii Voda a costruir chiese e monasteri votivi nelle città e nelle campagne valacche e moldave, poi che tutti eran sudditi di Venezia e ad ogni modo tutti sotto l’influenza di quella meravigliosa e sontuosa arte veneziana della Rinascita, un cui tenue riflesso ci accade tuttora di cogliere nei fiorami che adornano una reai pietra funeraria o negli archi a tutto sesto della porta ancora in piedi d’un vecchio monastero in ruina. Disgraziatamente si tratta d’una turba anonima e modesta ch’è passata senza lasciare altra traccia che le linee e gli ornati degli edificii che con maestra mano ha innalzati; ond’è che non possiam qui citare se non il nome d’un tal Giovanni Privana (che forse sarà da leggere Provana18 al quale Stefano affidò, intorno al 1479, l’incarico di erigere la chiesa votiva di Chilia. Per aver notizia di altri architetti italiani ci bisogna arrivare ai tempi di Ipsilanti (1774 — 1782), del quale sappiamo, che, per ampliare il monastero di Poiana, si servì di un tale Spiridione Macrì19, levantino anche lui, come molti fra gli anonimi che lo precederono, ma italiano di lingua e di cultura, visto che di lui possediamo in italiano una relazione manoscritta e in italiano si firmava: „Ingigner luogotenente Spiridione Macrì”,. Altri ingegneri e artisti italiani, del resto, troviamo in Rumania sotto [p. 38 modifica] il regno d’Ipsilanti; e, se di Ragusa era quel Giovanni Iveglia20 che, per conto del Principe Ipsilanti, impostò e costruì a Braila le due navi richieste dalla Sublime Porta, italiano e veneziano della più bell’acqua era senza dubbio il pittore Giorgio Venier21, che, col dipinger nelle chiese e nei monasteri ortodossi le immagini dei liberali fondatori (rum. ctitorii, cfr. gr. κ) raggranellò una discreta fortuna e fu nel 1787 innalzato dal Voda al grado di archizugrav22

d) Influsso dell’arte decorativa italiana del Rinascimento su quella rumena.

α) Primi influssi: Mânăstirea Dealului — Arie Tipografica — Curtea de Argeș — Pietre sepolcrali.

Questi i pochi e poveri nomi di cui ho notizia. Ciò non ostante, oggi anche i più restii fra gli storici rumeni han finito coll’ammettere un influsso dell’arte italiana del Rinascimento su quella rumena dell’epoca di Stefano il Grande e Neagoe Basarab. Per ciò che riguarda il Monastero di Dealu (Mănăsterea Dealului) la cosa sembra al Iorga, evidente. „Già cominciava a sentirsi [ai tempi cioè di Stefano il Grande] nei principati rumeni l’influenza del rinascimento italiano. Nei fregi delle iscrizioni commemorative e sepolcrali23 dell’ultimo periodo del regno di Stefano, si veggon linee che non rassomigliano affatto a quelle del gotico tradizionale”24. Più tardi „Radu il Grande erigerà (1500— 01) il bel monastero di Dealu, presso Tîrgoviște, sua residenza, dove linee che ornano il portale hanno un incontestabile carattere [p. 39 modifica] Veneziano25. Sotto il regno di questo medesimo Principe fu inoltre „introdotto nei paesi danubiani la stampa” per opera di „un religioso slavo educato a Venezia”, un tal Macario, che, anche prima, aveva pubblicato a Cettigue „alcuni libri liturgici ortodossi”, nei quali „l’arte italiana si riconosce” dalla forma tondeggiante specie delle maiuscole26. Nella stessa Chiesa della Colie di Argeș, il più puro gioiello d’arte bizantina che la Rumania possegga, il Iorga vede „elementi che non appartengono alla tradizione rumena o a modelli orientali”27, e, per quanto egli sembri restio ad ammetter l’influsso italiano28 nelle opere di cesello che l’adornano, esso ci è chiaramente attestato del To[p. 40 modifica]cilescu29, che, accanto all’opera di quegli orefici sassoni di Transilvania, cui il Iorga vorrebbe attribuir tutto il merito, non manca di riconoscer quella di orefici italiani. Del resto, lo stesso Iorga pur negando l’opera degli orefici, tende ad ammetter quella degli architetti italiani. „Anche nell’architettura della nuova splendida costruzione, si può veder l’influenza esercitata dal Monastero di Dealu. È merito degli architetti orientali o Armeni come si suol di continuo affermare? Non sarei per crederlo; comunque, non ci son prove, e neppur probabilità tali, da farci aderire ad una tale ipotesi. I maestri veneziani avevano infatti nozione degli usi e degli ornamenti dell’oriente, e, senza alcun dubbio, a qualche architetto dalmata che aveva subito l’influenza della nuova architettura lineare del Rinascimento, si rivolse Neagoe [il fondatore della magnifica chiesa] del quale sappiamo che mandava spesso ambasciatori a Venezia”30. Tra le carte dunque del R. Archivio veneto di Stato, è da cercar la risposta a codesto importante, anzi fondamentale problema di Storia dell’arte. La chiesa della Corte di Arges è forse, dopo S. Sofia31, il più prezioso documento d’arte bizantina32. L’originalità della sua pianta, la saldezza e la linea della sua costruzione, la squisita eleganza degli ornati che attestano negli autori una fantasia ed una squisitezza di gusto non minore (e forse, per ciò che riguarda la fantasia, persin [p. 41 modifica] maggiore) talvolta che nei più grandi artefici del rinascimento veneziano; han fatto sì che intorno ad essa si sia formata una leggenda ch’è una tra le più belle e tenere della meravigliosa letteratura popolare rumena ed ha sostituito il nome d’un leggendario tragico architetto a cpiello rimasto ignoto del grande che l’ideò e la condusse a termine. Meșter Manole non è probabilmente mai esistito e gli eruditi33 san bene di quali elementi sia materiata la leggenda, per cui al suo sogno d’arte sacrificò la vita della donna amata, murandola viva nelle pareti della Chiesa, perchè il muro non cadesse ogni notte ed egli all’alba non suffrisse dello stragio di veder distrutta in un attimo tutta l’opera d’un giorno e resa impossibile l’incarnazione perfetta della sua visione d’artista; ma egli vive nell’opera sua di una vita „più vera e migliore”, egli vive nella coscienza e nella doina del pastorello rumeno, che, contemplando di lontano la mole stupenda, crede ascoltare, nel silenzio dell’alba o negl’incendi del tramonto, il lamento della giovine innamorata: „Manuele, Manuele! Mastro Manuele! Forte mi stringe il muro, il seno mi schiaccia, la creatura mi uccide!”34

Meșter Manole in fin dei conti potrebbe anch’essere un tedesco; ma oserei pregare i glottologi di non volersi affidar troppo a quel meșter, poi che è noto che la maggior parte delle parole tecniche riguardanti l’arte dei costruttori è in rumeno d’origine tedesca; il che ha certo la sua importanza, ma non vale infine a provar la nazionalità di alcun meșter. Meșter Manole potrebbe invece, e con probabilità assai maggiore, essere un italiano, poi che, come abbiam visto, oramai quasi tutti gli storici rumeni han finito col riconoscere che elementi italiani nell’architettura [p. 42 modifica] e nella decorazione della Curtea de Argeș ce ne sono35. Gli storici dell’arte sono, ad ogni modo, avvisati. Veggano essi (come gli antichi consoli) ne quid respublica detrimenti capiat! Posso assicurar loro che ne vale la pena! Intanto, perchè ognuno possa vedere e credere, riproduciamo qui la cornice d’una lapide dedicatoria (Fig. 1) e due pietre sepolcrali (Figg. 2 e 3) del Monastero di Neamț, col commento che l’infaticabile prof, lorga ha pubblicato di recente nel Bullettino della Commissione dei Monumenti Storici (Anno III, N-ro 3, fase. 11) col titolo di Stefano il Grande e il Monastero di Neamț: „Sulla porta d’entrata, — dove, con fiori retorici non meno ricercati [degli ornati in istil gotico che abbelliscono la proscomidia a destra dell’altare], Stefano chiama nientemeno che il Redentore in persona a protegger la sua costruzione votiva; — la pietra dedicatoria (Cfr. Figura 1) non ha altri ornati che in istile del Rinascimento. Sulla tomba [p. 43 modifica] poi di Micota e quella di Stefano, figlio di Alessandro (Cfr. Fig. 2) non troviam più le aguzze foglie d’acanto, che il gotico aveva messe di moda, Fig. 1.ma fiori pieni scolpiti nel medesimo stile italiano, che del resto, incontriamo anche prima di quest’epoca, sulle pietre funerarie del secolo XV”:

ciò che è tanto più interessante a rilevare, quanto „fiori di tal fatta non ci avverrà di riscontrarli, se non assai più tardi in una lapide sepolcrale, che oggi può vedersi incastrata nel muro della chiesa nuova (Cfr. fig. 3) e fa menzione di un vecchio egumeno (Hariton), morto il 1536”36 1. Un terzo monastero infine, la cui archittetura risente di quella italiana del Rinascimento, è quello, già menzionato, di Dealu (Mânăstirea Dealului), altrimenti detto di S. Nicola delle Vigne (Sf. Nicolae din vii) per i molti e rigogliosi vigneti, tra’ quali sorgeva. Fu costruito il 1496 da Radu-Vodă-cel-Mare „sul colle che sorge sull’altra riva della Ialomitza, nelle vicinanze di Târgoviște, quasi a gara con Stefano il Grande, che, anche lui, s’era apparecchiato nel Monastero di Putna il suo bel sepolcro monumentale.” A proposito del quale, non sarà inutile riportar qui le parole, colle quali il Iorga illustra lo stile della lapide mortuaria di Stefano, „cui” — son parole del Iorga — „piacque che la pietra che doveva tramandare ai posteri il suo nome, fosse scolpita da maestri dalmati, che avevan subito l’influsso dell’arte veneziana del Rinascimento, in lettere cirilliche abbellite dalle linee allungale e flessuose delle maiuscole italiane del Rinascimento”37 [p. 44 modifica]

β) Lo stile „brancovenesco“

Tali influssi dell’arte italiana architettonica, ed in ispecial modo della scultura decorativa, duraron per tutto il secolo seguente, fino a produrre, nella seconda metà di esso, quella particolar forma di stile, che suol chiamarsi, Fig. 2dal nome del Voda che l’introdusse in Rumania e se ne servì pe’ suoi palazzi, „brâncovenesco“.

„L’epoca (1688 — 1714) di Costantino Brâncoveanu” — c’informa Virgil Drăghiceanu38, dal quale togliamo le notizie che seguono — „non è certo un’epoca di fioritura in tutte le manifestazioni della vita sociale.” Ciò non ostante, per ciò che riguarda le relazioni spirituali, e specialmente artistiche, coll’Italia de’ tempi suoi, presenta per noi un interesse superiore a qualsiasi altra epoca anteriore. „Preparata dalla mano di ferro dell’energico Șerban-Voda Cantacuzino, la cui voce tonante39 e la gigantesca statura bastavano a tenere a segno le fazioni dei „boieri”, che, fin dai tempi di Matei-Voda Basarab, dilaniavan la Rumania colle loro lotte intestine; essa favorisce, grazie al tatto, all’abilità ed alla diplomazia dell’astuto principe Constantin Brâncoveanu, lo svolgersi d’una situazione così felice, come raramente s’era per lo innanzi vista in Valacchia. Nel nuovo stato [p. 45 modifica] di cose, le arti soprattutto (ch’erano già in piena fioritura sotto il regno di Șerban-Vodă Cantacuzino), fanno ancora un bel passo avanti e raggiungono Fig. 3. uno splendore, che non avevano più raggiunto dai tempi di Neagoe-Vodă Basarab (1512— 1521), il principe artista innamorato di ogni cosa bella e sontuosa. Il benessere e la sicurezza, di cui godeva allora la Valachia, condizioni di prima importanza per lo svolgersi d’una vita elegante e raffinata, ridestarono alla corte del Brȃncoveanu quel gusto per il lusso e l’ornamento, che i suoi predecessori avevano ignorato. L’architettura, la cultura, la pittura, l’arte del cesello, e persino i mobili e le stoffe, risentono di codesto ridestarsi del gusto alla corte di Valacchia, e raggiungono una squisitezza e una ricchezza non più veduta. Accolgono inoltre elementi nuovi che dàn loro una caratteristica, un aspetto, uno stil nuovo: lo stile „brâncovenesco”... Codesta vita nuova, preannunziatrice e preparatrice della società moderna, non si può più svolgere nelle camere incomode e strette delle antiche case vayvodali di Târgoviște o di Bucarest, per quante riparazioni e trasformazioni si possano far loro. Il Voda e i suoi cortigiani si senton mancare il [p. 46 modifica] respiro sotto le volte troppo basse di quelle stanzucce male illuminate dalla poca luce, che, superando gli ostacoli delle alte mura e della torri di cinta, riesce a filtrare attraverso le piccole finestre. È venuto oramai anche per la Valacchia il momento, in cui l’arte architettonica si spoglia dell’abito feudale invecchiato, per rivestir quello dei tempi nuovi. Si sente, ora per la prima volta, il bisogno di abitare in camere grandi, spaziose „in cui l’occhio possa dilettarsi della bellezza ornamentale dei candidi stucchi, che riveston le pareti delle ampie sale, o dei fogliami delle balaustrate che fiancheggiano i sontuosi scaloni. Si sente il bisogno di logge (pridvor) spaziose e di ameni belvederi (foișor), dall’alto dei quali l’occhio possa spaziare sugli ampi cortili, bellamente adorni di giardini, o sul luccichio delle acque dei laghetti che si stendono a’ loro piedi. Si sente in una parola bisogno per la prima volta di molt’aria e di molta luce.

Tutto rivela una vita nuova: la stessa parola di casa principesca (casa domnească) come s’era fino a quest’epoca chiamata [p. 47 modifica] la residenza del Voda, si cambia in quella di palazzo (palat), come Constantin Brâncoveanu si compiaceva chiamar la splendida

Fig. 4. abitazione, che s’era innalzata a Mogoșoaia. Ed è proprio il palazzo caratteristico del nobile italiano, col medesimo sfarzo [p. 48 modifica] di ornamenti, nel medesimo stile barocco, che il Brâncoveanu scelse come modello per la sua fabbrica, per l’intervento e l’influenza de’ suoi segretarii italiani, che rallegrano col loro spirito e la loro giovial conversazione i trattenimenti di Corte.”40 Il palazzo di Doicești, a proposito del quali il Draghiceanu scrive quanto sopra, non esiste più che allo stato di rovine; è ancora in piedi però la bella chiesetta edificata quasi contemporaneamente al palazzo dal Brâncoveanu, e della quale vorrei qui poter riprodurre41 il portale e il candelabro „domnesc”, per dare un’idea esatta dell’influenza esercitata a quei tempi in Valachia dall’arte barocca italiana, quando serbava ancora la tracce di quella del Rinascimento che la generò e la produsse. Ma, poi che il lungo tema ne sospinge, ci contenteremo di riferir le belle pagine, nella quali il Draghiceanu, che ho ragione di ritenere assai competente in materia, dopo aver minutamente studiati a descritti gli altri due palazzi (di Potlogi e di Mogoșoaia) innalzati dal Brâncoveanu, si propone di rispondere a questi due quesiti importantissimi per il nostro argomento: quali ne sono stati gli architetti e qual n’è lo stile?

„Lo stile di una costruzione” — risponde il Drăghiceanu — 42 „si può studiare da tre punti di vista: 1) paragonandolo con quello degli edificii delle epoche anteriori, 2) studiando la costruzione dal punto di vista delle influenze artistiche, che abbia potuto esercitar su di esse l’arte dei popoli, coi quali siamo stati in più frequenti relazioni di cultura; 2) facendo delle ricerche intorno agli architetti che l’hanno innalzata, e sulla scuola, in cui bau fatta la loro educazione artistica.

Riteniamo ad ogni modo, che sia meglio prender questa volta le mosse dall’impressione che codesti palazzi han fatta su di due antichi conoscitori sia dell’architettura rumena che di quella europea de’ tempi loro, perchè le opinioni concordanti di due ottimi conoscitori appartenenti a due epoche e due nazioni diverse, mi sembrali quanto mai dir si possa concludenti. Orbene il [p. 49 modifica]Fig. 5. Lamottray43 che, in seguito alla sua lunga dimora in Oriente, conosceva meglio di ogni altro le caratteristiche dell’architettura orientale, restava di sasso nel vedere il palazzo di Mogoșoaia, che gli fece l’impressione di una fabbrica costruita „all’europea”. La medesima opinione intorno ad ambedue i palazzi (di Potlogi e di Mogoșoaia) esprime anche il Sulzer44, al quale par ch’essi „tradiscano il gusto europeo”, sì da fargli conchiudere, che „devono essere stati fabbricati da architetti stranieri”.

Quali sieno codesti architetti e quali codeste influenze ci proponiamo” — continua il Drăghiceanu — „di assodare nelle pagine che seguono.

Con i Sassoni (specie di Transilvania) i Rumeni hanno sempre avuto strette relazioni di cultura, fin dai tempi più antichi; ma la caratteristica loro abitazione, — che han portata con loro dalle rive del Reno, insieme con tutta la loro vita spirituale (la loro Rathaus ed il loro Kloster) e che han poi diffusa dovunque si son recati, così fra gli Ungheresi, come tra i [p. 50 modifica] Rumeni; — non la ritroviamo in Muntenia (Valachia), malgrado la loro colonia di Câmpulung fosse abbastanza importante e potente fin dal secolo XVII, quando un „padrone” Andrea (il medesimo al quale Șerban-Vodă Cantacuzino, persecutor dei Cattolici, fece per ischerno tagliar la barba per punirlo d’essersi fatto per ben due volte elegger „giudice” contro la volontà del Voda) metteva in esecuzione i privilegi concessi a Câmpulung da Duca-Vodă.

Lo stesso si dica dei Bulgari, i quali, un po’ per il loro assoluto difetto di gusto artistico, un po’ per la mancanza di una classe sociale dominante, annientata dalla conquista turca, non han potuto esercitare alcuna influenza sull’arte rumena del secolo XVIII45 .

Nè alcuna influenza poteva ai tempi del Brâncoveanu esercitar Costantinopoli stessa, ormai in piena decadenza, sulle costruzioni di Potlogi e di Mogosoaia. Dal Lamottray46 che detestava assolutamente l’architettura dei palazzi turchi, al Sestini, cui, le case de’ potenti del Fanar sembravan non altro che indegne spelonche47; non c’è, nel secolo XVIII, un solo viaggiatore che parli bene dell’architettura turca di quel tempo. Che anzi neppur le antiche abitazioni bizantine48, qualcuna delle quali restava ancora in piedi a Costantinopoli, e, qua è là, nella Siria, potevano esercitare alcuna influenza sull’architettura rumena brancovenesca. Fabbricate com’erano in tutto e per tutto come le case turche odierne che ne hanno ereditato lo stile; esse erano adatte soltanto alla vita rinchiusa e misteriosa della famiglia mussulmana. I caratteristici balconi chiusi, sporgenti in fuori dalle facciate, (i famosi e romantici muscharabieh) proprii delle [p. 51 modifica] case turche odierne, esistevano anche allora, ma le facciate avevano un aspetto più uniforme, mentre l’interno non possedeva in più delle case moderne, che una sola gran sala centrale, trasformazione dell’antico atrio romano.

Ma i Rumeni del sec. XVIII erano (ed erano stati anche prima) in relazione con i popoli appartenenti al bacino dell’Adriatico, tra i quali esisteva, fin dal tempo dei Romani, una potente tradizione artistica, e soprattutto con Venezia, gran porto commerciale del Levante, dove, con un fondo bizantino che si rivela in ogni manifestazione della vita, si fondevano come in un magico crogiuolo tutte le influenze artistiche del mondo. Zara colla sua cattedrale, Sebenico col suo forte, Pola superba del suo arco di trionfo romano, Ragusa col suo bel palazzo della Signoria, Trau colla sua cattedrale, Spalato infine col suo monumentale palazzo di Diocleziano, che rappresenta da solo uno dei ruderi più grandiosi della decadenza romana, il solo palazzo ben conservato,... in cui per il miscuglio di elementi classici e orientali che presenta, ci riesce cogliere alle origini la nuova arte bizantina; tutti questi monumenti, l’uno più importante dell’altro, ci parlan col loro linguaggio muto, ma non perciò meno eloquente, delle potenti tradizioni artistiche di quelle contrade.49

Orbene per tre vie i Rumeni son venuti in contatto coi popoli del bacino dell’Adriatico: 1) per mezzo di relazioni commerciali, politiche e culturali; 2) per mezzo di colonie italiane e d’italiani levantini stabilitisi in Valacchia; 3) per mezzo dei Serbi e dei Dalmati loro vicini d’occidente.

Son note le relazioni commerciali, che, fin dai tempi più remoti, abbiam sempre avute fin quasi a’ nostri giorni con Venezia. Non faremo dunque menzione nè di esse, nè di quelle politiche che corsero tra la Signoria, Stefano il Grande e Petru Cercel, che dovette all’appoggio prestatogli dalla Serenissima il trono di Valachia; nè parleremo della nostra esportazione di frumento e di vaccine in cambio delle lane, delle sete e dell’oro che importavamo dalla Republica di S. Marco; e neppur [p. 52 modifica]di casi isolati (dei quali di potrebbe far buona messe) come p. es. quello di Alexandru-Voda Lăpușneanu, che mandava a cercar pittori a Venezia per le sue chiese votive.

Rileveremo soltanto, come, col principiar del secolo XVII, tali relazioni sembrino divenire più strette e frequenti50.La madre di Mihnea era infatti un’italiana levantina e le sorelle di lei, monache nel Monastero di Murano, servivan di tramite alla spedizione in Valacchia d’un ritratto di Mihnea-Vodă eseguito a Venezia51. Sappiamo inoltre da certe carte (copie di documenti trovati a Targoviște ed eseguite da un dilettante di notizie storiche) come, ai tempi di Matei-Voda Basarab (1632— 1654), esistessero colà colonie di Veneziani e di Genovesi52. Un [p. 53 modifica] italiano del Levante, tal Dona Pepano, favorito di Șerban-Vodă Cantacuzino e che aveva frequenti relazioni con Venezia, sì da risiedervi spesso per lunghi periodi di tempo; fu dal Voda incaricato di restaurare la Chiesa episcopale della Curtea de Argeș53 . Un altro italiano-levantino: Giovanni Pesena-Levino, risiedeva a Brâncoveni, dove seppellì tutta la famiglia falciatagli da una pestilenza, e tutto fa supporre fosse un operaio, o un architetto al servizio del Voda.

Inoltre, allo stesso modo, come alla corte di questo Principe (Brâncoveanu) amante delle lettere e delle arti troviamo il Segretario Anton Maria Del Chiaro ed il medico Jacopo Pilarino, poteronvi essere anche altri italiani, dei quali ignoriamo l’esistenza, come p. es. giardinieri ed altri operai di minor conto. Il Del Chiaro infatti ammirava i giardini del Bràncoveanu,,assai belli, in forma quadrata, e disegnati secondo il buon gusto italiano"54 , era innamorato del Monastero di S. Giorgio (Manastirea Sf. Gheorghe) ,,fatto a guisa di un Claustro de’ nostri Religiosi"55 ed ammirava nella Chiesa de’ Francescani di Târgoviște un’imagine di S. Francesco, dipinta da un rumeno che aveva imparato l’arte a Venezia56. [p. 54 modifica] Poiché anche molti rumeni fanno ora i loro studii in Italia. Molti componenti la famiglia Cantacuzino studiarono in Italia; ma, più degli altri, mette conto ricordar qui lo Stolnic [p. 55 modifica] Constantino, del quale ci son rimasti certi appunti di viaggio.57Accompagnato da Pana Pepano, nipote di Dona, se n’andò egli a Padova a perfezionarsi negli studii, e, per via si fermò (1667) qualche giorno a Venezia, dove visitò tutto quanto meritasse la pena di esser veduto e prese appunti su quel suo taccuino che abbiamo testé mentovato. Vide allora il famoso Palazzo dei Dogi ( „la casa dove risiede il Principe cogli alici grandi”), i quadri nei quali il Veronese immortalò la gloria di Venezia e lesse anche l’iscrizione che corre sotto il gran quadro allegorico che simboleggia lo sterminato dominio della Sposa dell’Adriatico sui mari. Annotava infatti nel suo taccuino: „Scritto leggesi sul soffitto della casa, come entri per la porta, questo motto: Robur imperii...”

Certo che, non senza esercitare una certa influenza sulla cultura de’ loro connazionali, ritornavano in patria dagli studii di Padova, uomini come questi, amanti delle lettere e delle arti e cogli occhi pieni delle bellezze vedute colà!

Ma oltre agli italiani e agl’italianizzati che danno un nuovo impulso ad ogni forma di arte (non esclusa quella bizantina, come si vede nei palazzi del Cremlino in cui, malgrado gl’interni siano bizantini, le facciate rifulgono degli splendori armonici del Rinascimento)58; i Serbi e i Dalmati rappresentano degli intermediarii non trascurabili tra il gran focolare artistico italiano ed il resto del mondo.

Attraverso Ragusa infatti, il genio slavo era in costante contatto colla cultura italiana ed è perciò che l’arte serba è un misto di rigidità bizantina e di raffinatezza occidentale59. Orbene i Serbi non potendo più lavorare a casa loro, dove s’erano istallati i Turchi da padroni, lavoravan per conto d’altri. Un certo Stalacić, architetto ed un tal Giovanni Dalmata, decoratore, lavorarono infatti in Ungheria per conto di Mattia [p. 56 modifica] Corvino 60; onde par più che probabile, che, insieme con altri di altra nazionalità, architetti serbi abbiano lavorato anche in Valacchia.

Non conosciamo per testimonianze dirette il nome degli architetti dei palazzi del Brâncoveanu, ma lo possiamo argomentar facilmente, ricordando come Constantin-Vodă avesse l’abitudine di servirsi della medesima squadra di operai per tutte le sue costruzioni. Sappiamo61 per esempio che i pittori del Monastero di Hurezi, Giovanni, Gioachino e Stan, dipinsero pur anco la chiesa vayvodiale di Târgoviște e che Carageà, lo scalpellino al quale si debbono i bassorilievi ornamentali di non poche costruzioni brancovenesche, era stabilmente al servizio del Voda, come risulta da una lettera ch’egli scrive all’egumeno di Hurezi che glielo chiede per certi lavori del Monastero. „Per ciò che mi scrivi di Carageà” — dice in quella lettera il Brâncoveanu — „gli ordinerò di venire, tanto più che qui non ha nulla da fare”62. Similmente un contemporaneo del Brâncoveanu, Toma Cantacuzino scriveva intorno al medesimo tempo ad un tal Toma Țeacu di Brasciov di trovargli dei muratori per una sua fabbrica ed uno „știucator” che era stato alcun tempo prima a Bucarest63 dove l’aveva conosciuto.

Sappiamo inoltre il nome dell’architetto che lavorò al Monastero di S. Giorgio (Mânăstirea Sf. Gheorghe): Βεσελεὴλ ἐκεῖνος ὁ ἀρχιτέκυων τῆς τυπικῆς σκήνης”64. Conosciamo infine anche nomi di architetti armeni, che però non venivano impiegati nella costruzione de’ Monasteri e de’ palazzi, ma esclusivamente in quella dei bagni alla turca65, in cui erano abilissimi. Orbene una cosa è certa che nomi quali Țeaco, Carageà, Mane, son nomi slavi: serbi probabilmente o dalmati. Riassumendo, i palazzi di Constantin-Voda Brâncoveanu [p. 57 modifica] sono stati fabbricati ed ornati da „maestri” cresciuti alla scuola delle tradizioni artistiche bizantino-italiane, ma che han pur finito col conformarsi ai gusti e alle tradizioni del vecchio modo di costruire rumeno, il che era facilitato dal vezzo dei Principi e dei Nobili di quell’epoca, di voler continuamente ficcare il naso nei dettagli tecnici delle loro fabbriche, anche quando avevano al loro soldo un architetto66.

Possiam dunque considerare come elementi ereditati dall’antichità bizantina: l’uso delle „pisanie”67 (iscrizioni); la ripartizione a seconda dei sessi delle stanze; il belvedere (foișor) chiuso di Potlogi; le volte a cupola; i berceaux d’arêtes; gl’interni; infine le nicchie. Sono invece elementi nuovi: le logge (logiile) che adornano le facciate dei palazzi del Brâncoveanu e son caratteristiche dell’architettura veneziana68; le volte a lunette, per quanto queste ultime appaiano rumenizzate sì da non inquadrar le finestre; infine il modo più sciolto, più largo, più insomma occidentale, con cui tutta la costruzione è lavorata, ciò che appar soprattutto nelle sculture e, più ancora, nelle pitture che perdono quel carattere chiesastico, e, direi quasi ieratico che si riscontra nelle costruzioni anteriori a quest’epoca (le case p. es. dei Cantacuzino) e grazie al quale ogni casa aveva l’aspetto d’una chiesa; ma si laicizzano, si modernizzano e rappresentan le belle scene (Partenza del Brancovani per Adrianopoli — Udienza accordatagli dal Sultano — Ritorno a Bucarest), che decoravano ancora ai tempi dell’Odobescu il palazzo di Mogoșoaia”69 [p. 58 modifica]

7) Decadenza dell’influenza italiana — Invasione di stili nordici — Ritorno allo stile brancovenesco.

Conchiudendo questa nostra fuggevole incursione nel campo della Storia dell’Arte, rimane assodato che le relazioni artistiche tra la Rumania e l’Italia, incominciate ai tempi di Stefano il Grande, continuarono ancora per qualche tempo, fino all’epoca di Șerban-Voda Cantacuzino (1678 — 1688) e di Constantin Brâncoveanu (1688 — 1714); per decader poi rapidamente sotto l’infausta dominazione dei Fanarioti, „le cui piaghe”, dice il Iorga 70, „duraron fino al 1821”, anno in cui finalmente il popolo perdette la pazienza e scoppiò la rivoluzione capitanata da Tudor Vladimirescu. Malgrado infatti codesti Principi greci del Fanar (tutt’altro che rozzi e incolti) si adoperassero a tutt’uomo per dare ai paesi da loro governati un’„amministrazione nuova e finanze ordinate” e curassero anche abbastanza l’istruzione, sì da far delle accademie di Iași e di Bucarest „le scuole più celebri dell’ellenismo intero”71; per ciò che riguarda le relazioni coll’Occidente, (sempre pericolose per un governo tirannico com’era il loro), fecero di tutto per impedirle72, „dando ogni giorno più l’aspetto orientale a tutte le manifestazioni dell’attività nazionale.” Ad eccezion dunque di Șerban-Vodă Cantacuzino e Constantin Brâncoveanu, i Fanarioti preferirono agl’Italiani, gli architetti serbi, bulgari e greci, onde i rari motivi decorativi in istile barocco o del Rinascimento che ancora ci avvien di notare qua e là nella scultura decorativa della fine del secolo XVIII, non rappresentano se non gli ultimi guizzi [p. 59 modifica]vitali di un’influenza, che, se non fu mai preponderante, avrebbe certo meritato miglior fortuna.

L’imitazione infatti dell’architettura italiana del Rinascimento avrebbe senza dubbio dato frutti migliori di quella sassone ed avrebbe se non altro risparmiato agli occhi del visitatore di Bucarest, quel vero campionario di stili nordici imbastarditi ch’è per esempio il Bulevard Colței, dove solo da qualche anno è possibile riposar l’occhio su qualche villetta (una assai graziosa ne sorge all’angolo di Strada Verde), in cui lo stile rumeno e la scultura decorativa del Rinascimento ci appaion fuse in una forma d’arte perfettamente logica e non priva di grazia (lo stile „brancovenesco”), quasi a mostrare quale immenso profitto si sarebbe potuto trarre dall’arte italiana, ormai bell’e acclimatata, qualora non si fosse lasciata sopraffare da una vera e propria invasione barbarica.

Ma... può lagnarsene la terza Italia, che, accanto alle meraviglie del Bernini e del Maderna, ha pur osato costruire, abbattendo „i lauri e i roseti di Villa Sciarra, per così lungo ordine di notti lodati dagli usignuoli”, le „gabbie enormi e vacue, crivellate di buchi rettangolari, sormontate da cornicioni posticci, incrostate di stucchi obbrobriosi”, che il D’Annunzio paragona a buon diritto, ad un „immenso tumore biancastro” sporgente „dal fianco della vecchia Urbe?” Certo che no; e soprattutto qualora consideriamo come quella invasione di stili nordici intisichiti non sia stata purtroppo ostacolata affatto dei numerosi architetti, o, per esser più giusti, dai troppi muratori italiani improvvisatisi architetti, ai quali si deve per lo meno un buon terzo di quelle grottesche costruzioni. E meno male che all’Italia quel „vento di barbarie” ha pur fruttato alcune fra le più belle pagine di prosa che vanti la sua letteratura: il preludio squisito, di cui Gabriele D’Annunzio volle adornare le sue Vergini delle Rocce!

e) Missionari.

α) Istituzione delle prime sedi episcopali di Milcov, Severin, Argeș e Bacău. — Frati minori di S. Francesco e domenicani.

Molto maggiore influenza poterono esercitare per ciò che riguarda la diffusione della cultura italiana in Rumania, i numerosi missionari che, fin dai tempi di Innocenzo III, la Curia [p. 60 modifica] papale e il Collegio di Propaganda Fide spedirono, si può dire, ininterrottamente sì in Valachia che in Bulgaria, per richiamare all’ovile le pecorelle sbandate73. Nel secolo XIII s’istituirono infatti le prime sedi episcopali in Transilvania, in Valacchia e in Moldavia, la più antica delle quali è forse quella di Milcov (1232) 74. Seguiron le diocesi di Severin e di Argeș nella Valachia propriamente detta; di Seret, Baia e Bacovia (Bacău) in Moldavia. Nessuna però di quest’ultime, se ne togliamo quella di Seret, ebbe lunga durata; che anzi quella di Bacovia non rappresentò mai, più di un qualunque titolo in partibus, accordato per giunta quasi costantemente a prelati tedeschi [p. 61 modifica] o polacchi. Tedeschi anch’ essi ed ungheresi furono quasi sempre i titolari anche delle altre diocesi, se ne togliamo un Vitus de Monteferreo 75 che nel 1332 fu nominato vescovo di Milcov ed un Fr. Franciscus de Sancto Leonardo76, che vediam portare più tardi (1390) il titolo di vescovo di Argeș; ambedue ritenuti [p. 62 modifica] probabilmente italiani dal Iorga77. Abbastanza numerosi troviamo invece i missionarii italiani fra i domenicani, che, nel secolo XIII attesero in Transilvania (o per esser più esatti ai confini, oscillanti allora, dell’Ungheria) alla predicazione e alla propaganda cattolica, specie fra i Tartari e i Cumani, e discretamente numerosi anche fra i minoriti, che, dopo il 1324, presero in Ungheria il posto dei domenicani. Minorità era infatti senza alcun dubbio quel Padre Antonio da Spalato, che, fu, per quanto io mi sappia, il primo italiano a conoscer l’idioma de’ suoi fratelli latini della riva sinistra del Danubio, e che, intorno al 1350, si presentava alla Curia colla buona notizia della conversione al Cattolicesimo di buona parte „della gran nazione dei Vlachi che vivono circa la frontiera ungherese, verso i Tartari”78 e chiedeva nel contempo al S. Padre la dignità vescovile sul nuovo gregge ritornato ai paschi d’Engaddi, allegando d’esser già stato più volte missionario in quelle parti e di conoscer „la lingua di quel popolo semplice.”79 Se non che, il vescovo della nuova diocesi essendo stato già nominato, per questa volta tanto, il nostro Padre Antonio dovè tornarsene con le trombe nel sacco.

β) Propaganda cattolica ai tempi di Mihnea-cel-Rău e di Petru Șchiopul (1508—1568).

Miglior terreno trovò in Rumania la propaganda cattolica nel secolo XVI ai tempi di Mihnea-cel-Rău (1508 — 1510) e Petru Șchiopul (1559—1568). Il primo infatti di codesti principi era cattolico egli stesso per essere stato cresciuto in codesta religione da sua madre che par fosse un’ungherese imparentata con Mattia Corvino; il secondo aveva sposato una cattolica levantina, e, un po’ per convinzione, un po’ per interesse, si mostrò assai propenso alla diffusione del cattolicismo nel suo Principato. La quale diffusione dal canto suo un po’ per la nuova attività [p. 63 modifica] che la Chiesa Romana veniva allora dispiegando impensierita dei successi non mediocri riportati in quei paesi (Ungheria, Transilvania, Valachia ecc.) dal Calvinismo; un po’ per lo stabilirsi dei gesuiti in Transilvania (1578) e in Polonia (1595); ma soprattutto per il terreno cedevole che trovava alla Corte del Voda; fece grandissimi e forse insperati progressi. Le missioni si moltiplicarono, e, con esse, le chiese e le conversioni; si parlò d’istituire in Moldavia delle scuole ed affidarne ai Gesuiti la direzione; si progettarono (e fors’anche si stamparono per conto del Collegio di Propaganda Fide) dei catechismi cattolici in lingua rumena80, ed il nunzio polacco concepiva (1859) persino il piano d’introdurre in Rumania il calendario di recente riformato da papa Gregorio XIII81. Erano i tempi (1568 — 1577) in cui Alexandru-Vodă-cel-Bun (Alessandro II, il Ruono), marito anche lui di una levantina cattolica, il cui epitafio latino si leggeva ancora ai tempi del Randini nella chiesa cattolica di Baia 82, „faceva eseguire a Roma a sue spese un’epigrafe per la chiesa cattolica di Târgoviște”, e suo figlio Mihnea (da non confondersi col Mihnea precedentemente ricordato) le regalava „i villaggi di Satinca e di Bezdad”83. Vennero allora in Rumania non pochi prelati italiani, molti dei quali scrissero relazioni del più alto interesse, come p. es. il Mancinelli e il Visconti84 Ricorderemo [p. 64 modifica] inoltre due altri vescovi italiani: Mons. Gerolamo Arsengo „vicario e vescovo eletto di Moldavia”, che nel 1580 troviamo già installato nella sua diocesi di Bacău, e Mons. Bernardo Querini85 che il 1590 veniva nominato „vescovo di Argeș e della Moldavia e della Valachia” con residenza a Bacău.

γ) Bernardo Querini e Michele il Bravo.

Col Querini arriviamo ai tempi di Michele il Bravo, che, se non ebbe frequenti relazioni dirette colla S. Sede, comunicò si può dire quanto durò il suo regno, con Roma, per mezzo dei numerosi legati che Clemente VIII gli spediva, vuoi per incoraggiarlo a continuar nella sua crociata contro il Turco, vuoi [p. 65 modifica]per esortarlo a rientrar nel seno della Chiesa. Nell’agosto del 1597, Clemente gli scrive infatti una lunga lettera, in cui, dopo averne lodata la saldezza del carattere e lo zelo con cui s’era accinto „ad causam christianae Reipublicae propugnandam contra communem infestissimum hostem Turcam”; lo esorta caldamente, (ricordandogli l’ossequio prestato ai Pontefici romani da’ più antichi suoi predecessori), a voler tornare all’ovile commessogli da S. Pietro. Michele però che si aspettava dal Papa non delle vuote chiacchiere, ma un aiuto pecuniario per condurre a buon porto l’impresa con sì felici auspicii incominciata, dovè restar molto male, malgrado le lodi che il Pontefice gli faceva, quando dal legato Ettore Vorsi, latore del breve pontificio, apprese che quegli aiuti gli erano a mala pena promessi per il vegnente anno, e sempre a condizione ch’egli si fosse finalmente convertito. „Nel 1599”, scrive il Iorga86 „la corrispondenza colla Curia Romana continuava ancora ed il Papa raccomandava anzi a Michele, Monsignor Nunzio il Vescovo Germanico di San Severo, venuto a metter pace tra gli Austriaci e i Polacchi che si contendevano circa quegli anni il possesso dei principati rumeni.” Sul principio del’600, „il Principe di Valacchia” era di nuovo invitato a riconoscere il Querini come vescovo di Argeș, senza che però nella sua lettera il Papa si degnasse neppure di accennare alla conquista della Transilvania, da parte dell’eroico difensore della cristianità. Altre lettere infine di Clemente VIII tornano a battere sul chiodo della conversione di Michele, facendo dipendere da essa l’invio o pur no dei promessi aiuti pecuniarii; se non che poco dopo (1601) Michele moriva assassinato per ordine del generale Giorgio Basta (un avventuriero italo-albanese che comandava in Transilvania le milizie imperiali) ed al quale le vittorie del „pecoraio rumeno” com’egli era solito chiamar Michele il Bravo per dispregio, toglievano da un pezzo il sonno. „11 Basta”, c’informa il Iorga, „mandò a Roma per mezzo d’un milanese di casa Forzato, la nuova della morte del suo odiato rivale ed il Nunzio Spinelli non trovò a quell’annunzio neppure una parola di condanna per l’atto criminale”, di cui era rimasto vittima uno dei più eroici difensori della croce di Cristo! Ma non aveva forse Michele il [p. 66 modifica] Bravo tenuto sempre duro alle proposte di conversione al Cattolicismo, e, quel ch’è peggio, rovesciato in Transilvania il trono d’un Cardinale di Santa Chiesa? Davanti a cotali sue colpe, scomparivano i meriti di una vita trascorsa in continue battaglie contro il comune „infestissimum hostem Turcam” e la sua morte non lasciava rimpianti alla corte del pontefice romano!

δ) Corruzione del clero cattolico in Moldavia nel secolo XVII— Mons. Marco Bandini.

La partecipazione degli italiani (Francescani conventuali questa volta) alla propaganda cattolica in Oriente, interrottasi per breve spazio di tempo, ricominciò, favorita dagli ambasciatori francesi a Costantinopoli, verso il 1630, quando un tal Della Fratta e un tal Bonnicio chiedevano la sede vescovile di Bacovia. Intorno a quest’epoca, Matei-Voda Basarab chiamava presso di lui un altro prelato italiano, Mons. Bonaventura di Campofranco e Marco Bandini, vescovo di Marcianopoli in Bulgaria, rendeva visita a Matei-Vodă che gli parlava in termini assai cortesi del Papa, per quanto fosse un po’ seccato delle liti continue tra i frati dei diversi ordini religiosi, gelosi gli uni degli altri e non sempre di costumi esemplari87. Come del resto da [p. 67 modifica] per tutto, anche in Moldavia il secolo XVII segnò un’epoca d’infiacchimento del sentimento religioso e di deterioramento nei costumi del clero; onde il Bandini fu costretto a restare a lungo in Moldavia, per metter freno agli abusi di ogni sorta che si facevan da quei religiosi e pacificar gli animi esasperati. I frati ungheresi s’erano impadroniti infatti delle rendite dello diocesi ed erano talmente gelosi dei gesuiti polacchi e della loro influenza, che giunsero fino al punto da denunziarli al Voda, avvertendolo che se avesse permesso loro „di fare il nido in Moldavia” si sarebbero colle loro astuzie „impadronito di tutti i migliori monasteri ortodossi” a gran disonore del clero scismatico moldavo. I costumi erano poi depravati a tal segno che per qualche bicchiere di vino, un missionario aveva maritato una donna due volte. Il povero Bandini non sapeva dove mettersi le mani e lassi che di lontano gli era parsa colle sue colline un’altra Roma, quando ci fu entrato, gli si trasformò in un inferno, tanto più che il Voda era ormai stanco di tanti scandali e minacciava di scacciare i religiosi. Dalla preziosa relazione che il Bandini ci ha lasciata di questa sua visita apostolica in Moldavia, [p. 68 modifica] rileviamo com’egli trovasse solo pochi italiani tra quei religiosi, per la massima parte ungheresi e polacchi. Ciò non ostante, i religiosi italiani conservarono sempre il loro convento di Târgoviște e furono anche adoperati più volte, nella seconda metà del secolo XVII come agenti segreti 88 nelle loro relazioni colle potenze cattoliche dai principi Mihnea III, Gheorghe Ștefan e Grigore Ghica, tutti e tre favorevolissimi alla propaganda cattolica in Rumania89

Un esempio di come codesti prelali contribuivano alla diffusione della cultura italiana in Rumania— Vito Piluzio e Miron Costin.

Un esempio di come codesti prelati italiani contribuissero alla diffusione della cultura italiana in Rumania ce l’offre Miron Costin in un passo della sua Cartea pentru descălecatul de ’nteiu a Țerei Moldovei, nel quale, a proposito della simiglianza dei costumi italiani e moldavi, riferisce un suo dialogo con un vescovo (che abbiam tutte le ragioni di creder fosse Mons. Vito Piluzio da Vignanello) che non sarà stato nè il primo nè l’ultimo fra i due dotti uomini. „Molte usanze” — osserva il Costin nel libro sopra citato — „esistono anche al presente nel popolo rumeno che sono italiane: per esempio quello dell’esser i rumeni come gl’italiani larghi di ospitalità nelle loro case ed alla mano con tutti; il ricever che fanno con vivo piacere chi vada loro a far visita, e, così via dicendo, nei divertimenti e nel domandarsi l’un l’altro notizie intorno alla salute ed agli affari, senza aversene a male. Chiunque è stato in Italia ed ha bene osservato gl’Italiani, non avrà bisogno d’altri ragionamenti per convincersi che Italiani e Moldavi non sono in fondo che un solo e medesimo popolo. In casa mia, a Iassy, mi si dette un giorno l’occasione d’intrattenermi a conversare su codesto argomento con un vescovo italiano, e, fra Valtre cose di cui spontaneamente mi parlò, mi disse anche qualcosa intorno ai costumi dei due popoli, [p. 69 modifica] esprimendosi a un di presso così (ed era uomo intelligente molto): „Quanto a me” — disse — „non sento il bisoqno di andare a leggere nelle storie chi sieno i Moldavi. Da un gran numero di lodevoli usanze che ho ritrovate presso di loro, argomento subito l’origine del popolo: come p. es. dal loro trasporto per i banchetti (ottima usanza secondo Monsignore!) dal tenere a che la donna non passi prima dell’uomo sul sentiero o sulla via battuta, dal mangiar volentieri cavolo tutto l’anno, coll’unica differenza che i Moldavi lo preferiscon salato, mentre gl’italiani lo mangian sì d’estate come d’inverno senza farlo inacidire, ed altre molte usanze di tal genere. Tutte queste cose trovan riscontro in Italia, e basta guardare in viso i Moldavi per riconoscere il sangue.” Molto mi meravigliaron” — aggiunge il Costin — „le parole di quel vescovo che mi giungevano così a proposito per la mia Storia”90

ζ) Romanità mezzo d’attrazione nell’orbita cattolica. — Ascendente culturale dei prelati italiani. — Altri influssi ecclesiastici. — Traduzioni di opere ascetiche italiane. — Dizionari e grammatiche.

Ciò che qui c’interessa non è certo la sostanza dei paragoni tra i costumi dei due popoli, assolutamente insignificante e, quel ch’è peggio, non sempre esatta; ma il veder tête-à-tête, in una stanza remota della casa di Miron Costin, un boiero rumeno ed un vescovo italiano intrattenersi dell’origine comune dei loro popoli, ciò che è tanto più importante a rilevare, in quanto quel boiero è anche uno storico ed uno dei primi a sostenere contro gli scrittori polacchi l’origine latina della sua gente. A Monsignor vescovo d’altra parte, che non dimenticava neppur nei più cordiali colloquii con gli amici, la ragion vera per cui si trovava in Moldavia, faceva comodo l’insister su quella parentela, per venire al quatenus dell’attrazion dei Rumeni nell’orbita della Chiesa Cattolica, depositaria e continuatrice dell’imperialismo romano. Una tattica non diversa aveva seguita assai prima Innocenzo III nella corrispondenza citata con Ionita e gli altri imperatori de’ Bulgari e dei Valacchi. D’altronde, malgrado la loro avversione per i „papistași”, in Rumania si riconosceva allora (e si riconosce anche oggi che le condizioni del clero ortodosso [p. 70 modifica] sono assai migliorale per ciò che riguarda la cultura sì ecclesiastica che profana) la superiorità dei prelati cattolici assai più istruiti dei popi ortodossi e non di rado scienziati di gran fama ed eruditi profondi; sicché dalla loro conversazione cercavano ritrarre il maggior profitto possibile, giungendo fino ad informarsi di opere puramente religiose, qualcuna delle quali, come per esempio Il Giovane istruito ne’ dogmi cattolici, nella verità della religione cristiana e sua morale di Geminiano Gaetti, adattavano volentieri senza tanti scrupoli alle esigenze della loro cultura ecclesiastica. L’opera fu tradotta infatti in greco da un Antoniu Manoil din Moldova ed era posseduta intorno al 1886 dal Metropolita di Moldavia Iosif Naniescu che la faceva rilegare elegantemente ed imprimer sulla costola: Triumful Credinței ortodoxe de Antoniu Manoil din Moldova. Orbene è assai probabile che, Ienachita Văcărescu (che il 1782, all’epoca cioè della sua prima gita a Brasov, esortava il Manoil a tradurla dall’italiano); ne avesse avuto notizia da qualche prelato cattolico e italiano col quale, data la sua conoscenza della lingua italiana e la simpatia ch’egli mostra per l’Italia, non è poi strano che fosse in relazione. Così pure è da ritenere che lo zampino di qualche religioso italiano91 entri per qualcosa nel desiderio che lo Stolnic Constantin Cantacuzino mostra (in una sua lettera del 1694) al generale geografo Luigi Morsigli d’avere un esemplare del Penitente istruito del nostro Segneri, la fama del quale, all’epoca del viaggio del Cantacuzino a Padova (1667— 69) non riposava che sui Panegirici (1664) ed era quindi ben poca e povera cosa92È ad ogni modo diretta a un vescovo italiano un’altra lettera (1847) ben più importante al caso nostro di un giovane [p. 71 modifica] boiero di Fălticeni (Vasile Florescu) che desidera da Mons. Antonio Sardi un vocabolario per certe sue traduzioni dal francese in italiano e viceversa, che ce lo mostrano seriamente applicato allo studio delle due lingue. Da una lettera del Sardi pubblicata dal Iorga nel vol. „que vos hallaredes que se escribe”93 de’ suoi Acte și documente privitoare la Istoria Românilor risulta come il buon vescovo si affrettasse a compiacere il giovine „boiero”, e, invece d’uno, gli mandasse due vocabolarii.94 [p. 72 modifica] Disgraziatamente non ne sappiamo altro e le traduzioni che il Florescu si proponeva di fare, non ci sono arrivate, sicchè la nostra curiosità resta insoddisfatta, dopo un così ghiotto solletico, qual’è il frammento di corrispondenza sopra accennato. Ciò che è degno di tutta la nostra attenzione è a parer mio il fatto, che, fino a quell’epoca, l’italiano conserva sul francese una certa supremazia nei due Principati rumeni, come appare da una traduzione delle Aventures de Tèlèmaque fatta da Petru Maior intorno al 1818 di sulla traduzione italiana piuttosto che dall’originale francese. È vero che Petru Maior era un rumeno di Transilvania e che anche oggi è difficile trovare in Transilvania chi possegga anche mediocremente la conoscenza della lingua e della letteratura francese; ma in Valachia il fenomeno di un libro tradotto successivamente dal francese in italiano per quindi esser di nuovo tradotto dall’italiano in greco e finalmente dal greco in rumeno (come avvenne per quelle tali Massime degli Orientali di cui ci parla il Del Chiaro); non è nuovo e ci mostra a chiare note come fra le lingue straniere parlate alla corte del Bràncoveanu il greco tenesse (naturalmente) il primo posto, l’italiano il secondo ed il francese, ora padrone assoluto nei salotti rumeni dell’alta e bassa borghesia, soltanto il terzo posto! Ciò può darci qualche lume sulle traduzioni dal francese in italiano del Signorotto di Fàlticeni, che, del resto, potevano essere non altro che esercizii grammaticali per impadronirsi contemporaneamente delle due lingue! Lasciamole dunque al loro destino di esercitazioni scolastiche e passiamo a dar qualche notizia più ampia del famoso Giovane istruito.

η) Il „Giovine istruito” di Geminiano Gaetti.

Del suo autore Geminiano Gaetti non saprei dirvi se non che il suo Giovine istruito ne’ dogmi cattolici95, non è che una specie di Enciclopedia di tutto lo scibile, o, come dice l’autore „selva di materie diverse”, in cui, incominciando da un trattato [p. 73 modifica] de’ dogmi cattolici e della morale evangelica (Cap. I), si prosegue con un trattato di Geografia (Cap. II), uno di Storia sacra e profana (Cap. Ili), ai quali ne tengon dietro altri sei intorno alle operazioni dell’Anima (Cap. IV), alla Filosofia Naturale (Cap. V), al Meccanismo de’ corpi animati (Cap. VI), ai Vizj del meccanismo ossia dei Morti, e della maniera di rimetterli (Cap. VII), ai Fossili e Minerali (Cap. VIII), alle Meteore (Cap. IX), ed altri cinque nel secondo volume, nei quali si tratta della Fisica sperimentale (Cap. I), della Elettricità (Cap. II), dell’Astronomia (Cap. Ili), della Religione, Divinità e Misterj del Paganesimo (Cap. IV), ed infine de’ Fondamenti della Religione cristiana, esponendo e confutando le dottrine de’ Materialisti, Spiriti forti ed Increduli. Altro che „selva di materie diverse” ! Ce n’è d’avanzo per una enciclopedia in venti volumi in folio! Ma il nostro Geminiano non si sconfida. Egli ha il genio della discrezione e la mano felice nella scelta. Poche notizie e chiare. Un’infarinatura tanto perchè chi si affida alla sua guida spirituale n.on abbia a scomparir di troppo in società; uno stile facile e scherzoso, bando completo alle cifre, anche dove, come p. es. nel capitolo consacrato all’Astronomia, penseremmo doverle di necessità incontrare; quattro confutazioni alla brava ed alla spiccia delle odiate teorie degli „spiriti forti” ed il libro è fatto, stampato e pubblicato. Il Marchese D. Bartolommeo d’Onofri, Maresciallo di Campo e Maggior Generale degli Eserciti della Maestà del Rè delle due Sicilie, di un figliuolo del quale il Gaetti era stato „direttor ovverosia aio o istitutore”; sarebbe andato in sollucchero al solo legger l’elaborata dedicatoria, in cui il „direttor” del suo rampollo lo assicurava esser l’opera sua „scritta e impressa più che in quelle sue carte, nella mente del suo graziosissimo Figliuolo, del quale Gli era piaciuto destinarlo ad essere il direttor, e il custode”, e non avrebbe domandato altro. Sarebbe stato d’altronde possibile, quando il Gaeti asseriva contenersi nel suo libro „ tutti... in maggior parte li semi, che a formar ed a crescere sì nobil Pianta, nelle private quotidiane istruzioni” egli aveva „in esso lui sparso e coltivato; avendo sempre adoprati li mezzi tutti più proprj e più efficaci per allettarlo ad attendere a i letterari esercizj, da’ quai dipende l’acquisto della Religione, dei sentimenti d’onore, di pietà, di prudenza, d’umanità, di giustizia, e di quei tanti vantaggi, che nelle sole virtudi, e nelle [p. 74 modifica] scienze ritrovansi; onde chi li possiede può con ragione stimarsi perfettamente felice”? Certo che no. Saremmo però ingiusti col Gaetti qualora non riconoscessimo le svariate e chiare nozioni ch’egli doveva pur possedere intorno a cose assai disparate, perchè gli fosse possibile venire a capo di un’impresa assai meri facile di quanto non si creda, e venirne a capo in modo assolutamente soddisfacente per ciò che riguarda la chiarezza dell’espozizione ed il criterio, con cui è fatta la cernita delle cognizioni fondamentali e sicure da quelle secondarie e malcerte. Come però sia potuta l’opera sua giungere fino in Rumania e nelle mani d’un prelato rumeno, non potremmo spiegare altrimenti che col suo carattere ecclesiastico (più ostentato invero che reale) e col bisogno, che, in quell’epoca di risorgimento dell’interesse scientifico in Rumania, poteva offrire quella specie di Summa del sapere contemporaneo, ad una società desiderosa (come del resto quella italiana96 di quell’epoca) d’istruirsi senza troppa fatica, superficialmente d’ogni cosa. Sappiamo che fu Ienăchiță Văcărescu ad esortare il Manoil a compier la traduzione di quest’opera, quando il 1773 si recò a Brașov con un incarico diplomatico presso la Sacra Cesarea Maestà di Giuseppe II, tra il quale e i boieri rumeni suoi compagni nell’ambasceria suddetta, fece anche da interprete parlando in italiano 97 Tro[p. 75 modifica]viamo infatti la traduzione del Manoil dedicata proprio a lui (τῷ πανευγενεστάτῳ κυρίῳ Ἰωάννῃ Βακαρέσκουλῳ) il che ci conferma nell’opinione espressa dal Iorga,98 che al Văcărescu risalga il merito di aver confortato il Manoil ad intraprendere il non facile compito. Ritengo per certo che il Văcărescu ne avesse notizia anche prima, giacché non mi par concepibile che a Brașov, dove s’era recato per ragioni politiche della più alta importanza avesse il tempo e la voglia di mandar giù i due non piccoli volumi del Giovine Istruito; ma anche ciato e non concesso che ne avesse appresa l’esistenza dalla bocca stessa del Manoil, e non avesse fatto altro che incoraggiarlo ad eseguire una traduzione che il Manoil aveva già in animo d’intraprendere; non è interessante il vedere a Brașov, attorno alla persona del monarca che aveva messo di moda la nostra lingua alla Corte di Vienna, il „boiero” rumeno entusiasta del Metastasio (Ienăchiță Văcărescu) ed il greco allievo dell’Università di Padova (Ἀντόνιος Μανουήλ) comunicare in italiano coll’imperatore e concertare insieme la traduzione d’un libro italiano?

A titolo di curiosità bibliografica riportiam qui il titolo della traduzion greca del Manoil:

[Biblioteca Acad. Române. A. 5591.]


ΤΡΟ´ΠΑΙΟΝ | ΤΗ῀Σ | Ο᾿ΡΘΟΔΟ´ΞΟΣ ΠΙ´ΣΤΕΩΣ. | ΠΟ ´ΝΗΜΑ | Α᾿ΝΤΟΝΙ´ΟΥ ΜΑΝΟΥΗ`Λ | ΤΟΥ῀ Ε᾿Ν | ΜΟΛΔΟΒΛΑΧΙ´Α, | ΜΕΓΑ´ΛΟΥ ΣΕΡΔΑ´ΡΗ ΧΡΗΜΑΤΙ´ΣΑΝΤΟΣ. | Τὰ μὲν ἐν τῷ κειμένῳ μεθαφρασθέντα ἐξ Ἰταλικοῦ, τὰ δὲ ἐν | τοῖς σημειώμασι συλλεχθέντα ἐκ διαφόρων Ἐκκλησιαστικῶν καὶ ἐξωτερικῶν Συγ | γραφέων, καὶ προσφυῶς ἐφαρμοσθέντα πρὸς ἁπόδειξιν τῆς ἐυσεβείας, | καὶ ἀναίρεσιν τῶν φληνάρων δυσσεβῶν. | Νῦν πρῶτον τύποις ἐκδοθὲν, δαπάνῃ τοῦ αὐτοῦ καὶ ἀφιερωθὲν | ΤΩͺ῀ ΠΑΝΕΥΓΕΝΕΣΤΑ´ΤΩͺ Α᾿ΡΧΟΝΤΙ | ΜΕΓΑ´ΛΩͺ ΣΠΑΘΑ´ΡΗͺ | ΙΩΑ´ΝΝΗͺ ΒΑΚΑΡΕ´ΣΚΟΥΛΩͺ. | Συνδρομῇ δὲ καὶ φιλοπόνῳ σπουδῇ, τοῦ τιμιωτάτου ἐν Πραγματευταῖς | ΚΥΡΙ´ΟΥ ΔΕΜΗΤΡΙ´ΟΥ ΠΑΥ´ΛΟΥ | Εὐπατρίδου, τῆς ἐν Ἡπείρῳ πρωτευούσης πόλεως | Ι᾿ΩΑΝΝΙ´ΝΩΝ. || Ἐν Βιέννῃ τῆς Ἀουστρίας, 1791. | Ε᾿Κ ΤΗ῀Σ ΤΥΠΟΓΡΑΦΙ´ΑΣ Ι᾿ΩΣΗ´Φ ΤΟΥ῀ ΒΑΟΥΜΑΥΣΤΕ´ΡΟΥ. [Esemplare riccamente rilegato in pelle [p. 76 modifica] nera con fregi d’oro. Sulla costola: „Triumful Credinței ortodoxe de Antoniu Manoil Din Moldova. In Grecește. ”Sulla copertina anteriore una croce col titolo dell’opera: Τρόπαιον τῆς ὀρθοδόξου πίστεως. Su quella posteriore: „Iosif Neniescu Mitropolitul Moldovei, 1886”.]99

θ) „Il penitente istruito” del Segneri.

Di parecchio anteriore a codesta traduzione in greco del Giovine istruito, è quella assai più importante, perchè scritta in rumeno, che Samuil Micu (o Klein, secondo la forma tedesca ch’egli stesso dette al suo casato) fece dell’opera del Segneri Il Penitente istruito (1691) col titolo cambiato in „Povățuire către cel ce se pocăește”, che il Marsigli spediva al Cantacuzino ed il Iorga attesta dietro testimonianza del Bălăceșcu essersi stampata „più volte a Bucarest ed a Buzau senza indicazione [p. 77 modifica] del nome del traduttore” 100. L’epoca alla quale codesta traduzione deve forse risalire è compresa fra gli anni 1694 e 1716, nel primo dei quali troviamo il Cantacuzino in relazione epistolare col generale Marsigli; nel secondo il povero Stolnic perdeva miseramente la vita, strangolato a Costantinopoli insieme col figliuolo Ștefan-Vodă caduto in disgrazia della Sublime e sospettosa Porta Ottomana. Per quanto però mi sia adoperato a tutt’uomo per aver nelle mani codesto trattatello, non mi è riuscito non solo di rinvenirne alcun esemplare, ma neppure alcuna notizia bibliografica, dalla quale risulti pubblicata innanzi il 1834. La diligentissima Bibliografia românească vechie di I. Bianu e Nerva Hodoș non ne fa infatti menzione e solo il Iarcu 101 la registra sotto l’anno 1834 col titolo di: „Către cel ce le quali erano destinate unicamente a tener cura di codeste figure; a studiare l’uso che occorreva di farne, e presentarle al pubblico, secondo le occasioni, per gli adeguati avvertimenti al popolo.

(Op. cit., pp. 5-6 del vol. IV dell’ed. napoletana del 1836). ἔπρεπε νὰ ἐργάζωνται εἰς ὅλον τὸν χρόνον· ἡ μεταχείρησις αὐτῶν τῶν συμβόλων ἀνεφέρετο εἰς τὸν δρόμον τοῦ Ἡλίου, εἰς τὴν διάταξιν τῶν [p. 30] ἑορτῶν ὅλου τοῦ χρόνου, καὶ εἰς τὰς κοινὰς ἐργασίας, ὁπου ἔπρεπε νὰ γένοσι· τούτου ἔνεκεν ἐδιώρισε καὶ μίαν τάξιν ἀνθρώπων νὰ φροντίζωσι μόνον διὰ αὐτὰ τὰ ἀγάλματα, καὶ νὰ σπουδάζωσι τὴν μεταχείρησιν τούτων, εἰς τὸ νὰ τὰ καλλωπίζωσι δηλαδὴ, καὶ νὰ τὰ παραστήνωσιν εἰς τὸ κοινὸν ἠμφιεσμένα κατὰ τὰς αἰτίας, ὁπου ἔπρεπε νὰ διδάξωσι τὸν λαόν.

(Op. cit., pp. 25-30)

</ref> [p. 78 modifica]se pocăesce (povățuire) in 4°, pp. 62, În zilele Mitropolitului Grigorie Episcop Chesarie de S. Klein, Buzău, 1834, ed. N. Bâțeu”. Di edizioni anteriori non ho notizia ed è assai probabile non ce ne sieno state, malgrado, come s’è visto, l’opera dovesse esister manoscritta fin dai tempi del Marsigli e del Cantacuzino (1694— 1716).

ι) Catechismi. — P. Vito Piluzio da Vignanello.

A non parlare di altri tre catechismi del 1636, 1692 1702, due dei quali rappresentano una naturai conseguenza dell’„unione” per la quale una buona parte dei rumeni di Transilvania ritornarono nel grembo della Chiesa Cattolica; l’altro (quello cioè detto di Cluj del 1702) una iniziativa particolare dei gesuiti; trova qui il suo posto (in quanto è dovuto anch’esso alla non breve permanenza in Rumania di un prelato italiano) il curiosissimo Katekismo Kristinesko di Monsignor Vito Piluzio, nostra vecchia conoscenza. È intitolato, secondo leggiamo nella Bibliografia Româneascà Vechie (I, 216) e noi stessi abbiamo potuto riscontrare sull’esemplare 11. 102 regalato dal Picot all’Accademia Rumena:

DOTTRINA

CHRISTIANA

TRADOTTA IN LINGVA

VALACHA

DAL PADRE

VITO PILVTIO

Da Vignanello Minore Conuentuale

di S. Francesco

IN ROMA, Nella Stamperia della

Sac. Congr. de Propag. Fide. 1677.


Ne diamo qui un piccolo estratto, accompagnandolo con una traduzione in ortografia e lingua rumena meno barbara di quella [p. 79 modifica]usata dal nostro missionario, cui la lunga residenza in Moldavia non era valsa di certo a dare una cognizione sufficiente della lingua che pretende di scrivere:

          Katekismo           Catechism
          Kriistinesko.           Creștinesc.
D. Iest tu krijsteno? Î. Ești lu creștin?
V. Simpt pre mila lui Dumnedzeu. R. Sunt, pre mila lui Dumnezeu.
D. Cie arata Krijtijnului? Î. Cine se arată Creștin?
V. Acela care cine kredença szij ledzce krijtineska. R. Acela care ține credința și legea creștină.
D. Kum se entzlege kredença à lui Krijstos? Î. Cum se înțelege credința lui Christos?
V. En doe Taine, kari simpt enkisi en semn Kruci, azse iest, en euneciune szij Troica lui Dumnedzeu; szij entrupare, szij morte à Ispasitorul nostra. R. În două Taine, care sunt închise în semnul Crucii, adică în unitatea și Treimea lui Dumnezeu; și întruparea și moartea a Ispășitorului (Mântuitorului) nostru.
D. Cie iest euneciune, szij Troica lui Dumnezeu? Î. Ce este unitatea și Treimea lui Dumnezeu?
V. Arata, ke en Dumnedzeu iest numai ò Dumnedzeria, kare iest ent tri kipuri Durnnedzereski, szij se kieman: R. Arată, că în Dumnezeu este numai o Dumnezeire care este în trei chipuri: Tatal, Fiul și Duhul Sfânt.
Tatui, Fiul, szij Dukul Suijnt D. Pentr’acie simpt tri Kipuri Dumnedzereski? Î. Pentru ce sunt trei chipuri Dumnezeeşti?
V. Kecie Tatul nu k’are encepitura, nici ine della nime. Fiul ine de la Tatui. Szi Dukul Suijnt de la Tatul szij de la Fiul. R. Căci Tatăl nu are începătură, nici vine de la nimeni. Fiul vine (purcede) de la Tatăl. Și Duhul Sfânt de la Tatăl și de la Fiul..

Il Gaster (Chrestomathie, XLVI) si limita qui ad osservare, per ciò che riguarda la lingua davvero curiosa in cui il Katekismo è scritto, che „dialectul se apropie de cel moldovenesc: se vede [p. 80 modifica] că Piluzio a trăit o vreme oarecare in Moldova”103; V. A. Urechie però osserva con ragione che „multă carte românească nu scia Piluzzio (sic) judecând dupa opera lui”, ed aggiunge che Papa Clemente XIV decretò „că misionarii catolici să fie supuși, după șése luni de ședere în o țéră, la esamen de limba acelei țeri și de nu o vor sci, să fie isgoniți de acolo.”104.

Ad un tale esame, (e sia pur contro l’opinione del Gaster, che mostra di prender sul serio il dialetto (!!) del Monsignore italiano spropositante) ci permetteremo di ritenere che il Piluzio avrebbe toccato una solennissima bocciatura! Buon per lui che il decreto del Papa uscì qualche anno dopo la pubblicazione del suo capolavoro italo-moldavo-dialettale-ciuchesco! Altrimenti addio visite apostoliche in Moldavia, addio conversazioni cavoiacee con Miron Costin! Tanto più che, a farlo apposta, quel decreto si direbbe ispirato a Clemente proprio dal suo Katekismo!

Ma sarà tempo di dir qualcosa di questo Monsignore, ch’è (ironia della sorte!) considerato oramai come uno dei più antichi e perciò interessanti scrittori rumeni, ed il cui Katekism con tutti i suoi spropositi, trova posto persin nei manuali scolastici di letteratura rumena. V. A. Urechie ne tratteggia così la biografia: „Nel Memoriale della Chiesa Cattolica di Iași è segnato col nome di Vito Piluzzio (sic). Nacque a Vignanello e fu (sempre secondo il citato memoriale) due volte prefetto della Chiesa cattolica di Iași: la prima nel 1769, il 1683 la seconda.” La sua missione in Rumania si collega ad una serie di fatti che conviene brevemente esporre. ,,Verso il 1644, travolto a quanto pare anche lui nel movimento culturale promosso dal Metropolita Varlaam e da Vasile Lupu Vodă, l’Arcivescovo di Marcianopoli [cioè, a quanto pare, Mons. Marco Bandini] ch’era pur anco Visitatore Apostolico della Moldavia, si decise ad aprire a Iasjd una scuola di confessione cattolica, per contrapporla a quella ortodossa voivodale ed alla propaganda calvinista. A tale scopo fece venire dei gesuiti a prendere il posto dei Conventuali, ai quali fino allora era stata [p. 81 modifica] affidata la propaganda cattolica in Moldavia. Ma tali disposizioni del Bandini non andarono a genio al Voda, onde il Papa „dietro favorevoli relazioni del Principe” ordinò (1646) che i gesuiti fossero scacciati e fossero restituiti i Conventuali nell’amministrazione delle Chiese cattoliche ad essi per lo innanzi affidate. Si dette, continua il Memoriale, il caso d’una nuova invasione dei gesuiti in Moldavia (1653); „ma“ constata con non dissimulata soddisfazione il conventuale autor di quelle pagine „noi rientrammo una seconda volta nel 1677, chiamati dal Principe e dal popolo”. La data del ritorno dei Conventuali è anche quella della missione affidata a Vito Piluzio, che, essendo senza alcun dubbio a giorno del movimento religioso promosso dal Metropolita Varlaam e della propaganda che i Calvinisti facevano in Transilvania, sentì il bisogno di fissare i dommi per i fedeli cattolici di nazionalità rumena. Perciò scrisse (o tradusse) in rumeno il Catechismo cattolico e lo stampò a Roma... nella stamperia della Sacra Congregazione De Propaganda Fide.”105. Dobbiamo al prof. I. Bianu se a queste magre notizie dell’Urechie possiamo qui aggiungerne delle altre che ci permettono ricostruir almeno in parte la biografia del Piluzio. Nè solo per i documenti che lumeggiano l’attività dispiegata in Moldavia dal degno prelato è importante questo studio giovanile dell’erudito nostro collega, ma per le considerazioni importantissime che vi si rinvengono riguardo all’atteggiamento (tollerante nella maggior parte dei casi) de’ vari Principi rumeni, riguardo ai frati ed ai missionarii cattolici de’ loro stati; sull’importanza delle missioni Cattoliche in quanto fattori non trascurabili nella storia della cultura rumena, e, soprattutto, per lo specchio fedele che ci presenta dell’attività esercitata dal Piluzio negli anni della sua permanenza in Moldavia, delle condizioni del paese e dei rapporti intercedenti tra il clero cattolico, il Voda e i potentati limitrofi alla Moldavia. Dai documenti dunque pubblicati dal Bianu, risulta come il Piluzio fosse „una prima volta inviato in Moldavia intorno al 1653” e vi rimanesse per lo spazio di 10 anni, cioè fino al 1663, quando lo troviamo di nuovo al suo paese nativo di Vignanello, nominato prefetto delle missioni in Moldavia, ed alla vigilia della sua partenza alla volta di questa [p. 82 modifica]regione. Dopo sette anni passati da lui in tale ufficio, e durante i quali risiedette quasi costantemente a Baia dov’era la sede della sua prefettura, desidera (1670) ritornare in Italia, stanco delle difficoltà che gl’impedivano il disimpegno della sua missione, della gravezza del carico assuntosi ed amareggiato fors’anche per altri motivi”, quali p. es. l’indifferenza e le lungaggini burocratiche della Congregazione di Propaganda Fide, e, più ancora, gl’interni dissensi, le gelosie e le rivalità nascoste e palesi che travagliavano a que’ tempi il clero cattolico in Moldavia 106. „Nel medesimo anno (1663) manifesta alla Congr. De Prop. Fide il suo desiderio d’esser nominato vicario apostolico nella diocesi di Bacău”, secondo gli era stato promesso a Roma sette anni prima „da molti Prelati e praesertim dall’Emin-mo Sig. Card. Chigi...” che sarebbe ritornato „in Moldavia per triennium e „doppo sarebbe ritornato con dichiararlo in qualche Chiesa... Se poi” — aggiunge Mons. Vito — „vogliono honorar la sepultura, faccino quello Iddio ha determinato.” Quanto a lui „ritrova scritto che dignus est operarius mercede sua" 107. Non decidendosi la Congregazione a richiamarlo e neppure a promuoverlo, malgrado che „da tutta la Provincia” egli, il Piluzio „fosse conosciuto, e amato, e l’istesso Principe e Popoli” volessero „scrivere a S. Santità per questo effetto” (p. 157); allegando „una grand’infirmità... occorsagli in pericolo di vita” e parendogli „d’aver servito a sofficienza per spazio più di 17 anni”, il nostro Monsignore pianta baracca e burattini e se torna a Vignanello senza dimenticare di passar prima per Roma, dove certo si recò più d’una volta nei sette anni che rimase in Italia. Nell’ultimo dei quali (1677), quando già era ormai sicuro di ritornare „con altra voce” in „quelle parti... barbare” 108, [p. 83 modifica]stampò a Roma in fretta e furia (com’avvien sempre purtroppo delle pubblicazioni redatte all’unico scopo di servir da titolo nei concorsi) il suo Katekismo Krüstinesko. L’anno prima Urbano Cerri scriveva infatti a Papa Innocenzo XI, raccomandandogli di mandare a Bacovia „con Carattere di Vescovo in partibus... il P. Vito Pilutij, che vi è stato 23 anni con gran sodisfazione di quei Popoli.”109 Così avviene che nel 1679 lo troviamo (ancora a Vignanello ma pronto a far le valige per il non breve viaggio) insignito del titolo di Arcivescovo di Marcianopoli. Nel giugno del medesimo anno, è già arrivato a Vienna, e, nell’ottobre, lo troviamo bell’e istallato nella sua residenza episcopale di Bacău, dove rimase fino al 1687, „quando lasciò per sempre la Moldavia” e prese per l’ultima volta la via del ritorno in Italia. Il 23 marzo di quell’anno, era infatti a Lemberg ed il 25 settembre a Vignanello, donde scrive l’ultima lettera per raccomandare un missionario ch’era stato con lui in Moldova ed ora ne ritornava „per non havere da mangiare, et anco per infirmità.” 110 Uomo di non grande ingegno e di minore cultura, Vito Piluzio adempì ciò non di meno assai bene all’ufficio commessogli, ispirando simpatia e fiducia a Principi tutt’altro che favorevoli alla propaganda cattolica, della quale anzi qualcuno111 fu fiero persecutore112. Non privo di ambizione, lo vediamo, è vero, brigar presso la Congregazione per ottenere il vescovato di Bacovia, ma lo vediamo anche soffrire la fame113 con coraggiosa e cristiana umiltà. D’altronde il vescovato ch’egli chiedeva era tutt’altro che un [p. 84 modifica]canonicato nel senso gaudente della parola. Le condizioni deila Moldavia erano quanto è mai possibile immaginare tristi e infelici, e ben le conosceva il Piluzio che 12 anni prima riferiva a Roma „lo stato miserabile di quelle parti barbariche... ridotte a tal termine dalle continue invasioni di Turchi e Tartari, che... sono astretti li Popoli a fuggir’ in altre parti, per non poter soffrire le loro miserie e calamità.” Nè ignorava che a Bacău la cattedrale, dove avrebbe solennemente pontificato, era „una stanza di legno, ove si faceva la Cucina” e non possedeva che paramenti sacri „tutti vecchi” e tre sole campane, con „dui114 calici, uno rotto”115! Perchè dunque desiderava tanto ritornarvi arcivescovo? L’ambizioncella ecclesiastica di fregiarsi della croce e dell’anello episcopale non basta forse a spiegar tutto. Chi sa? Malgrado chiamasse barbare quelle regioni, tra le quali aveva pur passato quasi trent’anni della sua vita operosa, quando poi n’era lontano, ne sentiva la nostalgia ed il richiamo! Molto s’era affaticato il buono agricoltore a seminare: non avrebbe visto almeno biondeggiare la messe? E poi...insieme con i giorni tristi, gli tornavano alla memoria, là nell’arida solitudine di Vignanello, dove ormai poteva dirsi uno straniero, i giorni, belli e santi, pieni della gioia del dovere compiuto; le liete conversazioni coi boieri ospitali, i ricevimenti sontuosi alla Corte del Voda, gli usi e i costumi di quel popolo infelice, le sventure del quale lo rattristavan quasi sventure sue proprie116; rivedeva i boschi magnifici tutti pieni di sorgive e di leggende, le praterie smaltate di fiori, su cui le contadinelle vestite a festa dei lor vaghi costumi orientali dansavano coi giovanetti robusti la hora; riudiva la musica triste ed evocatrice della doina; e il cuore gli fuggiva al dolce paese straniero che poteva ben gratificare dell’appellativo di barbaro nelle sue lettere al Segretario di Propaganda, nella speranza d’impietosirlo e di ottener finalmente il premio dovuto alle sue fatiche; ma che amava al punto da non sapersene vedere neppure un momento lontano! Pace a lui [p. 85 modifica]dunque e al suo Katekismo, che, se non è un capolavoro di lingua e di stile rumeno, non ha neppur mai preteso di esserlo. Il caso ha voluto, che, nella estrema povertà di documenti letterari antichi, l’operetta raffazzonata in pochi giorni dal Piluzio, per mostrare a giudici, ch’egli sapeva incompetenti, la conoscenza ch’egli credeva avere della lingua valacca parlata nella diocesi della quale chiedeva il seggio archiepiscopale; fosse ritenuta come una delle più antiche e interessanti scritture letterarie rumene e compresa persino nell’antologia del Gaster.

Il che non vuol dire che Mons. Piluzio non farebbe tanto d’occhi se vivesse e potesse legger le sottili disquisizioni che i filologi non si peritan di fare sul dialetto moldavo, in cui egli, il nominato Vito Piluzio da Vignanello Minore Conventuale dell’osservanza di S. Francesco, si sarebbe presa la briga di scriverlo!

κ) Le „Conciones latinae-muldavo” del P. Silvestro d’Amelio da Foggia.

Infine sarà da ricordare un grosso volume di Conciones latinae muldavo, quibus..., in dominicis aliisque festis infra annum occurrentibus..., possunt uti Missionarii, dovuto al padre Silvestro D’Amelio da Foggia, il cui ms. si conserva nella Biblioteca dell’Accademia rumena sotto il No. 2882, e, nell’avvicendarsi del latino e del rumeno, rammenta i famosi frammenti di Valenciennes, dove allo stesso modo il latino biblico si avvicenda coll’antico francese. Ha la data del 1725; ma le prediche risalgono senza dubbio a qualche anno prima, quando il D’Amelio era ancora prefetto apostolico di Moldavia, Valacchia, Tartaria e Transilvania. Secondo la lista dei Prefetti delle Missioni di Moldavia, pubblicata del Iorga in appendice al secondo volume della sua Istoria Bisericii Românești si a vietii religioase a Românilor (Vălenii-de-Munte, 1909, p. 325), il D’Amelio avrebbe retta quella Prefettura dal 1718 al 1724, il che ci vien confermato dal nostro ms., in cui l’autore, firmandosi Muldaviae olim Prafectus, ci dà chiaramente a intendere come il 1725 non fosse ormai più in carica. A giudicar poi dalla perfetta conoscenza che in queste sue prediche mostra del rumeno, non possiamo verosimilmente ascriverne la composizione al primo anno della sua residenza in Moldavia. Probabilmente però fin dal 1719, il D’Amelio, (che, come tutti i Missionarii, non doveva ignorare almeno gli elementi [p. 86 modifica] della lingua, in cui avrebbe dovuto predicare, e potè quindi, dopo un anno di residenza in Moldavia, essere già in grado di farsi capire alla meglio); dovè provarsi a metter sulle carta, domenica per domenica, qualche appunto in rumeno de’ suoi sermoni festivi. I quali appunti, crescendo via via di numero e d’estensione, finirono, quando sei anni dopo il D’Amelio, ormai peritissimo del rumeno, li riprese tra le mani, col dare origine al grosso volume di prediche, di cui ci occupiamo al presente.

Malgrado, per quanto ve l’abbia accuratamente cercato, non mi sia riuscito scovarvi neppure uno di quegli accenni all’origine comune dei due popoli italiano e rumeno, che difficilmente oggi potrebbe mancare, pur nelle prediche del più intransigente dei predicatori cattolici italiani; credo opportuno riportare il titolo completo ed un estratto di questo interessante ms., che sì gli storici della letteratura rumena che i filologi, han mostrato fin qui d’ignorare, e di cui io stesso debbo notizia alla cortesia del Prof. Ion Bianu; perchè l’età relativamente antica cui risale, mi fa ritenere valga il prezzo dell’opera:

[Biblioteca Academiei Române. Ms. No. 2882]


Conciones Latinae Mvldavo, qvibvs, | qvia in Dominicis, alijs q: Festis infra | annvm occvrrentibvs ad licteram | possvnt uti Missionarij, hinc illas ha|bentes; Jnnvmerabilibvs sacrae scriptv|rae, Sanctorvmq: Patrvm Avctoritatibvs | locvpletatae, mvltisq: sacrarum, ac propha|narvm Historijs decoratae. Qvae omnes svnt | octogintaqvinqve; Et de materijs necessa|rijs a nemine (sic) usqvemodo, saltem ita ex pro|fesso tractatis; nec materiae, svnt ab Evan|gelijs cvrrentibvs alienae, sed omnes in|aliqva labentis Evangelij, et Epi|stolae propositione | svnt innixae. | avctore | R. P. F-re. Magistro Silvestro Amelio a Foggia Ordinis Minorum Sancti Francisci | Conventualium ex Prov: S. Angeli in Regno Neapolitano Missionvm Apostolica: |rvm per Moldauiam, Vallachiam, Tartariam, ae Transylvaniam olim Praefecto. Anno a Christo nato 1725.

[c. 2 r.] Sequentia Sancti Euangelij Secundum Lucam

Luc. 25.


In illo tempore: Dixit lesus discipulis suis: Erunt signa in sole Et luna, et in stellis, et in terris pressura gentium prae confusione sonitus maris, et fluctuum; arescentibus hominibus, prae timore et expectatione, quae supervenient universo orbi: [p. 87 modifica]nam virtutes coelorum monebuntur: Et Tunc videbunt Filium hominis venientem in nube cum potestate magna, et Maiestate. His autem fieri incepientibus, respicite, et Leuate capita vestra: quoniam appropinquat redemptio vestra. Et dixit illis similitudinem: Videte ficulneam, et omnes arbores: cum producunt iam Ex se fructum et scitis quoniam prope est aestas. Ita est vos cum videritis haec fieri scitote, quoniam prope ei (sic) regnum Dei: Amen dico vobis, quia non praeteribit generatio haec, omnia fiant. Coelum et terra transibunt: Verba autem mea non transibunt.


Muldauo.


Evangelije Sfyntae Pusae La sfaety (sic) Luka Kap. Duodzecie ë Cyncile. 25. Entracieie vreme: dzysae Isus Vcynicilor saei: Vor fi semne En sore, szy en Lunae szyn Stele, szy praepaemaent sprë Ominylor de Vrletul Maerei: szy tulburaetura Valurylor sei: vesztedzyndusae Ominij dë Frika, szy asztaeptatul acielora Karië sae adziungu sprë toatë lume Kaetaeryle Cieriuluj sae vor claety: szy Atuncy vor vedë prë Fiul omenesk auiny Ennuaer kü marie putere szy slauae decie acieste enciepaendusae a fi vae arunkaz oky szy vae raedykaz käpetele Ensus117: kae sae vä apropijä Raeskumpaerare vostrae; szy le dzysae lor o ä saemnaeturae: (sic) kaeutaz smokynul, szy tozy kopaczyi: kae kaend aduk rodae den synae sztyzy kae iest vara aprope. Aszë szy voi En vreme a fi (sic) acieszte sae sztyzy kae ieste äpropë Empaeraezijë luj Dumnaedzaêu. Adeuaer szyk voae kae nü uä trecie niamul aciestu paenae nü vor fi toate. Cierul, szy paemaentul sae vor traece: Iarae vorouele mele nü vor traecie.

[c. 2 v.]Dominica Prima Adventus Domini.
Duminika entei A’ Vinire Domnuluj.

Rom: 13 :Hora est iam nos de somno surgere Etc. Vreme Ieste akmü anë skulä den somnü. His verbis, fratres charissimi, hortatur nos Apostolus, vt ad secundum Filij Dei Aduentum praeparemur. Kü acieste kuuynte në dae noae frazylor lubizy naestaü Apostolul, ka la a doae ä Fiuluj Dumnaedzaeu Vynire sae në gaetym. Duo quippe sunt Eius Aduentus visibiles. Doae synt Ensae âluj viniri vaedzute: primus praeterijt, secundus venturus est: ciel dentej au trecut, ädoaele Ieste vijtore. Primus fuit in humilitate, secundus erit in majestate. Ciel dentij aufost Entru smerenije, adoa a fi Entru maerire. Primus fuit occultus, secundus erit apertus. Cie (sic) dentij ari fost pë askuns, Adoa a fi deskisae. Primus misericordiae fuit: secundus erit iustitiae: Cië dentij au fost ä smerenije: Adoa a fi a dreptaezaei, In primo}} [p. 88 modifica]venit Iudicandus, in secundo veniet iudicaturus. Entrucië dentij Au vinit dzudekand: La adoa ä vini dzudecatoriu. In primo venit vocare peccatores per misericordiam: In secundo veniet reddere unicuique quod meruit per iustitiam: Entrucië dentij Au vinit ä kiëmare paecatoszij pren milostiuire: La adoa â vini sae le raesplaetiaeska kaeruieskuj cië lau vrednicit pren dreptate. Ad hunc ergo vigilanter expectandum exhortatur nos Apostolus hoc modo: Kaetrae acisata darae kü parae asteptendul në dae noae naestau Apostolul entru ciest kip. Primo monet nos surgere â somno: secundo subdit causam quare cito surgendum sit. Terlio ostendit quomodo ab isto somno surgatur. Entij në spune noae sae në skulem den somnu: adoa pune pricyna dë cië trebuië kurund A sae skulä. â Treie aratae en cie fel trebuië â sae skulä dentra ciest somnu. Monens ergo nos surgere ait: Hora est iam de somno surgere. Spuiendune darae noae sae në skulem dzicie: Vreme iest eakmü noae â në skulä din somnu. In quo, fratres, considerandum nobis est quis sit iste somnus et quae sit hora surgendi. Entrü karele frazylor trebuië ä sokoty noae karele sae fijë somnul aciesta, szy karië sae fijë ciasul dë skulat. Est autem somnus triplex: Primus est naturae, secundum mortis, tertius peccati: Ieste ensae somnul de trij feliury: ciel dentij ieste ä firei, al doile ä Morzaei, al trijle ä paecatuluj.

Thes. 1.4: De primo dicit Poeta: quod caret [c. 3 r.] Alterna requie durabile non est. De secundo dicit Apostolus. Nolo vos ignorare fratres, de dormientibus, ut non contristemini sicut et caeteri qui spem non habent. Dë ciel dentij dzycie Poetikul: kae ij lipsae dë alte odihne szy traeitore nü ieste. Dë al doile dzicie Apostolul nü voi sae fak sae nü sztytyzy dë kaetrae cij cië dormu frazylor, sae nü vaemaehnizy, ka szy cijë Corpora nostra moriendo non pereunt sed mutantur in melius. Ioan. ii. lalzy karij n’au nedezde kiemend morzij cij cië dormu: vocans mortuos dormientes: quoniam Deo non pereunt corpora nostra moriendo, sed mutantur in melius: quoniam quantum facile est alicui excitare dormientem, iam facile, imo facilius est Deo excitare defunctum. Unde ipse Dominus ait: Lazarus amicus noster dormit sed vado ut a somno excitem illum. Kae La Dumnaedzaeu nü pieru trupurile murynd cië sae skimbae mai bine kae kaet. (sic) Ieste de lesne kuiva adestaeptä pë ciel cië dorme, Aszë de lesne szyncae (= și încă) mai lesne Ieste luj Dumnaedzaeu ä destaeptä pë ciel mortu. Ephes. 5 Vnde ensus Domnul dzycie. Lazar fratele nostru dorme, cië më duk sael destept din somnu pe dynsul.


λ) Altri contatti ecclesiastici.

L’economia del presente lavoro non ci permette di menzionare altri prelati italiani, che del loro passaggio attraverso le fertili terre della Rumania lasciarmi qualche non ispregevole ricordo in relazioni e lettere, di cui gli studiosi dei rapporti [p. 89 modifica]italo-rumeni potranno sempre notevolmente avvantaggiarsi, tanto più che si trovali raccolte nei voli. I, I 1, II e III della Collezione Hurmuzaki. Citeremo ad ogni modo quelle (1594 — 1597) di Cesare Speziano nunzio papale in Germania, e di Fabio Genga al Cardinal di S. Giorgio e a Clemente VIII intorno all’entrata dei Tartari in Moldavia, e, più ancora, intorno alla lega che al Papa premeva di formare contro il Turco di tutte le forze cristiane. Verso la fine dell’agosto 1594, Fabio Genga informava infatti il Pontefice, che Sigismondo Bathory poteva contare sull’appoggio che gli daranno i Principi di Valacchia e di Moldavia, „le quali provincie sono state sempre pessimamente trattate dal Turcho”, onde „si hà a credere che, per non veder l’ultimo esterminio loro, et per il desiderio di vivere liberi, sieno per fare ogni sforzo possibile.” Lo Speziano, a sua volta, informa con rapporti quasi giornalieri i Cardinali Minucci e di S. Giorgio del progredire delle trattative, dell’arrivo dell’ambasciadore moldavo, che gli sembra „huomo molto di spirito”, della „irresolutione de’ signori venetiani”, e dell’intenzione dei Polacchi di chiedere „al Gran-Turco che... resarcisca li danni patiti da loro, quando li Tartari passarono in Ungaria... con dare alli Polacchi la Moldavia in pagamento.” Dello stesso Speziano ci restano lettere al Cardinale di S. Severo sull’irruzion dei Cosacchi in Moldavia che si attribuiva ad istigazione dell’Imperatore, ad Antonio Vignati sui progressi del „Transilvano contra al Turco”, al card. Doria e al nunzio pontificio Malvezzi sulla presa di Braila, al Bathory stesso infine per rallegrarsi „con tutto il cuore delli progressi” da lui fatti nell’impresa „et delle due provincie [la Valacchia e la Moldavia] guadagnate et tolte di bocca al nemico”. Seguono le relazioni di Monsignor Malaspina (14 novembre 1597) al Cardinale S. Giorgio intorno alla morte del card. Bathory, documento di capitale importanza per la storia dei rivolgimenti ungheresi di quegli anni, in cui Michele il Bravo conquistava con grandi difficoltà la Transilvania; di Mons. Bernardino Querini (1599) „intorno le cose del suo Vescovato”, di Benedetto Emanuele Remondi da Milano (1636) contenente l’enumerazione delle chiese cattoliche di Moldavia; del Bandini (1648), al quale chi più chi meno attingono un po’ tutti i missionarii e i Visitatori Apostolici posteriori; ed eccoci alla Informatione dello stato della religione cattolica in tutto [p. 90 modifica] il mondo di Urbano Cerri118 cui, se aggiungeremo due relazioni ancora inedite nei ms. l’F3 e l’F5 della Biblioteca Brancacciana di Napoli119, che risentono tutte e due l’influenza della relazione bandiniana, e il cui autore ci è rimasto ignoto; potremo ben dire di aver su per giù ricordate tutte, o quasi, le relazioni più importanti scritte da prelati italiani su cose che per un verso o per l’altro, riguardano la Rumania.

μ) Conclusione.

Risulta da quanto siamo venuti esponendo, come alla diffusione della cultura italiana in Rumania abbia contribuito in non piccola parte il clero, troppo spesso e con troppa ingiustizia accusato dagl’ignoranti e dai settarii di poco o nessun attaccamento alla Patria. Che ci siano stati momenti della vita politica italiana, in cui si è cercato imporre al clero un’attitudine ostile allo Stato, è purtroppo una triste verità, davanti alla quale convien piegare il capo; che in ogni tempo si sien trovati fra i sacerdoti d’Italia coscienze intemerate e salde, che, senza mancare al dovuto rispetto all’autorità, hanno informato la loro vita ai dettami del Vangelo, alimentando nel cuore la fiamma dell’amor patrio che nessuno ha il diritto di soffocare, è un’altra verità che nessuno vorrà attentarsi a negare. Per quanto poi riguarda l’opera efficacissima esercitata dalla Congregazione di Propaganda Fide, per la diffusione della cultura nel mondo, basta citare uno storico non sospetto di eccessiva simpatia verso il clero, Carlo Botta, che, dopo aver osservato come „Napoleone imperatore, al quale piacevano le cose che potevano muovere il mondo,...come aveva usato la religione per acquistare la signoria di Francia, così voleva servirsi della Propaganda per acquistar quella del mondo”, insiste sul fatto che l’opera di essa „non era sì ristretta...alla propagazione della fede cattolica in tutte le parti del mondo...che non mirasse a diffondere le lettere, le scienze e la civiltà fra genti ignare, barbare e selvagge; [p. 91 modifica] chè anzi una cosa aiutava l’altra, poichè la fede serviva d’introduzione alla civiltà, e questa a quella.” E poco appresso: „Seppeselo Degerando, il quale scriveva, che, per quanto alla politica s’apparteva, la Propaganda, recando in lontane regioni coi semi del nostro culto, i nostri costumi, le nostre opinioni, le radici delle idee d’Europa, la narrazione del regno il più glorioso, qualche cognizione delle nostre leggi e delle nostre istituzioni, preparando gli spiriti a certi avvenimenti, che solo s’apparteneva alla vastità dell’imperial mente a concepire, procacciando amici tanto più fidati, quanto più stretti da vincoli morali, e così ancora offerendo tanti e così variati mezzi di corrispondenza in contrade in cui il governo manteneva nessun agente, procurandoci notizie esatte sulla natura dei paesi, nei quali i missionari soli potevano penetrare, aprendo finalmente una via e quasi un condotto a farvi scorrer dentro coi lumi civili le influenze di un sistema, la cui grandezza doveva abbracciare tutto il mondo, era un edifizio piuttosto di unica che di somma importanza.”120

Un tale edifizio è italiano. Dovremmo tacerne i meriti perchè è anche — e soprattutto — cattolico?

f) Viaggiatori.

α) „Navigare necesse est non vivere!”

Paulo maiora... et forsitan jucundiora canamus! Incominciando oggi a trattare dei viaggiatori italiani121 in Rumania, e riportandomi col pensiero ai tempi remoti, in cui le prime galere [p. 92 modifica] genovesi e veneziane gittaron l’ancora nei porti di Caffa e di Tana; non posso far sì ch’io non rivegga in una luce di simbolo il bel quadro di Tranquillo Cremona rappresentante Marco Polo e il Gran Can dei Tartari. Il quadro rimonta al 1863; ma io ho avuto la fortuna di vederlo nell’estate del 1912, quando, celebrato degnamente il cinquantenario della sua unità nazionale, la terza Italia si accingeva a ritentar col rostro delle sue triremi e le carene profonde delle sue navi onerarie il solco non chiuso ancora delle prore liguri e venete. Scendendo ai Giardini, mentre un’acquerugiola minuta mi spruzzava il volto e le mani, avevo ancora innanzi agli occhi i quattro grandi e silenziosi cacciatorpedinieri grigi che la mia gondola aveva pocanzi sfiorati reduci dalla bella gesta di civiltà e di gloria. La vasta sala dell’Esposizione taceva, completamente vuota ed il quadro mi parlò. Incominciò col ricordarmi il folle e divino volo dell’Ulisse dantesco e la tendenza tutta propria dell’anima italiana a

      ...divenir del mondo esperta
e dell’umana gente e del valore;

rievocò quindi davanti alla mia fantasia, ancora commossa per aver visto il quadro pochi momenti prima, il Bucintoro del Previati, sulla cui prora m’era sembrato poter leggere in una scritta d’oro e di sangue il comando augurale del D’Annunzio alla sua Nave simbolica:

Arma la prora e salpa verso il mondo;

[p. 93 modifica] conchiuse facendomi avvertire come, dalla battaglia di Lepanto a quella di Psitos, dai Diarii di Marino Sanuto agli Annali dell’Islam di Leone Caetani, dalle Relazioni degli Ambasciatori veneti ai Discorsi di politica estera di Tommaso Tittoni; le relazioni politiche, commerciali e intellettuali fra l’Italia e l’Oriente sien rimaste press’a poco le stesse, sì che lo studiarne attraverso i secoli le vicende possa riuscir di somma utilità per l’avvenire.

Quando il quadro ebbe finito di parlare, la nube passeggiera era già lontana, e, al di là dei Giardini, indovinavo la laguna tornata più verde che un chiaro smeraldo, e la lontana isola affocata di S. Giorgio, e Piazza S. Marco sfolgorata dal sole. Innanzi a me, il quadro ora taceva, non parlando altro linguaggio che quello della bellezza, nel solenne avvicendarsi dell’ombra e della luce. Il bel costume veneziano modellava negli abbracciamenti della maglia le forme efebiche del giovinetto esploratore, spiccava inconsciamente elegante nella purezza armonica delle sue linee, sul fasto insolente di quella lontana corte barbarica; giustificando la fissità ansiosa degli sguardi atterriti, che sembravano avvolgere il giovinetto in una atmosfera di prodigio e di sogno. Solo l’oggetto di tanta curiosità restava imperturbato, in un atteggiamento, che, senza aver nulla dello spavaldo, pur rivelava una sicurezza piena di decoro. Aveva la mano destra al petto più, sembrava, per giocherellar con la catenina d’oro che gli pendeva dal collo, che in atto di saluto; mentre il berretto piumato che reggeva con la destra, pendeva inerte lungo la coscia. A testa alta, ritto, elegante, svelto, non era egli forse in quella corte il Dominatore? il solo che non temesse? il solo che non mostrasse alcuna preoccupazione? Il Gran Cane in persona par sollevarsi alquanto dal suo soglio prezioso e protendersi ad ammirare il prodigio; ma il giovanetto rimane indifferente, mentre un lieve, enigmatico sorriso gl’increspa il labbro adolescente. E prodigiosa era in fatti l’impresa, quando si pensi soprattutto ai tempi, irei quali essa fu tentata; ardita e nobile impresa degna in tutto di quel patriziato veneto, in cui sembrava riviver la semenza santa di quei romani, le cui legioni si eran distese per tutto il mondo! Il Milione di Marco Polo è il primo libro di viaggi italiano, dovuto a uno di quei mercanti veneziani che sapevano all’occorrenza trattar la spada e il remo, il liuto e la penna, e, tra un’occhiata al libro mastro e una carezza da [p. 94 modifica] conoscitore ad un bel tappeto di Persia, scriver pur anco una relazione alla Signoria e sventar le mene degli ambiziosi del Fanar. Mercante dunque il giovinetto nostro esploratore? Mercante sì, ma di quelli or ora descritti. Nè solo; chè se teniam conto dell’età ancor tenera, in cui, mortogli il padre, preferì alla solitudine della sua casa in Venezia, dove la notte lo sciacquio dell’onda gli narrava arcane storie di paesi non visti, la vita avventurosa e piena di rischi del navigatore e del mercante; se consideriamo com’egli amò restare quattro anni interi alla Corte del Gran Cane, che lo nominò governatore di una provincia; se consideriamo infine lo spirito da cui è informato il suo viaggio e la curiosità ch’egli dimostra per quanto gli sembri raro e nuovo e peregrino; saremo forzati a conchiudere, che, a malgrado del fine pratico che il suo viaggio si proponeva, il Milione mostra già in potenza quell’interesse, direi, disinteressato alle regioni lontane e ai popoli nuovi, che fu sempre degli italiani, dai tempi delle quattro gloriose repubbliche marinare (Genova, Venezia, Pisa, Amalfi) ai giorni nostri, e spiega così la spedizione polare del Duca degli Abruzzi, come una parte dell’emigrazione italiana non sempre nè unicamente dovuta a sole ragioni materiali. Le grandi scoperte sono infatti gloria esclusiva della gente di razza latina „descubridora de mundos y conquistadora de imperios”122, almeno in quanto son dovute meno alla spinta di un interesse materiale o puramente scientifico, che a quella di una squisita e nobile irrequietezza che la slancia „à ignorados caminos, dejando el blando y ocioso lecho para correr por trochas y veredas.” Marco Polo e Colombo, Don Quijote e Gii Blas, Marco Gratico e Jesus de Ceballos, il protagonista d’un celebre romanzo spagnuolo contemporaneo123, son tutti latini e sembran discendere in linea retta dall’Ulisse dantesco ed esclamare con lui:

Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza!

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β) Viaggi a fine di cultura. — Enea Silvio Piccolomini. — Che può mai saltar fuori da un codice.

Viaggi ad ogni modo affrontati unicamente a scopo di cultura non ne troviamo prima del quattrocento e nulla sarebbe più interessante per la storia dello spirito avventuriero del popolo italiano, che il ritesserne la storia. Il che naturalmente ci guarderemo bene dal fare, conscii come siamo del lungo cammino che abbiamo ancora a fornire. Accenneremo dunque brevemente. Il movimento comincia si può dire col Petrarca e col Boccaccio; diviene intensissimo durante tutto il secolo XV, quando il Guarino incanutiva dal dispiacere di aver perduto in un naufragio tutto un prezioso carico di manoscritti greci ch’egli recava da Costantinopoli in Italia, ed Enea Silvio Piccolomini, nel descriver le sue peregrinazioni attraverso l’Europa, piegava il latino ad esprimere il più delicato e moderno sentimento della natura; decade infine nel secolo seguente per risorger sotto un aspetto alquanto diverso nei secoli XVII e XVIII, in cui la smania dei viaggi crebbe al punto da presentare i caratteri di una vera a propria malattia epidemica! Un esempio della decadenza, in cui si trovava lo spirito avventuriero nel secolo XVI, può offrircelo l’Ariosto, del quale son noti i versi, in cui, lagnandosi del Cardinal d’Este che non gli dava requie, al punto d’averlo ridotto di poeta „cavallaro“, protesta che a lui piace sì di viaggiare, ma colla fantasia e su di un buon atlante, senza scomodarsi dalla sua poltrona e soprattutto senza allontanarsi da quella sua dolce casetta di Mirasole e dal giardino dove i capperi famosi gli giocarono il tiro di trasformarsi in sambuchi. Quanto agli eccessi, ai quali nel sec. XVIII poteva condur la mania divenuta talvolta pericolosa di viaggiare, basterà ricordare, senza allontanarci dalla Rumania la fuga romantica de’ figli di Ipsilanti, che provocaron la caduta del Voda, e l’ambasceria, ricca di discorsi e lettere italiane, di Ienachità Vàcarescu. Ritornando ora per poco al Piccolomini e alle relazioni che i viaggi d’italiani in Rumania mi sembrano avere col movimento della Rinascita, e considerando soprattutto come non sia impossibile, che, dall’una o dall’altra (da quella in Ungheria p. es.) di quelle peregrinazioni così elegantemente descritte da Enea Silvio in quel suo latino così classico e così moderno, fosse potuta balenargli [p. 96 modifica]l’idea della discendenza latina dei Rumeni; sarà tutt’altro che inutile dare un’idea dei viaggi eruditi del quattrocento, anche a causa delle molte opere storiche greco-bizantine, che, grazie ad essi, si diffusero in Italia e contribuirono non poco a ridestar l’interesse per la lontana e dimenticata figlia di Roma! Abbiamo intorno a ciò un magnifico brano del Carducci nel quarto de’ suoi ormai classici Discorsi dello svolgimento della letteratura nazionale, che i miei lettori conosceranno di certo ma che son certo rileggeran volentieri: „Ed ecco: per un Petrarca che andava frugando le città dei barbari in cerca di qualche opera obliata di Cicerone; per un Boccaccio che saliva trepidante di gioia nella biblioteca di Montecassino tra l’erba cresciuta grande sul pavimento, mentre il vento soffiava libero per le finestre scassinate e le porte lasciate senza serrami, scuotendo la polvere da lunghi anni ammonticchiata su’ volumi immortali, sdegnavasi vederli mancanti de’ quadernetti onde la stupida ignoranza dei monaci aveva fatto brevi da vender alle donne; per uno, dico, ecco sorger le diecine di questi devoti dell’antichità, affrontando pericoli di lunghi viaggi, passando monti e mari, peregrinando poveri e soli per contrade inospitali, tra popoli o avversi o sospettosi, de’ quali non sapevan la lingua, tra tedeschi, tra turchi. Andavano, dicean essi, a liberare i gloriosi padri dagli „ergastoli dei Germani e de’ Galli”. E i baroni dai torrazzi del castello e i servi della gleba per avventura ridevano al veder passare quegl’italiani magri, sparuti, con lo sguardo fisso, con l’aria trasognata, e salire affannosi le scale minate di qualche abbazia gotica, e scenderne raggianti con un codice sotto il braccio; ridevano e non sapevano che da quel codice era per uscire la parola e la libertà, che doveva radere al suolo quelle torri e spezzar quelle catene; non sapevano che quei poveri stranieri erano i preti di un Dio ancora ignoto, ma prossimo successore del Dio medievale, colla cui sanzione non solo i servi esistevano, ma eran dati cibo ai mastini del barone e le loro donne arse per istreghe dai monaci.” 124 Orbene da quel codice (fosse delle Epistolae ex Ponto o delle croniche bizantine di Calcocondila) da quel codice era per uscire pur anco la parola di vita che avrebbe aggiunto alla già florida [p. 97 modifica] è numerosa famiglia delle parlate e delle letterature romanze una soave sorella bionda dai grandi occhi orientali, tanto più cara quanto più a lungo aveva nei secoli errato lontano dall’ombra materna e dall’affetto consolatore delle sorelle brune. Grazie a quel codice un grave erudito fiorentino del quattrocento potè forse, una sera che il tramonto d’aprile spargeva a piene mani sull’Arno la pioggia floreale delle sue rose sanguigne, udir la voce lamentevole della fanciulla sperduta nel gran deserto del mondo slavo e mussulmano, correr col pensiero a Trajano, interrogar bassorilievi e monete; grazie a quel codice Ene Silvio Piccolomini potè un bel giorno venir fuori col suo Flaccus colonizzatore della Dacia ed esclamare udendo ai confini dell’Ungheria le prime parole rumene: „Sermo adhuc genti romanus est!”; grazie infine a quel codice e alla fiaccola di vita che nascondeva, divamperà l’incendio grandioso della Rinascita, alla cui luce i rumeni di Polonia si riconosceran figli di Roma, e risponderanno al Piccolomini: „De la Rîm ne tragem și cu a lor cuvinte ni-e amestecal graiul!”

γ)Carattere particolare dei viaggi d’Italiani in Rumania.

Mi sia dunque perdonato, se, forse più del dovere, ho insistito nel riconnettere al movimento intellettuale della Rinascita il fenomeno storico dei viaggi di cultura ed a quest.’ ultimi quelli d’italiani in Rumania. Son essi a mio vedere un effetto della rinata curiosità scientifica e della nascente critica filologica; della tendenza pratica, — precorritrice del metodo sperimentale, — a controllar coll’osservazione individuale le notizie apprese nei libri, e del rinato amore di Roma; del risorgere degli studii storici e geografici, preparato dalle opere latine di erudizione del Petrarca e del Roccaccio e del contatto avvenuto tra la civiltà bizantina e quella italiana del quattrocento; del Concilio infine di Firenze, (cui prese parte anche un vescovo rumeno) e degli studi di greco che permisero agli Italiani d’apprender che i Valacchi eran dagli storici bizantini125 concordemente [p. 98 modifica] ritenuti discendenti degli Italiani anticamente emigrati (τῶν ἐξ Ἰταλίας ἄποικοι πάλαι) nella penisola balcanica.

Ciò dovè naturalmente contribuire a destar negli Italiani curiosità di conoscer da vicino i costumi di questi loro nuovi fratelli e decider più d’un viaggiatore, che altrimenti si sarebbe probabilmente taciuto, a descriverci le sue peregrinazioni moldovalacche o per lo meno (come è il caso p. es. delle relazioni ecclesiastiche) a dar loro un’estensione assolutamente eccezionale e insperata. Di più, i primi viaggi in Rumania coincidono colle prime opere storiche intorno alle regioni orientali dell’Europa in genere e all’Impero Ottomano in ispecie. Le strepitose vittorie, per cui i Turchi s’erano in breve tempo impadroniti di tanta parte dell’oriente europeo; la minaccia perpetua che la loro sete di conquiste territoriali rappresentava per gli Stati confinanti, primi fra i quali l’Austria e l’Ungheria; le relazioni politiche, cortigiane e culturali che legarono nei secoli XVI, XVII e XVIII l’Italia a quegli stati; le parentele che la Casa d’Austria vantava fra i principi regnanti d’Italia, il mecenatismo infine di Mattia Corvino e de’ suoi successori verso ogni sorta di dotti italiani; furono altrettante cause, per le quali gli studii storici e le relazioni di viaggio intorno a questa o a quella delle Provincie soggette all’Impero Ottomano si moltiplicarono in Italia, e, dal Secolo XVI al XVIII, andaron sempre crescendo di numero e d’importanza. Orbene non c’è nessuna di queste opere storiche, come non c’è nessuno di questi viaggi, in cui, per un verso o per l’altro,126 non si faccia parola della Rumania, considerata corn’era come una vera e propria provincia dell’Impero Ottomano: il che in fondo non era, o per la meno non era nella misura in cui si credeva, e generalmente ancora si crede. Nè solamente i viaggiatori italiani ne toccavano per le speciali ragioni d’interessamento che abbiamo esposte di sopra, ma anche perchè l’Austria le faceva l’occhio dolce, e a un cortigiano, poniamo il caso, di [p. 99 modifica] Antonio Ferdinando Gonzaga, veniva magnificamente in taglio dedicare una Storia della Valachia, „anelante (!) il felice momento (!!) di vedersi ricoverata (!!!) sotto le Ali dell’Aquila Austriaca” a chi „per ragion di parentela” era „sì strettamente congiunto coll’Austriaca Augustissima Casa Regnante.” Alle quali considerazioni di Anton Maria del Chiaro saremmo però ingiusti, se non aggiungessimo „le premurose istanze che da molti eruditi soggetti” furon fatte al Del Chiaro” di raccoglier tutte le rimarchevoli notizie di quella Provincia”; dalle quali rileviamo quell’interessamento tutto italiano (italiano pur troppo anche nel senso di accademico), che, dal sec. XV ai giorni nostri, almeno nei brindisi dei banchetti e nelle orazioni italo-rumene ai piedi della Colonna Trajana, non è venuto mai meno. Il che è certo qualcosa; ma non per questo devono contentarsene i due popoli affini così supinamente ignari l’uno dell’altro.

Ma l’argomento è scabroso e sembra non potersi trattare senza cadere nella gonfia declamazione e nelle tirate retoriche. Fuggiamo dunque da questa pericolosa Cariddi e ritorniamo al nostro arido, ma forse non inutile discorso.

δ) Uno sguardo d’insieme: dai „baili” veneti ai conferenzieri spediti al Ponto.

Quali furono i primi viaggiatori italiani in Rumania? I Genovesi caricatori dì grano a Chilia e a Cetatea-Alba? I Veneziani che contendevano loro il primato nei commercii, e delle cui galere si serviva il Vayvoda di Transilvania per recarsi al Santo Sepolcro? O non piuttosto il legato di Papa Innocenzo, venuto a incoronar Ioniță, „imperatore de’ Bulgari e de’ Valacchi”? Una tale ricerca ci porterebbe certo assai lontano: ai tempi probabilmente che precedettero immediatamente la colonizzazione romana dell’Illirico e della Dacia. La posizione geografica dell’Italia è infatti tale da render necessarii, e direi quasi fatali i suoi rapporti commerciali e politici coll’Oriente d’Europa, e quelle medesime acque dell’Egeo che baciarono un tempo le veloci carene delle galere veneziane ribollono oggi innanzi alla prora dei piroscafi della terza Italia sulla via mostrata loro ab antiquo dalle rosse triremi d’Ottaviano e dai [p. 100 modifica] legni sparveriati di S. Giorgio e di S. Marco. Basta infatti aprire il volume VIII della Collezione Hurmuzaki, per convingersi dell’importanza che le relazioni dei baili veneti a Costantinopoli hanno, non solo per ciò che riguarda la storia rumena di quei tempi, ma l’ordinamento meraviglioso delle diplomazia veneziana, davanti alla quale siam pur costretti a riconoscere che quella odierna fa una ben trista figura. Venezia infatti sapeva tutto. Da Costantinopoli il suo bailo l’informava dei più grandi come dei più piccoli avvenimenti: degli apparecchi navali che quel chane del Signor Turcho faceva per la primavera, e dell’esportazione dei cavalli e de’ buoi dalla Moldavia; delle disfatte che i principi valacchi infliggevano al sullodato Signore ed empivano di gioia i cuori veneziani e del rischio di farsi impallar che correva qualche avventuriero suddito della Repubblica seguitando a intrigar coi fanarioti per ottener l’investitura dell’uno o dell’altro dei due principati vassalli di Valacchia e di Moldavia. Sorprese diplomatiche non esistevano nè per Venezia nè per i suoi baili, le cui relazioni non si possono leggere senza sentirsi l’animo compreso di un senso di profonda ammirazione per l’esattezza, la praticità, l’acutezza delle vedute e il patriottismo che sembra trasparire quasi ad ogni parola di quelle vecchie pagine vergate alla buona in uno stile frammischiato di parole veneziane che sa deliziosamente di fondaco e di balle, eppur non teme certo il paragone di quello aridamente burocratico dei diplomatici contemporanei. Più utili, e talvolta persino più interessanti nella loro vivacità popolana di molti eruditissimi e leccatissimi viaggi, siam purtroppo costretti a lasciarli da parte, dopo averne (tanto perchè se n’abbia un’idea) dato appena un piccolo saggio. Scegliamo a quest’uopo la relazione del bailo Giacomo Soranzo (Archivio di Sialo di Venezia, Disp. Cost. 1568, f. 3)127 intorno all’arrivo in Costantinopoli e alla deposizione del Voivoda di Valacchia.

Serenissimo Principe,

Gionse qui già 4 giorni il Vaivodă di Valachia, giovine di circa 20 anni, accompagnato da circa mille cavalli et fu mandato ad incontrar secondo l’ordinario; ma la istessa sera li fu mandato ordine che consignasse il tributo, si come fece, et il giorno seguente fu consignato in guardia dei chiausi, et gianiceri, et di subito [p. 101 modifica]il Bassà fece venire a sè Alessandro, l’avo del qual fu ancor lui Vaivoda et è stato longamente confinato parte in Rodi, et parte nel castello di Aleppo, ma già alquanti mesi fatto venir qui, con mandato di chiamar li principali del predetto giovine Vaivoda li disse che il Signor mal satisfatto del governo di detto lor Vaivoda lo haveva privato et eletto questo Alessandro, il qual li governerà con maggior amore et diligentia, che non sono stati fin qui, et che per ordine espresso di Sua Maestà el non cambieria alcuno delli ministri, che erano: ma tutti resteranno nel Stato in grado loro, et così fu publicato detto Alessandro per Vaivoda di Valachia, et furono mandati altri chiausi per levar tutti li denari, et mobili, che il predetto giovine haveva portato seco et lui messo in un cocchio fu condutto prigione alle sette torre, et espediti chiausi in Valachia, et il Sanzacco di Silistria che vadi a far prigione la madre, fratelli et sorelle di questo giovane, et che anco con tormenti intendano dove sono li danari et gioie, che si dice esser più di un milion d’oro et che tutto sia mandato qui insieme con li prigioni, si ben molti credono che la madre sarà fatta prima morir, essendo molto imputata di mal governo; ma perchè nessuna causa de importanza si dia di questa mutationc, è parsa ad ogni uno cosa molto nova, né resterò di dir a Vostra Serenità come l’infelice giovine, dubitando di questo accidente, subito gionto, mandò l’istessa sera a donar al Bassà ducati 40 mila et al suo checaia 4000, sperando di farselo benevolo; ma si dice che Sua Magnificenza lo fece intender al Signor, dimandando quello el ne dovesse far, et Sua Maestà li fece risponder ch’el li dovesse mandar in Casnà.

Di Pera alli 5 Giugno 1568.

Giacomo Soranzo Cav. bailo.


A non parlare di due lunghe relazioni degli annalisti veneti Stefano Magno e Angiolello da Vicenza128, nella prima delle quali si descrive la battaglia de la Podul Inalt e la splendida vittoria riportata da Stefano il Grande sui turchi di Soliman Pascià (19 gennaio 1475); nella seconda, la disfatta di Ràzboieni (26 Luglio 1476), dove, emulando il valore degli Spartani alle Termopili, 10.000 rumeni tennero testa fino all’ultimo a più di 200.000 fra turchi e tartari; converrà dar qui un brevissimo estratto de’ Diarii di Marino Sanuto, in cui vediamo Venezia in festa e gli ambasciatori del Vaivoda di Moldavia prender parte col doge a ogni sorta di divertimenti e di funzioni civili. [p. 102 modifica] Dalla lettura di queste poche righe di cronica contemporanea, il lettore apprenderà, ne son certo, assai più che da tutte le mie elucubrazioni, e, allo stesso modo come in uno studio di batteriologia o di biologia una microfotografia ben riuscita sostituisce bene spesso pagine e pagine d’inutile descrizione, così nelle ricerche storico-letterarie sarebbe bene che si facessero talvolta parlare un po’ più i documenti, specie quando, come nel caso nostro, rappresentano una vera e propria finestra aperta sul passato. Si figuri dunque il lettore di trovarsi davanti a uno di quegli specchi affatati, guardando nei quali si vedon presenti località e persone lontani nello spazio e nel tempo; voli col pensiero alla Venezia ricca e gaudente del secolo XVI, si ricordi se gli riesce di quanto abbiamo finora avuto occasion di toccare dei rapporti fra l’altera republica di S. Marco ed i principati rumeni; e poi legga. Nello specchio magico della sua fantasia, vedrà allora l’antica vita veneziana del Rinascimento riflettersi in tutto il fasto delle sue cerimonie, in tutta la gloria della sua potenza colonizzatrice e marittima, in tutti i suoi molteplici rapporti coi più diversi e più lontani paesi, e gli avvenimenti sfilargli davanti agli occhi attoniti presso a poco così:

A di 3 [febbraio 1506] La matina veneno in colegio do oratori dil vayvoda di Moldavia, sotto et vicino al re di Hongaria, ch’è gran signor in quelli paesi, et è morto il padre, vechio nominato Stephano, successe il figliuol Bogdan, el qual à tolto per moglie la sorela dil re di Hungaria, et ha mandato questi oratori, et uno altro, qual morì in camino, nominato domino Bernardo, per comprar zoje e panni d’oro e di seda. I quali, mandati a levar di la caxa dove alogiavano, a San Lio, da uno Gregorio, per li cai di 40 et savij ai ordeni, venuti in colegio, sentati apresso el principe, presentono do lettere di credenza, una dil suo signor, l’altra dii re di Hongaria, in sua recomandatione; et presentono poi do mazi di pelle di zebelini, et do mazi di armelini, et do lovi zivrieri al doxe. Et il titolo di la lettera di credenza è questo: Bogdanus Dei gratia, haeres perpetuus dominusque ac vayvoda regni moldavensis, datae in arce nostra Zuchauiensi, 8 octubrio 1505. Et nomina oratorum sunt: Hieremias, thesaurarius; Bernardus, castellanus, qui obiit, et Georgius, thavernicus. El principe li charezò, offerendosi in ogni lloro bisogno; et cussi staranno in questa terra alcuni giorni, per far ditti servicij.

A di 19 fevrer [1506] fo il zuoba di la caza. Fo fato im piaza uno castelo, videlicet quello era a San Stephano, et assa’ soleri. Fo grandissima gente, et una bellissima festa con una mumaria di 12 cari, portadi a torno; et fata una fabula bellissima: et poi fuogi, che vene zoso dii campaniel a la torre di le horre, demum di la torre preditta a quel castello, in forma di uno serpente, e brusò con fuoghi artificiadi il castelo, senza perhò inlesion. Vi fu col principe l’orator di Franza et li do de Moldavia, et il cuxin dil marchexe di Mantoa. Poi da sera il principe in [p. 103 modifica]caxa soa, zoè im palazo, fi una festa di baiar done e mascare, con una bella colation.

A di 31 [maggio, 1506]. La matina il doxe andò in bucintoro a sposar il mar. Eri portò la spada sier Zuan Marzello, va podestà di Chioza, et suo compagno sier Francesco da Leze, quondam sier Lorenzo; et ozi partì sier Michiel Memo, va a Napoli di Romania; fo suo compagno, sier Antonio Moroxini, quondam sier Michiel. Etiam fono a disnar col principe, videlicel drio, li oratori di Franza e Spagna, l’orator di Tunis, moro, et li do oratori del valacho.

A di 11 [giugno, 1506J fo el zorno dii Corpo di Christo. Fu fato una bellissima precessione, le scuole a ragata se feno honor, con molte demonstration et soleri; et piunete, ma durò pocho. Era il patriarcha con 4 episcopi, videlicel quel di Chisamo, di Sibinico, l’arzivescopo di Spalato, da cha’ Zane, et lo epìscopo di Torzelo, ch’è arziepiscopo di... Era il principe con li oratori Franza, Spagna et Hongaria, ieri zonto, come dirò poi. Item, dil valacho do oratori... Da poi disnar, de more fo fato la precessione al Corpus Domini, qual fo bellissima... Et la notte partì sier Domenego Dolfin, va capitano di do galie bastarde contra corsari”.129

Oh quelle do galie bastarde che parton di notte alla caccia dei corsari dopo una giornata di feste e di banchetti! Li do oratori dii Moldavo dormivan certo la grossa, quando al comando di sier Domenego Dolfin, presero il largo fra un crosciar di nerbate sulle spalle aduste de’ galeotti! Eppure ad esse doveva Venezia la sicurezza de’ suoi commerci, che le permettevan di poter abbagliare colla pompa de’ suoi ricevimenti gli oratori di Francia e di Spagna non meno che quelli del re moro di Tunisi e del Vayvoda di Moldavia! Così, dopo essersi mollemente mirata tutto il giorno adorna de’ suoi vezzi più belli nello specchio tacito della sua laguna, la Venezia del secolo XVI amava spiegar la notte l’unghie affilate del suo leone; amava (come tutti i veri forti) far pompa de’ trofei, non delle armi e del sangue, con cui li conquistava!

Il primo vero viaggio di un italiano in Moldavia può ad ogni modo ritenersi quello compiuto intorno al 1531 da Ercole Dalmata. Disgraziamente però perla nostra ricerca, che si sarebbe avvantaggiata non poco della descrizione fatta da un testimone oculare delle condizioni della Moldavia in un’epoca così antica, quel viaggio non ebbe altre conseguenze all’infuori di una lettera, (d’altronde importante come documento storico), in cui si descrive la battaglia di Obertyn, (agosto, 1531), nella quale Petru Rares fu sconfitto dai Polacchi, ai quali voleva ritogliere la Pocuzia. Se perciò Ercole Dalmata si può considerare come [p. 104 modifica] il primo vero viaggiatore in Rumania, di cui ci restin notizie positive; il primo viaggio scritto con intenzioni alquanto più letterarie di quanto non siamo soliti di ritrovare nelle relazioni degli Ambasciatori veneti e dei Missionarii dei diversi ordini religiosi che nel corso dei secoli si disputaron la missione apostolica in Rumania; è senza dubbio quella del padovano Andrea della Valle, che il 1534 accompagnò in Transilvania il Conte Aloise Gritti, incaricato da Solimano di conchiuder per conto suo la pace con Ferdinando Re dei Romani. Il Gritti fu (com’è noto) fatto uccidere a tradimento da Niccolò Potocki, e da questo tragico avvenimento il Della Valle prese occasione per iscriver la sua „Narrazione di Francesco Della Valle padovano della grandezza, virtù, valore ed infelice morte dell’illustrissimo Signor Conte Aloise Grilli... etc., contenuto nel Cod. Ital. Class. VI, No. CXXII della R-a Biblioteca Marciana di Venezia e pubblicata di su quel codice da uno studioso ungherese (Nagy Ivàntól) nella rivista intitolata Maggar Tórténelmi Tàr (vol. VIII, pp. 101 sgg.). Ne riferiamo un brano che riguarda più da vicino la Rumania propriamente detta, giacché ehm’è chiaro il viaggio del Della Valle rappresenta più che altro un documento importante sulla storia e i costumi dei rumeni di Transilvania soggetti allora come oggi al duro giogo delle tirannide magiara:

...passò con tutto il suo esercito il Danubio et arrivò nel paese di Valacchi, s’allogiò in campagna sotto li padiglioni per quella notte, et la mattina seguente cavalcò verso Tragovista (Târgoviște) Città, et habitatione del Sig-re di quel paese, il quale con bellissima compagnia venne ad incontrarlo, et gli offerse allogiamento nella Città. Il mio Sig-re di tanta sua cortesia lo ringratiò molto; nè volendo accettare l’offerta allogiò nella campagna con tutto il suo esercito, dove gli erano tesi gli padiglioni. Gli furon donati da quel Sig-re molti roncini, et vettovaglia d’ogni sorte et egli all’incontro gli ridonò quatro bellissimi cavalli Turchi et ricchissimi vestimenti d’oro, e dir seta. Trago vista è città non molto grande posta in piano, ser o glià di muro. Il castello di quella, dove habita il suo Sig-re è serrato di grossissimi palli di rovere. Vivono quelle genti secondo la legge Greca et vestono di panni longhi, portando in capo capeletti alla crouata. La lingua loro è poco diversa dalla nostra Italiana, si dimandono in lingua loro Romei perchè dicono esser [p. 105 modifica] venuti anticamente da Roma ad habitar in quel paese, et se alcuno dimanda se sanno parlar in la lor lingua valacca, dicono a questo modo: „Sti Rominest’?”, che voi dire „Sai tu Romano?” per esser corotta la lingua. Sono però genti barbare e di rei costumi. In quella città è drizzata una chiesa di San Francesco con alquanti frati osservanti, li quali vi celebrano divini officii secondo la chiesa Romana. Quel paese è molto fertile d’ogni cosa, eccetto di vino; dove, invece di esso, usano la cervosa. Sopra una collina alla vista della città, è poi un monasterio, o vero Abbatia assai grande, nel quale habitano alquanti sacerdoti greci, i quali ne fecero molte cortesie, et ne raccontorno tutta l’historia della venuta di quelli populi ad habitar in quel paese, che fu questa: che, avendo Trajano Imp-re debellato et acquistato quel paese, lo divise a suoi soldati, et lo fece come Colonia de Romani: dove essendo questi discesi da quelli antichi, conservano il nome de Romani; ma, per il corso de tempi, hanno corotto sì il nome, et li costumi, che a pena s’intendono, però al presente si dimandon Romei, e questo è quanto da essi potessimo sapere130”.

Seguon le notizie, che, intorno alla Transilvania, Valacchia e Moldavia ci dà il Roterò nelle sue Relazioni Universali (1599) e delle quali facciam qui menzione, perchè in fin dei conti non è strano supporre sieno state raccolte sul luogo in uno dei tanti viaggi che il dotto piemontese ebbe a compire per conto del Collegio di Propaganda fide, ed eccoci, con Tommaso Alberti, bell’e arrivati al 1612, quando cioè le relazioni di cultura fra l’Italia e i Principati danubiani ci risultano anche per altra via assai più strette. Gli tien dietro il parmigiano Cornelio Magni, che, intorno al 1679 raccoglieva in certe sue lettere, scritte dopo il suo definitivo ritorno in Italia, „quanto di più curioso, e vago” aveva potuto „raccorre nel primo biennio” da lui consumato „in viaggi e dimore per la Turchia.”131 Ed eccoci al Del Chiaro, la cui Istoria delle moderne rivoluzioni della Valacchia132 (1718), [p. 106 modifica] preceduta da un' ampia introduzione sugli usi, i costumi, la religione e l’indole degli abitanti, è anche oggi da raccomandarsi a quanti Italiani si propongano di compiere a fine di studi un viaggio in Rumania. Segue il Sestini, i cui due viaggi: da Costantinopoli a Bucarest133 (1779) e da Bucarest a Vienna134 (1780)135 ,attraverso la Valacchia, la Transilvania e l’Ungheria, posson considerarsi un po’ come il rovescio della medaglia di quello del Del Chiaro; visto che dove questi si compiace nel guardar gli avvenimenti attraverso una lente colorata in rosa; quegli al contrario ha la tendenza a veder tutto nero. Quasi contemporaneamente al Sestini, un altro abate, il Boscovich, rinomatissimo pe’ suoi studii d’astronomia e di meccanica, attraversava anche lui la Valacchia e la Moldavia, descrivendole nel suo noto Giornale di un viaggio da Costantinopoli in Polonia136, pubblicato il 1784 e che a me sembra, dopo quello del Del Chiaro, uno dei più originali e dilettevoli libri di viaggi che, si sien mai scritti in quel secolo. Chiude la serie il Raicevich, le cui Osservazioni storiche, naturali e politiche sulla Valacchia e la Moldavia137 (1778), un po’ aride per ciò che riguarda lo stile, ma abbondantissime ed esattissime, rappresentan l’ultimo libro scritto in Italiano sulla Rumania, benché purtroppo con sentimenti tutt’altro che italiani.

Da quell’epoca, la Rumania si è dagli Italiani lasciata al beneplacito di quanti giornalisti a tempo perso e conferenzieri d’occasione si son creduti in dovere per esser rimasti qualche settimana a Bucarest, d’empir le colonne dei giornali di provincia di tirate retoriche e colpi di grancassa sulla fraternità italorumena (o romena come questi cotali si compiaccion di scrivere), la sorella latina, i discendenti di Trajano ed altri luoghi comuni, compromettendo la serietà della stampa italiana con [p. 107 modifica] pubblicazioni e conferenze superficialissime, che non son valse davvero a promuovere i rapporti intellettuali fra i due popoli fratelli.

ε) Giovanni Bolero e le sue „Relationi Universali”.

Ciò posto, torniamo a noi, e incominciamo dal Boterò. A rigor di termine, le Relationi Universali138 non rientrerebbero nell’argomento della nostra ricerca, come quelle che, in fin dei conti, non rappresentano sempre delle note di viaggio, malgrado l’autore, cui

         .........iam septima portat
omnibus errantem terram, et fludibus aesias,

si paragoni, nella dedicatoria a Carlo Emanuele di Savoja, al viaggiatore, che, tornando in patria, „dopo molti anni di trauagliosi viaggi...”, suole, per far fede „delle Prouintie... vedute, presentare a’ Signori, ò a’ Padroni qualche pianta, ò pietra, ò cosa tale propria de’ luoghi, oue è stato.” Se non che il poveretto non è riuscito a trovare in tutto il mondo „herba, ò gioia, ò cosa che sia nuoua à gli occhi, ò anche alle mani” del Serenissimo Carlo Emanuele e non può offrirgli che „vn Sommario di tutti i suoi viaggi, e di tutto ciò, che egli ha in essi appreso.” In altri termini, il volume delle Relationi Universali, il quale, „se non per altro, per la varietà delle materie, e per la breuità della dettatura”, potrà arrecare al Serenissimo Duca „tra gli alti pensieri, e gl’importanti affari, che, intento alla quiete de gli amplissimi Stati suoi e di tutta Italia, ha per le mani; qualche piacere, e gusto”139.

Per quanto il 1596 il Boterò tornasse davvero da un lungo viaggio attraverso lontane regioni; viaggio fatto per conto della Congregazione De propaganda Fide; ciò non vuol dire ch’egli abbia davvero visitato di persona tutti i paesi, che, con tanta minuzia, ci descrive nelle fitte pagine del suo grosso volume. Ch’egli infatti si servisse, oltre che delle sue osservazioni per[p. 108 modifica]sonali, anche delle relazioni di viaggiatori anteriori e da esse fosse talvolta tratto in errore; risulta, fra l’altre, persino da una sua lettera al Signor di Monforte, traduttore francese delle Relationi, datata: Di Milano, adi 23. di Luglio, 1596, e pubblicata innanzi alla Parte Quarta140; lettera, in cui il Boterò, dedicandogli l’ultimo libro del suo poderoso lavoro, lo prega, nella traduzione di quelli che precedono, di voler rettificare la notizia „che in Inghilterra i titolati tirino pensione alcuna su l’entrate Reali de’ luoghi, onde prendono i titoli”, perchè, malgrado egli abbia scritto così, „seguendo l’autorità di un’autore Francese assai famoso”, la notizia gli risulta falsa per lettere inviategli da „diuersi gentilhuomini Inglesi”. Prega inoltre il Montfort di voler rettificare il numero degli abitanti della Germania. „perchè”, dice, „se bene io ho seguitalo in ciò alcune Relationi assai autentiche, nondimeno per alcune altre, che ne hò ultimamente hauute, ueggo che quella amplissima Prouincia passa dicianoue millioni d’anime, senza comprenderci i Regni di Danemarca e di Boemia.”

Resta dunque assodato, che, malgrado l’autore insista nella dedicatoria a Carlo Emanuele di Savoja, — dei figli del quale divenne poi pedagogo, — sul carattere di viaggio, ch’egli crede (o vuol far credere) abbia la sua opera; in realtà un tal carattere non si conviene che a una parte relativamente piccola di essa, a quella cioè, nella quale tratta dei paesi che ha realmente percorsi e studiati de visu. Per ciò che riguarda dunque la Rumania, dove non ci risulta che sia mai stato141, l’opera del Boterò va considerata come un’opera qualunque d’indole prettamente geografica e non come un vero e proprio viaggio. [p. 109 modifica]

Ciò non ostante, crediamo doverlo includere nella nostra trattazione, sia perchè le notizie che ne ricaviamo concordano con quelle di altri viaggiatori posteriori, sia perchè l’Ubicini (che il Iorga ritiene a buon diritto142 il solo fra i viaggiatori stranieri, che sia riuscito a veder giusto nei costumi e nell’indole del popolo rumeno); l’Ubicini, dico, l’ebbe fra le mani143 e non è escluso se ne servisse nella redazione del suo ben noto viaggio144.

Chi era il Botero145? Non certo un filius terrae, come qualcuno de’ miei lettori rumeni, che non ne avesse mai sentito pronunziare il nome, potrebbe credere. Chi ha tra loro letto, anche in qualcuna delle numerose traduzioni francesi e tedesche, I Promessi Sposi del Manzoni; ricorderà, che, nella biblioteca di Don Ferrante, il nome del Boterò figura accanto a quello del Castiglione, l’autore di quello Statista Regnante, su cui anni fa Francesco D’Ovidio ha scritto un suo arguto articolo: Un libro che tutti conoscono e nessuno legge146. Tale è, del resto, la sorte non del solo Statista Regnante, ma di quasi tutti i libri che ospitava l’ormai famosa biblioteca di Don Ferrante. Chi leggerebbe oggi la Ragion di Stato di Giovanni Boterò? Pure fu un libro celebre e che godette al tempo suo di una gran diffusione, come quello che rappresentava una carica a fondo contro le troppo famose teorie politiche del Machiavelli. Don Ferrante, da parte sua, non sapeva a qual dei due dar la preferenza: se al Principe o alla Ragion di Stato. Vi sovviene delle argute parole del [p. 110 modifica] Manzoni? „Due però erano i libri che Don Ferrante anteponeva a tutti, e di gran lunga in questa materia, [la politica]; due, che, fino a un certo tempo, fu solito di chiamare i primi, senza mai potersi risolvere a qual de’ due convenisse unicamente quel grado: l’uno, il Principe e i Discorsi del celebre segretario fiorentino; mariolo sì, diceva Don Ferrante, ma profondo: l’altro la Ragion di Stato del non men celebre Giovanni Boterò; galantuomo sì, diceva pure, ma acuto”147.

Ho delegato Don Ferrante a far le lodi del Boterò autore della Ragion di Stato; vediamo ora in breve quali altri meriti avesse quest’uomo, che non godè solo la stima di Don Ferrante, ma di San Carlo Borromeo e del Duca di Savoja.

Nato a Bene, nel Piemonte, il 1540, Giovanni Boterò entrò, in età assai giovanile, nella Compagnia di Gesù, dalla quale però uscì prima di pronunziare i voti. Fu Segretario di S. Carlo Borromeo, incaricato di una missione diplomatica a Parigi, fece molti viaggi in diversi paesi per la Congregazione di Propaganda Fide, finchè, nel 1599, (l’anno stesso in cui si pubblicavan le sue Relationi), Carlo Emanuele di Savoja gli affidò l’educazione dei figliuoli. Morì a Torino il 1617 e scrisse, oltre la Ragion di Stato (Milano, 1583), e le Relationi, delle quali ci occupiamo al presente, un trattato Delle cause della grandezza delle Città (1589), un opuscolo De Sapientia Regis, a non parlar di due poemi, uno in italiano (La Primavera), e l’altro in latino (Otium honoratum), che non valgon davvero gran fatto.

Ciò posto, vediamo come gli sia apparsa la Bumania, almeno attraverso le relazioni, delle quali dovè verto servirsi, quando volle descriverne i costumi e l’indole degli abitanti. I quali — secondo il Boterò — erano a quei tempi, o gli parvero, „d’animo instabile, et sdegnoso: amici delle taverne, et dell’otio. Habitano poveramente, per lo più in casali. Le loro case sono di legna, et di paglia, intonicate di creta, coperte di cannuccie delle quali abbondano. Le mercantie sono maneggiate, massime in Moldavia) da Armeni, Giudei, Sassoni, Ongheri, e Ragugei: et consistono in grani et vini che si portano in Russia, et Polonia; cuoi di vacche, schiavine, cere, mele, fiaschi di radice di teglia, stimate per la vaghezza delle vene: carni secche [p. 111 modifica] di bue, legumi, butiri per Costantinopoli”148. Il giudizio — è forza riconoscerlo — non appar troppo lusinghiero; pure, prima d’incolparne il Boterò, sarà bene considerare in primo luogo ch’egli si fa probabilmente portavoce di giudizii espressi da altri; poi, che intorno al 1599, le condizioni intellettuali e morali del contadino rumeno erano assai peggiori di quanto oggi non possa apparire. Purtroppo neppur oggi tali condizioni son quali sarebbe desiderabile che fossero, onde non troppo diversamente dal Boterò ne parla, un testimone non sospetto, A. D. Xenopol in una delle sue belle conferenze al Collège de France149 Roma, del resto, non fu fatta un in giorno, e, d’altra parte, come il medesimo Xenopol ebbe occasione di rilevare, buoni segni non mancano; non manca soprattutto la buona volontà di renderle ogni giorno gradatamente migliori150, negli uomini di governo d’ogni partito, che, per diverse strade, tendono tutti a fare sparire la distanza, che separa ancora la classe dominatrice, da quella che soffre e lavora!

Non facciamo dunque al Botero l’ingiuria di giudicarlo alla stregua d’un qualunque volgar detrattore e perdoniamogli se il contadino rumeno gli sia parso instabile, ozioso e amico delle taverne.

Stiamo invece a sentire, com’egli parli dell’origin romana dei discendenti di Trajano, e della latinità del rumeno cento [p. 112 modifica] undici anni prima che Giorgio Gabriele Șincai si facesse editore degli Elementa linguae daco-romanae sive valachicae di Samuele Klein di Szad: „Mostrano di tirare origine da’ Romani nel loro parlare; perchè ritengono la lingua latina, ma più corrotta che noi Italiani. Chiamano il cavallo, callo: l’acqua, apa: il pane, pa.” Intorno al culto osserva che „usano la lingua Seruiana, che è quasi Toscana tra gli Schiauoni”, col che viene a dire, che, tra gli Slavoni (=Slavi meridionali) la lingua letteraria è la Serba. Finalmente dell’ordinamento politico: „Il Turco dà a’ Transalpini il Vaiuoda, cioè Governatore, che ordinariamente dura poco: perchè per le vanie Turchesche, sono spesso cacciati ad istanza di chi offerisce maggior somma di dinari: o ammazzati dai Popoli, per l’eccessive gravezze. Paga al Turco settanta mila ducati all’anno: ma per havere il governo, alcuno ne ha pagato trecento mila, oltre quello che presentano a i Bassà et à gli altri ministri del Turco, che lor succhiano il sangue”151. Aggiunge che „il Vaivoda di Moldavia non è tanto soggetto al Turco: ma li paga però tributo: e l’accompagna alla guerra con buon numero di cavalli: de’ quali abbonda tutta Vallachia: et sono di forza, et di lena indefaticabili”152; che la Bessarabia è „piana, et fertile, ma mal tenuta, conciosia che ciascuno coltiva quel che vuole, tanta è la copia de terreni, e l’infrequenza dei popoli, (che si dilettano anche assai dell’otio) pur che altri non l’habbia prevenuto”153 e che „vi è penuria d’alberi: per la qual cosa fan fuoco di stoppie, et di sterco di buoi, che ui sono grandissimi: et se ne caua numero grandissimo per li paesi vicini”154. Non trascura neppure le miniere di sale „sodo come marmo, di color che tira al pauonazzo; ma trito et pesto minutamente diuiene assai bianco”155; nè gli altri prodotti del paese, di guisa che, malgrado non ci risulti che il Botero abbia viaggiato in Rumania; possiam ben fargli la lode di averne parlato, quanto all’esattezza delle notizie, come se veramente ci fosse stato. Dal paragone però che ho fatto fra il suo stile freddo e misurato e quello vibrante di umana simpatia di altri [p. 113 modifica]viaggiatori, cui, nel narrare le tristi condizioni della Valacchia e della Moldavia, abbrutite dalla rapacità insaziata dei loro stessi principi, piange il cuore di cristiana pietà; son portato a concludere che il Botero non ebbe mai l’occasione di osservar da vicino quali fossero le cause di quell’indolenza e di quella povertà ch’egli rimproverava ai contadini rumeni, i più eroici martiri che io conosca nella storia della civiltà, davanti ai quali m’inchino con l’ammirazione che si deve a chiunque, debole e inerme subisce la violenza materiale del più forte, serbando l’animo eretto, pronto sempre a scuotere il giogo e spezzar le catene,

come la foglia che flette la cima
nel transito del vento, e poi si leva
per la propria virtù che la sublima!

(Paradiso, XXVI, 85—87).

ζ) Tommaso Alberti.

Tommaso Alberti passò per la Moldavia nel 1612. Agente di commercio di una casa veneziana, partì per via di mare da Venezia il 18 maggio 1609 e giunse a Costantinopoli il 19 luglio di quell’anno. Ne riparte il 6 novembre 1612 per accompagnare a Lemberg (dove nel frattempo la casa da cui dipendeva aveva aperto una succursale) un convoglio di carri carichi di tappeti, rabarbaro e seta. Il 15 decembre lo vediamo giungere a Iasi, dove regnava in quegli anni Ștefan Comșa. Ne riparte ai 20, e, dopo un lungo e lentissimo viaggio, giunge finalmente a Lemberg il 30 marzo dell’anno seguente (1613).

Adempita la sua missione, prende la via del ritorno con sessanta carri carichi di pellicce, cuoi e pugnali, passando di nuovo per Iași e facendo a ritroso la strada che aveva percorso nel viaggio d’andata. Giunto a Costantinopoli il 1 giugno, smercia il suo carico e si rimette in viaggio per la Polonia. Attraverso Lemberg, Cracovia, Norimberga, Coira, Ceva e Milano, l’infaticabile mercante giunge finalmente (25 ottobre) a Bologna, sua città nativa. Ma non vi rimane a lungo. Il 20 aprile del 1614 eccolo di nuovo sulle mosse d’intraprendere un secondo viaggio in Oriente. Il 30 giugno lo troviamo già arrivato a Costantinopoli, dove resta sette anni, fino alla primavera cioè del 1621, [p. 114 modifica] quando, per via di terra, ne riparte alla volta di Venezia. Il primo giugno era a Bologna, dove lo lascerem riposare, dopo (nientemeno) 12 anni di peregrinazioni quasi ininterrotte.

Privo assolutamente di velleità letterarie, il viaggio del nostro Alberti, si annunzia bene fino dal titolo, un po’ troppo lungo, ma per compenso spirante una deliziosa praticità commerciale, per cui si legge tra le righe che l’autore si gloria non d’aver scritto un viaggio, come un qualsiasi miserabile letterato, ma d’aver condotto in porto sani e salvi i suoi trentadue carri di „tapedi, reobarbaro e seda”, superando le non poche difficoltà che „quella maledetta razza de’ Turchi”, fra cui aveva dovuto scegliere i „carrettieri” gli opponeva quasi ad ogni passo. A capo del volumetto156 troviamo infatti scritto semplicemente così:

Viaggio fatto da me Tommaso Alberti da Costantinopoli in Polonia cioè, in Leopoli, per via di terra, con molli effetti dei signori miei venetiani, cioè 27 carri carichi di tapedi, tre carri di reobarbaro, due carri de sede, tutto per condurre alla lor casa aperta in Leopoli, ed io sopracarico di sudette robe; quali carri erano tutti condotti da Turchi.

Quei „maledetti turchi” son la preoccupazione costante del povero Alberti! Con qual sospiro di soddisfazione ci fa sapere il 2 novembre d’essersene liberato per sempre! „Alli 2 detto [Novembre 1612], facessimo levata [da Sohaali]157, camminassimo dietro il Danubio; a mezo giorno, giungessimo a Mecina (Măcin) villa e scala del Danubio, cioè doccana e dacio della confina della Turchia; discargassimo tutti li carri, pagassimo il dacio, ci sbrigassimo da quella maledetta razza de’ Turchi, ma con molte difficultà, e ci liberassimo da quelli furbi de nostri [p. 115 modifica] sentieri turchi; mettessimo tutte le robe in barca, e così passassimo il Danubio, lasciando la Turchia; intrassimo in Christianità, facessimo la notte 60 miglia per il Danubio”158

Il 9 era già a Galatz, dove, senza tanti scrupoli, il nostro Alberti ascolta una messa ortodossa, si rimpinza di buon pesce del Danubio, e si consola dei polli „svaliciati” dai Tartari, con ottime lepri „a soldi cinque l’una”:

„Alli 3 detto [novembre 1612] giungessimo a Galazzo, città sulla riva del Danubio, Stato del principe di Bogdania. Discargassimo la mercancia di barcha, e stassimo in detto luoco tutto il giorno per accomodare le balle e per trovare li carri per il nostro viaggio. Alli 4 detto, stassimo in detto luoco; facessimo dir messa alla valacha, stassimo con molto nostro gusto, trovassimo molti e buoni pesci, cioè: morone fresche, sturioni e luzzi in grandissima quantità ed a bollissimo mercato, quasi per niente; gran quantità di lepri a soldi cinque l’una; galline e altri polli non ne trovassimo per esser stato già quattro mesi ogni cosa svaliciata da Tartari"159

Ma in Rumania non abbondan solo le lepri. Ci sono anche i lupi ed il povero Alberti ce ne può dire qualcosa, lui che li udì urlare tutta la notte tra gli alberi del bosco, nel quale aveva dovuto fermarsi:

„Alli 11 detto [novembre 1612] caminassimo sempre frà monti, e seguitassimo tutta la notte, caminando con gran freddo. Alli 12 detto seguitassimo sempre con gran pioggia, intrassimo in un gran bosco, nel quale vi stassimo la notte, sempre caminando con gran vento e pioggia. Alli 13 detto, giorno di Santa Lucia [chi sa quante volte le si era raccomandato nel bosco! ] caminassimo per detto boscho, il quale è grandissimo, le strade cattivissime, che sei paia di bovi non potevano tirare un carro; restassimo la notte in detto boscho, senza niente da mangiare e con gran paura de luppi, quali urlavano grandemente. Alli 14 caminassimo sempre per detto. La sera fossimo fuori, e stassimo la notte fuore di detto boscho”160

Di Iași ci fa sapere che è senza muraglie, e vi sono [p. 116 modifica] ottomila case in circa, ma tutte di legno, alquante chiese, alcune di pietra, ma parte... son ruinate dalle guerre”161. Il palazzo del Principe (Geremia Movila) è di pietra e serato attorno di legnami”162 secondo l’antico uso rumeno. Altrove descrive il seguito del Principe: "Quando il principe va per la cità, cavalca accompagnato da 500 archebusieri; è vestito di rosso, con la mazza ferrata in mano”163. Delle donne moldave scrive che son quelle che reggiono e fanno tutti li fatti necessarii alle loro case; ragionano liberamente e famigliarmente con homeni in publico et in secreto, chè non vi è guardato; quando portano da bere o mangiare, sono le prime a far la credenza”164 Aggiunge infine — ed è il miglior elogio ch’egli possa fare alle mogli rumene — che, „quando muore la moglie a uno, quello, per esser conosciuto vedovo, camina alquanti giorni per la città senza niente in capo”165

ῃ) Cornelio Magni.

Lasciamo con dispiacere il nostro simpatico viaggiatoremercante per passare ad un letterato, nell’opera del quale, dietro la maschera dell’erudito e dello storico, fan capolino a intervalli il volto ridanciano dello scroccone e le maniere ambigue dell’avventuriero. Per quanto spregiudicato ci si mostra l’Alberti, altrettanto noioso è il Magni166 colle sue proteste inopportune di fede cattolica e la sua sufficienza di perfetto benpensante. Mezzo volume è pieno di questa roba fra inzuccherata e stantia 77. 167 [p. 117 modifica] Non si posson leggere due pagine di seguito, senza imbatterci in proteste d’obbedienza al Sommo Pontefice, d’orrore per ogni sorta di eresia, e persili di compiacenza, per le sofferenze che gli ortodossi soffrono sotto il giogo del Turco, giusta punizione, secondo lui, dell’essersi allontanati dal grembo di Santa Madre Chiesa! Fosse sincero almeno! Invece, quelle sue proteste ci appaion così poco sentite, da farci pensare che il Magni si ricordasse d’esser cristiano solo fra i Turchi. Le poche pagine che dovrebbero riguardar la Rumania, son dedicate per metà alla narrazione di un certo intrigo che un rinnegato avrebbe ordito contro di lui, per calunniarlo presso il Sultano e spillargli così di bei quattrini. Si resta però con l’impressione che tutta questa famosa congiura, non sia esistita che nella mente esaltata dell’autore, che, del resto, specie riguardo alla Rumania, le sballa così grosse, da ritenerne persino greci gli abitanti. Sentiamolo parlare un tantino di certe sue imprese gallinacee nei dintorni di Galatz: „In corso di tre giorni, ci rendemmo a Galaz per campagne piane et amene, ma incolte: per il camino ci occorse passare varij casali tutti distrutti, et inabitati, e, quando volevamo mangiare, ci conueniua procacciarlo co’ bastoni, amazzando galline, anatre, o altro, che ci veniva alle mani, mentre con esibire l’ordine, et offerire danari era impossibile, che ci venisse accordata cosa veruna da quegli abitanti, che, quando vedevano poi li polli morti, si contentavano del pagamento: tanto è vero che dal Greco (!) non è possibile tirare cosa veruna con le buone, sia sotto speranza di premio, ò di pagamento, mentre esso non vuole per sua direzione altro che il bastone, il quale per Divina Previdenza trouasi ben collocato nelle mani del Turco, che non si rende auaro a questa perfida nazione, e pure non è mai abbastanza”168 [p. 118 modifica]

δ) Anton Maria Del Chiaro.

Molto più addentro nei costumi rumeni vide un altro viaggiatore troppo al lettore ben noto, perchè io osi presentarglielo: il fiorentino Anton Maria Del Chiaro segretario dell’infelicissimo Principe Constantin Bràncoveanu, autore infine di quella Istoria delle moderne rivoluzioni della Valacchia169 ch’è una delle fonti più preziose per la storia del popolo rumeno nel secolo XVIII.

È vero che, a proposito dell’abbondante selvaggina, che nutron la campagne, e, più ancora, i boschi della Rumania, si fa scappare anche lui delle parole, che, a prima vista, sembran riecheggiare le accuse del Boterò; ma è anche vero che dell’inerzia (più apparente in fondo che reale) ch’egli osserva nella popolazione, specie delle campagne, non fa una colpa alla popolazione medesima, ma allo stato di depressione e di momentaneo avvilimento, cui le „sanguisughe de’ villaggi”170 avevan ridotto i disgraziati abitanti di quelli. „Gli animali da Caccia”, scrive il Del Chiaro, in quel suo stile un po’ goffo di fiorentino, cocciuto nel preferire all’oro massiccio della sua parlata nativa gli orpelli sonanti di una lingua letteraria goffa e pretenziosa, „gli animali da Caccia, godono (per così dire) di una pace tranquilla per la infingardaggine di quella Nazione troppo dedita all’ozio, e che appena si prende cura dell’alimento suo cotidiano”171e... fin qui, il Del Chiaro è d’accordo col Botero. Se non che, mentre questi, dopo aver freddamente scagliata la sua accusa, si tace, pago dell’aver costatato un fatto, che gli risulta dalla concorde testimoninaza di tutti i viaggiatori; quegli, il Del Chiaro, rimane collo scrupolo che il lettore possa trar le sue [p. 119 modifica] parole „a peggior sentenza ch’ei non volle”, tanto più ch’egli è persuaso, che, in fin de’ conti, la colpa non è tanto dei Rumeni, quanto di coloro che li governano. Eccolo dunque soggiungere: Non già che i Valachi sieno privi di buon ingegno, e di coraggio, a segno di potere star a confronto di qualsiasi bellicosa Nazione; ma le continue esorbitanti Gravezze e Tributi, che molte volte in un anno debbon pagare, gli ha talmente avviliti, che dell’antico Romano valore non è restato loro altro che ’l nome.172 Chiamansi adunque in Lingua loro Romuni, e la Patria loro, cioè la Valachia, la chiamano Tzara Rumaneàsca; ed infatti, se mai vi fosse chi dubitasse, che la nazione Valaca moderna tragga la sua Origine da’ Romani, che vi si stabilirono per Colonia, consideri attentamente il loro Linguaggio, e conoscerà non esser altro la Valaca farella, se non una pura, e mera corruttela del Latino idioma; è ben però vero, che di quando in quando vi si osservano frammischiate parole Turche, Greche, Illiriche, Unghere ecc., ma ciò non dee recar meraviglia, se riflettiamo e alla vicinanza, e al commerzio che hanno avuto i Valachi, con quei popoli”173. Non so, se, a proposito della tanto discussa origin latina del rumeno, si poteva parlar meglio di come parla il Del Chiaro, al cui intuito critico è forza tributar lode, in tempi nei quali l’origine latina del rumeno non era un assioma, neppur per quelli che lo parlavano. Lo stesso Raicevich, che pubblicava le sue Osservazioni storiche, naturali e politiche intorno la Valachia e la Moldavia il 1788, cioè una settantina d’anni dopo il volume del Del Chiaro, pare un po’ sconcertato dal miscuglio che gli par di vedere nel rumeno di parole latine e di parole slave. È inutile dire, che, da buon suddito austriaco, si guarda bene dall’accennare all’origine sì della popolazione che della lingua, [p. 120 modifica] poche anzi sembra meravigliarsi persino che „molti vecchi, tenaci in conservare i costumi antichi”, non abbian „mai voluto parlare il Greco”174. Il Del Chiaro invece, come abbiam visto, dopo aver rilevato l’origine e il carattere latino del popolo e della lingua, non si limita a segnalar la presenza di vocaboli e costrutti slavi (ch’egli dice illirici) nel lessico rumeno, ma pur anco le parole turche, greche e ungheresi infiltratesi nella lingua in seguito „al commerzio che hanno avuto i Valachi con quei popoli”. Un filologo moderno non potrebbe esprimersi con maggiore esattezza! Ma, per tornare all’indole dei Rumeni quale apparve al Del Chiaro, sarà bene citare il brano seguente, a mostrare com’egli, a differenza di altri viaggiatori italiani e stranieri, s’ispirasse ne’ suoi giudizii, a quella simpatia per il popolo, del quale di descrivono i costumi, tanto necessaria ad ogni viaggiatore che intenda riuscire obiettivo, per vincere quel primo sentimento d’instintiva ribellione, che il contatto con popoli di civiltà diversa fa nascer nell’animo anche dell’uomo più colto e spregiudicato, e riesce spesso fatale alla giusta valutazione degli uomini e delle cose:

„Quanto poi alla Nazione Valaca in generale, basta il solo praticarla, per venire assolutamente in chiaro, che i Valachi sono dotati di ottima indole, e capacissimi di fare buona riuscita in tutte le professioni, alle quali si applicano; ogni qual volta sieno ammaestrati. Eglino sono naturalmente agili nel cavalcare; destri nel maneggiar la sciabla, e nell’arte del saettare; e, se fossero istruiti nell’Arte Militare, farebbero un gran profitto. Quanto poi ad altri esercizj meccanici, riescono mirabilmente. Imparano tutto ciò che vedono, e non vi è manifattura, tanto alla moda Turchesca, quanto all’usanza nostra, che eglino non sappiano assai bene imitare. Mi ricordo d’aver veduto un Giovane servitor della Casa Cantacuzena, il quale aveva così bene imparato a disegnar con la penna, che i disegni da lui fatti parevano stampati in rame. Un altro ancora (fratello di un Mercante, noto qui in Venezia ad alcuni di quelli che negoziano con li Mercanti Valachi) riesce assai bene nel dipingere, a segno tale che ha copiato assai esattamente alcuni Quadri di Chiesa in Venezia, e, ritornato poi nella [p. 121 modifica] Valachia, ha fatto quivi diverse Pitture, tra le quali un San Francesco inginocchioni in atto di ricever le Stimmate, il qual si vede nell’Aitar laterale a man diritta per andar all’Altar maggiore della nostra Chiesa di Tergoviste”175.

Parla poi delle „fornaci de’ Vetri” a due miglia da Târgoviște, dicendo che, „quei Vetri riescono assai chiari e netti, benchè sieno di colore azzurro”, che vetri di colore più bianco „vengon portati dalla Polonia”, che i nobili sogliono procurarsi cristalli finissimi, facendoli venire da Venezia o dalla Boemia, e finalmente, „per tornare all’ingegnosa capacità de’ Valachi” conchiude osservando com’„eglino sappiano imitare ogni sorta di manifattura non tanto alla moda Turchesca, quanto alla Italiana, Tedesca, Francese, ec.”, con le quali parole il buon Del Chiaro tende a rivendicare all’Occidente (e all’occidente latino più di quanto le parole non dicano) la civiltà rumena ancora in fasce, rilevandone la tendenza a imitar l’arte italiana, tedesca e francese a preferenza di quella turca e bizantina, il che in fondo non corrisponde al vero, ma vaie a mostrarci un simpatico interessamento del nostro viaggiatore, che, nello strazio di dover constatare come su questa bella e fertile e nobil terra latina si fosse distesa l’ombra aduggiatrice della scimitarra infedele; cerca sottrarre a quell’ombra e far rifulgere al sole della civiltà latina e cristiana tutto quello che può senza contraddir troppo acerbamente ai fatti: la cultura dico e le caratteristiche spirituali degli abitanti, onde il suo libro appare a tratti come una protesta vigorosa contro il diritto del più forte, una denunzia alle nazioni civili della inaudita crudeltà orientale, una novissima e ardita crociata dello spirito. Non tocca a me dire dell’importanza che questo libro del Del Chiaro ha per gli studiosi di cose rumene, specie nella seconda parte, dove parla delle Moderne rivoluzioni della Valachia e tratta delle signorie dei principi che vi regnarono dal 1709 al 1714, durante i quali anni il Del Chiaro visse in Rumania176. Le signorie di Scerbano [p. 122 modifica] Cantacuzeno, di Costantino Brancovani, di Stefano Cantacuzeno e infine di Niccolò Mavrocordato appaiano lumeggiate in ciò che ebbero di buono e criticate in ciò che ebbero di brutto con una equanimità che assai spesso si trasforma in indulgenza benevola, magari a scapito della Storia. Da buon italiano, il Del Chiaro sente tutti i doveri dell’ospite, è sempre pronto a mettere in rilievo i pregi dela popolazione, in mezzo alla quale è vissuto per tanto tempo, gli atti d’intrepidezza e di coraggio che gli è capitato di osservare o che gli sono stati narrati, si protesta grato specie al Brancovani dei ricevuti favori e ne descrive la deposizione e la morte con parole che strappano le lagrime al più duro lettore, parla colla più serena oggettività e rispetto degli usi, della religione e persino delle superstizioni, senza increspare le labbra a quel sorriso beffardo di compatimento che dà tanto ai nervi in troppi altri scrittori di viaggi e rivela quasi sempre un cervello piccolo che non sa uscire dal cerchio ristretto delle sue abitudini nè scrutar le ragioni spesso profonde che han determinato quegli usi che a prima vista ci si presentano come illogici e inesplicabili.177 [p. 123 modifica]

L’intenzione di riuscir quanto è possibile equanime e spregiudicato ne’ giudizii appare del resto fin dalle prime parole della prefazione:

„Scrivo quel che... ho veduto io medesimo: Scrivo ciò che in quello stesso Paese da Personaggi accreditati mi è stato ingenuamente affidato: Sono forestiero in quella Provincia, ed egualmente beneficato ed onorato da tutti e tre quei Principi, de’ quali scrivo in modo particolare; il che mi fa sperare, che a chi leggerà servir possa di bastevol motivo per credermi totalmente spogliato da qualsiasi passione”178.

Tutti gli storici, da che mondo è mondo, han sempre fatto di simili proteste, senza che poi abbian voluto o potuto attenervisi e neppure il Del Chiaro riesce, per esempio, a sottrarsi alla simpatia che la memoria dell’infelice principe Brancovani gli ha destata nell’animo, ma lo fa con discrezione, senza rendersi ingiusto con gli altri, neppure quando la cosa parrebbe quasi impossibile. Cito un esempio. Quando, a p. 187 della sua Storia, ci parla dell’elezione di Stefano Cantacuzeno in luogo del deposto Brancovani, avvenuta il giorno stesso della deposizione di quest’ultimo, e mentre l’infelice principe si trovava con la sua famiglia in preda al più disperato dolore; il Del Chiaro non riesce a mandar giù che un uomo legato al Brancovani da stretta parentela non solo accettasse di occuparne il trono senza neppur tentare di salvarlo dall’ira della Porta, ma incominciasse „a dispensar diverse Cariche, ch’erano state prima possedute da Creature del deposto”; pure, nella sua condizione di forestiero, cui non piace mettere il naso ne’ fatti altrui, si limita a rilevare come la cosa desse a molti „l’occasione di mormorare”, senza entrare in merito sulla giustezza o meno di quelle mormorazioni.

È una pagina che mette conto di riprodurre, pervasa com’è da un soffio potente di carità e di pietà veramente cristiana, assai diversa dal fanatismo che avremo occasione di osservare nel Baicevich, che, non sapendo trovare un modo migliore di [p. 124 modifica]ostentar la sua credenza cattolica, ricorre ad ogni sorte di calunnie contro il clero ortodosso. Ecco le paroli del Del Chiaro: „Si fece lo sparo de’ Cannoni; gli fu prestato l’omaggio, mediante il bacio della mano, da ogni Nobile, e da altre Persone di non infima sfera. Spettacolo non più veduto: Metamorfosi non più udita! In uno stesso tempo due Principi in una medesima Corte: uno Deposto, l’altro (come apertamente dicono tutti e nella Valachia e altrove): intruso. Chi mai può dire di aver veduto nello stesso tempo rappresentarsi due scene così contrarie in un Teatro? Ciò viddesi allora in Bucaresti. Nella Scena del nuovo Principe Cantacuzeno, tutto era in giubbilo, tutto in allegrezza; ognuno de’ di lui aderenti andavasi già ideando nella mente una farragine di giulive speranze. All’incontro in quella del Deposto Brancovani, altro non compariva se non tristezza, e costernazione; sendo il tutto ingombrato dalla terribile apprensione di mille timori. Il Principe Stefano, dopo aver ricevuto il primo omaggio suddetto, passò nell’Appartamento del Principe Deposto, a cui fece alcuni complimenti, e poscia diverse proteste circa dell’aver accettato il Principato. Sinchè durò questo discorso tra di loro, osservai che il Cantacuzeno stava in piedi, e col capo scoperto: Il Brancovani, stando a sedere e col berrettone in testa, gli rispose, con la solita sua naturale soavità: Esser sempre meglio, che il Principato fusse stato conferito a lui, che a qualche Persona straniera. Terminatosi questo complimento, licenziossi il Principe Stefano, e ritornato nel suo Appartamento, si assise in Trono, dove cominciò a dispensar diverse Cariche, ch’erano state prima possedute da Creature del Deposto: Cosa che veramente diede a molti occasioni di mormorare, parendo che almeno per una certa convenienza di stretta parentela, sarebbe stato bene il non fare mutazione veruna sino alla partenza del Brancovani. Questa successe il giorno seguente, ch’era il Venerdì Santo de’ Greci, verso le ventun ore. Giornata, e ora veramente di passione pe ’l povero Principe, che insieme co’ suoi Figliuoli era condotto in Costantinopoli ad una morte spietata”179 180 [p. 125 modifica]

La prima parte del volume è tutta intera consacrata alla descrizione degli usi e dei costumi, dei quali si occupa per ben centodieci pagine, che, ripartite in otto capitoli, vengono a formare quasi la metà dell’opera.181 Ciò è interessante, perchè costituisce un particolare del Viaggio del nostro Del Chiaro, che non ci avverrà di riscontrare negli altri, che o faranno la parte maggiore alle vicende politiche attraversate dalla Rumania, o ai prodotti di esportazione, dando alle loro pagine un colorito ora prettamente storico ora prettamente commerciale, che è assai lungi dall’esser quello ideale d’un libro di viaggi. Nel volume del quale ci occupiamo, anche la parte storica si colorisce degli attraenti colori, che rendon sempre dilettevoli le pagine dei veri e propri viaggi; avendo il Del Chiaro partecipato degli avvenimenti che narra, della deposizione cioè „succeduta in questa Provincia in manco di 3. anni nella persona di 3. Principi, due dei quali perderono miseramente la vita in Costantinopoli, ed il terzo vive prigioniero de’ Tedeschi nella Transilvania”182

Malgrado dunque egli l’abbia intitolato: Istoria delle moderne rivoluzioni della Valachia, il suo non è perciò meno un vero e proprio viaggio. Ch’egli sia viaggiatore nato e si trovi un po’ a disagio, quando, a corto di documenti, si trova nella necessità di far della storia, possiamo argomentarlo dal sospiro di sollievo, col quale chiude il capitolo II della seconda Parte: „Per quanta diligenza io abbi usato, non mi è stato possibile il ritrovar ne’ Manoscritti Valachi, menzione alcuna di questo Principe Graziano; tanto è malagevol cosa il ricavar le notizie più antiche, quando nè pur si possono aver quelle di un secolo in qua! Ma grazie a Dio, che già ci avviciniamo a’ Principi de’ nostri tempi, de’ quali potremo con più coraggio favellare”183. Non è strano perciò che la lettura di queste pagine ine teni il lettore col pascolo abbondante che fornisce alla naturale curiosità che ci spinge a conoscere usi e paesi diversi da quelli nei quali viviamo; non è strano neppure che molte di quelle pagine, e specie le più sentite, riescano di un’efficacia stilistica, cui p. es. le aride osservazioni storiche, naturali, politiche — e stavo per dire astronomiche — del Raicevich non possono aver l’onore [p. 126 modifica] di aspirare. Non ho alcuna intenzione di abusare della pazienza del lettore e perciò non istarò a trascrivere le saporitissime pagine ch’egli scrive intorno p. es. alle taverne, ch’egli chiama criccime, adattando all’orecchio italiano la parola rumena cârciuma; nè la minutissima descrizione delle cerimonie nuziali e neppur quella dei solenni funerali fatti a Bucarest l’anno 1716, „il Venerdì avanti la Domenica di Pentecoste” alla Principessa Porfiria, seconda moglie di Alessandro Mavrocordato; mi permetto solo di richiamar l’attenzione su una delle più graziose tra le macchiette che allietali la lettura di questo volume e rappresenta la disperazione un po’ comica d’un minuscolo pastore di cavalli per la fuga d’uno dei componenti della mandra, ch’egli non riesce a far rientrare nel branco: „Mi sovviene che molte volte con mia somma curiosità vedeva passare davanti alle mie finestre le truppe (rum. trupe) di Cavalli, che andavano al fiume per bere la mattina, e la sera, e non avevano perlopiù altro condottiere, se non un ragazzo di 7. in 8. anni a Cavallo; e quel che mi faceva ridere si era, che se alle volte qualche Cavallo, lasciata la compagnia degli altri, voltava per altra strada, allora il ragazzo, vedendo che il chiamarlo e il dirgli villania con parole disoneste, niente giovava, cominciava poi a piagnere continuando però una lunga filastrocca di oscenissime frasi, che imparano facilmente prima di giungere all’età da poter sapere il significato di Esse”184. Qui mi sembra che il Del Chiaro sia addirittura impagabile. Il fatto è comico di per sè stesso, soprattutto per il mezzo inaspettato e inadeguato, cui ricorre il fanciullo per far tornare il cavallo nel branco; ma, oltre a ciò, quello stesso parlare in punta di forchetta, con parole scelte e piene di decoro, in un argomento così poco serio ed elevato, fa sprizzare il riso ad ogni frase del genere p. es. di queste, che, per le ragioni suddette, mi sembran più comiche delle altre: „dirgli villania con parole disoneste”, e: „una lunga filastrocca di oscenissime frasi”; onesti eufemismi, che, nella loro qualità di fiori di stile, fanno ridere anche chi sapesse resistere al comico della scena descritta.

Un rumenismo usato dal Del Chiaro nelle righe sopra ricordate, e cioè truppa di cavalli in luogo di torma o mandra, e [p. 127 modifica] che non è altro se non il rumeno trupa de cai, ci ricorda un altro merito non piccolo del nostro viaggiatore fiorentino: la conoscenza ch’egli mostra avere della lingua rumena, in grazia di cui quasi sempre, pur colle necessarie sostituzioni ortografiche, le parole e le frasi rumene da lui riportate nel volume si leggono scritte esattamente e tradotte con esattezza, cosa piuttosto rara nei libri dei viaggiatori italiani in Rumania.

Di questa sua conoscenza della lingua, troviamo una prova nel Vocabolario sopra ricordato di parole valacche che han corrispondenza col latino e l’italiano, ch’egli fa seguire al secondo libro della sua Storia, ,,per appagar la virtuosa curiosità di chi legge, sul proposito della Valaca favella, la quale in molti Vocaboli ha una gran correlazione colla lingua latina”185. A proposito di che, ritengo non interamente privo d’importanza il segnalare un passo, dal quale, se ce ne forse il bisogno, risulterebbe ancora più chiaro, quanto dalla teoria latinista sia breve il passo a quella italianista, e come il Del Chiaro possa in ciò considerarsi un precursore di Heliade:

,,Dopo aver terminata questa mia Storia, mi vedo in impegno di mantener quanto nel principio di essa promisi, per appagar la virtuosa curiosità di chi legge, sul proposito della Valaca favella, la quale in molti vocaboli ha una gran correlazione colla Lingua Latina conforme ce ne vien dato qualche saggio da Giovanni Lucio nel suo Libro intitolato: De Regno Dalmatiae: Io però, con mio stupore, osservo esservi frammischiate non solo alcune parole Italiane; ma eziandio, per la pratica da me acquistata in sei Anni nel Linguaggio Valaco, trovo che ne’ Verbi (spezialmente ne’ preteriti perfetti) vi apparisca la maniera totalmente Italiana, e che affatto si scosta dal Latino; cioè a dire, che ne’ suddetti preteriti servonsi, come noi Italiani, del Verbo Ausiliare Avere, ed eccone alcuni esempj.

Ce ai scris?
N’ai facuto (sic) bine.
Adam Parinte al nostro (sic)
     a peccatuit (sic).
Cristos a pazzit (sic) pentru
     peccàtele (sic) noastre.

Che cosa hai scritto?
Non hai fatto bene.
Adamo, Padre nostro ha peccato.
Cristo ha sofferto (patito) per
     i nostri peccati.

[p. 128 modifica]

E moltissimi altri di simil sorta, che a bello studio tralascio per non recar tedio a chi legge”186.

— „Bella scoperta! 0 non accade lo stesso in tutte le lingue romanze? Come mai una cosa così ovvia può sembrar tanto strana al Del Chiaro?” — Sicuro, oggi siamo noi a meravigliarci della meraviglia del Del Chiaro; pure la nostra meraviglia non è meno illegitima di quella del viaggiatore settecentista. Possiamo in buona fede scandalizzarci della poca penetrazione filologica del Del Chiaro, (che — non lo dimentichiamo — scriveva quelle parole intorno al 1817 — 18), quando tanti anni dopo un ingegno critico come quello del Raynouard si perdeva nei viottoli senza uscita di una teoria assolutamente fantastica? Se, pur dopo la comparsa del volumi del Diez, Heliade erigeva a dignità di teoria (e portava poi alle ultime conseguenze) un’opinione, cui il Del Chiaro aveva appena accennato timidamente e in forma dubitativa?

τ) Domenico Sestini.'

Domenico Sestini187, numismatico insigne, archeologo non disprezzabile e dilettante di botanica, venne in Rumania ai tempi del Voda Ipsilanti e precisamente nell’ottobre del 1779, ma vi restò troppo poco, perchè potesse parlarne con qualche competenza. Peggio ancora: il Sestini non ebbe troppo a lodarsi del Voda Ipsilanti, che, dopo averlo fatto venire da Costantinopoli, dove allora il Sestini si trovava a villeggiare a Bujuk-Derè, offrendogli il posto di Segretario, non mantenne gl’impegni, o meglio li mantenne solo in apparenza, onde „per non [p. 129 modifica] diventarelo zimbello di un simil procedere”188, alla prima occasione il Sestini prese congedo dal Voda e partì. Numismatico di fama europea, onorato e stimato non soltanto dai dotti di ogni nazione, ma da principi e da sovrani, fra cui il Gran Duca di Toscana e Cristiano VIII di Danimarca, il Sestini aveva accettato l’offerta di Ipsilanti non per un meschino interesse materiale, ma attratto dal desiderio di conoscere un popolo, che, per la sua origine latina, la sua posizione geografica, le sue relazioni con la republica veneta e le sue immeritate sventure, ha sempre destato nell’animo degli italiani di ogni tempo speciale simpatia e interesse. Era nato a Firenze il 10 agosto 1750, e, fin dai più teneri anni della giovinezza, s’era dato allo studio dell’archeologia e della numismatica. Il 1775 la sua fama di provetto archeologo, uscita fuori dei confini del Granducato di Toscana, gli procurava da parte del principe Biscari un invito, ch’egli accettò, di recarsi a Catania a riordinare le sue collezioni di antichità e di monete greche e romane. Il 1778 lo troviamo a Costantinopoli, precettore dei figliuoli del ’ Conte Costantino de Ludolf, inviato straordinario e ministro plenipotenziario del Re di Napoli presso la Porta Ottomana. Percorre in seguito co’ suoi allievi le varie provincie dell’Impero turco, finchè, fatta la conoscenza di Sir Robert Ainslie, ambasciatore inglese a Costantinopoli, non riceve da questi l’incarico di formargli quella collezione di monete, che, anche ai giorni nostri, è una delle più ricche del mondo. Torna poi in Italia, ma vi resta poco, chè ne parte alla volta della Germania e di Berlino, dove dimora a lungo e pubblica parecchie delle sue relazioni di viaggio; il 1810 lo troviamo a Parigi e di lì a poco a Firenze, bibliotecario e a antiquario di S. A. S. la Granduchessa di Toscana, Elisa Baciocchi. Il 1814, perduto l’impiego in seguito alla restaurazione di Ferdinando III, accetta l’invito del conte Wiczay di recarsi presso di lui a Hederwar in Ungheria per riordinare un prezioso medagliere. Classificò e descrisse con rara competenza le monete dei gabinetti numismatici di Monaco e di Trieste e della collezione privata di Cristiano VIII di Danimarca, finchè [p. 130 modifica] la fama che si era ormai procacciata in tutta Europa non decise Ferdinando III a richiamarlo in patria, professore di archeologia e numismatica all’Università di Pisa e antiquario del Granducato. Riteniamo perfettamente inutile dar qui l’elenco delle sue numerose opere di numismatica: ci contenteremo perciò di ricordare soltanto quelle Classes generales geographiae numismaticae, seu monetae urbium, populorum et regum, ordine geographico et chronologico, che, pubblicate per la prima volta a Lipsia il 1796 in due volumi in quarto e ristampate a Firenze il 1821, furon considerate a que’ tempi come l’opera classica per eccellenza, superiore di gran lunga ad altre consimili dell’Eckel, del Lipsius e del Pinckerton, che, fino allora, avevan tenuto il campo.

Come scrittore di viaggi, il Sestini merita anche lui un posticino accanto agli altri del Settecento, soprattutto per le notizie archeologiche, (talvolta assai interessanti), delle quali le sue relazioni abbondano. Oltre il Viaggio da Costantinopoli a Bukoresti e il Viaggio curioso, scientifico e archeologico in Valachia, in Transilvania e in Ungheria fino a Vienna189 che si riferiscono al nostro argomento; pubblicò anche, nel 1777, alcune Lettere scritte dalla Sicilia e dalla Turchia a varii amici in Toscana190, nel 1785 altre Lettere di viaggio dall’Asia Minore191, un Viaggio da Costantinopoli a Bassora e ritorno192, Viaggi ed opuscoli diversi193, a non parlare di uno scritto sull’Agricultura, prodotti e commerci della Sicilia194 e di alcune Considerazioni sulla Confederazione degli Achei195 che, se non sono dei veri e propri libri di viaggi, appartengono pur sempre a quella curiosa letteratura pseudoscientifica, pseudofilosofica e pseudopratica del Settecento, che, messa di moda dai fratelli Verri nelle colonne del loro Caffè, incoraggiata dal Baretti co’ suoi articoli della Frusta Letteraria, ebbe il merito di spazzar via d’un colpo le [p. 131 modifica] pastorellerie degli arcadi, e, pur cogli eccessi inerenti alla reazione che rappresentava, fu, il primo sintomo d’un radicale e sano rinnovamento degli spiriti.

Il Sestini, per conto suo, tien più dal Caffè che dalla Frusta: ce n’accorgiamo subito dalla Prefazione al secondo de’ suoi viaggi196, in cui, da buon seguace del Verri, parte in guerra contro la Crusca, dichiara suo unico fine nello scrivere quello d’essere inteso, poco curandosi d’esser annovevato fra gli scrittori che fan testo di lingua, pur di riuscire quanto è possibile esatto, facile e chiaro197. Ciò posto, non potrà farci meraviglia che la sua prosa, come del resto una buona metà della prosa del Settecento, ci si presenti arida, sciatta, ineguale, e solo qua e là si rialzi in virtù di un certo colorito fresco e vivace, che, in mezzo a tanti difetti, non manca di esercitare una certa attrattiva.

S’è già detto della ragion del viaggio, aggiungeremo che il nostro Sestini partiva alla solta di Bucarest colle migliori disposizioni del mondo. Ce ne accorgiamo agevolmente alla simpatia, con cui parla della prima rumena che ebbe occasione di avvicinare, sia pure per poco:

„Ad Arnaut-Kiof ci convenne fermarsi, mediante la pioggia, e il mare troppo agitato. In quell’occasione ebbi luogo di andare a riverire la madre del Principe, ed una sua figlia maritata al Signor Mano, nobile Greco. Conobbi in essa un’aria franca, ed una grazia europea, possedendo anche la lingua francese messa in uso da poco tempo alle corti di Valachia e di Moldavia”198.

Disgraziatamente però, codeste buone disposizioni non durarono a lungo. Il Sestini — pare — non ebbe troppo a lodarsi di Ipsilanti, e della sua permanenza a Bucarest tace coll’ostinazione di chi non vuol rimestare ricordi poco piacevoli. Da questa condizione di cose risulta che il primo dei viaggi sopra [p. 132 modifica] ricordati non rappresenta in fondo che un viaggio attraverso la Bulgaria, mentre il secondo, incominciando dalla sua partenza da Bucarest, è piuttosto un viaggio in Transilvania e in Ungheria che attraverso la Valacchia, di cui parla solo di passaggio, e — bisogna riconoscerlo — con non troppa simpatia. Non resta dunque che contentarci di quel poco che il Sestini riferisce del suo viaggio da Giurgiu a Bucarest e del non molto che ci sarà dato mettere a profitto di quanto narra dell’altro da Bucarest ai confini dell’Ungheria. Racconta dunque il nostro viaggiatore, che, lasciati i cavalli a Rusciuck, e poste „le nostre cose in una barchetta di passaggio: andava questa barchetta lontano un’ora e nello stesso luogo, ove dovevamo pure noi sbarcare di là dal fiume suddetto [il Danubio], cioè a Ghiurghievo ove alla riva vi è una fortezza, o forte fatto fare dai Turchi, e in tal guisa vennamo ad entrare nella Valachia, con aver lasciata la fertile, ed abbondante Provincia della Bulgaria...”199. La prima impressione fu tutt’altro che piacevole, essendo da per tutto manifesti i segni della desolazione che la recente guerra aveva sparso nelle città e nelle campagne. „Entrati dunque nella giurisdizione del Principe, lasciammo i cavalli alla Posta della Daja, ove vi è un miserabile casale, essendo gli avanzi, ed il refugio di povere famiglie Valache, che disperse s’erano nel tempo della guerra, vedendosi ancora bruciate le loro abitazioni, e che le presenti si riducevano a miserabili capanne: che essendo appunto un giorno di festa, e riguardando quei poveri abitanti, mi pareva di scorgere quegli antichi liberti, e schiavi a tempo di Trajano, i quali niente hanno degenerato dall’antica loro fisionomia, e brutto aspetto, come appunto rappresentati si vedono nella Colonna Trajana a Roma”200.

Ammettiamo pure che la miseria e la desolazione che il Sestini vide regnare in quel povero villaggio influissero a fargli veder fosco; io non riesco a spiegare come quei poveri contadini (delle contadine201 il nostro abate non parla) potessero [p. 133 modifica] fargli, specie in un giorno di festa, una così brutta impressione, senza ricorrere all’aiuto della suggestione che le figure davvero assai grottesche dei prigionieri daci effigiati sulla Colonna Traiana, dovette esercitare sull’immaginazione del nostro archeologo. Al quale vorrei ricordare, se gliene importasse ancora — del che dubito assai, poi che è morto da un pezzo e nell’altra vita è da sperare che gli spiriti non si occupino di simili malinconie vorrei dunque ricordare che la superbia dei raptores orbis terrarum determinò una stilizzazione del tipo barbarico, piccolo, capelluto, impacciato nei larghi calzoni, spirante dagli occhi un fanciullesco terrore e implorante passis manibus la pietà del vincitore, che tiene assai più della caricatura che del ritratto, onde voler trovare il tipo rumeno negli schiavi effigiati sulla Colonna Trajana è un’idea assolutamente balzana, anche dal punto di vista archeologico. Comunque sia di ciò, al nostro Sestini non solo i contadini, ma persino le croci piantate sui confini fecero cattiva impressione: „Ecco poi la Luna Ottomanna eclissata da pezzi di Croci, che si osservano piantate su i confini di tale Provincia; e le quali altro non sono che tronchi interi d’alberi, abbozzati malamente con l’ascia, e formatane una goffa Croce Greca-Valaca, che a prima vista mi sembravano patiboli destinati per il povero genere umano”202. Ecco: quando a un abate danno ombra persino le croci, c’è da credere che sia mal disposto sul serio. È vero, che il nostro non era un abate come gli altri, visto che portava la sua brava parrucca incipriata e le sue brave calze di seta; ma... un odio così poco cristiano per quelle povere croci (che avrebbero invece dovuto dargli un senso di sollievo dopo tanti minareti e mezzelune), non riesco proprio a capirlo, senza supporre che il Sestini, anche prima d’arrivare a Bucarest, cominciasse a capire che il vento non tirava troppo propizio, e che il suo amor proprio avrebbe sofferto non poco di una condizione di cose poco definita. Non migliore impressione gli fece una casa di Călugăreni (ch’egli scrive Kalugherenni) dove passò la notte; pure, la descrizione che ne fa, oltre all’essere quasi in ogni suo particolare veritiera, determina nella fantasia del lettore la visione d’una scena d’interno a grandi luci e grandi ombre, che [p. 134 modifica] il pennello di Rembrandt non avrebbe forse sdegnata. „Questo villaggio è composto di miserabili capanne, e casupule (sic), e dove (sic) convenne andare a riposarsi in una simile, composta di due stanze, in una delle quali vi era una stufa accesa, che tramandava un calore eccessivo che sentii entrando dentro, ove la gente stava dormendo all’intorno della medesima per liberarsi, credo io, dall’aria che non la stimo delle migliori, e per le aggeggie della notte, e per le guazze, che abbondanti cadono. Questa gente poi resta miserabilmente alloggiata, e all’intorno della stanza hanno una specie di tavolato, o pancone, come i soldati, che stanno in guardia, e sopra il quale vi dorme tutta una famiglia. Ed ecco tutto il loro equipaggio e situazione di questi individui. Era curioso poi, che in ciascun focolare vi sono certi animaletti, Grieri detti nella lingua del paese, il che corrisponde al nome di grilli, i quali stanno in certi pertugi dei cammini, con resistere al gran calore, che vi si prova, ed i quali facevano una zinfonia strepitosa, che continua per tutto l’anno”203. Non si può negare, che, a malgrado della forma scorretta, qua pretenziosa, pedantesca, affettata (quelle aggeggie mettono i brividi per davvero) là povera, scucita e plebea, il quadretto della casa di Călugăreni colla sua stufa pieni di grilli e i suoi abitanti sdraiati a dormire sulle panche, non manca di attrattive, più invero per quanto ci è dato immaginare, che per quanto il Sestini ci descrive. Con tutti i suoi difetti di lingua e di forma (di stile non è il caso di parlare neppure) questa è forse la pagina più bella che abbia scritto il Sestini; nel secondo viaggio, del quale parleremo fra poco, non ne troveremo di simili.

IL VIAGGIO | curioso-scientifico-antiquario | per la | Valachia, Transilvania, | e Ungheria fino a Vienna | fatto | da Domenico Sestini socio di più accademie, pubblicato a Firenze, Nella Stamperia di Luigi, e Fratelli Magheri, A spese di R. Tondini Librajo di Badia; avrebbe dovuto precedere la Descrizione del viaggio fatto da Vienna per il Danubio infino a Rusciuk, e di là per terra insino a Varna, e quindi per il Mar-Nero a Costantinopoli, pubblicata a Berlino il 1807 con due altri viaggi „intrapresi per diverse provincie asiatiche”; invece, come l’autore [p. 135 modifica] stesso ha cura di avvertire nella Prefazione, vien presentato „al Pubblico curioso, dopo un periodo di trentacinque anni”204

Alcune parole greche sulla vera e falsa amicizia, stampate a grossi caratteri sulla pagina che precede il frontespizio, potrebbero sembrarci di colore oscuro, se, messe accanto ad altre della Prefazione, non acquistassero subito un significato chiarissimo, che ci dà la chiave dell’enigma.

Le parole greche dicono così:Πολλοὶ δοκοῦντες εἶναι φίλοι, οὔκ εἰσιν, καὶ οὐ δοκοῦντες εἰσί. σοφοῦ οὖν ἐστί γινώσκειν ἕκαστον. Φεύγειν δὲ τὴν φιλίαν, ὧν τινων ἀμφίβολος ἡ διάθεσις. Chi era il falso amico di cui si lagnava il Sestini? Sappiamo già ch’egli non ebbe troppo a lodarsi del trattamento fattogli in Valachia; vediamo ora se ci riesce di saper qualcosa di più preciso intorno a questo punto non chiaro. La prefazione comincia col rilevare, che, se gli aforismi d’Ippocrate hanno sempre meritamente goduto di gran fama fra i medici, lo stesso dovrebbe essere di certi giudizii che gli scrittori antichi ci han tramandato sul carattere di alcuni popoli, come per es. il cretenses autem iniquissimi di [p. 136 modifica] Cicerone, il nulla fides graecis di proverbiale verità, e le parole di Costantino Porfirogeneto: Καππαδόκια, Κρήτη, Κιλίκια, τρία Κάππα κάκιστα, che, ancor meglio delle precedenti latine sembrano attagliarsi al caso del Sestini. Dopo questo preambolo, cui non manca di far seguire, a mo’ di commento, l’osservazione che questi popoli conservano tuttora gli stessi difetti, il Sestini ci dà qualche notizia più positiva intorno alle cause della sua partenza da Bucarest: „La mia permanenza fatta in Bukuresti per otto mesi circa, non ebbe quell’effetto, che doveva in realtà avere, nè l’esercizio del mio posto, per il quale mi si era con tanta premura fatto venire, potè aver luogo, onde non volendo essere lo zimbello della cattiva fede di una tale nazione, aspettai un’occasione favorevole per potermi liberare da una specie di tirannia causatami anco dalla persona, che doveva lasciare il suo posto, per essere da me occupato secondo l’accordo, e le convenzioni fatte col principe Ypsilante”205. È chiaro che qui si tratta del Segretario, in casa del quale il Principe volle che prendesse alloggio appena arrivato a Bucarest. Contro costui, un Signor R..., non mancano insinuazioni ironiche nel corso del volume206, che del resto contiene solo poche pagine [p. 137 modifica] (1 — 50) dedicate alla Valachia, e queste non troppo interessanti, anche per la parzialità dei giudizii, che offendono il lettore spregiudicato e sereno.

Ad ogni modo non si creda che il Sestini parli male delle popolazioni rumene, attraverso le quali viaggia, chè anzi le descrive miti e ospitali per quanto rozze e superstiziose. Egli l’ha col Principe, e più ancora col Segretario del Principe, che non volle saperne di cedergli il posto quando fu arrivato; ma è naturale che un pochino della stizza, che ancora gli rimaneva nell’animo, per il modo com’era stato trattato, si riversasse anche sulla popolazione. Della quale, del resto, parla assai di rado, onde il suo viaggio par fatto attraverso luoghi disabitati, in cui non s’incontra che di tanto in tanto qualche autorità (quasi sempre un Ispraivnic) o qualche messo, che presto scompare a spron battuto per la campagna. Di questa invece e delle piante, e dei fiori che vi crescono, parla davvero un po’ troppo, annoiando il lettore cui importa fino a un certo punto di sapere che in tal luogo ci sia o non ci sia l'Aristolochia clematis, o il Nastrutium indicum o la Spiraea filipendula207, specie [p. 138 modifica] poi in un libro di viaggi, dal quale preferirebbe imparar a conoscere multorum mores hominum... et urbes. Inoltre la minuzia archeologica e numismatica delle sue osservazioni, assolutamente fuori posto208 in un libro di viaggi, giunge fino al punto da fargli perdere quattro buone pagine intorno al porumb e al modo con cui si fa la mamaliga, come se il granturco e la polenta fossero delle cose tanto rare e peregrine, da aver bisogno che le scoprisse lui in Rumania. Con tutto ciò una pagina in cui descrive la casa bojeresca di campagna209, un’altra che riguarda i servi, infine quelle che dedica alla descrizione della Curtea de Argeș, [p. 139 modifica] meritano d’esser segnalate all’attenzione del lettore. Non potendo, senza uscire dai limiti che abbiam prefissi al nostro discorso, riportarle tutte, ci contenteremo di riferir quella che riguarda i servi e il modo com’erano trattati, anche perchè l’argomento è come si dice di attualità, per essere stato trattato di recente in un opuscoletto210 211non privo d’interesse.

„30 maggio, martedì. Alle ore 7 della mattina era stabilita la nostra partezna, che in una tale stagione si poteva dire essere anco tardiva, ma a poco a poco l’equilibrio della partenza veniva spesso dimesso, a tal segno, ch’essendo tanti in compagnia ne accade a chi manca una cosa, e a chi un’altra; ed i servi, che dovrebbero essere più solleciti dei padroni, sono i più poltroni, e spesse volte si ha, che questi vogliono passare pur essi per viaggiatori, e che se si desse loro un poco il gambone, si potrebbe dire, che non si riconoscerebbe più chi n’è il vero padrone, e arriverà un tempo, che così sarà. La barbarie allora cammina a gran passi per il suo nuovo imperio. Il mio, ch’è bravo per le lingue, non è gran cosa, e siccome è nativo di Temisvar, così penso di lasciarlo nella sua patria, per non stare a confondermi più col medesimo. I bojari costumano d’averne molti al loro servizio: per lo più sono Zingani, che ne sono i veri schiavi. E una magnificenza ed un grande apparato di uscire fuori delle loro case, corteggiati da una trentina di questi individui, che sono per lo più mal vestiti e calzati, non che sporchi e sudici, e con abiti unti e bisunti, quanto un panello, ma non ostante ciò, viene in queste provincie distinto quello, che si ritrova con un tal nobile corteggio, per mantenere il quale poco costa, mentre se sono dei loro veri servi, non hanno alcun salario, se non che vengono rivestiti una volta all’anno: se poi sono liberi, raramente ricevono quello che è stato convenuto, non avendo per vitto, se non gli avanzi della tavola, che sono pochi, oltre la loro Mammalika, e acqua per bevere; onde non è meraviglia, se da tutta questa ciurma alla fine non potete ricavarne se non poco servizio, mentre per dove andate, i servi nell’aspettar che devono, non fanno altro che dormire, e peggio si è, allorchè sono in casa del loro padrone; allora sono vere talpe: onde [p. 140 modifica] ciò molto pregiudica alla campagna, e alla cultura delle terre, che restano sempre scarse di braccia, o di opere”212

Della lingua rumena il Sestini tocca a proposito dei vari idiomi che si parlano in Ungheria213, e mostra di averne un’idea abbastanza superficiale. Del resto egli non tocca del rumeno parlato in Valachia, ma di quello di Transilvania, in cui rileva le infiltrazioni ungheresi, accanto alle slave e alle turche, mentre l’impressione che riportiamo dalla lettura delle parole rumene ch’egli cita, (che di rumeno cioè sapesse assai meno di quanto non sarebbe lecito attendersi da chi aveva pur fatto una dimora di più mesi a Bucarest) è dovuta in gran parte all’ortografia ungherese, di cui ammanta quei disgraziati suoni latini, che può darsi pronunziasse un po’ meglio di quanto li non scrivesse.

Sentiamo un poco anche questa campana, visto che abbiam sentito le altre:

„Si parla il Valaco, il quale, come si crede, è un composto di Latino, e Slavo, con mescolanza di diverse parole di molte nazioni, cioè d’Ungarese, Dacio, Sarmatico, e Turco, come per esempio.

Carnye
Vin
Saire
Pepere
Masa
Ursul
Iepure
Kal
Fun
Chertja
Ku m’ai dormit?
Bine am dormi.

Caro
Vinum
Sal
Piper
Mensa
Ursus
Lepus
Caballus
Foenum
Charta
Quomodo dormivisti?
Bene dormivi.


Le parole slave sono: Ulice, strada; Temnitze, Prigione; Milosztiuje, grazia; Szluga, Servo; Nyevaszta, Sposa; Brana, la porta; Owes, Avena; e Szlanina, Lardo. [p. 141 modifica] Le parole ungaresi: Vamesu da Vamos, Doganiere; Pilda, da Pelda, esempio: Engeduit (îngăduit), da engedett, egli obbedisce”214

Orbene l’impressione che riceviamo da queste parole riferite, è ch’egli le abbia udite piuttosto su labbra ungheresi che parlavano il rumeno, che non su labbra rumene, per quanto il rumeno di Transilvania subisca, naturalmente, qualche influsso magiaro. Ce lo fan supporre soprattutto le parole Saire, Chertja e Pepere che rappresentano, all’ingrosso, la pronunzia magiara delle parole rumene: sare, carte e piper.

Ai confini della Transilvania215il nostro abate trovò per [p. 142 modifica] davvero quei „patiboli destinati per il povero genere umano”, ai quali, nell’altro viaggio da Costantinopoli a Bucarest, aveva poco abatescamente paragonate le rozze croci valacche di Giurgiu. „In tali orride contrade si suole qui giustiziare i ladri, e assassini di strada, ed infatti in qua ed in là incontrammo dei patiboli ben guarniti di pazienti che subito avevano già la loro condanna ed erano stati una partita di ladri valachi, e i quali il principe Ypsilandi era stato obligato di farne fare sollecita esecuzione, mentre se non veniva ad un tal’espediente, ia Valachia tutta principiava a infestarsi di ladri.” Il più curioso è che il Sestini, a proposito di quegl’infelici, invece di sentirsi l’animo compreso di un sentimento d’orrore e di protesta contro sì barbare pene; esce al contrario in considerazioni che han tutta l’aria di voler senza parere confutare alla svelta le umane e profonde pagine del Beccaria: „Entrando nello spirito della nazione valaca, io credo, che un tal supplizio non incuta loro quel ribrezzo, che potrebbe altra nazione provare. Maggior tormento o pena di morte dovrebbe dunque stabilirsi per i delitti gravi secondo lo spirito delle nazioni. Verso il Volga si dà l’eculeo, e in Turchia s’impala, due supplizii peggiori cento volte d’una tirata di cordino, e quanto più il popolo è più barbaro, altrettanto si vede essere stati destinati dei tormenti e delle pene relative a queste premesse: ma non ostante ciò, dacchè esisterà il mondo, avremo dei patiboli, degli eculei, dei pali e dei ladri”216

E degli uomini senza viscere di pietà, saremmo tentati di aggiungere! E dire che un tal uomo pretendeva „penetrare nello spirito della nazione valaca”, lui, cui sfuggiva persino il senso della solidarietà umana innanzi al dolore e alla sventura, ch’è retaggio pur dell’ignorante! Tanto è vero che un uomo dominato dalla vanità di voler apparir dotto in cose che non conosce, pur non essendo, come Renzo, „sopraffatto dal dolore, non per questo sa più di lui „quel che si dica”.

χ) Ruggiero Boscovich.

Un altro abate, un altro dotto, e... un altro viaggio del settecento.

Ruggiero Giuseppe Boscovich, nato a Ragusa il 1711, morto [p. 143 modifica] a Milano il 1787, non deve certo la sua fama al Giornale di un viaggio da Costantinopoli in Polonia217 ch’è l’unica opera di lui che ci riguardi, e tanto meno alla Relatione delle rovine di Troja, che fa seguire al Giornale; ma alle sue Opere nuove matematiche in cinque volumi, un prospetto delle quali troviamo in fondo al volume nitidamente stampato a Bassano il 1784, a spese Remondini di Venezia. Il prospetto doveva, secondo l’autore si proponeva, servir di „manifesto per quelli, che, attirati dall’argomento facile e dilettevole di un breve viaggio, ne verranno [delle opere matematiche] per questa via più facilmente in cognizione”218. Abbiamo dunque a che fare con un matematico, che del viaggio si serve ad ungere di soavi licor gli orli del vaso, nella speranza che qualcuno ne attinga coraggio a trangugiar gli amari succhi delle sue discettazioni ottiche e trigonometriche.

Noi però, che non siamo nè fanciulli nè egri, non ci faremo gabbare dalle melate parole del nostro raguseo, contentandoci di lambir come potremo gli orli soltanto di quel vaso ingannatore, lasciando ad altri di sorbirne voluttuosamente il contenuto. Ma non perciò gli negheremo le lodi ch’egli si aspettava da codesto suo abatesco e settecentesco tranello. Diremo anzi ch’egli fu il primo a trovar la soluzione geometrica del problema dell’equatore d’un pianeta determinato da tre osservazioni d’una macchia; che fu uno dei primi a introdurre in Italia la „filosofia” del Newton, che cercò di conciliare con quella del Leibnitz; che il 1742 il papa gli affidò l’incarico di proporre i mezzi di sostenere la cupola di S. Pietro, che minacciava di crollare; che lavorò con altri due matematici francesi alla carta trigonometrica degli Stati Pontificii; che... ma mi pare che basti e ce ne sia d’avanzo per istuzzicar la curiosità di qualunque matematico, curiosità diversa, se vogliamo, ma non minore di quella ormai proverbiale dei letterati.

Ch’egli abbia scritto p. es. un elegante poema latino sulle ecclissi, interessa più noi che loro, noi che ci pasciamo di [p. 144 modifica]fantasie e viviamo nel passato assai più che nel presente; mà... non riguarda in fondo neppur noi che intendiamo occuparci di viaggi e di nient’altro, onde non sarà male tornare al nostro argomento che ci aspetta oramai da qualche tempo.

„Avendo” dunque il nostro abate „scorsa l’Italia, la Francia, l’Inghilterra, la Fiandra, l’Olanda, e una parte della Germania”, l’inverno „che sopravvenne dopo vari gravi incomodi di salute”, lo fece rinunziare all’idea di conoscer la Russia, determinandolo „a piegar da Varsavia verso Cracovia, e per la Slesia, e l’Austria tornare in Italia, e a Roma, dopo quattro anni e mezzo di piacevole giro fatto unicamente per interrompere le... gravissime precedenti, e susseguenti sue applicazioni”219 ...matematiche. Altre ragioni importantissime per un uomo della tempra del Roscovich, desideroso sì di „riflettere sullo stato naturale, politico, civile, scientifico de’ tanto varj paesi, e costumi”220, ma pur anco di non rimetterci la pelle, lo convinsero a non esporsi ai rigori dell’inverno moscovita e approfittar dell’occasione che gli si offriva di fare un viaggio assai comodo in compagnia di un ambasciatore e di conoscer paesi assai men noti della Russia medesima221.

Malgrado il Roscovich si scusi di non aver fatto „un’opera più compita e più universalmente vantaggiosa”222per la „...mancanza degli stromenti idonei, l’ignoranza della lingua del paese, per cui si passava... e la continuazione rapida del viaggio che non permise il fermarsi”223; pure il suo viaggio riesce sommamente interessante e per l’esattezza di quanto ci narra e per la sobrietà succosa e sostenuta dello stile, che, mentre si tien lontano dalle ineguaglianze, dai cartocci e soprattutto dall’af[p. 145 modifica]fettazione toscana del Sestini; non cade d’altra parte in quei difetti, direi, caratteristici, di banalità e di sciatteria, per cui va tristamente rinomata la prosa del Settecento. Del resto il metodo stesso, che il Boscovich crede dover seguire nella descrizione di questo suo assai, interessante viaggio, era di sua natura tale da escludere qualsiasi velleità letteraria e da contribuire, insieme coll’abito mentale di studioso di scienze esatte, a dare a queste pagine quelle doti di sobrietà, di chiarezza e di semplicità dignitosa, che ce le fan tanto gustare. ,,Io sono andato scrivendo” — ci dice a questo proposito il Boscovich — „la relazione di questa piccola parte de’ miei viaggi fatta per paesi tanto meno conosciuti, e in una maniera molto particolare, notando di mano in mano nella carrozza medesima i luoghi, per li quali, o in vicinanza de’ quali si passava, e le ore della partenza, e dell’arrivo a ciascuno... e quasi sempre la sera misi in pulito la relazione di quello apparteneva alla corrente giornata”224. Così la vivezza delle prime impressioni non aveva il tempo di dileguarsi e la memoria quello di dimenticare.

Se nel viaggio del Sestini l’addio ai turchi è dato alla peggio in... francese, in quello del Boscovich l’addio al mare informa di sè un epigramma latino, che rivela a un tempo i meriti umanistici e... galanti del nostro abate. „ Quella mattina (27 maggio) si abbandonò il mare, per non rivederlo più in tutto il viaggio. Io fui richiesto di fare in un epigramma latino un addio al mare stesso, e prima di arrivare a Kinikly, ove ci fermammo per ristorarci col cibo, lo feci in questi termini, che dal Signor Hubsch furono spiegati alla Signora in italiano:

Aequoris unda vale: ramosa cor alia, conchae,
   Anguillaeque agiles, squamigerumque pecus.
Nereides valeant: valeal cum Doride Tethys:
   Non placet illa, udis quae fluii unda comis.
Nos campi, collesque vocant, divaeque virenti
   Quae fronde, atque ornant flore nitente caput.
Non tamen has nimium mirabimur: est dea nobis
   Quae vincit cunctas vel male compia deas".225

[p. 146 modifica]

Per essere di un matematico, codesti distici latini non son cattivi davvero, malgrado, per essere di un abate, ci sembrino, a dir vero, un po’ troppo galanti. Ma non è affatto il caso di scandalizzarci per così poco. Ben altra materia di scandalo ci offre la poesia abatesca (e non soltanto la poesia!) nel Settecento.

Tanto più volentieri perdoneremo al Boscovich il suo innocuo „dameggiare", quanto meno, a paragone di altri abati suoi contemporanei, ci si mostra invasato dalla preoccupazione di far dimenticare, per non apparir pedante e moralista, la sua qualità di ecclesiastico, anzi (come è lecito argomentare da un accenno discreto ma dignitoso alla soppressione del suo ordine da parte di Benedetto XIV) di ex-gesuita. Che anzi il Boscovich ci tiene a farci sapere, che, se in questa redazione italiana del suo viaggio, „si trova cambiato il titolo di Padre in quello di Abate”, ciò è da imputarsi soltanto „alla mutazione dell’antico suo stato, non già abbandonato da lui per una volubile incostanza, ma estinto esso medesimo, in modo da farlo in certa guisa rimanere quasi orfano, e pupillo”226

Caratteristiche di questo viaggio sono le descrizioni di scene naturali, colte con facilità e descritte con evidenza. Peccato che i suoi quadri manchino di movimento e di vita per l’assenza sistematica di qualsiasi essere umano, che ne interrompa la monotonia. Eccone un saggio: „La campagna era la più bella, che potesse vedersi, grand’erbe, e fiori, ma senza alcun’acqua corrente, senza alberi e senza pure un uccello. In due soli luoghi s’incontrò pochissima quantità di bestiame con qualche pozzo, e in pochi siti pochissimo seminato; sicchè ci comparve quella una solitudine, un vero deserto”227. Se non che la ragione di una tal solitudine non tarda ad apparire, ed è il Boscovich stesso che ce la dice nel brano che citerò, e che varrà a ricordare a spese di chi viaggiassero gli ambasciatori e gli altri personaggi che nel Settecento attraversavan le belle e disgraziate campagne rumene. „Il giorno seguente I. Luglio, si partì alle 101/2 per Vasluy. Si trovarono paesi bellissimi, come per tutto altrove fuori delle selve: tutto era pieno di erba folta, e di fiori; ma senza un’ [p. 147 modifica] anima come un deserto. Si vide solo in qualche distanza un uomo a cavallo, il quale, appena scopertici, uscì di strada, e si mise a correre su per la pendenza di un giogo di colline. Uno de’ nostri Giannizzeri gli corse dietro a galoppo serrato, ma non potè raggiungerlo e ci disparve essendo scorso di là dalla cima. Dimandando la cagione di quella fuga, udii, che quello doveva essere un povero viandante, il quale, per salvare il suo cavallo, dovette prendere quel partito: vi è in tutta la Moldavia il barbaro costume di pigliare per servizio pubblico senza alcun riguardo, e senza alcuna paga, tutto quello che s’incontra, bovi, carri, cavalli, pigliandoli tanto da’ paesani ne’ villaggi, e anche nelle città, quanto da’ viandanti, benchè forestieri, esercitando con un uso crudele un totale dispotismo. Se era raggiunto quel povero uomo, avrebbe dovuto dare il suo cavallo o contentandosi di uno di quelli, che ci servivano, il più rovinato, o venendo dietro per ricuperarlo, dove ne fosse cessato il bisogno, e se non fosse crepato per istrada... I Giannizzeri poi fanno delle estorsioni terribili da per tutto. Questa, mi dissero, e ciò mi fu confermato dopo in molti luoghi, è la ragione, per cui tanti bellissimi paesi sulla via della posta sono oramai abbandonati, e ridotti a deserti... Misera condizione di paese oppresso da’ Greci con un atroce dispotismo!”228.

Molte altre pagine di questo viaggio meriterebbero di esser riferite, come p. es. quelle nelle quali il nostro abate c’informa dello stato del paese, del governo, della nobiltà, del clero, dei commerci e delle...imposte nelle regioni da lui attraversate; quella in cui, a gara col Del Chiaro, si mostra scandalizzato delle troppe bettole, e del „libertinaggio incredibile e vergognosissimo pel Cristianesimo”229, ch’ebbe agio di osservare in Galatz (ch’egli scrive Gallaz); colle molte altre, nelle quali ci parla dell’ignoranza dei popi bulgari, „che non avevano notizia di alcun altro Imperatore, fuor che di Costantino”230; di un energumeno, di un nido di cicogne in lutto per la morte di due cicognini; della pesca delle fanciulle; di una caravella turca più grande di quella veneziana, con cui aveva fatto il viaggio [p. 148 modifica] di andata, ma assai mal costruita; infine della meravigliosa imperizia dei turchi „nel costruire, e nel governare le navi”231; ma, poichè il riferirle tutte mi porterebbe alla compilazione di una vera e propria antologia, mi contenterò di richiamare l’attenzione del lettore sopra alcuni brani che riguardano assai più da vicino il nostro argomento.

A non parlare infatti dell’osservazione assai importante per noi, riguardante „i libri sacri... tutti in carattere Greco stampati a Venezia”232, dalla quale risulta come il Boscovich avesse intuito qualcosa intorno a uno dei veicoli più importanti della cultura italiana in Rumania, e non tralasciando di osservare che l’espressione del Boscovich: „in carattere Greco” va interpretata per: „in slove cirilliche”, trattandosi, com’è chiaro, di testi ecclesiastici in antico slavone; mi piace riportare l’opinione che il Boscovich azzarda di un’influenza diretta dell’italiano sulla lingua rumena, in quanto anche lui, come gli altri viaggiatori italiani, dei quali abbiamo già fatto parola, mostra di credere alla teoria italianista prima ancora che Heliade se ne facesse banditore.233 „La lingua del paese è un miscuglio di varie lingue. Vi è qualche cosa della lingua Slava, e della Turca; ma la più gran parte è presa dal Latino, e dall’Italiano, e vi s’incontra una quantità di quelle parole Italiane, che non sono derivate dalla Latina; come pure moltissime delle Latine s’incontrano mutate in quel modo, in cui le hanno fatte entrare nella presente loro lingua gl’Italiani. Questo mi fa credere, che l’origine della tanta affinità della loro lingua colla Latina non si deve prendere dalle antiche colonie Romane, o da’ loro esuli, o da’ primi secoli della chiesa, come ivi molti mi affermavano, ma piuttosto dal commercio, che vi hanno avuto gl’Italiani pochi secoli addietro, e dalle loro colonie”234.

Che una tale opinione sia assolutamente errata, salta agli occhi di ognuno; ma che il Boscovich, nel breve periodetto che abbiamo avuto occasione di citare, abbia tenuto conto di tutte o quasi le opinioni che, a volta a volta, si son dagli studiosi sostenute intorno alle origini della lingua rumena, accennando [p. 149 modifica] persino all’influenza potuta esercitare nei primi secoli dalla chiesa, e, come a me pare poter dedurre dall’espressione: ,,e da’ loro esuli”, all’immigrazione illirica che anche oggi pare agli studiosi del complicato problema una delle ipotesi più accettabili; è cosa che a me par certa, e degna perciò d’esser qui rilevata.


λ) Giovanni Raicevich.


Tutt’altra opinione mostra di avere intorno all’origine del rumeno un altro dalmata, austriacante a tutt’uomo in ogni campo, non escluso quello della filologia. „Il linguaggio nazionale” — dice il Signor Raicewich a p. 182 dell’edizione milanese del suo Viaggio in Valachia e Moldavia, con osservazioni sloriche, naturali e politiche235, — ,,è un misto di latino e di slavo, per esempio dicono Buna Vreme Domnule, Buon giorno, Signore: Sluga a Domniata, Servo di Sua Signoria; Vreme e Sluga sono parole slave.” Non ci fermeremo troppo a lungo su questo viaggiatore, lo stile del quale ci appare quanto mai arido e monotono, quando lo mettiamo a paragone con quello degli altri che lo han preceduto. Ma, visto che gli abbiam fatto accusa d’intolleranza religiosa, converrà pur documentarla. Parlando dei confessori [p. 150 modifica] (duhovnici) racconta che „un di costoro consigliò una volta una sua penitente di prendere clandestinamente al suo padrone il denaro necessario per far dir messe, dicendole che, non essendo costui cristiano, cioè del rito greco, non era peccato levargli questa piccola somma per impiegarla in un’opera così santa”236. Altrove, che il prete che porta l’eucaristia „non ha difficoltà di entrare in una bottega per discorrere, ed anche in una taverna per bevere”237. Al nostro Raicevich non garba infine l’innovazione pericolosa introdotta da Costantino Mavrocordato di far celebrare l’ufficio divino in rumeno, piuttosto che in islavo com’era in uso sotto i suoi predecessori: „L’ufficio divino si celebrava anticamente in lingua slava, che era ignota e al sacerdote e al popolo: il principe Costantino Mauro Cordato, uomo molto inquieto (!!), lo fece cambiare nella lingua valaca, che essendo molto scarsa di termini, la traduzione è ridicola”238. Inoltre „i preti cercano solo il loro privato interesse, e, per conseguire questo o trascurano, o abusano del loro venerando ministero”239; „opinioni sciocche e superstiziose formano tutto il loro sapere teologico”240; il popolo „non ha la menoma istruzione della morale cristiana”241. Insiste sulle superstizioni, e, specialmente su quella dei Vampiri (= Strigoi): „Una delle scene più ridicole e utili ai preti, è quella dei Vampiri, dacché pretendono che un cadavere, il quale non si corrompe subito, e conserva ancora una spezie di vita, che l’anima non sia interamente separata dal corpo, nè può separarsi, se in tempo che era vivo il soggetto fosse incorso in qualche scomunica ecclesiastica, o palese o tacita, e che tra tanto la notte esce dalla tomba, e cerca di fare altrui ogni possibil male. La prima prova o sospetto di ciò, per gli animi già prevenuti, è che la terra che ricuopre il cadavere si vede smossa e scomposta; il prete, la sua moglie per i primi, indi tutto il vicinato, cominciano a susurrare e fare riclami ai parenti del defunto, i quali debbono assolutamente pagare il prete per dissotterarlo e liberarlo dalla scomunica. In fatti, se [p. 151 modifica] il corpo si trova intatto, si appoggia contro un muro, e spesso accade, che mentre il prete fa il suo esorcismo, visibilmente il cadavere cade in pezzi; se l’operazione ritarda, crescono gli urli ed i pianti degli astanti, i quali sono persuasi che la scomunica, da cui era allacciato, sia stata di gran peso e di primo ordine: quindi si fa venire un prete più graduato, ed anche un vescovo, che ordinariamente fa il miracolo”242.E via di seguito. L’originalità ad ogni modo del viaggio del Raicevich è la compiutezza delle informazioni d’indole più specialmente commerciale, che soglion mancare quasi affatto negli altri dei quali abbiamo fin qui fatto parola. Si vede che siamo al 1788 (epoca della prima ed. napoletana del Viaggio) quando i fratelli Verri non si occupavan che d’economia, il Galiani scriveva in francese i suoi Dialogues sur le commerce des blès, ed il Parini satireggiava la nuova moda invalsa di parlar di commercio, anche alle nobili mense:

„Commercio! allo gridar, gridar: Commercio!
all’altro lato della mensa or odi
con fanatica voce; e tra ’l fragore
d’un peregrino d’eloquenza fiume,
di bella novità stampate al conio
le forme apprendi, onde assai meglio poi,
brillantati i pensier picchia la mente,
Tu pur grida: Commercio! e la tua dama
anche un motto ne dica... e d’ogni intorno
Commercio! risonar s’oda, Commercio!”

(Il Mezzogiorno, vv. 660— 67; 689— 90).

Diamo dunque un’idea del Raicevich vero, e, tanto per cambiare, sentiamolo parlare un po’ di cavalli: „Non ostante le proibizioni della Porta, la Moldavia, abbondando di cavalli, e generosi ed ordinarti, ne manda in Polonia circa 20 mila ogni anno. Questo traffico si fa comunemente in Moylow di Podolia sulle rive del Nistro, dove il Re di Prussia tiene un uffiziale maggiore che compra ogni sorta di cavalli, ed un numero considerabile. L’imperadore ne compra anche molti, ed ordinariamente nelle stesse razze, dove fa scegliere i migliori che si pagano [p. 152 modifica] tra i 13 ai (sic) 15 zecchini, e servono per gli ussari. I nominati Armeni Galiziani trasportano per la Germania, e principalmente per Breslavia, da 5 mila buoi grassi, e 6 mila vacche. I Greci poi stabiliti o in lassi o in Vienna comprano 50 mila oke di cera, e gli Ebrei di Brodi da 200 mila pelli di lepre, che si vendon da pochi anni in qua a piastre 50 il cento”243. Ma non sempre il Raicevich è così arido. Talvolta anzi esce in parole di viva simpatia per il popolo, tra cui ha passato molti anni della sua vita, e di cui conosce tutti i dolori e le miserie: „Infelici abitanti di così belle contrade, meritate a ragione la commiserazione di ogni essere sensibile ed umano, sopra tutto di chi per tanti anni ha vissuto tra di voi, e facendosi un piacere di dovere contribuire sempre ai vostri vantaggi, ha meritato la vostra gratitudine”244. E poco più giù: „Per quanto io sia capace di giudicare, trovo che tutti i vizi di questa nazione derivano da un governo più che dispotico, e da una pessima educazione. Sono persuaso, che, se la sorte li farà divenire sudditi di un sovrano giusto, illuminato ed umano, in poco tempo diverranno tutt’altro, e gareggeranno con le più colte nazioni”245.

Con queste parole così bene auguranti per il popolo rumeno e costituenti una profezia che si è in gran parte avverata, chiudo queste mie note sugli italiani in Rumania, i quali, tutto sommato, non demeritarono dell’ospitalità loro accordata, e, se goderono la fiducia del Voda, se ne servirono, come il Del Chiaro, per intervenire a favore degli umili e degli oppressi246.


3. Rumeni in Italia.

a) I primi viaggi di Rumeni in Italia risalgono anch’essi al secolo XV.

Non posso estendermi quanto vorrei (e sarebbe pur necessario per dare un’idea compiuta dei rapporti materiali e intellettuali interceduti in antico tra i due popoli) a parlar dei rumeni, che, specie nei secoli XVI, XVII e XVIII, viaggiarono o dimorarono in Italia. Di essi due soprattutto c’interessano: [p. 153 modifica] Petru Cercel e Constantia Cantacuzino; l’uno come rappresentante di quella gran folla di pretendenti ai troni di Valacchia e di Moldavia, che, a partir dal secolo XVI, vediamo di continuo alla ricerca di protettori che li aiutino a risalire il trono degli avi; l’altro nella sua qualità di scolaro dell’Università padovana, cui (si può dire dalla sua istituzione) i popoli d’Oriente per più secoli attinsero la luce del sapere e il fermento miracoloso del progresso. Come si vede, anche a proposito dei viaggi compiuti da Rumeni in Italia, ci convien risalire al sec. XV, nel quale fatalmente sembrar convergere le correnti che più favorirono i contatti, dei quali nelle presenti pagine ci occupiamo: la corrente religiosa — consistente soprattutto nell’interessamento che i Papi avevano sempre dimostrato per ’e popolazioni ortodosse, sì proteggendole contro il Turco, come tentando di ricondurle nel seno della Chiesa occidentale — ; quella politica,— grazie alla quale, dopo la caduta di Costantinopoli, gli occhi prima fissi sopra Bizanzio incominciarono a rivolgersi a Roma — ; quella commerciale, — per cui Venezia raggiungeva in quel secolo, si può dire il massimo sviluppo della sua potenza colonizzatrice e marittima — ; quella infine intellettuale della Rinascita, — per cui le Università italiane apparvero alle genti lucidi fari di civiltà e di cultura. Al concilio di Firenze (1439) intervennero infatti anche i rappresentanti della Rumania nelle persone del protopopa Costantino, del boiardo Neagoe e del metropolita Damiano; il 1506 i primi ambasciatori moldavi approdano a Venezia ad annunziar il matrimonio di Bogdan III il Cieco con Elisabetta di Polonia; del 1516 son le ambascerie del Matievich alla Signoria veneta e del Paicalas a Roma e a Venezia: nel ’21 infine, un „duca Iani di Moldavia” apre la lunga serie dei pretendenti.247

b) Pretendenti: Petru Cercel.

Come mai nel secolo XVI, e specialmente nella seconda metà di esso „,il numero di codesti erranti nei più lontani paesi d’Europa” si sia potuto moltiplicare a tal punto, ci spiega il Iorga, in una sua memoria consacrata allo studio di questo [p. 154 modifica] argomento, d’importanza capitale per la storia delle relazioni che intercessero in quel tempo fra l’Italia e la Rumania. La ragione deve ricercarsi in primo luogo nella speciale organizzazione politica dei Principati Rumeni, per cui la successione al trono era regolata da una tradizione mista di diritto elettivo e di successione248; in secondo luogo nelle relazioni sessuali assai libere che i Principi solevano avere con più donne, donde un gran numero di figli naturali, che aspettavano il momento opportuno per far valere i loro diritti. „Dove non ne incontriamo? Negli accampamenti dell’Imperatore parlali della loro fedeltà a Casa d’Austria, in Francia delle sofferenze patite sotto il Turco, a Londra si gabellali per protestanti, a Roma ed in Ispagna per cattolici accaniti. A Ferrara, a Venezia, a Genova,...giungono accompagnati dal loro segretario di lingue straniere, da qualche boiardo fedele e una torma di servi laceri e affamati; stanno all’albergo, chiedono un dono e se ne vanno altrove. Accanto alla firma, pongono il sigillo con l’aquila (Muntenia) o la testa di bue (Moldavia); si dicon Voivodi, compaiono in pubblico rivestiti di ricchi abiti orientali, con lacci d’oro e qualche decorazione europea, portano i capelli lunghi, e, negli occhi belli e facili e prestar fede, una lunga storia di sventure. Discendon tutti in linea retta da Mircea il Vecchio o Stefano il Grande; son diretti a Costantinopoli. Ringraziali dal profondo del cuore anche per una semplice lettera di raccomandazione che ricevono per il principe o la Signoria della città vicina”, più raramente „per gli ambasciatori presso il Sultano” della potenza che li ospita. „Che ne avviene? Petru Cercel, fratello di Michele il Bravo, autore di versi italiani, perfetto uomo di corte, erra lunghi anni, dopo i quali perisce miseramente annegato nel Bosforo ed il suo corpo, riempito di paglia e imbalsamato, è spedito” — dono sanguinoso e pure accetto — „al suo nemico di Bucarest. Altri vanno a finire tra gli accampamenti dei Cosacchi, nelle isole del Nister, prendon con loro un certo numero di coraggiosi, riconquistali la Moldavia”, o la Muntenia, „la riperdono, muoion di spada, di palla, di pene. Altri sono aiutati a conseguire il loro scopo da bande mercenarie ungheresi, pronte a seguir chi le [p. 155 modifica] paghi. Qualcuno fa conoscenza colle prigioni turche e riscatta la vita, rinnegando la fede. I più scompaiono senza che di loro si sappia più nulla, coi loro diritti, la loro genealogia e la lor povera corte affamata. Per molto tempo” — soggiunge tristemente il Iorga — „gli stranieri ci han conosciuto attraverso questi pretendenti, travolti miseramente nella bufera delle lotte per il trono”249, come oggi attraverso i troppi avventurieri e rastaqueurs che infestan le stazioni climatiche alla moda. In Italia, ad ogni modo, non furon mai considerati „alla stregua di avventurieri250, e ciarlatani volgari”, anzi trovarono assai più compassione che disprezzo. Qualcuno poi, come Despot-Vodă e Petru Cercel, ispirò finanche simpatia non priva d’ammirazione e di rispetto. Del primo scrisse infatti la vita Anton Maria Graziani251, con tale entusiasmo, da ritenerne le gesta degne piuttosto di appartenere alla vita di uno di quelli antichi Greci, delli quali scrive Plutarco, che di quelli che a tempi nostri hanno [p. 156 modifica] acquistato dominio e Signoria”252; del secondo parla con affettuosa reverenza Stefano Guazzo in un de’ suoi Dialoghi piacevoli, intitolato appunto Del Principe di Valachia. Scegliamo quest’ultimo a dare un’idea dei rapporti intellettuali promossi e favoriti da codesti viaggi di pretendenti rumeni in Italia.

α)Un volume d’italiane eleganze in Rumania.

Il volume che ho davanti mentre scrivo, solidamente rilegato in pergamena, non contiene soltanto i Dialoghi piacevoli253 del nostro (Venezia, 1586), bensì anche i Discorsi254 (Ferrara, 1585) del Conte Annibaie Romei, dedicati a Eleonora d’Este, ed un ristretto di Precetti et Sententie più notabili in materia di Stato di M. Francesco Guicciardini255 stampato ad Anversa (1585) e dedicato dal nipote del grande storico ad Alessandro Farnese. [p. 157 modifica] Libro dunque cortigiano e principesco quanto mai altro, di cui i gigli impressi agli angoli sembrerebbero attestare fosse stato un giorno fra le mani del Principe di Parma e Piacenza; ma che, prima di giungere in Rumania, passò senza dubbio per molte mani. Sul verso infatti della rilegatura anteriore, un ex libris strappato a metà, reca leggibile in alto il motto: Non omnibus idem est| Quod placet | Petron. Frag., e in basso: ex lib(ris)| bibliothe(cae) d. zach: conr: ab uffenb(achis).256 La stampa rappresenta una sala di biblioteca, con gli scaffali sormontati dalle scritte: Theologica, Juridica, Medica, etc. Nel mezzo, una gran tavola con busto di Minerva. Il tutto incorniciato da un bel fregio circolare a fiori e frutta di buono stile cinquecentesco. Sulla seconda pagina in bianco, che precede la testata, le parole: Joannes Georgius Zicle, Basii, me sibj, & amicorum usuj comparami. Sulla terza: Vtrum conueniat principem a bonis l-ris institutum esse: folio 6. et sequent. Sul primo dei fogli bianchi in fine al volume: Nota la disputa del punire, ò perdonare l’offese et l’ingiurie, fol. 17. 6. infino al 19. Moltissimi poi i passi segnati (e talvolta postillati) nel corpo del volume. Le sentenze del Guicciardini soprattutto han richiamato l’attenzione del postillatore, il qual ritengo Costantino Cantacuzino in persona, visto che i segni a certi passi, riguardanti soprattutto l’ubbidienza che da un inferiore si deve al: uo superiore, le città divise, la necessità di non stancar la pazienza dei popoli, e quella talvolta di metter le mani nel sangue; nonchè a certi altri intorno al profittare delle occasioni, al saper osare, al desiderio di pervenire a miglior fortuna, ecc., si adattano a meraviglia all’indole ambiziosa, inquieta, ma riflessiva e machiavellica di questo boiaro, che, sospettato dall’usurpatore di suo fratello, seppe comportarsi in modo da divenirne il consigliere.

Inoltre, accanto al pensiero XV del secondo libro (f. 3): „Nelle guerre fatte comunemente da molti Principi a Potentati contro a un’solo, solere essere maggiore lo spauento, che [p. 158 modifica] gli effetti, perchè prestamente si raffreddano gl’impeti primi, prestamente cominciando a nascere varietà di pareri, onde indebolisce fra loro la fede, & le forze”; troviamo un’annotazione: Exemplum est in Reip. Venetae historia, che può ben esser di mano del Cantacuzino, allievo dell’Università patavina, autore della Istorie generala a Românilor, storico di vaglia e consigliere del Bràncoveanu. Comunque, non abbiamo insistito su codeste particolarità del volume, che per mostrare in primo luogo come simili trattati non si leggessero soltanto per ozio o per addestrarsi ai piacevoli conversari delle corti, ma si studiassero e talvolta si meditassero; in secondo luogo a prova della diffusione di cui goderono, giacchè il nostro volume, dopo essere stato nelle mani di un principe italiano, di un letterato basileense e d’un austriaco, venne a finire in Rumania, probabilmente ai tempi del Cantacuzino, che molti libri riportò da Padova tornando in patria e potrebbe, anche esser l’autore di certi altri segni, come p. es. quello accanto al passo nel quale il Guazzo, ci narra di „vn goffo lettore in Padoa”, che, „veggendo che à gli altri lettori era fatto honore da gli scolari sopra le mura di molte case,...prese di notte una scala, & con essa uscito secretamente di casa, andò per alcune contrade pubbliche scrivendo con un pennello il suo nome, & le sue lodi sopra le mura” (pp. 106 — 107), finchè non fu sorpreso dai birri, che poco mancò non lo arrestassero per ladro. Il Cantacuzino ch’era stato a Padova scolaro, doveva gustar più d’ogni altro l’aneddoto che gli ricordava altre universitarie padovane boriuzze contemporanee e potè segnarlo per questo.

Ma non ci perdiamo in ipotesi e torniamo al nostro Guazzo257. [p. 159 modifica]

β) I Dialoghi piacevoli di Stefano Guazzo ed i „cavaglieri” italiani alla corte di Petru Cercel.


Dal cui Prencipe della Valacchia Maggiore, rileviamo in primo luogo come un tal Francesco Pugiella, del quale il nostro fa a p. 15 un elogio sperticato, si fosse deciso ad „abbandonar la patria, i congiunti, & gli amici per andarsene alla serenità del Prencipe di Valacchia...”, che, dopo averlo già fatto „partecipe della sua crudel tempesta”, desidera introdurlo „nel porto delle sue felicità”, chiamandolo presso di lui „con lettere piene di gratiose offerte.” Ecco dunque un altro italiano, che si dispone ad accrescere il numero dei „cavagliela” cortigiani di Petru Cercel. Il Guazzo l’esorta prudentemente a non fidarsi troppo in chi non è in grado di apprezzare abbastanza le sue peregrine qualità cavalleresche e cortigiane, e, senza parere, ce ne tesse così il panegirico: „L’amore, & l’osseruanza che io vi porto, mi commandano ch’io vi ricordi che la diversità della vita, & de’ costumi non è punto atta à generare amore, & che non si può amare quel che non si conosce. Voi non haurete altro di commune con quella natione, che la politezza della lingua latina, nella quale non cederete la palma ad alcuno oratore, ò poeta della Valacchia, ma dateui à pensare che intorno al vivere politico, & civile, si procede in quelle parti con termini oltre modo diuersi da quelli d’Italia, & dove nella Corte di Roma, & per tutta la Lombardia sete riputato, non dico eccellente, ma unico Dottor di leggi, felicissimo scrittore di prose, & di rime Thoscane, gentilissimo corteggiano, destrissimo negotialore, & gentilhuomo universale, quiui non saranno accettate per buone queste monete, & tutti le rifiuteranno come stampate sotto conio [p. 160 modifica] straniero, & sconosciuto.258 Ma il Pugiella è così entusiasmato delle rare virtù del Principe, che non si lascia smuovere dal suo proposito.

γ) Elogio umanistico di Petru Cercel.

„Per quel poco di tempo”, che lo praticò „nelle contrade d’Italia“, il nostro gentiluomo lo conobbe „non solamente... giouinetto senza macchia, ma ripieno d’alcune segnalate virtù... Essendogli stato, mentre era fanciullo, con manifesto inganno, & sotto colore di protettione, occupato il suo regno; è venuto, insieme con l’età, crescendo sempre nel magnanimo cuore vn tal conoscimento di se stesso, & della sua reale stirpe, che, quanto più la maluagia fortuna il calpestaua, tanto più egli sorgeua in alto col suo spirito, tutto riuolto & disposto non meno a sopportar francamente l’ingiurie, le persecutioni, le calumnie, & i tradimenti de’ suoi nemici, che à confidarsi nell’immensa bontà di Dio”259. Qui una digressione su coloro che, „portandosi vigorosamente nelle sciagure, fecero vergognar la fortuna”, con relative „sentenze notabili”, „prouerbi” italiani e spagnuoli, imprese d’Accademici, „detti d’vn sauio” e versi del Petrarca, „in confermatione” che „gran ventura sia stata quella del Prencipe nel patir il contrasto di tanti nemici perchè d’indi n’è successo aumento non che d’intelletto, & di virtù, ma di merito presso à Dio...”260 . Un’altra virtù del Principe di Valacchia è, secondo l’eruditissimo Pugiella „una certa affabilità piena di gratia, & d’amore accompagnata da una tal liberalità d’aspetto, che non potete giudicare onde receuiate maggior sodisfattione o dalla lingua, o dagli occhi suoi, co’ quali non altrimente che con catene lega & stringe in perpetua servitù i cuori altrui”.261 Inoltre— e ciò non era indifferente — „per compimento di felicità... questo Prencipe”262, a differenza di molti altri che „hanno ben grato aspetto, dolci parole, ma i fatti.... amarissimi” 263,’accorda „l’opere anco alle parole”, e, „non ostante i [p. 161 modifica] suoi grandi, & lunghi disagi, dimostrò sempre vna liberalità Regia; Et con tutto che, quasi à guisa del Sole, egli spieghi con diuersi raggi lo splendore della sua grandezza; nondimeno chiunque ben rimira questo mio magnanimo Signore, è costretto di dire ch’egli porta nella reai fronte per sua particolare, & sourana impresa la viua imagine della liberalità, dal cui petto escono infiniti tesori col motto: QVAE DONAVI HABEO”264 . Partendo da Costantinopoli, dopo „hauer rimunerati con grande quantità di danari, & superbi doni tutti quelli della... Corte, & gratificato vn gran numero d’amici & seruitori suoi non meno huomini che. donne... con vesti d’alto & artificioso lauoro, & d’inestimabil pregio..., traheua seco grandissima Corte, & particolarmente gli marciauano dinanzi sei cento huomini à cauallo vestiti da lui con vna uaga, & ricchissima liurea, presso à quali egli se ne veniua in guisa tale che rappresentaua la maestà d’vno Imperator trionfante”265. Dopo di che, sarà venuta al lettore, come al Guazzo, la curiosità di saper dal Pugiella qualcosa della persona di Petru Cercel. La quale, almeno agli occhi del suo cortigiano, appariva „diritta, ben proportionata & suelta; la statura più tosto grande che mezana, gli occhi iuaci, & gratiosi, l’aspetto, & i mouimenti martiali, la complessione robusta & felice, & per finirla,...bel Prencipe, gratioso e amabile”266 .

δ) Un „capitolo” italiano di Petru Cercel.

Chiudiamo quest’esame del dialogo del Guazzo, riferendo il principio di un suo capitolo, mandato al Pugiella „dalla Corte di Francia, nell’età sua di venti due anni”, per dare un’idea di come questo rumeno scrivesse in italiano, nè più nè meno d’un qualunque soporifero petrarchista degli ultimi anni del Cinquecento:

Potentissimo Dio del sommo, et imo,
    Tu che creasti il ciel, la terra e ’l mare,
    Gli angeli de la luce, et l’huom di limo,
Tu che nel ventre vergine incarnare
    Per noi volesti, Padre omnipotente,
    Et nascere, et morire, et suscitare.

[p. 162 modifica]

Tu che col proprio sangue veramente
          N’apristi il ciel, spogliasti il limbo, et poi
          Sathan legasti misero, et dolente.
Tu che con tante braccia aperte à noi
          Ancor ti mostri mansueto, e pio
          Per darne eterno ben ne i regni tuoi,
Ascolta Padre l’humil priego mio,
          Che supplice, et diuoto a te ne vegno,
          A te che ti festi huom per far me Dio
          .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
          .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
          .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Fammi, Signor de la tua gratia degno,
          Non mi punir secondo i falli miei,
          Ch’hanno di remision passato il segno.
Pater, peccaui, miserere mei,
          Infiamma il cor, lo spirto, et l’alma mia,
          Et piacciati ch’io uenga, oue tu sei.
Tu che sei vita, ueritate, et via,
          Fammi conoscer che quanto nel mondo
          Di bene auro, per tua bontà sol fia.
Se felice sarò, ricco, et giocondo
          Di stato, et di tesor, fa’ ch’in seruitio
          Tuo possa vsarlo con timor profondo.
Solo è l’intento mio seruir ogn’hora
          L’immensa maestà tua, Padre santo,
          Chi serue à te tutta la vita honora,
          .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Et al fin uola al Ciel con festa, et canto.

Freddi versi, ma che, composti da uno straniero, non posson non far meraviglia. „Veramente questo capitolo” — esclama il Guazzo, — viene ad essaltar in Cielo, in Terra il suo autore, poi che è ripieno di spirito non meno diuino che Poetico, & m’imagino che questo (sic) Prencipe i suoi lunghi e pietosi pellegrinaggi gli habbiano acquistato questo grande honore presso à gli altri d’esser annouerato frà poeti Thoscani, la qual felicità appena si troua hoggidì in alcun Prencipe Italiano.” Il che è forse troppo; ma porge l’occasione a quel brav’uomo del Guazzo a dissertare, se „la Poesia sia conuenevole à Prencipi”, con relativo elenco di „Prencipi poeti” da Dionigi d’Alicarnasso a Carlo Magno, e a conchiudere, che si può „perdonare à Prencipi l’ignoranza della poesia”, purché rendano „il debito honore à poe[p. 163 modifica]ti”267. Col che siamo ancora in pieno Cinquecento, come in piena letteratura parenetica e cortigianesca268, siamo stati durante la lettura del Prencipe di Valachia, se pure il Capitolo di Pietro Cercel tenga più del freddo gesuitesimo secentesco, che dell’elegante scetticismo della Rinascita.

ε) Petru Cercel nella storia.

Ma sarà tempo di vedere, al lume delle moderne ricerche, (iniziate dall’Esarcu, proseguite e condotte a termine dall’infaticabile Iorga), chi fosse codesto Prencipe di Valacchia che il Pugiella si apprestava a servire, e del quale abbiamo testè ascoltato dal Guazzo il panegirico.

Era — ci fa sapere il Iorga269 — „figliuolo del buono e mite Pătrașcu-cel-Bun, che regnò in Valacchia dal febbraio 1554 al decembre 1577. Nel 1579 lo troviamo alla corte di Enrico III di Francia, coll’aiuto del quale si disponeva a recarsi in Turchia per entrare in possesso dell’eredità paterna. Si trovava a Venezia nel marzo del 1581, quando lo vediamo in udienza dal doge, prima d’imbarcarsi per Ragusa. Bel giovane, parlava correntemente francese e italiano 44. 270; componeva con disinvoltura i [p. 164 modifica] concetti” alla moda alla corte di Caterina de’ Medici ed in italiano un inno a Dio, che il Guazzo ci ha conservato. Più fortunato di tanti altri suoi pari, ottenne (nel luglio del 1583) di salire sul trono di Valacchia”, dove rimase fino all’aprile del 1585. Durante il brevissimo regno, „innalzò chiese e palazzi, fece fonder cannoni2711, intrattenne una corte", in cui non mancavano „cavaglieri italiani”, fra cui un tal Franco, che non è certo Niccolò, morto il 1570. Costretto dai Turchi a fuggire dal regno, „si rifugiò in Transilvania, fu imprigionato, scappò di prigione e tornò in Italia”. Anche questa volta seppe procacciarsi „ammiratori e amici”; ma, sbarcato a Venezia ed alloggiato, insieme col suo segretario Francesco Sivori, nella „vecchia e marcia” Ca’ del Pozzo, non potè rimanervi a lungo, chè la Signoria gli mostrò ben presto il pericolo, „che alla sicurezza della sua persona poteva venire dall’enorme quantità di stranieri”, che ogni giorno sbarcavano a Venezia, tra i quali potevano ben nascondersi dei sicarii prezzolati da’ suoi nemici. Partì alla volta di Mantova e di Ferrara, proponendosi di fare un pellegrinaggio a Loreto e a Roma, ma se ne tornò di lì a poco a Venezia, dove, malgrado avesse agito contro il divieto del Senato, anche questa volta fu ricevuto gentilmente, e fornito di una galera per recarsi a Costantinopoli. Partiva dalla città dei dogi col cuore pieno di riconoscenza per la Repubblica, augurandole, che, „sì come il Signor Dio l’hà conservata sempre come una vergine celeste, così si degni conservarla sempre vergine, liberandola da ogni pericolo e dandole sempre felicità”272.

Pochi giorni dopo, era dai Turchi annegato crudelmente nel Bosforo.

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ζ) Attrazione esercitala in Rumania dalle finezze del costume italiano del Rinascimento.

L’aver fatto buona impressione al Guazzo è la lode migliore, che possiam fare alle sue virtù cavalleresche. Era infatti il Guazzo l’autore meritamente celebre della Civil conversazione e dei Dialoghi piacevoli: uno cioè di quei trattatisti dell’eleganza cortigiana, che non solo gl’Italiani, ma „i Francesi, gl’Inglesi, gli Spagnuoli”, e persino, come abbiano visto, i Rumeni „leggevano avidamente...attratti dalle finezze del costume italiano e dalla vita artisticamente elegante della società italiana di corte e di palazzo”.

Che dunque uno di tali maestri d’italiane eleganze si disponesse, intorno al 1583, a recarsi in Valacchia alla Corte di Petru Cercel, non può non esser significativo per noi che ci occupiamo degl’influssi italiani in Rumania. Che anzi ci aiuta, nella scarsezza dei documenti che possediamo, ad immaginare di che genere fossero i conversari e i ricevimenti, che, dal 1583 al 1585, si tenevano attorno al Principe di Valacchia nel palazzo vayvodale di Bucarest273.L Da questo momento, i segretarii italiani l’uron ricercati alla corte di Valacchia, non solamente come [p. 166 modifica] maestri di lingua dei beizadè274 e sbrigatori di corrispondenza internazionale; ma come consiglieri di eleganze e cerimonieri nelle feste. Ci spieghiamo così come più tardi un altro di questi trattatisti, il Loredano, trovasse gli animi talmente preparati, da far pensare ad un boiardo moldavo (Vasile Vârnav), che una sua traduzione dal greco degli Scherzi di fantasia sarebbe riuscita bene accetta a’ suoi conterranei, già educati al gusto raffinato della cortigiania italiana275.

Di altri pretendenti che ebbero relazioni diverse colle Signorie italiane del sec. XVI, crediamo inutile parlare. Registreremo solo i nomi di Despot Voda276, (1561—63), Giovan Giorgio Heraclio, Giovanni Bogdan (1588), Gasparo Graziani (1619), italiano d’animo e di cultura se non di sangue 277, e passeremo a parlar di Padova, la cui celebre università esercitava ancora nel secolo XVIII una considerevole forza d’attrazione sui popoli abitanti l’oriente d’Europa. [p. 167 modifica]

c) Uno studente rumeno a Padova e la cultura italiana alla corte di Constantin-Vodă Brâncoveanu.

α) Grandezza e decadenza dell’Università di Padova.

Non c’è chi non ricordi un epigramma del Navagero278 (1483 — 1529) composto in occasione del saccheggio fatto dai soldati dell’imperatore Massimiliano della celebre ed antichissima università:

Te seplicornis Danubii accola,
te fulva potant flumina qui Tagi
longeque semoti Britanni
cultum animi ad capiendum adhibant.

Orbene, fra gli „accotae" del setticorne Danubio, non ultimi sono, con i Polacchi279, i Rumeni280. Abbiamo già visto che lo [p. 168 modifica] Zamoyscki soleva ripetere con compiacenza averlo Padova fatto uomo; un secolo dopo (1563— 1661), un rumeno educato in Polonia, Miron Costin, inneggerà ancora a Padova come all’Atene d’Italia. La fama infatti della celebre Università aveva già da molti anni varcato i monti, e Francesi, Tedeschi, Fiamminghi, Polacchi, Greci, Ungheresi, e persino Inglesi, vi accorrevano a frotte, attratti non meno che della fama di lettori quali p. es. il Cremonini, il Piccolomini, il Pomponazzi, e, più tardi, il Galilei e il Vallisnieri; dalla vita gaia, libera e spensierata che gli studenti d’ogni nazione vi menavano. Ad essa infatti sembra alludere Miron Costin, quando, dopo aver paragonato l’Italia al paradiso terrestre, per ciò che riguarda le bellezze naturali, delle quali si adorna; passa a trattar dei costumi e della vita cavalleresca degli abitanti, rilevando la „sottigliezza” de’ gentiluomini italiani „iscusiți preste tóte némurile”281, miti e ospitali cogli stranieri, in una parola cavalieri perfetti, grazie ai quali l’Italia poteva dirsi „la sede e il nido d’ogni dottrina e d’ogni arte”282. Ciò posto, e dato il duplice scopo che queste nostre ricerche si propongono: di far meglio conoscere agl’Italiani l’influsso, che, nei secoli che seguirono alla Rinascita, la cultura italiana esercitò in Rumania, ed ai Rumeni la civiltà del popolo i cui destini non furono nel passato, nè potranno essere in avvenire, estranei allo svolgimento della cultura e della vita nazionale; non sarà inutile dar qualche notizia del fiorentissimo Studio, della cui importanza nella storia delle cultura universale, gli stessi italiani sembran talora non rendersi conto abbastanza.

Senza dunque proporci di tracciare neppure a larghi tratti la storia283, nè breve nè facile ad esporre, della [p. 169 modifica] gloriosa284 Università, la cui menzione ricorrerà d’ora innanzi frequente in queste nostre note, verrò scegliendo dagli scritti del Brugi285 e del Favaro286 che sono i più suggestivi, quelle notizie, che, meglio delle altre, potran valere a trasportarci nell’ambiente, nel quale lo Stolnic Cantacuzino venne a trovarsi, quando il 1667 incominciò a Padova i suoi studi di filosofia e di legge.

Verso quest’epoca dunque non pochi scolari, in ispecie stranieri, e sopra tutto Francesi, venivano ancora a Padova „per vivervi gaia vita, conoscervi i costumi e le creanze italiane, apprendervi il maneggio d’ogni sorta d’armi, il cavalcare, il ballo, la musica. In acconce scuole si erudivano in queste arti cavalleresche, più di cento gentiluomini francesi, nel novembre del 1580, quando vi passò il Montaigne”287, e „gai volavano in [p. 170 modifica] Padova i giorni per gli scolari, fra conviti, rappresentazioni teatrali, mascherate, giostre, tornei! I podestà e capitani detter feste nei loro palazzi, che colpiron la fantasia dei cronisti del secolo XVI” — che, nella sala dei Giganti, poterono assistere a rappresentazioni di drammi e di commedie, date con sfarzo, principesco. „La passione per il teatro (grande in tutti in Padova lieta del suo Ruzzante) era entrata naturalmente anche negli scolari, che persino ai maestri chiedevan drammi e favole pastorali. O lieti carnevali, in cui gli scolari uscivano a centinaia in bizzarri abiti, toccando maestrevolmente strumenti musicali e cantando madrigali! Sorridevano dal verone le donne leggiadre, fiorivan gli amori, spesso chiusi in lagrime, ma pur sempre cari. O giostre mirabili in campo aperto, nelle quali i gentiluomini si disfidavano tra loro e dove trionfavano non di rado sconosciuti cavalieri, poco importando che se ne sapesse il nome, quando ne era noto il valore! Nella giostra del Carnevale del 1594 la collana del vincitore toccò „ad un cavaliere incognito, il quale dicesi che fusse stato nobilissimo scolaro Tedesco”. Ma questi lieti spettacoli e il lusso di Venezia e de’ suoi patrizi non ispiegano ancora l’affluenza di tanti stranieri allo Studio di Padova. Molti i francesi, gl’inglesi, i polacchi; moltissimi i Tedeschi, i quali, fra studenti di legge, filosofia e medicina salirono, nel periodo dal 1546 al 1630, al numero di 10.536. I tedeschi visitavano di passaggio gli altri studi d’Italia, e fermavansi a quello di Padova. Nel 1563 gli studenti di legge erano 200; nel 1587, 260; nel 1597, 300! A Padova certamente li chiamava quella libertà di pensiero, di cui sapevano che avrebbero goduto al pari e più dei maestri, sebbene fosse noto che il podestà e l’inquisitore tenevan d’occhio gli scolari... Infine taluni accorrevano allo studio di Padova per la fama delle ricche biblioteche claustrali e private di quella città; fiduciosi di poter comperare qualche manoscritto a Padova stessa o a Venezia, e, soprattutto di penetrare nella Marciana288 sospiro di ogni [p. 171 modifica] dotto. Erano essi il fiore degli scolari; entusiasti nel cercar gli antichi codici, niun disagio li spaventava. Scendevano in Italia con commendatizie di dotti stranieri a quelli italiani: alcune dirette all’Egnazio in Venezia, non poche al Bembo289 in Padova, tutto amore per quello studio e desideroso che vi brillasse, anche nella giurisprudenza, la luce dell’erudizione. Nell’ospitale casa di lui, nella lieta villa di S-ta Maria di Non convenivano i letterati e i migliori scolari. Giovò il liberale aiuto del Bembo, del Beccaduli, dei professori padovani a far entrare alcuni di questi scolari nella Marciana e a ottenere loro a prestito qualche manoscritto. Sappiamo il nome di alcuni di questi scolari... che passavan la notte a copiar codici della Marciana avuti in prestito, mentre infuriavan per le vie le risse dei loro condiscepoli.

Tutti gli scolari erano uniti in due grandi corporazioni o Università con proprio Rettore, propri magistrati, propria giurisdizione: dei „giuristi” o scolari di legge, l’una; degli „artisti" o scolari di filosofia, medicina, teologia, l’altre. L’ultimo [p. 172 modifica] cordo se ne può vedere nelle due mazze portate anche oggi dai bidelli dell’Università. La corporazione dei giuristi predominava per antichità, per onori, per numero; vi si ascrivevano perciò pure alcuni, ai quali non era meta lo studio delle leggi... In origine, gli stranieri, fermatisi a studio in Padova, avevano costituito altrettante Università (corporazioni), quante erano le nazionalità largamente intese. Erano modellate sul tipo delle usuali corporazioni, delle quali, più che degli individui, risultava la Città antica, e presto si videro sorgere al fianco corporazioni di studenti italiani, ma di città diverse. Prosperando lo studio, i comuni interessi... spingevano gli scolari a più ampia unione, che si presagiva più forte. Ecco due grandi corporazioni: una tutta di stranieri, e detta a Padova degli ultramontani; l’altra tutta d’italiani, esclusi i cittadini del luogo (perchè soggetti al Comune, dal quale le Università volevano essere indipendenti) detta dei citramontani. Quindi molteplicità di Rettori, di magistrati, di giurisdizioni. Ma, nella più recente figura d’aggruppamento degli scolari, le loro università non si distinguevano oramai che per la materia di studio. La distinzione fra ultramontani e citramontani restava solo per trarne a vicenda i Rettori. Sopravvivevano anche, col nome di nazioni, gli originari gruppi nazionali, alcuni dei quali possedevano copiose librerie. Di tutte le nazioni si poteva dire ciò che di sè stessa scrive in buon italiano del Cinquecento la tedesca: „Quivi si pacificano le discordie et differentie frà membri suoi; quivi si celebrano quelli, che vivono degnamente et virtuosamente; quivi si riprendono et tal hora si scacciano quelli che vivono vinosamente et scandalosamente; quivi con pubblico danaro si sovvengon gl’infimi, gli passeggieri et altre povere genti; quivi si somministrali libri in ogni scientia a quelli che hanno bisogno; quivi finalmente si donano a sepoltura quelli che sono in essa Natione descritti, con pompa e carità”290

„Ma Padova era lieta di tanti scolari accorrenti al suo Studio? Le antiche cronache narrano ad ogni pagina le risse e i tumulti degli scolari in città: e proprio il cinquecento ne offre copiosa messe. Un cronista291 ci dice, che i padovani sembravano [p. 173 modifica] divenuti i servi degli scolari; un podestà del seicento, che questi „sono sempre uniti o contra cittadini o contra populatione per ogni picciol accidente.” Hanno quindi colore di verità le lamentazioni sugli eccessi degli scolari, che il poeta padovano Carlo de’ Dottori argutamente pone in bocca a suoi concittadini. Par di vedere la gioia del Podestà del 1547, quando informava il Senato, che in quell’anno gli scolari erano andati anche di notte „ubidientissimi e senz’arme”, e che in tutta pace avevano atteso alle „pratiche loro”. Queste „pratiche” erano le elezioni del Rettore e delle altre magistrature delle due Università, e sino al 1560, di alcuni professori di cattedre secondarie. Di solito, le elezioni dividevano gli scolari in fazioni; era un correre attorno con spade e archibugi; schiere di trecento o quattrocento armati, militarmente ordinate sotto capitani, passavano per le vie fra il terrore dei cittadini; nelle assemblee si scambiavano le accuse i candidati dell’una e dell’altra parte (quella di luteranismo era frequente contro i tedeschi) e dalle parole ai fatti breve il passo: la battaglia aveva per campo la città”. Con tutto ciò, „i padovani parlavano con benevolenza dei „poveri scolari” inseguiti da birri e da soldati; e, dopo ogni tumulto, s’addoloravano per il pericolo d’un abbandono dello Studio, piuttosto che rallegrarsi della punizione dei colpevoli, talora severa ed esemplare. Si erano abituati i cittadini, di padre in figlio, ad assistere ai grandi cortei del Rettor nuovo, alle lauree solenni, alle splendide accoglienze di principi e re di passaggio per Padova fra il plauso degli scolari, ai lunghi funerali di maestri e discepoli. Nè mancava ai Padovani l’occasione di sorridere bonariamente, quando qualche grande scolare si rendeva in carcere con musiche e largo stuolo di colleghi; o, dopo le liti, e le battaglie frequenti fra le diverse „nazioni” di scolari, nascevan festose le paci e le alleanze, come tra’ cavalieri antichi! Sapevano inoltre i Padovani... che al commercio della città giovavan molto gli scolari, e,...quando il Podestà G. B. Contarini fece rifondere nel 1575 la campana grande della torre maggiore, che serviva allo studio, „la cosa era” — egli osserva — „desiderata da tutta là città”. Quella campana diceva ai padovani del sec. XVI che da trecento anni le corporazioni degli scolari vivevano nella loro tranquilla città, da cui niun evento aveva potuto staccarli!”. [p. 174 modifica]

Così descrive Biagio Brugi292 le condizioni dello studio Padovano verso la fine del cinquecento in un suo dotto discorso inaugurale, condotto su documenti contemporanei. Il 1667, quando lo Stolnic Constantin Cantacuzino si iscriveva nell’Università dei giuristi, le condizioni eran certo mutate, ma non tanto che la fama del celebre Studio non attirasse ancora buon numero di studenti stranieri, specie greci, rumeni e polacchi. Certo il tempo, nel quale un ambasciatore poteva scrivere al Senato: „Prometto sopra la mia fede che nella Fiandra, nella Germania, e in quella parte della Francia, dove io sono stato, ha tanto credito questo Studio di Padova, che molti, colla sola riputazione d’esservi stati, sono ammessi a maneggi ed onori di molta importanza”293, era passato. Tuttavia, malgrado col chiudersi del secolo XVI, s’apra „un’età, nella quale la concorrenza delle Università estere comincia a farsi temibile per gli antichi studi italiani”294; ciò non vuol dire che debba ritenersi „un periodo di decadenza quello che s’inaugura per l’Italia col decimosettimo secolo. Discepoli da ogni parte dell’Europa convenivano in Italia ad ascoltare quei grandi Maestri, che la munificenza [p. 175 modifica] dei vari governi andava accaparrando con gran cura per le Università, che, nei secoli decimoquinto e decimosesto, avevano toccato il massimo splendore. Onde la perdita di un privilegio che ci conciliò in ogni tempo così grandi simpatie e che non ha poco giovato nei momenti della nostra resurrezione, anzicchè tornarne a disdoro, mette in maggiore evidenza il modo luminoso, nel quale l’Italia seppe adempiere alla sua missione scientifica: e la liberalità colla quale s’insegnava dalla cattedra a tutti, e anzi le prerogative accordate ben sovente nei nostri centri di studio agli stranieri, ebbero per naturai consequenza quella diffusione di cultura, che, prima o poi, doveva necessariamente far contribuire al progresso scientifico tutto il mondo civile.” Nel sec. XVII, col decadere della Repubblica, decade anche lo Studio, ma i „riformatori” vi posero subito rimedio, informandosi, per mezzo degli ambasciatori della Repubblica, dell’organizzazione delle Università straniere. S’istituiscono allora i musei di Storia Naturale e di Fisica, l’Osservatorio astronomico, la Scuola di veterinaria, quella applicata di agricultura, si riforma l’insegnamento delle matematiche, sicchè lo Studio di Padova, pur non essendo così frequentato da studenti, come per l’addietro, potè stare al paragone dei migliori d’Europa”. Nè la Repubblica di Venezia, la quale, in momenti difficilissimi, aveva pur dovuto acconciarsi a rallentare i fermagli del suo Libro d’oro e ad iscrivere esotici nomi accanto a quelli dei Dandolo, dei Badoer e dei Morosini, si piegò mai a conferir l’onore della cattedra a chi non ne fosse stato degnissimo. Si scorrano i Rotoli dei tempi di maggior decadenza dello Studio, si scrutino a fondo i titoli scientifici dei principali insegnanti, che da essi ci vengono offerti, se ne compulsino i carteggi, e noi li vedremo riveriti dai più celebri scienziati, dar bene spesso il loro nome alle più illustri Accademie d’Europa.

Così, dalla pupilla degli occhi della Repubblica, più fortunata della Repubblica stessa che doveva tanto inonoratamente cadere, potè partire ancora, nella seconda metà del decimottavo secolo, uno sprazzo di vivissima luce; così potè ancora una volta lo Studio di Padova, attirare a sè l’attenzione di tutta Europa, che reverente s’inchinava davanti all’immortale creatore dell’anatomia patologica”295. [p. 176 modifica]

β) L’Università di Padova ai tempi del Cantacuzino.

Quando dunque, il 19 gennaio del 1667, lo Stolnic Constantin Cantacuzino si partiva da ’ Constantinopoli a bordo della Madonna del Rosario di padron Bernardo Martinengo, l’Università padovana, pur subendo la concorrenza di quelle straniere, non poteva certo dirsi in decadenza. Poco più di cinquant’anni erano passati, da quando (1610) col Sidereus Nuncius Galileo Galilei aveva bandito al mondo dalla sua cattedra padovana la novella delle „grandi e altamente ammirabili vedute... osservate nella faccia della luna, nelle stelle fisse innumerevoli, nella Via Lattea, nelle nebulose”, e, „principalmente, in quattro pianeti... a nessuno conosciuti... i quali intorno alla stella di Giove, a intervalli e periodi dispari, con celerità meravigliosa, si avvolgono”296; e, del resto, anche ai tempi del Cantacuzino, la fama del Vallisnieri era tale da attirar nello Studio padovano studenti d’ogni nazione ed in ispecie orientali, per i quali (ortodossi la maggior parte) l’istituzione (1633) del Collegio Greco rappresentava senza dubbio un non piccol vantaggio297. Il Cantacuzino tuttavìa non ne approfittò, sia che gli piacesse godere a Padova di una maggiore libertà, sia che non sapesse ancora abbastanza latino per potervi essere ammesso298. Certo è che [p. 177 modifica] fu ospitato dapprima presso un don Alvise Florio, poi presso la signora Virginia Romana.

γ)Il taccuino d’uno studente rumeno nella Padova nel seicento.

Poi che ci rimane un prezioso taccuino, nel quale il nostro scolaro prende nota non solo del viaggio da Costantinopoli a Venezia e da Venezia a Padova, ma fin delle sue spese giornaliere, comprese quelle dei libri che più particolarmente c’interessano; ci affrettiamo a metterne a parte i lettori italiani, traducendolo dal rumeno colla maggiore esattezza che ci sarà possibile:

1667, Genn. 19-o giorno.

Qui comincio a prender nota della mia partenza da Costantinopoli.

La quale, coll’aiuto del filantropo Iddio padre, l’intercessione del theanthropo figliuolo e la scorta del santissimo Spirito, sono uscito (sic) da Costantinopoli, giorno di Venerdì, Genn. 18, giorno dei venerati santi e vescovi Athanasio e Cirillo, dei quali le orazioni e l’aiuto ne portino in salvo senza pericoli; e son venuto col caicco, in compagnia del padre Bartholommeo il piccolino e di Loise Athineo il cantante, e di Michele fino all’isola di Halchi, perchè là si trovava là barca ad aspettar quelli che in essa dovevano viaggiare. E siam restati li fino al giorno dopo, e, venuto il giorno di Sabato, a due ore di notte siamo partiti in viaggio nella barca di cui era capitano Bernardo Martinenco (sic), la barca avendo due nomi diversi: l’uno Madona de Rozario (sic), l’altro Corona aurea. Questa barca è costruita a Venezia; ma l’equipaggio di essa è francese e lo stesso il capitano ohe ho di sopra ricordato. Siam giunti alle Scotte del Mar Bianco (come son dette, ma sono castelli) Venerdì, Genn. 24, e siam restati qui fino a Domenica giorni tre, secondo il costume che han nel fermarsi le navi cristiane. E siam partiti di bel nuovo, coll’aiuto e la guida di Dio, Domenica, Genn. 26, all’ora di pranzo e solo abbiamo oltrepassato i fortilizii, avendo il vento contrario. Di qui, la terza notte, dal Lunedì al Martedì, procedendo con buon vento, siam giunti all’isola che chiamano Milo, Giovedì, Genn. 30, ad un’ora di notte; e siam restati lì fermi Venerdì e Sabato tutto il giorno, trovando qui il marchese Vila299 (sic), che, venendo da Creta, si recava a Zante, con gran paura de’ Barbareschi. Partiti Domenica, siamo giunti a Zante sul far del giorno, Mercoledì. Qui non ci siamo feimati punto, avendo buon vento. Di qui, navigando diritto alla volta di Cefalonia, in questo medesimo giorno, verso il tramonto300, ci ha colto anche una tempesta, ma non poi così grande, ed è durata ore 3. Di qui siam giunti con tempo sereno fino in vista di Aranzo ed ivi (era) molta calma. Martedì, due ore prima di notte, ci ha colto un vento contrario e così tutta la notte soffiando, dalle 3. ore di notte e dav[p. 178 modifica]vantagio, fin verso giorno; Mercoledì ha comincialo a soffiar burrascoso e sopraggiungendo il sole più cresceva di forza, — il quale (vento) undici ore di mare ci ha fatti stare in pericolo, finchè abbiamo dato fondo in un porto che si chiama Campo Boldo (ed è) assai buono. È li ci siamo riparati. E durato quel vento fortissimo fino alle 3301 ore di notte, quando cadde, — sia anche questo pericolo in lode del Signore. Ed in questo porto ci siamo fermati Giovedì tutto il giorno e Venerdì, verso sera, levatici (di lì) abbiam viaggiato un’ora di notte fino a Rovin a prender ordini secondo è l’uso. Quivi siamo rimasti 2 giorni, ed ordini non (ne) abbiamo trovati. Dopo di che ci siamo spinti più su, verso un porto, dove ci siamo fermati 1 giorno e la notte, levatici (di lì), abbiam veleggiato fino all’ora di colazione, quando siam giunti a Venezia, Martedì, Febbr. 19, giorno bello e sereno. Quivi nel porto entrati colla nave, siamo rimasti in essa tutta quella notte. E Mercoledì a mezzoggiorno ci son venuti a rilevare e ci han condotti qui302in contumacia303 Ci han tenuti qui in questa contumacia solo giorni 30 e ci han fatto uscire il giorno di Venerdì a mezzogiorno, Marzo 23. Qui è venuto a prendermi persona di fiducia di padron Pana, il ieromnimon Gonduli, che m’ha preso con sè e m’ha condotto a casa sua qui in Venezia, e vi son rimasto fino al giorno 18 di Aprile. E poi son venuto a Baduva304 (sic), partendo di Venezia il giorno di Venerdì dopo pranzo e viaggiando insieme con padron Pana e Raul Santonin avvocato ed il fratello di padron Pana Giovanni Antonio, fino a casa loro in un villaggio che si chiama Mira; e quivi fermatici, ci siam levati di lì il giorno dopo con padron Pana e il fratello Giovanni Antonio e siamo arrivati qui in Padova. Essendo dunque arrivati qui e partito Pana con sua moglie, non trovando subito alloggio come io lo desidero, siam restati qui soli io e Nicola di Bubuli in casa del ch-mo Signor Giovan Filippo Corniglia, perchè ci procuri maestro e casa buona dove alloggiare. Dopo ciò, Mercoledì, giorno 14 Aprile, trovandomi nella chiesa ch’è la loro 305 Metropolia, mi son recato dai preti canonici; tra i quali oggi mi trovo, in casa del prete chiamato Alviz Fiorie, che mi tiene in casa, e mi alimenta, dandogli io al mese ducati 15. Il maestro anch’esso nella medesima casa abitando, viene ad ore fisse a darmi lezione. Il quale chiamano Antonio Dalacfa306 Accademico, dal quale coll’aiuto del santissimo e potentissimo Iddio e le non interrotte preghiere della Beatissima Madre del Signor (nostro) Gesù, ho cominciato ad apprendere con tutte le mie deboli forze umane, il giorno di Giovedì, Aprile 15 307 . Di lui e di me e di tutti, Iddio pietoso abbia misericordia. E nel luglio 28/18 e nel giorno di Giovedì ho cominciato a studiar la logica dall’illustre [p. 179 modifica]e dottissimo Albanie Albanez308, che è il principio della filosofia, a proposito di che prego come sopra che la grazia di Dio sia con me, per modo ch’io possa terminar sotto la guida di lui lo studio di questa scienza. E similmente nel nome di Lui, da cui tutte le cose procedono, ho cominciato oggi la fisica, mese di Novembre, 10, giorno di Sabato309.

Fin qui nell’anno 1667.

Ed ora nell’anno 1668.

Sempre da quel medesimo fonte di bontà ch’è Dio, dò inizio a queste note. Ho incominciato col dottissimo e illustre Bonvici lo studio della matematica giorno di Lunedi, mese di Aprile, 6, cioè di una parte della matematica, la geometria, ovverosia gli elementi di Efelid l, e nel contempo la sfera che si chiama armilaris (sic) che è (la sfera) di tutto il mondo. Ho anche terminato, giorno di’ Martedì, mese di Maggio 1, gli otto libri della fisica, e, sempre in questi due mesi, ho cominciato Dell’anima, sempre da codesto Albanese. Goll’aiuto di Dio, ho terminato anche questi libri, mese di Agosto 4. Sono arrivato a Venezia da Padova, giorno di Venerdì, 5 Agosto”.

A Venezia, non sappiamo bene se in questa occasione o [p. 180 modifica] in altra, il Cantacuzino visitò il palazzo Ducale, della qual visita prese sommariamente nota in altra parte del suo Diario:

Nel palazzo di Venezia sono queste cose:

Scritto è nella casa dove abita il principe cogli altri grandi, sul soffitto della casa appena entri, sulla porta che sta dirimpetto: „Robur imperii”; camminando un poco, c’è: „Nimquam derelicta”, e, nel mezzo della casa: „Reipublicae fundamentum”, e, in fondo a questa casa: „Gubernatores libertalis”.

Null’altro. Delle meraviglie d’arte, che adornano codesto tempio della potenza marinara d’Italia, neppure una parola. Gli è che quei motti si potevan facilmente trascrivere anche da chi col latino non avesse soverchia familiarità, com’era il caso del nostro scolaro; non era però altrettanto facile ridar l’impressione, senza dubbio potente, ch’egli dovè provare contemplando il Trionfo di Venezia del Veronese o il Paradiso del Tintoretto. Quei motti latini riassumevano per lui l’impressione di potenza, di ricchezza e di gloria, che lo aveva fatto senza dubbio ammutolire nella Sala del Maggior Consiglio; eran come dei segni convenzionali, che, se per noi non vogliono dir nulla, servivano a ridestare in lui la commozione di quel momento indimenticabile. Non altrimenti un buongustaio, percorrendo le sale d’una esposizione d’arte, riempie i margini del catalogo di una folla di segni cabalistici, che a lui solo potran rievocare le linee che lo hanno interessato in una statua o la disposizione delle figure, dei colori, delle ombre, degli sfondi, in un quadro di cui vuol serbare il ricordo. Solo così, dato l’insegno e la cultura del Cantacuzino riesco a spiegarmi tanta laconicità di appunti, i quali, del resto, dovendo servire a lui solo, anche per ciò che riguarda la sua permanenza a Padova ci appaion ben più scarni di quanto non potessimo immaginare. Ben altrimenti il nostro Stoinic avrebbe parlato dei giorni passati nella goliardica città, se qualcuno de’ suoi connazionali lo avesse interrogato sulla vita ch’egli vi menò tra il 1667 e il 1668! Gli aneddoti sarebbero seguiti agli aneddoti, le descrizioni alle descrizioni! Le meraviglie di Venezia, le bellezze naturali ch’egli potè osservare nel viaggio da Venezia a Padova, la vita universitaria così gaia e rumorosa, il ritratto del canonico Alvise, della signora Virginia, le bizzarrie dei servi, avrebbero occupato una parte non piccola del suo racconto. Data invece l’indole del giornale, in cui non si registrano se non le date memorabili [p. 181 modifica]dei giorni nei quali, „coll’aiuto di Dio e le non interrotte preghiere della Vergine”, ha cominciato o terminato lo studio di questa o quella disciplina, dobbiamo essergli grato anche delle non troppe (ma neppur poche) notizie di fatto, che ci dà intorno agli studii seguiti, ai maestri sotto la guida dei quali li compì, ai libri, alle spese, agli alloggi di uno scolaro straniero nella Padova studiosa del seicento.

δ) Il libro ciclici spesa di un futuro ministro.

Al Diario segue infatti un breve registro delle spese sostenute, del quale non voglio defraudare la curiosità del lettore;

1667, Lugl. 13/23 giorno di Sabato.

Mi ha spedito da Venezia, padron Pana galbeni310 veneziani 80 per pagar la dozzina al prete e le lezioni al maestro, dei quali in questo giorno dò al Maestro Antonio Dall’Acqua ducati 5.

E di nuovo mi ha mandato, Novembre, 1/10 giorno di Lunedi, ducati veneziani 30, sempre perchè paghi il prete, e per altre cose.

1667, Aprile 18/28. Ho dato al prete presso il quale dimoro, ducati veneziani 16 per l’alloggio e il vitto mio.

1667, Lugl., 3 alla francese311. Di nuovo, come in giugno 23. ho dato ai servi ducati 10 del loro salario.

1667, Agosto, 1. Di nuovo ho dato al prete presso il quale sono alloggiato, altri ducati veneziani 16 e doppie ½ per altri 3 mesi; giorno di Lunedì, Sett. 1/11, di nuovo ho dato al servo ducati veneziani 3.

1667, Ag(osto), 1. Ho dato al mio maestro di filosofia Albanie Albanese ducati veneziani 7.

Il 31 marzo dell’anno seguente (1668), il nostro scolaro cambiava camera mobiliata, abbandonando il canonico Alvise per una signora Virginia, il cui soprannome di Romana mi fa sospettare non fosse un modello di castità 312, e ne prende nota in questi termini:

„1668. Sono uscito dalia casa del prete Florio alla fine di marzo e son venuto in casa dela signora Verghinia Romana, dove abito insieme col signor Martin Hermann; e sono entrato nella camera che abito, Maggio 19.”313 [p. 182 modifica]

Fu probabilmente il Signor Hermann, che di vita studentesca doveva da buon tedesco intendersene, che persuase il Cantacuzino a sostituire il malinconico soggiorno presso il prete, con quello ch’io non so non figurarmi se non allegro... anche troppo presso la Signora Virginia. Dapprima il Cantacuzino abitò 314 nella camera occupata dall’Hermann, finchè, fattasi libera un’altra, potè entrarne in possesso. Rimase molto il Cantacuzino presso la signora Virginia? Non sappiamo e non paiverosimile, poi che la permanenza a Padova del nostro scolaro non pare essersi protratta oltre il luglio di quell’anno. Ad ogni modo, possiamo argomentare dal fatto che solo nel marzo 1668 lo vediamo far vita comune con un condiscepolo d’altra nazionalità, che furon proprio i mesi ch’egli trascorse nella nuova abitazione, quelli nei quali cominciò a prender parte alla vita scolaresca padovana.

δ) La biblioteca d’uno studente rumeno nella Padova studiosa del secolo XVII.

Da principio infatti sembra che si tenesse in disparte, menando vita ritirata e studiosa, preoccupato forse delle molteplici e non lievi difficoltà che incontrava nello studio di discipline, che richiedevano ben altra preparazione, che non potesse essere la sua. Il che appare anche dalla seguente lista di libri, fra i quali non manca nè la grammatica latina, nè il calepino, ai quali, nei primi tempi del suo soggiorno a Padova, dovette secondo ogni verosimiglianza, ricorrer di frequente per intendere il latino de’ suoi testi di filosofia e di legge:

1667, Lugl., 1. Qui si fa il catalogo dei libri che compro, quanti e quanto ciascuno, fino all’ultimo, sia pure il più piccolo:

1. Gli „adagi”, cioè i „proverbi” di Erasmo libre 5=
2. Gli „elogi dei Signori veneziani 6=
3. I „Proghimnasmata” di Athanasios sol. 4
4. L’Iliade e l’Odissea di Omero, greco-latine 12
5. Una „grammatica” di Manuel, latina 2
6. Una gramatica” (di) Lascaris, greca 3=
7. Un calepino 12 [p. 183 modifica]
8. Un „Ginnasio Patavino315 sol. 4
9. Un Tito Livio, storico 7
10. Un Virgilio piccolo 2
11. Valerio Massimo 2
12. Natalis Comitis 7
13. ParticulaeTurselin 7
14. I „Colloquii” di Ludovico, e i „Flores Legum 2=
15. Marziale 1=
16. Le „Institutiones” di Giustiniano 4
16. Quintus Curtius 2=
17. Un, „Enchiridion” di Epitteto piccolo, e gl’ „Inni” di Sinesio 2=
18. Un calepino 12
19. Terenzio ed Orazio, comici 10
20. Camelio e Polifrasto, dell’uno e dell’altro una quantità di detti e di fatti
22. Un libro sulle differenze delle parole 2
23. Tutte le opere di Luciano in quattro tomi 24
24. Tutte le opere di Aristotele insieme col Collegio dei Combriti 131,15
25. Una carta del cielo di Paolo Loredano ½
26. Una logica di Cesare Cremonini 1=
27. Due volumi di Giovanni il gramatico, uno sui tue libri Dell’anima di Aristotele, l’altro sui libri di Aristotele intorno agli Ultimi analitici ed un volume di Simplicio sui quattro libri Del cielo di Aristotele, e due volumi di Temistio: uno ancora sui quattro libri Del cielo di Aristotele, l’altro intorno ai libri di Aristotele, Posteriori alla fisica (Metafisica) che trattano dell’anima e di altre cose che seguono [in esso]
28.
29. 3
30. Due libri di....
31. Alessandro Afrodiseo, un volume intorno ai 12 libri della Metafisica di Aristotele, l’altro sulle Meteore, sempre di Aristotele, ed un volume di Averroè che tratta della Sostanza del mondo più tutta la Logica di Zabarelli
32.
33.

La biblioteca del Cantacuzino è andata dispersa in seguito ai gravi avvenimenti che il Del Chiaro narrò (1718) nella sua Istoria delle moderne rivoluzioni della Valacchia, e nei quali il Cantacuzino medesimo perdè miseramente la vita. Non restano che un ms. greco (Ἑρμηνεία ἁπλῆ εἰς τὸ κατὰ Ἰωάννην Εὐαγγέλειον), che l’Erbiceanu 316 rinvenne or son molti anni nella Biblioteca [p. 184 modifica]del Seminario di Socola317, ed un volume dal titolo Lyceum patavinum sive icones et vitae Professorum Palavii MDCLXXXII publice docentium per Carolum Patinum.... Patavii, MDCLXXXII, che ho potuto identificare318 col Gymnasium patavinum dell’elenco, che il Cantacuzino studente comprò a Padova per soldi 4 veneziani.319 Degli altri libri quelli che a noi maggiormente importerebbe conoscere sono gli Elogi dei Signori Veneziani320, Le differenze delle parole, in cui mi par di poter ravvisare le Elegantiae del Valla, il libro di Paolo Loredano che tratta Del cielo321, la Logica di Cesare Cremonini e l’altra322, dello Zabarella; ma non li abbiamo più ed è perciò vano perdersi in congetture, tanto più che i titoli sono soltanto approssimativi e molte volte traducono così pedissequamente in rumeno quelli originarii, che, p. es., mi c’è voluto del bello e del buono a ravvisare nelle Cărți lu’ Aristotel ale celor dupre urmă analitică gli Analitici posteriori e nelle Posterioarele fisicii la Metafisica. Ad ogni modo pochini erano i libri di autori italiani che il [p. 185 modifica]Cantacuzino riportava in patria e tra essi mancavano del tutto, per dirla colle sue stesse parole, quelli pentru distracția auzului323, atti cioè a sollevare e ricreare lo spirito. La sua giovinezza passò tra i gravi libri di filosofia e di scienza, come la sua maturità fra i maneggi politici. Gli si attribuiscono pochi versi greci: un epigramma per la morte del padre, uccisogli mentre studiava a Padova la logica del Cremonini e la filosofia d’Aristotele, ma neppur quelli hanno l’aria di appartenergli.

α) Ritratto del Cantacuzino.

Spirito riflessivo, intelligenza fredda e calcolatrice, attese a opere d’erudizione e si dilettò soprattutto nei maneggi d’una politica di raggiri e d’intrighi più che bizantini. Non volle il trono, solo perchè „ciò sarebbe stato di sommo pericolo e al Paese, ed alla sua Famiglia, poichè i Turchi non avrebbero mai sofferto un esempio senza esempio, che ad un fratello venisse sostituito un altro fratello”324; non per modestia, nè, tanto meno per desiderio georgico ed umanistico di tenersi in disparte dalla cosa pubblica per dedicarsi agli studii. Quando salì al trono il nipote Brâncoveanu, regnò di fatto, senz’esser re325, e continuò a regnare326 quando al Bràncoveanu successe il figliuolo del nostro Stolnic, il terribile Stefano Cantacuzino, del quale il Del Chiaro ci fa un così poco simpatico ritratto327 Con tutto ciò, e „mal[p. 186 modifica]grado la sua terribile riputazione di avvelenatore, vendicativo e intrigante politico, lo Stolnic Costantino Cantacuzino fu” — conchiuderemo col Iorga 328— „una delle più importanti figure intellettuali fra i boieri rumeni del secolo XVIII. Conosceva il greco, l’italiano e il latino, aveva fatto viaggi in Europa, nutriva passione per i libri, sì che anche oggi possediamo qualche rimasuglio della sua biblioteca. Costantino Daponte329 lo [p. 187 modifica] chiama: il dotto (ὁ ἐπιστήμων). I suoi peccati politici, che almeno in parte son veri, li ha espiati colla sua morte violenta a Costantinopoli, dove fu strangolato in carcere, insieme col figliuolo Ștefan-Vodă alle 10 di sera del 7 luglio 1716. Per la dottrina che s’era acquistata e il suo amore del sapere, merita un posto non volgare nella storia dell’evoluzione intellettuale della Rumania330”. A noi importa soprattutto, perchè fu il primo tra i boieri rumeni ch’ebbe conoscenza quasi perfetta della lingua italiana, come si rileva dalle sue lettere, che, a non saperle scritte da un rumeno, potrebbero attribuirsi a qualsivoglia degli eruditi italiani del secolo XVIII; perchè fu pars magna nella Corte del Brâncoveanu, dove l’arte italiana trovò tanto lieta accoglienza; perchè infine collaborò in certo modo ad un’opera italiana di gran valore per quei tempi, e che anch’oggi si consulta con frutto.

ζ) Corrispondenza italiana col Marsigli.


Fra gli stranieri infatti, coi quali lo Stolnic Cantacuzino fu in corrispondenza epistolare „in un’ epoca, in cui la guerra turco-tedesca spingeva spesso in Rumania generali e ufficiali austriaci”331, fu anche il Conte Luigi Ferdinando Marsigli332 di

[p. 188 modifica] Bologna (1658 — 1730) allora generale austriaco ed autore di due opere d’indole storico-geografica di grandissima importanza per chi si occupi di studi italo-rumeni: il Danubius pannonico- [p. 189 modifica]moesicus, pubblicato ad Amsterdam il 1727 con gran lusso di caratteri e d’incisioni in 7 splendidi volumi in-folio, e: Dello stalo militare dell’Impero Ottomano, pubblicato anch’esso ad Amsterdam il 1732. Per ciò che riguarda la prima di codeste opere, avendo bisogno di schiarimenti sull’organizzazione amministrativa e religiosa dei Principati rumeni, de’ quali egli fu de’ primi in Italia a scriver la storia dalle origini fino a’ tempi suoi, si rivolse allo Stolnic Cantacuzino, nel quale trovò un informatore dotto e cortese, che non s’annoiò mai di rispondere al diluvio di domande che il suo dotto corrispondente gli rivolgeva da Bologna, e giunse persino a incaricarsi di procurargli i ritratti dei Voda che non figurano però nell’opera del Marsigli. Le domande del quale, si trovano (con le riposte in italiano del nostro Stolnic) conservate a Bologna nel ms. Marsigli, No. 57 della R-a Biblioteca Universitaria333 insieme con una lettera del Cantacuzino, che riportiamo, sì per dare un esempio del suo stile, sì perchè vi si parla d’un volume del Segneri da lui richiesto al Marsigli e dal Marsigli procuratogli. Si trova a c. 203 del ms. sopra ricordato, e noi la pubblichiamo secondo il testo datone dal Iorga:


 Illustrissimo Signore, Signor mio colendissimo,

Alla prima vista della compitissima di Vostra Signoria Illustrissima col douuto ossequio riceuuta e da molto bramata, pensauo certo essere all’ultima mia forse risposta, delle tre scritteli, due in risposta alle di lei capitate; mà poi, vedendone il tenore, arrestai, non ritrovando riscontro veruno delle mie; nelle quali non mancai renderli le douute gratie de libri favoritimi; cioè il Padre Signeri e l’Atlante. Raguagliandoli anco non haver potuto adimpire le sue virtuose dimande nelle relationi di queste provincie a causa d’una longa indispositione podagrica, quale mi travagliò grandemente, a fuori d’altre indicibili afflitioni, che questa misera provincia patì e patisce.334

Mà hora per quanto posso più succintamente, ben che questo richiede una più grande applicatione, e tempo, quale non hebbi, li mando (secondo il suo desiderio) le presentì notizie con li nomi più distinti in Valacco. I ritratti de prencipi non è cosa così facile, a fine che qui adesso non sono pittori tali che al naturale possino farli; starò sull’accennato, e, capitando un tale, non lasciarò non compiacerla.; acciò il mondo virtuoso non sia privo d’una così vantaggiosa et lionorata fatica et Vostra Signoria Illustrissima di quella lode primogenita del suo merto. [p. 190 modifica]Non dubito, che, finita, non essere ancora con quella honorato da Vostra Signoria Illustrissima.

Ciò che Vostra Signoria Illustrissima mi commandò, passai a bocca l’officio con Sua Altezza, la quale si mostrò pronto a compiacerla e li manda il cavallo, etc., come il danaro da sborsarsi a quei signori mercanti in Costantinopoli, come dalle risposte di detti signori a suo tempo vedrà, ed il tutto quello che sarà possibile sempre servirla.

Mi li confesso obligato per le nove datemi, e, se ben Vostra Signoria Illustrissima mi scrive essere il suo quartiere eremo e privo di simile curiosità, mà queste non sono d’eremiti, come nè anco quei che stantiano in quello sono eremiti.

Io poi da queste parti, altro non hò per adesso, se non che l’inviato polacco, (del quale non dubito che non sii noto a Vostra Signoria Illustrìssima), gionto adì 22 gennaro in Andrianopoli, al Hano ivi commorante, al quale era diretto, li presentò una [lettera] del suo rè, e, doppo qualche giorno, senza haver da Turchi nissuna accoglienza nè aboccamento, fù licenziato a 14 del caduto [febbraio] con questa risposta, che la Porta altro non li concede se non Caminiz funditus demolita.

Il Ha o di là, doppo altri dieci giorni, parti ancor lui verso Bugiale, ad apparecchiarsi, dicono, per la futura campagna.

Li Turchi fanno apparecchi al lor solito; mà fra essi non mancano confusioni, cioè l’interni eunuchi col governo di fuora, guardando ogn’uno la sua testa, ed il Visir, per sfuggire qualche sinistro, che li potesse avvenire, e forse iminet, procura, quanto più presto potrà, uscire in campagna.

Del resto, se ben poche, e quasi nulle sieno le mie forze, in tutto ella l’eserciti in suoi commandi, che sempre le trovarà pronte, mentre ambisco essere e sottoscrivermi

Bucuresti, 4 Marzo 1691. Di Vostra Signoria Illustrissima
1694.

δ) Un’opera del Segneri e un atlante italiano in viaggio per la Valachila.

Ecco dunque la biblioteca del nostro Stolnic accrescersi di due nuovi libri italiani: un’opera del Segneri e un Atlante. Quanto alla prima, potrebbe certo trattarsi della Manna dell’anima pubblicata l’anno prima (1693) e che rappresentava perciò ancora una novità, o dei Penitente istruito (1691) tradotta più tardi dal Klein col titolo: Către cel ce se pocăesce povățuire (cfr. pp. 64— 66 di queste nostre note), come ci sembra ritenere [p. 191 modifica]il Iorga. Quanto a me, il lettore ricorderà come nella Biblioteca del Seminario Veniamin di Socola si trovino, insieme con un ms. greco di sicuro appartenuto al nostro Stolnic, due traduzioni greco-moderne del Segneri, una delle quali: Ὁ παρῶν Λόγος τοῦ Παύλου Σίγνερι sic), Ιησουΐτου, ἤτα τῇ μεγάλῃ παρασκεβή εἰς τὰ σωτέρια πάθη, tradotta per di più dall'italiano in greco a Padova (μεταγλωττίσθη ἐκ ἰταλικῆς ἐν Παταβίῳ). Orbene a me pare che questa traduzione potrebbe ben reclamare per sè l’onore d’esser stata richiesta al Marsigli dal dotto stolnic rumeno, sia per la città in cui fu eseguita, sia per la biblioteca in cui ora si trova, dove par che altri manoscritti del Cantacuzino siano andati a finire, sia infine per quella forma di Σίγνερι in cui il cognome dell’eloquente gesuita ci è dato, che, mentre corrisponde a capello al Signeri della lettera citata, è abbastanza strana, perchè possiamo spiegarla altrimenti. Resterebbe a vedere, se, nella lettera del Cantacuzino al Masigli, si tratti della traduzione o del testo italiano; ma ciò è un po’ difficile poter definire. A me sembra più naturale che il Cantacuzino avesse portato con sè da Padova il ms. greco, e, riconosciutolo manchevole, a causa dei tagli e dei cambiamenti introdottivi per renderlo atto agli usi ecclesiastici ortodossi 335 (nell’altro ms. segneriano è detto chiaramente che la traduzione non è esattamente letterale, anzi ἐν πολλοῖς διὰ προσθήκης καὶ ἀφαιρέσεως τινων si discosta dal testo italiano)336, desiderasse confrontarlo coll’ [p. 192 modifica] originale e lo richiedesse perciò al Marsigli; ma insomma questo è quanto si può argomentare a fil di logica, e pur troppo non sempre la logica ci aiuta a trovar la verità.

η) Il Cantacuzino collaboratore del Marsigli.

Ma forse più che la lettera surriferita c’interessano le brevi noterelle ch’egli scrive di suo pugno a fianco delle domande rivoltegli dal Marsigli, come quelle che, per esser buttate giù così alla buona, senza alcuna pretenzione letteraria, si prestan meglio a darci un’idea di quanto, dopo quasi trent’anni (1668 — 1694), l’antico studente di Padova ricordasse ancora della lingua in cui aveva preso parte a tanti squisiti conversari. Crediamo soddisfare la curiosità dei lettori (assai meno di venticinque!) di queste nostre fatiche, dando uno specimen, non più che uno specimen, di tali glosse marginali del Cantacuzino al ms. del Marsigli:

[R. Biblioteca Universitaria di Bologna. Ms. Marsigli No. 57].

[Risposte] Alle petitioni dell’Illustrissimo Signor Luigi Conte Marsigli [Risposte del Cantacuzino]fatte all'Illustrissimo Signor Constantino Cantacuzino per servirsene al proseguimento e prossimo fine del trattato istorico-naturale-geografico delle Dacie. Petitioni del Signor Conte Marsigli.

„Si considera la populatione valacca per un avanzo delle colonie furono da Romani trasferite nelle Dacie, e queste, abbandonate dal suo imperio e vessate da barbari conquistatori, furono obligate ad abbandonare le loro residenze fatteli da suoi imperatori Non Marmaros, mà Maramuros. nelli siti più ameni delle provintie e ritirarsi fra le selve e balze de monti carpatici del Marmaros et altri della Transilvania. Questi, cresciuti di numero e trovate varie opportunità di paesi fertili e men orridi delli loro balzi, passarono ad abitarli in diversi tempi, Questo è vero. instituendo due nuovi dominii: uno di Valacchia e l’altro Moldavia.


[p. 193 modifica]

Per la populatione e dominio di Valacchia fù primo capo il detto il Negrul, che, costeggiando la parte montana Radule della Valacchia, si portò in Campo Longo ed altri forti siti come esercitò la pitta (sic) dell’edificio di più monasterii, essendo sepolto in quel nominato...... Argeș.

Si prega ogni maggior possibile succinto lume di questo Negrul, delli suoi natali e gesti, il di lui ritratto, che è in tutti li monasterii.

Si vorrebbe sapere se è vero, che tutta la Valachia di là dalla Dumboviza fosse abitata da Tartari, quando regnava il Negrul.

Si desidera il cattalogo delli nomi di tutti li prencipi, Questo si fà. Vaivoda di Valacchia dal Negro sino al moderno. L’effigie del sudetto Negro, Col suo tempo, e trovandosi pittore, si farà. dell’altro famoso nemico de Turchi, di quello si rese tributario della Porta, del Serbano e del moderno Brancovanu; onorando di dare in compendio quelle maggiori notitie, che possono comprobare questa continuatione di discendenza di popolo romano, aducendo memorie, deduttioni, usi et altre particolarità a noi non note per le stampe, e del principio di questo principato fattosi da una natione abbandonata e negletta in altri tempi..... ”.

Quanto alle „notitie che possono comprobare” la „continuatione di discendenza” dei Rumeni dal popolo romano, il Cantacuzino risponde che non è cosa da pigliarsi a gabbo: „Vi vol del tempo e fatiga grande, quale pro posse io fo in valacco per più dilucidare gl’annali di questa provincia.” Non essendo finita (tanto per intenderci il Marsigli lo sapeva benissimo, ma, avendo visto a casa del Cantacuzino un manoscritto, contenente l’opera di un antico cronista, faceva del suo meglio per utilizzarlo) lo rimanda alle Origines et occasus Transiloanorum di Lorenzo Toppeltin de Medgyes, „dal quale e d’altri autori che cita, potrà facile (sic) conoscere molto intorno questo”337.

Non lo lascia ad ogni modo a denti asciutti, che anzi „dal suo bello338 manoscritto... dell’origine e istoria della Moldavia” [p. 194 modifica] estrae abbastanza da saziar la dotta sete dell’erudito general bolognese.

δ) Una „ Tavola Geografica” della Valacchia stampata a Padova.

Il quale, avendolo richiesto „di corettione” ad una sua „nota geografica”, il Cantacuzino, dopo aver molte cose rettificato, specie intorno alla giurisdizione ecclesiastica, crede utile aggiungere:

„Qualche volta, mirando le mappe di queste provincie, mi dispiace che vedo essere di gran fatica e spese, e poi errori non piccioli, sì nei siti, come ne’ fiumi e città, e, quel ch’è peggio, nei nomi. Taccio dell’altre provincie e regni. O Deus bone, quanti errori saranno!”339. Sei anni dopo (1700) infatti, il nostro Stolnic faceva stampare „nel Seminario di Padova... con Caratteri Greci”340 una gran „Tavola Geografica” della Valacchia, che,

[p. 195 modifica] „ridotta in piccolo per comodo maggiore del Libro”, fu poi riprodotta dal Del Chiaro 1 „nel principio” della sua più volte citata Istoria delle Moderne Rivoluzioni della Valacchia. „L’Autore di detta Tavola” — ci dice infatti il nostro storico — „fu il Conte Costantino Cantacuzino, che nel 1716 fu miseramente strangolato in Costantinopoli col Principe Stefano suo figliuolo, come si vedrà nella seconda Parte di questa mia Istoria. L’ho fatta anche rigorosamente rivedere ed esaminare da molte Persone, che hanno una particolar cognizione, e pratica de’ luoghi eziandio più rimoti di quel loro Paese; onde, assicurato da essiloro, che non può essere nè più esatta, nè più fedele, ciò mi ha dato coraggio di farne intagliare il Rame senza risparmio di spese”341. È una delle solite carte geografiche del tempo, colle montagne che sembrano tante ricottine messe in fila, i boschi segnati con minuscoli alberetti gli uni accanto agli altri a regolari distanze come i peri nani di un frutteto; i mari e i fiumi popolati di pesci e di barche, le città coi loro bravi campanili e minareti, le immancabili mura, e magari anche qualche sentinella a guardia delle torri; una di quelle buone vecchie carte settecentesche sulle quali era ancor possibile viaggiare colla fantasia come piaceva all’Ariosto, prima che l’esattezza scientifica cacciasse in bando tra i ferri vecchi e ricottine, e peri nani, e campanili e sentinelle, per sostituirvi i colori stridenti e i segni convenzionali della nuova scienza, senza nondimeno progredir troppo in esattezza. Per ciò infatti che riguarda i nomi, il buon Cantacuzino potrebbe ancor oggi ripetere il suo: O Deus bone, con quel che segue, leggendo Giurgiu trasformato in Giurgevo e Constanța in Kustendje!342 E non parlo delle centinaia di nomi scritti ancora secondo l’antica ortografia rumena o copiati di sana pianta da carte tedesche, nelle quali la pronunzia figurata dà luogo ad ameni indovinelli! Ma... bando ai paradossi! Una volta imparata (lo sanno i nostri poveri occhi di bambini!) l’arte di leggervi, è chiaro di quanto le carte moderne si avvantaggino sulle antiche343. [p. 196 modifica] Peccato che non siano ancora un modello di essattezza e che quella originale del Cantacuzino sia andata perduta!344 Chi sa che i moderni cartografi non ci avessero potuto imparare qualcosa! Resta il fatto che il nostro Stolnic, che a principio della sua Storia citava Aristotele, (del quale, dopo due anni di studio padovano doveva essere ben impregnato) e nel corso dell’opera (indubbiamente sua!) ricordava altri libri del catalogo sopra riferito; non si dimenticava, neppur fra le mene torbide della sua politica d’intrigo, della città nella quale aveva succhiato il latte della scienza, e, dovendo pubblicar la carta geografica della Yalachia, la faceva uscir pei tipi della stamperia del Seminario, la sola, che, insieme coll’autorità scientifica che le veniva dall’aver la sua sede nell’Atene d’Italia, possedesse i mezzi tecnici ch’egli riteneva necessarii ad eseguirla.

ι) Lo „stolnic” Cantacuzino e la cultura italiana alla corte di Constantin-Vodă Brâncoveanu.

Conchiudendo, in quell’ambiente di raffinata cultura ed eleganza italiana, ch’era, intorno al 1700—1713, la corte di Constantin-Vodă Brâncoveanu345, la severa figura dello stolnic [p. 197 modifica] tutto intento a’ suoi studi storici ed a tramare la successione al trono di suo figlio Stefano, grandeggia sinistramente come quella di Macbeth nella reggia di Duncano. A me par di vederlo, chiuso nella sua cameretta di Mogoșoaia, meditare a lungo su di un libro, la cui rilegatura fregiata dei gigli farnesiani tradisce l’origine italiana. Muore il giorno e nel laghetto che si stende davanti alla magnifica villa del Brâncoveanu, il tramonto mette riflessi vividi di sangue. L’acqua è tranquilla e rispecchia la bella archittetura della facciata in ogni suo più minuto particolare. Le svelte attortigliate colonne bizantine del foișor, le finestre dai leggiadri chenar scolpiti a fiori e a fronde, la balaustra della loggia che risente del più squisito barocco veneziano, appaion capovolte come in un miraggio. Tra le aiuole del giardino disegnato all’italiana, il segretario Anton Maria Del Chiaro, colla parrucca in disordine sopra il caftan turco e il tricorno sotto il braccio, cerca invano sottrarsi a una gioconda brigata di giovani boieri, che, per farlo andare in bestia, fanno il verso del tacchino, trattenendolo per una manica perchè non fugga. Tutto il parco echeggia di giovanili risate, mentre all’orizzonte una pioggia di rose sembra sommerger la terra. Fra poco squilleranno le trombe d’argento ad annunziar l’inizio del banchetto che il Voda offre ai messi dell’imperatore, venuti a portargli il diploma di Principe del Sacro Romano Impero. L’ora è tarda, ma il vecchio Stolnic legge sempre. A un certo punto segna a margine qualcosa che sembra averlo più potentemente colpito. Poi esce a lenti passi, guardando trasognato verso il giardino, dove ancor qualche solitaria risata echeggia dietro gli alberi. Il libro è rimasto aperto sul divano. Chi vi gettasse uno sguardo, potrebbe, alla luce incerta del crepuscolo, leggere il passo che il Cantacuzino ha segnato. È un pensiero del Guicciardini, uno di quei terribili pensieri, che, nell’uomo del Rinascimento, rivelano la belva magnifica e inesorabile. Dice: „Quando ti verrà l’occasione di cosa che tu desideri, pigliala senza perder tempo.” Ora il tramonto arrossa il cielo e tutto [p. 198 modifica] il lago par divenuto di sangue. Non passeranno molti anni e il segretario italiano registrerà inorridito, nella sua Storia delle moderne rivoluzioni della Valacchia, la pagina più cruenta che i Turchi abbiano scritta nella storia dei Principati Rumeni.

κ) „Foglietti novelli” e Calendarii.

Ma il nostro Stolnic non si serve della conoscenza acquistata a Padova dell’italiano solo per farsi scolaro del Guicciardini e leggerne nel testo le terribili massime. Da buon seguace della politica italiana del Rinascimento, non si allontana dalla realtà contemporanea, cui ha sempre fisso il pensiero, e, se impiega qualche ora nella lettura del Guicciardini, molte più ne trascorre a sbrigar la sua voluminosa corrispondenza ed a raccoglier d’ogni parte le notizie che possano interessarlo. Lo veviamo così ben fornito di quei Foglietti novelli, dei quali il povero Del Chiaro lamentava tanto la proibizione, ed in possesso di non pochi calendarii latini e italiani, le cui predizioni, specie politiche, sappiamo che interessavano moltissimo Constantin-Vodă. Dei primi, — che sarei portato a identificare, stando a quanto ne dice il Del Chiaro, coi foglietti avvisi del Senato Veneto — non sappiamo altro; giacchè l’unico esemplare che se ne conserva non è che un almanacco346, in cui nulla giustifica il titolo di Foiletul novel datogli da un Ion Românul che ne fu il traduttore o meglio il compilatore. Possiam dire soltanto che alla corte del Brâncoveanu i foglietti avvisi347 della Repubblica Veneta non [p. 199 modifica] dovevan mancare, come non mancava neppur una delle tante Tartane delle Stelle, Nuove Sibille e Palladi Astrologhe, di cui l’Italia del secolo XVIII fu tanto feconda.

Interessante a tal proposito è una lettera del 1712, del Cantacuzino al patriarca di Gerusalemme Neofit Chrisant, che, mentre conferma la notizia tramandataci dal Del Chiaro348 che alla corte di Costantino Brâncoveanu esisteva una cancellano, che s’occupava di quanto avveniva negli altri Stati, e traduceva in greco o in rumeno le notizie che riceveva dagli agenti all’estero del Voda”349; è per noi preziosa, giacchè vi si parla di [p. 200 modifica] calendarii e di calendarii italiani. Ecco, tradotto, il passo che più ci riguarda:

„Di calendarii negli altri anni avevamo abbondanza; ma quest’anno uno solo me n’è arrivato in latino, il quale s’intitola Ternaviens, e poi, che il suo autore è Gesuita, nulla contiene per distrazione dell’orecchio; pure così com’è lo spedisco alla Vostra Felicità e vi prego di accettarlo, malgrado che nulla contenga che possa piacervi all’infuori della storia sinottica dei Re d’Ungheria e di alcune altre curiosità che presumo saranno per non dispiacervi.

E nel poscritto:

„Ho detto di non aver ricevuto che un solo; Calendario, ed è la pura verità; in questi’ultimi giorni però me ne son giunti altri quattro o cinque italiani, il cui prognostico s’è dato a tradurre sicchè ritengo, che, non appena tradotti, potrà averli anche la Vostra Felicità, malgrado i prognostici non siano di quelli più certi; ed invero se quest’anno dovessero accadere tutte le cose che in essi si predicono, cioè rivoluzioni del mondo intero e scontri di pianeti e guai d’ogni specie, non ci rimarrebbe altro che dire: „Poveri noi, dove ci rifugeremo?”.

Malgrado il sorriso ironico intorno alle strane predizioni degli almanacchi, è certo che tanto lui quanto il Voda s’interessavano in modo incredibile a un tal genere di letteratura, che continuò a goder del favore dei più culti boieri rumeni fino ai tempi del Negruzzi, e se al Cantacuzino interessava la parte storica e aneddotica, al Principe interessavano invece le predizioni politiche, che troviamo annotate di suo pugno in un Almanacco del 1693 illustrato dall’Odobescu nella Revista Română del 1861.

„Nell’estate del 1860”, — racconta l’Odobescu — , avendo ricevuto dal Ministero della Pubblica Istruzione l’incarico di studiare, catalogare e descrivere sì gli oggetti antichi, che i documenti riguardanti la storia nazionale, conservati nei monasteri di alcune provincie; ho trovato nella biblioteca del monastero Brâncovenești de la Hurezi350, fra molti altri importanti manoscritti..., un fascicoletto in-4 piccolo, rilegato in cartone, scritto accuratamente in rumeno con lettere cirilliche, appartenente al secolo passato e contenente un Kalendar pe anul 7209 (1701) con prognostici politici e preceduto da un proemio di dedica a Constantin-Voda Brâncoveanu sottoscritto da un Ion Romanul. Seppi altresì sul luogo istesso che altri calendarii di quel [p. 201 modifica] genere erano stati presi dal Principe Gregorio Brâncoveanu e portati a Bucarest. Mi venne la curiosità di chiederli al Principe, il quale ebbe l’amabilità di affidarmi un volume in-4 piccolo, di 152 facciate, nel quale erano legati insieme l’un dopo l’altro cinque calendarii per gli anni 1693, 1694, 1695, 1703 e 1699. I titoli si son conservati solo in quelli degli anni 1693 e 1695 e son questi:

Codesti titoli spiegano abbastanza bene il contenuto dei fascicoli, nei quali sono affastellate corbellerie astrologiche d’ogni specie sulla politica, la temperatura e i diversi avvenimenti, che si sarebbero verificati nel corso dell’anno.

Fin dal secolo XV (1495), si cominciarono a pubblicare in diverse città d’Europa almanacchi con pronostici astrologici per tutto l’anno, ed i celebri astrologi Nostradamus in Francia (1506), Mathaens Lansbery in Germania (1636), Lily in Inghilterra (1644), con altri antichi editori di almanacchi, devon considerarsi come i predecessori immediati degli autori [p. 202 modifica] citati da Ion Romanul nel Proemio (1694) ai lettori (Către cititori) e nell’Epistola al Brâncoveanu (Epistolă dedicatorie către Conslandin-Vodă Brâncoveanul). Codesti autori son tutti italiani come appar dai titoli: Il Gran Pescator di Chiaravalle, La Tartana delle Stelle, La Nova Sibilla, La Bretannia (sic) degli Influssi, Il Fruniolo (sic), La Pallade Astrologa, Il Gran Cacciator di Lagoscuro, Il Gran Pescator di Cumanio, La Nova Fenix, Il Burigol, La Rete de’ Merlotti, La Controtartana ed altri, di cui l’Italia” — dice con ragione l’Odobescu — „è anche oggi feconda produttrice”.

L’autore del Foletul Novel e dei Pronostici confessa d’aver tratta la materia delle sue mirabolanti profezie „da’ franchi calendarii”351, malgrado „non tutto quanto (gli autori di essi) hanno scritto ne’ loro libretti” si ritrovi ne’ suoi, „dove solo quel tanto ha serbato, che gli è parso potesse interessare la curiosità (περιεργία) del suo paese, tralasciando il resto”. Resta così assodato ch’egli estrae la materia de’ suoi almanacchi da più calendarii appartenenti a diversi astrologi „soprattutto Italiani”, traducendoli „dalla lingua Franca 352 in quella rumena per curiosità e passatempo” del Vodă Brâncoveanu, il quale pare s’interessasse non poco a codesta fatica ripetuta ogni anno.

Riferiamo qui, trascritto in caratteri latini, un brano dell’Almanacco per il 1693, annotato di mano stessa del Brâncoveanu:

SCRUTINIE STELELOR.

zice.

Sânt ale353 socoti. De Figurile ceriorești și mai multe de acea prea mare conionction354 adecă împreunare acelor doi mari care fost au la anul trecut la 20 ale lui Mai. Și acuma care va fi la Gen..355 15 la 23 de cesuri și la 20 de minute a lui Cronos și al lui Marsu. Și așijderea356 la 27 acei [p. 203 modifica]Iuni, la 7 ceasuri, minute 48 alui Zeu și al lui Marsu și împreună cu această si eclipsis, ce au trecut, arată îndoire relelor, Turcului și Țălălor357, aproape de Țărigrad358 pe Aceasta să întelege crai de Spania. cum ȋn anul trecut am ṣi semnat. Intraceasta de acuma o tragedia semnează. Ku obrazul acel dîntȃi asemene va fi Prinṭipului de Machedone: care cu a sa politica dezunire, seamănă al doilea obraz, cu o mână de oameni, să arată Aceasta să întelege Impăratul Nemṭescu. nectabo: cănd de la fine au fost scos din crăie. Al treilea mai apoi seamănă al Kiro: care cu o mulṭime de oameni ȋnarmaṭi s’ă nevojște (s’anevoieṣte?) a ȋntări ce au dobȃndit”359.

Sarà bene avvertire che le due citazioni di almanacchi italiani, contenute nel recto del documento descritto dal Iorga nel vol. V dei suoi Studii și documente (pp. 126 — 127), non hanno alcuna relazione col nostro Foiletul Novel, ch’è del 1693, nè con alcuno dei Calendari rumeni descritti dall’Odobescu, i quali vanno dal 1693 al 1703, mentre il giornale del Brâncoveanu [p. 204 modifica] scritto sul verso della pagina, comprende avvenimenti del 1688. Si tratta quindi d’un foglio di calendario rumeno per l’anno 1688, il cui verso s’era lasciato in bianco espressamente perchè il Voda potesse servirsene di Agenda. Ce lo fa supporre anche la lettera assai grossa del ms., per cui in un foglio intero non era scritto più che questo:

Gran Pescator di Chiaraval zice:

Trebile unui Prințip360 ce dă harac altuia mai mare, pentru folosul țării, mergu in stănga.

Gran Caciator361 de Lagoscuro zice:

Întămplare negăndită mută fața362 lucrurilor”.

Ne risulta che fin dal 1688 il Gran Pescator di Chiaravalle ed il Gran Cacciator di Lagoscuro pescavano e cacciavano in Rumania alla corte di Constantin-Vodă. Il quale, come tutti gli uomini che sanno d’essere in continuo pericolo della vita, non era alieno dal credere alle profezie e agli augurii. Curioso poi sarà il notare, la singolare corrispondenza fra la prima di tali massime e qualcuno tra i pensieri del Guicciardini segnati a margine dal Cantacuzino363, che vale a rivelarci (insieme con la preoccupazione costante di quella Corte di non compromettersi col Sultano 364) uno stato d’animo insofferente e quasi vergognoso della soggezione turca, che si rivela anche in altri segni apposti in margine ad altri pensieri del Guicciardini esortanti a contentarsi dela propria sorte, ad esser quelli che siamo senza vergognarci dell’umiltà del nostro ufficio, e sembran tanti sospiri di chi tenta rassegnarsi senza riuscirci, ed alla prima occasione giocherà la testa per tentar di sottrarsi all’insoffribile giogo. [p. 205 modifica]

λ) Altri influssi italiani; le „oselle”.

Dell’influenza italiana alla corte di Constantin-Vodă Brâncoveanul abbiamo avuto più sopra occasione di parlare, a proposito dell’influsso esercitato dal rinascimento, e dal barocco veneziano sull’architettura rumena di quel tempo. Non ci resta che informare il lettore intorno ad altri influssi, uno dei quali365 di natura più propriamente letteraria, ai quali non deve, a nostro avviso ritenersi estranea, — data la posizione, di cui il vecchio Stolnic godeva a Corte, e l’ascendente che esercitò sempre sul Voda, — la cultura italiana del Cantacuzino. Il quale, come mandò a stampare a Padova la sua carta della Valacchia, così, probabilmente, consigliò il nipote (Brâncoveanu) a far eseguire a Venezia la ristampa del vocabolario greco-latino di Varino Favorino366, della quale ci parla il Papadopoli nella sua Historici gymnasii patavini367. Se poi le famose medaglie368 d’oro e d’argento fatte coniare dal Brâncoveanu per distribuirle in dono ai boieri il Capodanno del 1714, (e che, interpretate come monete, furono uno dei più terribili capi d’accusa contro di lui369) [p. 206 modifica] si debbono, come verosimilmente congettura il Iorga370 ritenere come un quissimile delle oselle371 veneziane; avremmo una prova di più dell’influenza italiana esercitata alla corte di Bucarest dall’antico e non immemore studente di Padova.

μ) Il „Fior di filosofi" in rumeno.

Ma la cosa più importante a rilevare è la traduzione fatta per la prima volta in Rumania del Fiore di filosofi e di molti savi (Pilde filosofești), alla quale senza dubbio allude il Del Chiaro, quando, tra i libri stampati nella tipografia del „Monistero dell’Arcivescovado, o Metropolia della Valacchia” „registra le Massime degli Orientali, traduzione dalla lingua Franzese nella Italiana; fatta da lui, e dedicata al Principe Costali tin Brâncoveanu, per di cui comando il il P. Giovanni Abrami (allora Predicatore al servizio di detto Principe) le tradusse in greco

[p. 207 modifica]volgare, non senza notabile alterazione; furono poi tradotte dalla Greca nella Valaca favella per opere dell’Arcivescovo di Valachia Antimo, il quale poi fece stamparle in amendue le sudette Lingue a spese di Maano Apostolo 1713. in Bucarest, in 16.” Nè il Picot372, nè gli altri che si sono occupati di questo trattatello hanno riconosciuto in codeste Massime degli Orientali il Fiore di filosofi e di molti savi, che, a tanti secoli di distanza, dava ancora un segno della sua indistruttibile vitalità, col metter fuori un ramo nientemeno che in Rumania. Chi avrebbe infatti potuto supporre che questo antico testo italiano, dopo aver peregrinato vittoriosamente tutto l’occidente d’Europa, quando tutti lo credevan morto e sotterrato da un pezzo, avesse ancora tanta forza da volgersi nel secolo XVIII alla conquista dell’Oriente? Quando ad ogni modo si consideri che il Fior di virtù, tradotto in francese il 1530373 ed anche prima (1516) in castigliano374, si ristampava ancora nel ’700375, quando, regnando in [p. 208 modifica] Valacchia il Brâncoveanu, fu tradotta in rumeno col titolo di Floarea Darurilor376; non potremo più meravigliarci di tale postuma fortuna del Fior di filosofi tra i popoli di religione ortodossa. Che anzi il veder procurata in armeno 377 una traduzione dell’aureo378 libretto, ci fa pensare che a tale diffusione orientale dei due trattati non fosse estraneo lo zampino di Propaganda Fide 379, di cui non sarebbe strano che Monsignor Abrami, predicatore del Principe e traduttore del manoscritto del Del Chiaro, fosse un emissario.

ν) Conclusione.

„Poca favilla gran fiamma seconda!” Chi avrebbe detto al Cantacuzino, quando, coll’aiuto del „filantropo” Iddio padre, l’intercessione del „theanthropo“figliuolo e la fida scorta del „molto santo” Spirito, salpava da Costantinopoli alla volta di Venezia, che, dalla sua residenza di poco men che due anni a Padova (ch’egli chiamava Baduva), sarebbe in gran parte proceduto il risveglio delle arti e della cultura380 alla corte di [p. 209 modifica]Valacchia? Sarebbe ad ogni modo esagerato attribuire al Cantacuzino tutto il merito di quella civiltà italo-rumena, che si rispecchia soprattutto nell’architettura e più ancora nell’arte decorativa del tempo. Se, passeggiando tra le aiuole del giardino disegnato all’italiana del palazzo di Mogosoaia, o ammirando la vaghezza e l’eleganza dei fogliami nella balaustra della loggia, il Del Chiaro, che aveva finito allora di tradurre il Fior di filosofi e palpava in tasca la medaglia d’oro che il Principe gli aveva regalata quella mattina stessa e rammentava nel conio le oselle dei Dogi, poteva illudersi di trovarsi in qualche villa veneziana di terraferma; il merito è meno del Cantacuzino, informatore coscienzioso ma freddo, che del Brâncoveanu, principe artista sul tipo dei signori italiani del Rinascimento, adoratore come loro di ogni raffinata eleganza, come essi ambizioso e liberale; deciso com’essi a godere, tra i pericoli di una politica a due tagli, dell’attimo fuggente che non si rinnova, adoratore della gloria e protettore delle lettere.

Colla sua morte (1714), e con quella del Cantacuzino (1716), avvenuta anch’essa a Constantinopoli per mano del carnefice, si chiude un’epoca sì nella storia civile rumena, che in quella della cultura italiana in Romania. Fin qui, l’influsso italiano è stato diretto e preponderante su quello francese. Coll’avvento al trono dei principati rumeni dei greci del Fanar, le cose cambiano radicalmente, e, malgrado il numero maggiore delle traduzioni che ci avvien di riscontrare in questo periodo, l’influsso italiano può considerarsi già in decadenza. I fatti parlano chiaro. Ai tempi del Brâncoveanu, un testo francese aveva bisogno d’esser tradotto in italiano, perchè potesse veder la luce in greco e poi in rumeno. Sotto i Fanarioti, non solo la novella di Raimondo da Messina appar tradotta dal francese, ma il Decamerone stesso diventa pel traduttore il „Decamerone di Francia“. Nè possiam placare l’ombra sdegnata del Boccaccio, informandola che s’è dato il caso di qualche opera francese (il Thèlèmaque del Fènèlon) penetrata in Rumania attraverso il tramite italiano. Petru Maior che l’ha tradotta era un rumeno di Tiansilvania, dove l’influsso della cultura francese fu, ed è oggi ancora, piuttosto limitato. Per avere una nuova fioritura d’italianismo, effimera anch’essa e dovuta più all’entusiasmo di un uomo che ad una [p. 210 modifica] vera e propria corrente di cultura, bisognerà aspettare i tempi di Ion Heliade-Rădulescu, che son anche quelli delle eroiche lotte combattute dai due popoli per la loro indipendenza nazionale.




Note

    Istoria Țării - Rumănești attribuita dal Iorga con ottime ragioni al Cantacuzino, (Manuscripte din Biblioteci străine, pp. 78 sgg.), appar chiaro dal passo seguente, nel quale, come il Marsigli ben ricordava, si fa menzione della colonizzazione della Moldavia per opera degli abitanti di Maramuroș collo stesso particolare della caccia de’ buoi selvatici: „... nește pastori din Maramurăș, umblând cu dobitoacele lor prin munți, au dat peste o hiara (= fiară) ce-i zie buor, pe care gonind-o au trecut muntii, și așa eșind în Moldova, au văzut țara frumoasă și de hrană, iproci. Apoi s’au întors la ai lor, și spuindu-le de acel loc, s-au adunat mai mulți păstori, și de alpi, și au venit de au descălecat acolo”, Cfr. Iorga, Operele lui Constantin Cantacuzino, București, Minerva, MCMI, p. 135. Che la cronica pubblicata dal Iorga tra le opere del Cantacuzino sia stata realmente scritta dal nostro Stolnic, è cosa ormai tanto chiara, che fa persino meraviglia si trovino ancora degli storici che non ci credono. (Cfr.N. Iorga in Bulletin de l’Institut pour l’ètude de l’Europe Sud-Orientale, Anno I, fase. 7— 8, Luglio — Agosto 1914, p. 166: „Nos arguments concernant la paternitè de Constantin Cantacuzino Stolnicul sur unc importante chronique des origines roumaines n’ont pas été admis par M. D. Onciul, Din Istoria României, Bucarest, 1914, p. 85). Eppure, a non parlare degli altri argomenti addotti dallorga, basterebbero i numerosi italianismi, di cui è infarcita, alcuni dei quali d’una evidenza scandalosa, (vindeca in luogo di răzbuna per vendicare, mentre in rumeno vindeca significa guarire), a far riconoscer nell’autor della cronaca l’antico scolaro di Padova.

    , Volumul VIII (1376— 1G30), București, 1894, p. 1. È del 30 giugno 1376. Il 11 agosto, il Senato veneziano „quia Magnificus dominus Stephanus otc., reputat sibi ad magnani gratiam de eo quod fecimus ipsum conduci ultra mare”, gli prolunga il termine del ritorno. Il medesimo favore di potersi recare al Santo Sepolcro su di una galea veneziana è accordato il 13 luglio 1386, a un nipote di Stefano, ma questa volta è detto esplicitamente nella deliberazione del Senato „quod possit cum sua pecunia et expensu armare dictam galoram in Veneeiis, et concedatur ei per nos corpus galene cum suis coredis.” Arch, di Stato di Venezia. Del. Sen. Miste. Reg. 40, Carta 35.

    uno di tali avvisi spagnuoli, che conteneva il primo annunzio deila scoperta del nuovo Continente fatta da Colombo, s’è venduto”— c’informa I. Bianu, (nella sua interessante Introduzione alle Publicațiunile periodice românești di Nerva Hodoș ed Al. Sadi-Ionescu, Bucarest, 1913, p. IV), „25.000 mai-chi ed immediatamente s’è offerto un prezzo doppio per un altro esemplare”. Constano, a quanto ce ne dice il Bianu, di „fogli volanti ovvero opuscoli di non più di 2 o 4 fogli in piccolo formato stampati in centinaia e migliaia di copie e diffusi per mezzo dei mercanti, che, sui carri delle loro mercanzie „ ovvero a cavallo, andavano di città in città, di nazione in nazione. Gl’Italiani soprattutto empivano il mondo di tali opuscoli chiamati Avvisi o Relationi e si stampavan di solito e soprattutto a Roma e. a Venezia, i due centri che raccoglievano il maggior numero di notizie da tutta l’Europa: Roma in quanto capitale del mondo cattolico, Venezia in quanto possedeva le più estese e meglio organizzate relazioni politiche e diplomatiche.” Cfr. Bianu, op. cit., loc. cit. Una tardiva propaggine di tali Avvisi o Foglietti o Novelle abbiamo a Lemberg nel 1817, quando „îndemnat probabil de Ioan Budai-Deleanu, sau cel puțin asigurat de sprijinul acestuia, „translatorul guvernialnic” din Lemberg, Theodor Racoce indraznì să ceară dela Curtea din Viena permisiune de a tipări „novele sau gazete românești”.[ Consigliato probabilmente da Ioan Budai-Deleanu, o per lo meno dopo essersi assicurato il suo appoggio, il „traduttore governativo” di Lemberg, Teodoro Racoce, osò chiedere a Vienna il permesso di stampare „novelle o gazzette rumene”.] Cfr. l’articolo del Dr. Ioan Lupaș, „Novele sau Gazete românești” în Lemberg la 1817, pubblicato nel Românul e riprodotto nell’Universul del 31 Decembre 1915.

    [ „Il nominato Stolnic Costantino Cantacuzino, fin dalla fanciullezza si dedicò tutto agli studii: nella conoscenza della lingua greca fu gran filosofo e non appena giunto in età, se n’andò in Europa sempre a scopo di studio. A Roma imparò la lingua latina della quale fu perfetto conoscitore. Per acquistar pratica [di mondo] passò alcuni anni a Vienna, Venezia, Varsavia ed in altri paesi d’Europa. La vita sua ed il suo tempo trascorrevano sempre in compagnia di maestri, di dotti ed altri personaggi d’importanza”.

    Mânăstirea-De-în-Deal” e dirigendoci quindi verso „isnafurile cupeților țărigredeni, genoveaților și venețiaților.” [ „...come facemmo altra volta anche noi a Târgoviște, con le sante croci e le assai venerate icone”, uscendo „per la Porta dei Cacciatori di Dealu” e dirigendoci „alla volta del Santo Monastero di Dealu” per poi passare accanto „alla corporazioni dei mercanti costantinopolitani, genovesi e veneziani| Cfr. Buletinul Comisiunii Monumentelor Istorice, III (1910) p. 66.

    va ricercata nel latto che la maggior parte di essi avevan fatti i loro studii in Italia, Codesti professori, la cui cultura era di non poco superiore a quella ordinaria di que’ tempi, han senza dubbio rappresentato una parte notevolissima nella nostra vita spirituale del passato...”

    Turchi, si legga (pp. 139 e segg.) l’esilarante aneddoto di quell’Agà, che, non trovandosi più alla corte del Sultano chi volesse andare a portar ordini al Cantacuzino, dopo essersi vantato „di non temere nè della smisurata statura, nè della terribil voce di quel Principe, a cui anzi averia egli messo paura” (p. 139), dovette poi tornarsene a Costantinopoli „tutto mortificato, e contuso, maledicendo l’ora e il momento, in cui la sua capricciosa bizzarria lo aveva indotto di andar a metter paura al Principe Scerbano”, tanto più che prevedeva „le beffe e risate de’ suoi Compagni, i quali avevan, con giusta ragione, schivato di andar nella Valacchia, consapevoli di qual animo fiero fusse il Principe, che allor la governava”, (p. 142) „La di lui maestosa statura, e terribil suono di voce” (p. 138) erano invero tali „che, quando aleun Nobile, per qualche premuroso interesse, avea bisogno di parlare col Principe, donava la mancia al Paggio, che era di guardia alla Portiera, acciò sinceramente dicesse s’era di buon umore; ed allora, prima di entrare alla Udienza, facevasi divotamente il Segno della Croce, con raccomandarsi a Dio, che lo liberasse dalla di lui collera, per causa di cui alcuni erano effettivamente morti di timor panico.” (p. 143). Quanto al suo amore per le arti, il Del Chiaro c’informa:,„Era assai affabile e gioviale” colle persone di merito...Amatore de’ forestieri a’ quali spezialmente facea sperimentar gli effetti della sua gran generosità. Mecenate co’ Virtuosi, e Fautore delle belle lettere, introdusse nella sua Corte un modo di vivere più pulito, e civile; giacché, fino a quel tempo, non era stato in uso l’adoperar vasellami di argento, spezialmente alla Mensa. Edificò in Bucoresti quel Ilari, o sia alloggio per Mercanti di ogni sorta, che oggidì si chiama, Il Han di Scerban Voda; le di cui annue rendite destinolle al Moni stero di Cutrucciano (Mânăslirea Cotroceni) edificato da lui con tutta la sontuosità, senza riguardo alcuno di spese, si nel fabbricarlo, come nel dotarlo di buone entrate.” (p. 144).

    oste l’attende [il Turcho] e potrebbe essere per avventura la sua destruzione, volendo i christiani, chom’anno principiato, seguitare, che questo sarebbe l’anno che choll’aiuto dell’Altissimo si potrebbe acquistare vittorie assai”. (Strozziane, I serie, 324, ff. 63— 6, Iorga, Acte și documente, XVI, 111— 12.

  1. N. Iorga, Istoria literaturii românești in secolul al XVIII-lea, I, 14.
  2. C. Erbiceanu, Bărbații culți Greci si Români și profesorii din Academiile din Iași și de București din epoca zisă fanariotă (1650—1821) in Anatele Ac. Romàne, Secț. ist.,, XXVII (1304—05), p. 141: „Questi dotti avevano fatto i loro studii superiori per la maggior parte in Italia, altri pochi in Germania e in Francia”, c p. 142: „Soltanto così si spiega come tanti rumeni di quell’epoca conoscessero, scrivessero e parlassero l’italiano e similmente come degli stranieri [quali erano i Greci del Fanar] imparassero con tanta facilità il rumeno. La ragione
  3. Ibid. Cfr. anche l’altra memoria del medesimo: Priviri istorice asupra epocei fanariote in An. Ac. Rom., XXIV (1901—02), pp. 83 sgg.
  4. Ricorderemo qui, fra le tante, quella che Alexandru-Voda Ipsilanti scriveva, sempre in italiano, al Barone Bruckenthal, consigliere intimo di Stato nel Principato di Transilvania, datata: „Bukoreste 14/25 gennaio 1772” per chieder l’estradizione de’ suoi figliuoli, scappati di casa per desiderio di vedere il mondo.
  5. Nel 1777 Ienăchiță Văcărescu faceva a Brașov da interprete „în limba talienească” tra l’imperatore d’Austria-Ungheria Giuseppe II e i boieri rumeni, e nel 1770, preso prigioniero dal maresciallo russo Rumiantzoff, gli aveva scritto, pure in italiano, una lettera per invocare il medesimo trattamento degli altri prigionieri di guerra.
  6. Una vera e propria storia del nostro commercio in Rumania nell’età media si può leggere in uno dei più solidi lavori che sieno usciti dalla penna del Iorga: gli Studii istorice asupra Chiliei și Cetăței Albe, București, C. Göbl, 1899. Molte notizie, prive però di qualsiasi indicazione di fonti, son pure nella Breve Storia ecc., più volte citata, e specialmente nelle prime pagine del Cap. II (Prime influenze italiane sul popolo rumeno fino al regno di Stefano il Grande). Sono inoltre da consultare nella citata Istoria Românilor în chipuri și icoane del medesimo, le conferenze intitolate: Românii in străinătate și străinii în țările românești (Vol. II), dove però c’è assai meno di quanto il titolo non lasci supporre; Negoțul și meșleșugurile în trecutul românesc (Vol. III, Farmacia in țările românesti, (Vol. II), dove troviam notizia di non pochi medici, cerusici e speziali italiani fatti venire in Rumania per conto di varii Voda, soprattutto da Venezia e da Padova; Vechiul meștesug de clădire al Românilor (Vol. II) interessante per le notizie che ci dà sugli architetti veneziani e dalmati che introdussero in Rumania lo stile veneziano del Rinascimento; infine la conferenza Despre îmbrăcămintea, (Vol. I), in cui son menzionate le stoffe e i tessuti che i Rumeni importavano da Venezia. Cfr. inoltre gli ottimi lavori del Belgrano, Prima e seconda serie di documenti riguardanti la colonia di Pera in Atti della Soc. lig. di St. patr., XIII e di Camillo Manfroni, Le relazioni fra Genova, l’Impero bizantino, i Turchi in Atti della R. Società ligure di Storia patria, XXVIII, fase.III, serie III. Cfr. anche il noto studio di W. Heyd, Hist. du commerce du Levant au moyen âge, quello di Sainte-Marie Névil, Caffa et les colonies genoises de la Crimée, 1856, e il lavoro del Murzakiewicz sulla Storia delle colonie genovesi, Odessa, 1847, che però non ho potuto utilizzare perchè scritto in russo. Notizie importanti si posson trovare anche in Ceruti, L’Ogdoas di Alberto Alfieri, episodii di storia genovese nel secolo XV, in Atti della Società ligure di storia patria, Vol. XVII e in B P. Hajdeu, San Giorgio di Calafato in Columna lui Traian, I, 57.
  7. „...Stoffe di raso e di velluto, pelli di leopardo, scimitarre, colori, confetti, „zuccheri” ed olive” comperava p. es. Michele il Bravo dai Veneziani, pagando „il dazio di ducati nove e mezzo per un trasporto di un valore di 170 ducati”.Cfr. Iorga, Breve storia ecc., p. 111.
  8. Cfr. le Contribuții epigrafice la Istoria Creștinismului Daco-Roman di Vasile Pârvan, București, Socec, 1911, che, nonostante la modestia del titolo, rappresentano una vera e propria storia, meravigliosamente documentata, del primo diffondersi del Cristianesimo nella Dacia.
  9. Correggo in Venetiis il Venetus della stampa rumena del documento, che non ha senso.
  10. Archivio di Stato di Venezia. Del. Sen. Miste. Reg. 35. Carta 122. il documento è pubblicato in Documente privitoare la istoria Românilor culese de .
  11. Nel dicembre del 1502 Demetrio Purcivio (Dimitrie Purice) andava a Venezia a chieder «qualche farmaco” per la gamba del vecchio principe, le cui condizioni, malgrado le attenzioni e la dottrina di Matteo da Murano, non miglioravano affatto. Cfr. Hurmuzaki, loc. cit., vol. VIII, p. 35 e Iorga, Breve storia ecc., p. 72. Il documento si trova nei Diarii, tomo IV, c. 329 v.: ed è pubblicato in Hurmuzaki. loc. cit.: „[Demetrium Purcivium] ad urbem Vestrae Dominationis Venetiae transmisimus ut nobis pharmacias aliquas sive medicinas juxta consilium Domini Malthaei nobis necessarias emere et comparare pecuniis nostris anhelet et debeat.” La lettera è del 4 dec. 1502 ed è indirizzata: «Illustri et Ex-mo principi Domino Leonardo Lauredano Dei grafia Duci Venetiarum, amico nostro carissimo”.
  12. Alludo specialmente alle seguenti parole: „El paese si è fruttifero et amenissimo et ben situado, habondante de animali et de tutti frutti de oio in fora. I tormenti se semena de april et de mazo, e rachoiese de avosto e de septembrio; vini de la sorte de Friul, pascoli perfetti. Potria star in questo paese cavali 100 milia in più. De qui a Constantinopoli se va in XV o XX zorni, perho riverentemente aricordo a la Signoria Vostra che de qui se poiria strenzer li fianchi a questo perfido can Turcho. ecc., ecc.” E poco più giù: „Al presente, Serenissimo Principe, non ho altro de novo da significar a la Serenità Vostra, ma mentre starò in queste regioni, sempre sarò vigilante in dar aviso a la Serenità Vostra de le cose me parà degne de aviso.Hurmuzaki, VIII, 36. (Dalla collezione pubblicata da C. Esarcu 1874). La lettera è del 7 Decembre 1502. Anche i fiorentini erano perfettamente a giorno di quanto avveniva in Oriente c soprattutto di quanto macchinavano i Turchi. „Sorprese diplomatiche” non ne avvenivano a quei tempi, in cui la diplomazia era affidata nelle mani dei mercanti e dei banchieri! Ecco una lettera da Chio di Marco a Filippo Strozzi del 12 marzo 1475: „Al nome di Dio, adi xiij di Marzo 1474 ( = 1475)... qui si fa podio fatto ed maneho farasi, se questo diane del Signor Turcho non termina le cose sue, cheppure stiamo con non piccola gielosia, rispetto alla grande armata mette in ordenc; c-sse non fussi che a questi giorni à avuto gran rotta dal Valacho di più di XL-m uomini, a quest’ora sarebbe fuori“".Marco si lamenta inoltre che la «brigata” di Chio non pensa al pericolo. E l’8 giugno del medesimo anno (1475): ...scrivono di Pera che 'l Valaccho con grand’.
  13. Cfr. Diarii, tomo 5, pp. 275 v., 293 v., 304 v. Hurmuzaki, VIII, pp.35— 39, docc. LXVII, LXVIII, XLIX. Dapprima era stato scelto lo Zorzi, ma „il prior di’l colegio de medici” si oppose „dicendo questo non lo haver dato loro”. Quanto poi ad Alessandro Veronese „per il Principe li (cioè: agli ambasciatori di Stefano) fo ditto non lo toleseno, chè non lo cognossevamo sufficiente.” (Doc. XI.VIII). E fecero bene, chè a quei tempi, molto spesso la morte dell’augusto cliente costava al medico la testa, come per poco non costò a un povero diavolo per nome Giuseppe Antonio Pisani, cui il Vodă Racoviță s’era fitto in capo di far pagar colla vita la morte della moglie Sultana, e ci sarebbe riuscito se non fossero intervenuti il ministro di Polonia, il segretario del principe di Moldavia Giuseppe Michaud, ed altre persone di buona volontà. Parecchi documenti intorno a questa faccenda si trovano nel ms. Czartoryscki della Bibl. di Cracovia, cc. 505 sgg. Cfr. Iorga, Studii și Documente, V, 653.— 654.
  14. Biblioteca Marciana, Tom. XVII. Tale l’indicazione tutt’altro che esatta, con cui il documento è pubblicato in Hurmuzaki, op. cit., VIII, 45. Del medesimo ambasciatore si parla anche in un altro documento del 1519 (14 luglio): „Vene in Colegio l’Ambassador di’l Valacho a tuor licenza si voleva partir. Et fo ballottato donarli braze... domaschin lionato, per farli una vesta et fo risposto alla lettera dil suo signor.” Bibl. Marc. Tom. XXVII, Hurmuzakj, VIII, 46.
  15. Così il Iorga, Breve Storia ecc., p. 78. Quanto a me non conosco intorno al Matievich se non un documento (R. Arch. Veneto di Stato. Reg. priv. No. 2 Carta 75, Hurmuzaki, VIII, 45), in cui il Doge Leonardo Loredano „ritu solenni servato”, nomina il detto Matievich „ad honorem graduai et dignitatem equestris ordinis... ense, cingalo, calcaris aurcis solemniter de more accinctum, cum prerogativa, ut in posterum Miles splendidus cognominctur auctoritatemque liabeat et facultatem, restes aureatas, ensem, cingulum, calcaria et alla cuiuscumque generis aureata insigna militaria perpetuo gestandi sic suadente amicitia et benevolentia qua vehementer prosequimur ipsum Dominum Vaivodam [i. e. Dominam Basarab Vaivodam Transalpiensem] nec minus Dignitate personae dicti oratoris [i. e. egregii Domini Hieronymi Malievich Ragusiensis]”.
  16. N. Iorga, Breve storia, ecc., p. 87.
  17. Si addottorò infatti a Padova, prima in legge e poi in medicina, esercitò a Smirne l’ufficio di console della Serenissima, passò in Italia gli ultimi anni della sua vita avventurosa (morì a Venezia il 1718) e scrisse in italiano la sua Medicina difesa, (Venezia, 1717). Di Giuseppe Antonio Pisani medico del Voda Constantin Racovița, che, accusato d’aver fatto morire la Principessa Sultana, fu incarcerato e sfuggì alla pena capitale solo grazie all’intervento del Re di Polonia e del ministro di Francia, abbiamo già avuto occasione di parlare. Riportiamo qui, a mostrare come simili onori non andassero scevri da pericoli e da sofferenze mortali, una lettera del povero prigioniero al ministro polacco Brulli, dalla quale si rileva come si fosse tentato persino di avvelenarlo: „Dal decimo ottavo giorno di dicembre dell’anno scorso [1572] mi misero in un forno a pane et aqua, ed hanno tentato di darmi il veleno: ed il giorno primo di giugno, scambiò principato il principe [dalla Moldavia cioè passò a governar la Valachia], e partì il 27 del medesimo giugno per Buchereste, e mi hà mandato avanti incatenato, volendo che mori. A Foxan, confine della Moldavia, mi è riescito di parlare ad un Moldovano; questo mi ha trattenuto ai confini c lo liò fatto sapere a Matteo principe ora di Moldavia c clic era dragomanno alla Porta; ma il medesimo non hà voluto misticarsi [rumcnismo per: immischiarsene, piuttosto che forma dialettale italiana] e ci hà consegnati al principe nostro; il quale ci conduce ad una inevitabil morte. Hò perdito tutto il mio; non sò dove sia, mentre per lo spazio di sette mesi non hò parlato ad alcuno e non hò veduto il sole, nè luna. La causa è perchè è morta la principessa, tisica. Altro rimedio non ci è che una lettera di Sua Maestà il rè al Visire a Constantinopoli, ed altre a Mgr. l’ambasciatore di Francia; altrimenti bisogna morire. Addio, forsi per l’ultima volta, e risolvete di tutto presto fare; addio.” Cfr. Iorga, Studii și documente, V, 654.
  18. Cfr. N. Iorga, Breve storia, ecc., p. 68.
  19. Cfr. N. Iorga, Istoria literaturii românesti în secolul al XVIII-lea, I, 17.
  20. N. Iorga, Ibid., p. 18. Cfr. anche Sulzer, Geschichte des transalpinischen Daciens, Wien, 1871, III, 51.
  21. N. IORGA, Ibid., p. 18 e V. A. Urechia, Istoria școalelor, I, 76— 78.
  22. Cioè, in altri termini, primo pittore di corte, arcipittore, o, se non vorremo fare al Venier l’oltraggio di paragonarlo— - sia pure soltanto nell’appellativo della sua carica — all’archipoeta di Leone X, protopittore!
  23. Come p. es. quelle di un tal Micota, di Ștefan-Vodă figlio di Alexandru (1117) e dell’egumeno Hariton (1536), di cui avremo di qui a poco occasione di parlare.
  24. N. Iorga, Breve Storia, ecc., pp. 79 - 80.
  25. Ibid.
  26. Ibid. Cfr. anche del medesimo: Istoria Românilor pentru poporul românesc, Vălenii-de-Munte, 1910, p. 142: „prin Macerie... se tipăriră o sumă de lucrări slavonești care se deosebesc, nu numai prin slova lor limpede, de tăietură venețiana, dar și prin frontispiciile împodobite.” [„si stamparmi da Macario una quantità di opere slave, che si distinguono dalle altre non solo per via dei loro tipi assai chiari, di taglio veneziano, ma anche per gli ornati del frontispizio.”] Cfr. sulla questione dell’introduzione dell’arte tipografica in Rumania, l’ottimo lavoro del Picot, Coup d’oeil sur l’histoire de la lypographie dans les pays roumains au XVI-e siècle, Paris, 1895 e sulla tipografia di Cottigne i lavori del Jagici, Der crsle celinjer Kirchendruck, Wien, 1884, e del Tomanovici, Die erste slavisch-cyrillische Buchdruckerei in Centralblalt f. Bibiolhekswesen, XVII (1900), p. 4219. Un ottimo articolo riassuntivo e critico delle diverse opinioni sulla data della prima introduzione dell’arte tipografica in Muutenia è poi quello di Nerva Hodoș, Începuturile tipografiei în țura românească în Convorbiri Literare, XXVI (1902) pp. 1051 sgg. Prove convingentissime dell’influenza tipografica veneziana sulla tipografia montenegrina e poi rumena di Macario si posson vedere in Bianu și Hodoș, Bibliogr. românească vechie ed Horatio F. Brown, The venetian prinling press, London, 1891, pp. 42 e 44.
  27. Ibid., p. 80.
  28. Ibid. Alludo alle parole: „La nuova chiesa di Argeș, eretta da quel principe artista che fu Basarab-Neagoe, contiene elementi che non appartengono alla tradizione rumena o a modelli orientali. Ma i suoi orefici eran Sassoni di Transilvania abitanti a Kronstadl ed Hermanstadt che gl’Italiani del tempo chiamavano rispettivamente Corona e Cibinio.” Coni’ è chiaro, il Iorga qui non fa che negar l’influsso degli orefici italiani, non degli architetti. Che infatti egli parlando di „elementi che non appartengono alla tradizione rumena o a modelli orientali” intenda alludere (con una certa naturale riserva in questione così poco chiara) ad elementi italiani; appar chiaro dal passo che riferiamo immediatamente e in cui il Iorga ci dice chiara e tonda la sua opinione, pur sapendo di non trovar molti disposti ad accettarla.
  29. Gr. C. Tocilescu, Biserica episcopală a Munăstirei Curtea-de-Argeș restaurată, s. c. 1., București, 1886, p. 40: ,,Pe lângă artiștii din Orient, Neagoe a avut recurs la meșteri orfăurari din Transilvania, și chiar din Italia și Germania.” [„Oltre che ad artisti orientali, Neagoe ricorse anche ad orefici transilvani ed anche italiani e tedeschi.”]
  30. N. Iorga, Vechiul meștesug de clădire al Românilor, nella citata Istoria Românilor în chipuri și icoane, II, 29— 30. Che cosa andassero a fare a Venezia questi ambasciatori si può rilevare dalle seguenti parole del Iorga medesimo: „In cerca di architetti e cesellatori [Neagoe] spedi in su e in giù ambasciatori ne’ paesi con tradizioni artistiche: ai Veneziani e ai Sassoni di Transilvania.” (Istoria literaturii religioase până la 1655, București, Socec, 1904, p. 52). Quanto all’architetto, ritiene potersi trattare di un serbo, o magari di un rumeno allievo di quelli dalmati, ai quali si deve il Monastero di Dealu.
  31. Se dovessimo stare a sentire un panegirista di Neagoe-Voda Basarab, Gavril Protul; la Curtea de Argeș sarebbe anche superiore. Ma di che non è capace un panegirista quando ha preso l’aire! Cfr. N. Iorga, Istoria bisericii românești și a vieții religioase ale Românilor, Vălenii-de-Munte, 1905, I, 129.
  32. Cfr. lo studio del Romstorfer, Die Moldauisch-Rizanlinische Bankunst, Wien, 1896.
  33. Cfr. su questa interessante leggenda, che troviamo anche nella letteratura popolare serba e bulgara, la memoria dell’Odobescu, pubblicata in Scrieri istorice, III, 516 e sgg.
  34. Cfr. V. Alecsandri, Poesii populare ale Românilor, București, 1866, p. 190:

    Manoli, Manoli,
    Meștere Manoli!
    Zidul rău mă strânge,
    Țițișoara-mi plânge,
    Copilașu-mi frânge!”
    (Mânăstirea Angeșului).

  35. Quando sapremo (e l’archivio veneto di Stato con i Diarii di Marino Sanudo ce lo potran dire) che razza di affari e di compere andassero a fare a Venezia gli ambasciatori di Neagoe e perchè mai la Serenissima, che non era avvezza a far concessioni senza averne ottenute, spingesse la sua cortesia fino a nominarne qualcuno (alludo al Matievich) militem splendidum aureis calcaribus; potremo averne la certezza. S’intende che non prendo sul serio Meșter Manole e non intendo fame neppur per sogno un personaggio storico! E intanto degno di nota il fatto che si nella leggenda rumena come in quella serba, la fondazione della Curtea di Argeș è attribuita a Radu-Vodă, non a Neagoe, il che vuol dire ch’essa si formò da principio intorno al Monastero di Dealu, che fu costruito da quel Voda e solo posteriormente fu adattata alla Curtea de Argeș. Ed è proprio il Monastero di Dealu quello che indubbiamente ha subito l’influsso del Rinascimento veneziano! In un suo articolo intitolato Ceva cu privire la Meșterul Manole (in Bulelinul Comisiunii Monumentelor istorice, III, 1910, pp. 44—46). Sp. P. Cegăneanu riferisce le varie opinioni intorno alla nazionalità di questo enigmatico architetto, e, dopo aver accennato a quella di B. P. Hasdeu che lo ritiene un veneziano probabilmente allievo dei Sanso vino (cfr. Râul Argeș, târgul Argeș și biserica Argeș, in Revista Nouă, II, 128), vorrebbe identificare metter Manale con un Mane, sicuramente serbo, il cui nome si vede scolpito sul magnifico portale del monastero Bistrița; ma la sua argomentazione non soddisfa ed era del resto già stata preveduta e confutata dal Tocilescu.
     Cfr. N. Iorga, Două documente din archivele ragusane relative la un sol trimis la Veneția de Basarab al III-lea (Neagoe) in Arhiva di Iași, IX (1898) p. 66: „I1 diploma si potrebbe illustrar meglio con ricerche negli archivi di Venezia. Il Sanudo deve ricordar l’ambasceria ne’ suoi Diarii della Marciana (ora pubblicati negli Atti della R. Deputazione di St. patria) ed anche negli archivi (Senato Terra) si troveran senza dubbio decisioni relative all’inviato valacco.”
  36. Cfr. Buletinul Comisiunei Monumentelur Istorice, III (1910), p. 103 p. 11 dell’ estratto).
  37. Cfr. Istoria Românilor în chipuri și icoane, II, 28,
  38. Virgil Drăghiceanu, Curțile domnești Brâncovenesti în Buletinul Cumisiunii Monumentelor Istorice, II (1909) pp. 101 segg.
  39. Ecco come ne parla un suo segretario italiano: quel Giovan Maria Del Chiaro, la cui Istoria delle moderne rivoluzioni della Valachia, con la descrizione del paese, natura, costume, riti e religione degli abitanti (Venezia, Bortoli, 1718) è, a parer mio, il più bello e dilettevole libro che siasi scritto da noi sulla Rumania: „Terribile nell’amministrar la giustizia, intrepido nelle sue risoluzioni, ed inesorabile nel far eseguire i suoi ordini, a segno tale che per lo più nemmen giovavano le premurose preghiere della propria Madre. Erasi prefissa nell’anima questa massima, ed eziandio soleva spesse volte dire alla presenza di tutti i Nobili, che, se il suo successore nel Principato fusse stato un giovine di diciotto anni, averia potuto governarlo con una somma felicità, e facilità, poiché non averia ritrovato nè sterpi, nè spine che gli avessero potuto arrecare un minimo disturbo, nè apprensione”. (pp. 133 — 34). Quanto alla sua terribile voce, che spaventava persino i
  40. Virgil Draghiceanu, Curțile domnești Brâncovenești. I. Doicești în Buletinul Comisiunii Monumentelor istorice, II, (1909) pp. 101 sgg.
  41. Lo posso ora (cfr. figg. 4 e 5) grazie alla gentilezza del Signor Alexandru Lepedatu, Segretario della Commissione per i Monumenti Storici, che ha messo a mia disposizione i due clichés.
  42. Op. cit., III (1910), pp. 62—68.
  43. [Lamottraye, „Voyage en Europe, Asie et Afrique”, Haye, 1727, vol. I, p. 208].
  44. [F. J. Sulzer, „Geschichle des transalpinischer Daciens”, Wien, 1781, vol. I, p. 301]
  45. Cfr. C. Jirecek, Das Fürstenthum Bulgarien, Wien, 1891, p. 168.]
  46. [Voyage en Europe, Asie et Afrique, I, 208.]
  47. Il Draghiceanu allude al passo seguente del Viaggio da Costantinopoli a Bukoresti fatto l’anno 1779 (Roma, Fulgoni, 1794): „Calmatosi in quel frattempo il mare, e cessata la pioggia, seguitammo le nostra rotta fino al Fenèr, il quale si può dire essere un Borgo di Costantinopoli, mentre le case de’ primari greci sono costruite fuori delle mura della Città, con occupare lo spazio della marina del Porto: fui dunque condotto al palazzo di un tal Principe, che mi sembrava piuttosto una spelonca, tanto era in cattivo essere e mezzo rovinato, ecc. ecc.” p. 2.
  48. [Sulle case bizantine cfr. le due opere del generale L. de Beylie, L’habitation byzantine, Grenoble, Paris, 1902, e Les anciennes maisons de Constantinople, Paris, 1903; Ch. Garnier, L’habitation humaine, Paris, 1892, p. 261.]
  49. [Cfr. Charles Pelerin, Excursion artistique en Dalmatic el en Monténégro, Paris, 1860;. Joseph Lavallèe, Voyage pittoresque et historique de l' Istrie et de la Dalmatie, Paris, 1802; L. Cicognara e Selva Zanotto, Le fabbriche e, monumenti cospicui di Venezia; Venezia, 1858,]
  50. |N. Iorga, Două documente din archivele raguzane, in Arhiva soc. ştiințifice și literare din Iași (1898), p. 67.]
  51. Un documento dell’Archivio veneto di Stato (Cane. due. Serie Terra F. 154, anno 1600) c’informa come, ai tempi di Michele il Bravo, tra l’altre merci che s’importavano da Venezia, i colori occupassero uno de’ posti più importanti. In data infatti del 18 marzo 1600, l’Eccellentissimo Collegio ordina „che sia commesso all’Insida, et dove occorre che debbano lassar passar liberamente et senza pagamento di datio” le seguenti „robbe” comprate a Venezia „dal Principe di Valahia Micali... in gratificazione del suddetto Prencipe”:
    Foglia di oro per 350 Ungari
    Smallino |||
     L. 604
    Verde azzurro |||
     183
    Terra Verde |||
     233
    Cinabrio |||
     226
    Bolo Armenio |||
     93
    Mino |||
     61
    Sbiota |||
     41
    Olio de Saffo |||
     84
    Vernice |||
     33
    Oropimento |||
     16
    Verde Aramo |||
     9
    Indico |||
     3
    Laka fina |||
     1
    Un bariletto di Romaranezi No.100
    Sei Pani di Zuccaro |||
     6
    Un bariletto di olive |||
     1
    Un puoco di confetti |||
     -
    Alcuni bicceri di vetro |||
     -
    Panno Pavonaezo di 60 |||
     7
    Panno incarnato |||
     7
    Panno Verde |||
     13
    Panno Negro |||
     
    Raso Verde |||
     5
    Veluto Negro |||
     
    Una pelle di Lionpaulo |||
     -
    Similare Numero |||
     6
    Quattro pelle per fodrar le vagine di Simitare |||
     4
  52. [In una pastorale del Metropolita Stefano rivolto a tutto il Clero rumeno, probabilmente negli anni di carestia che tenner dietro alla morte di Malei-Vodft Basarab, vediamo coni’ egli dia dispozisicni perchè si faccia una preghiera per invocare da Dio la pioggia sulle campagne riarse da una siccità ostinata „după cum făcurăm si noi la Târgoviște (sic), cu svintele (sic) cruci, cu prea cinstitele icoane” uscendo „pe poarta vânătorilor Dealului” verso „;vânta (sic).
  53. [Cfr. Gr. Tocilescu, Biserica episcopală a Mânăstirii Curtea-de-Argeș, ecc., p. 32; N. Iorga, Operile lui Constantin Stolnicul Cantacuzino, București, 1901, p. XXXVII.|
  54. Ecco il brano per intero: „Questo giardino, a dire il vero, è assai bello, in forma quadrata, e disegnato secondo il buon gusto italiano; nel mezzo del quale il Principe Constantino Brancovani fece edificare una bella Loggia (pridvor), per desinarvi e riposarvi dopo desinare, nel tempo di State, alle fraganze di varj fiori a spalliera intorno ordinati.” Op. cit., pp. 12 — 13.
  55. Op. cit., p. 13.
  56. Op. cit., pp. 41— 42: „I Valachi sono dotati di ottima indole, e capacissimi di fare una buona riuscita, in tutte le professioni alle quali si applicano; ogni qualvolta sieno ammaestrati. Mi ricordo di aver veduto un giovine servitor della Casa Cantacuzena, il quale avevo così bene imparato e disegnar con la penna, che i disegni da lui fatti parevano stampati in rame. Un altro ancora, (fratello di un Mercante noto qui in Venezia ad alcuni di quelli che negoziano con li Mercanti Valachi) riesce assai bene nel dipingere, a segno tale che ha copiato motlo esattamente alcuni quadri di Chiesa in Venezia, e ritornato poi nella Valachia ha fatto quivi diverse pitture, tra le quali un S. Francesco inginocchioni in atto di ricever le Stimmate, il quale si vede nell’Altar Laterale a man diritta per andar all’Altar maggiore nella nostra chiesa di Tergoviste. ”Orbene di un’icona greca raffigurante S. Francesco in atto di ricever le stimmate, la cui „sévérité archaique’ è per giunta „amollie par des recherches de dessin italien Et De Coloris Venetien” ci parla proprio in questi giorni (fase, del 10 gennaio 1913) E. Bertaux nella Revue de l'Art. ancien et Moderne pp. 32— 33 a proposito del bizantinismo del Greco (Notes sur le Greco. III. Le byzantinisme). Si tratta di un’icona dipinta sul rovescio della tavola centrale di un trittico veneto-bizantino reppresentante la Crucifissione, il giudizio Universale e la Risurrezione. Che non si tratti della nostra icona? Disgraziatamente il Bertaux che l’ha vista a Lione da un antiquario, non sa dove sia andata a finire, di maniera che dobbiamo contentarci della fotografia pubblicata a p. 32 del citato fascicolo della Revue de l'Art. Il fatto che ciascuna tavola del trittico ha la faccia posteriore dipinta non vuol dir nulla, poi che dagli argomenti delle tre pitture, impugnanti ad una unica concezione, (La Natività, Le stimmate di S. Francesco e la Pentecoste), è chiaro che non abbiamo a che fare con un trittico. Inoltre quella „simplicité d’ordonnance qui semble revenir au temps de Giotto” e quella „technique toute byzantine”. e soprattutto il fatto che „ces mèmes accents de couleur bianche qui détaehent les figures sur le fond noiràtre, ces doigts filés d’un trait de pinceau, ce rochers archaiques, ces arbres nains”, li ritroviamo „dans une des plus anciennes oeuvres, que le Greco ait signées, le petit Saint Francois” (p. 33), ch’è ora in possesso d’Ignacio Zuloaga; mi farebbero conchiudere più per una copia del quadro del Greco che il nostro pittore valacco potè vedere a Venezia, che per un’influenza esercitata da questa o da altre icone di tal genere sul Greco principiante. Se non che, a giudizio del Bertaux, l’icona che tanto c’interessa appartiene al secolo XVI, Se è proprio cosi, non c’è che fare: la pittura di Târgoviște è andata smarrita, ma quei caratteri, che la fan ritenere al dotto critico francese per un’opera del sec. XVI, non potrebbero per caso interpretarsi come effetto dell’imitazione del Greco e degli altri pittori cretesi che lavorarono a Venezia in quel tempo? Non pretendo muovere un’obiezione. È una domanda che rivolgo ai competenti in materia ed alla quale chiedo risposta. È certo ad ogni modo che il S. Francesco del giovane vaiacco in questione appartiene alla medesima scuola veneto-cretese che fiorì a Venezia nel sec. XVI, e, nel seguente XVII, e, poiché pare che piuttosto che a comporre fosse abile a copiar quadri di chiesa, ritengo assolutamente probabile che il Suo S. Francesco risentisse del S. Francesco del Greco, l’arte del quale, in grazia appunto di quella saporosa mistura di tecnica bizantina e di color veneziano, dovè piacere in sommo grado al giovine vaiacco, come quella che pur con qualche differenza nel colorito, gli ricordava quelle linee e quelle movenze, che, dalle sacre icone d’argento, in cui prima gli ochi suoi si erano affisati nella casa paterna, alle tavole dipinte su fondi d’oro delle piccole chiese rumene ed alle immagini trasparenti sul fondo illuminato della stella delle colinde natalizie; gli si erano ormai talmente infitte nell’animo, che un quadro di chiesa, che fosse privo della grazia ieratica di quelle linee rigide, ma espressive, gli sarebbe sembrato quasi una profanazione.
  57. N. Iorga, op., cit., loc., cit.
  58. [Cfr. Beylié, op. cit.]
  59. [F. Kanitz, „Serbiens byzuntinische Monumente”, Wien, 1862, p. 18.]
  60. [F. Kanitz, „Serbien, historisch-etnographische Reisestudien, Leipzig, 1868, p. 733.]
  61. [Cfr. V. Drăghiceanu, Călăuza Monumentelor Istorice din județul Dâmbovița, Târgoviște, 1907, p. 14.
  62. [N. Iorga, Hărții din arhiva mân. Hurezului, București, 1907, p. XVI.
  63. [N. Iorga, Brașovul și Românii, p. 113.
  64. [E. Legrand, Recueil de doc. grecs, Paris, 1898, t. VII, p. 75.
  65. [Cfr. Condica de venituri și cheltueli a vistieriei, dela leatul 1604 1704. in Revista Istorică a Arhivelor României, București, 1873, p. 38.
  66. [Cfr. Sulzer, op. cit., III, 49.]
  67. [Cfr. Garnier, op. cit., p. 680.]
  68. [A. Choisy, op. cit., II, 662; Garnier, op. cit., p. 156.]
  69. Op. cit., III (1910) pp. 62 — 68. A queste influenze italiane, altre senza dubbio possono aggiungersene e se ne aggiungeranno di certo col progredire dello studio della storia dell’arte in Rumania. Per ora segnaliamo il buon articolo di AL. M. Zagoritz, Sfeșnice românești și candelabre italiene, pubblicato, con molte e interessanti illustrazioni, in Buletinul Comisiunii Monumentelor Istorice, VII, fase. 25 (Gennaio— Marzo, 1914) pp. 16— 26. Si tratta dell’influenza esercitata dai candelabri italiani in legno scolpito del Rinascimento, quali per esempio il candelabro di S. Croce in Firenze e quello del Museo Nazionale, non dei candelabri di bronzo, dei quali finora s’è parlato. Tra i candelabri rumeni che più risentono dell’influsso italiano, sono a segnalare quello dal monastero Jitianul che somiglia moltissimo al candelabro della chiesa di S. Croce, e quello di Vărbila che rammenta il candelabro del Bargello.
  70. Breve storia citata, p. 137.
  71. Op. cit., loc. cit.
  72. Ce ne rende testimonianza anche il Del Chiaro, op. cit., p. 198 a proposilo di Stefano Cantacuzino, che „...proibì (spezialmente a noi altri forestieri) sotto rigorosissime pene, lo scrivere ai nostri Amici sotto qualunque pretesto. Non si potevano aver foglietti stampati per saper le cose del Mondo; e, quel ch’è più curioso, nemmeno era permesso il far venir da Venezia un lunario: istigazione maligna d’un cervello torbido e perverso”, aggiunge il Del Chiaro (alludendo pare allo Stolnic Costantin Cantacuzino, padre di Stefano) „il quale spacciavasi per uomo Politico; ma tutta la sua politica, non avea poi altro scopo, se non un sordido guadagno, col tradur le gazzette dalla Italiana lingua nella Greca; frammischiandovi a suo capriccio tutte quelle, benché false, particolarità, che credeva potessero incontrare il genio di chi leggeva le sue imposture.”
  73. Importantissima a questo proposito la lettera che Gregorio IX scrive nel giugno del 1237 da Viterbo „archiepiscopis et episcopis, abbatibus, prioribus et praepositis, diaconis, archidiaeonis, archipresbyteris et aliis ecclesiarum praclatis in Bulgaria et Vlachia constitutis” ed allo stesso dilettissimo figlio Giovanni Assali, imperatore de’ Bulgari e dei Valacchi, annunziando loro l’invio di un legato (honorabilem fratrem nostrum cpiscopum Perusinum) perché „vobis affectionem, qua vos in Christo complectimur affectuose denuntiet et tandem hilaris in domino rediturus, nos de vobis perfundat immensitale laetitiae solita patri de filioruni oboedientia provenire.” Poco dopo però, una lunga lettera (datum Luterani, VI Kat. Febr.) indirizzata a Bela IV, Re d’Ungheria c’informa dell’esito assolutamente negativo della missione, visto che in essa il Pontefice avverte il monarca ungherese di aver dato ordine „episcopo Perusino et universis episcopis per Ungariam constitutis... ut contro perfidum Assanum et lerram suam predicent verbum crucis”, e lo scongiura „per Patrem, Filium et Spiritum Sanctum et per aspersionem sanguinis crucifixi” a sorgere anche lui „ad contritionem nationis pravae alque perversae (l’impero unito di Bulgaria e di Valacchia), quae multis insultat opprobriis nomini christiano.” Cfr. Hurmuzaki, Op. cit., l, docc. CXXIII, CXXIV, CXXV a pp. 164— 168. Il 1241 la crociata pareva fosse per raggiungere il suo scopo, quando l’invasione dell’Ungheria da parte dei Tartari, richiamò Bela ad occuparsi di affari ben più urgenti per lui, che la conversione dei Valachi. Ma il 1245 il nuovo pontefice Innocenzo IV ritorna alla carica presso l’imperatore Coliman e lo esorta a ricevere coi dovuti onori i minoriti (fratres ordinis fratrum minorum) che gli mandava per esortarlo a convertirsi al cattolicismo.
  74. Crediamo di poter ricavare questa data dal (doc. CCCXLV del citato volume della Collezione Hurmuzaki, in cui Niccolò III invita il legato apostolico in Ungheria a voler far delle ricerche per accertar quali fossero le rendite della Sede vescovile di Milcovia, distrutta dai Tartari; e specialmente dalle parole „...cum nec inibi lipiscopus et alii catholici habitatores extiterint quadraginia annis et amplius iam elapsis, dalle quali si rileva, essendo il citato documento del 1279, come la sede vescovile esistesse già prima del 1239, sotto il pontificato cioè di Gregorio IX.
  75. Cfr. il breve di Giovanni XXII, datato da Avignone, IV nonas Octobris, Anno XVII ( = 1322), in cui s’invita l’arcivescovo strigoniense a ordinar vescovo di Milcov „dilectum filium Vitum de Monte Ferreo, Ordinis Fratrum Minorimi, qui vita, moribus, scientia, fidelitate et experientia”, risulta degno al Pontefice di rivestir la carica suddetta, perchè quel vescovato (episcopatus Mylcoviensis) „omnino destructus... per fatales et saevos Tartares... ad statimi pristilluni redueetur (sic) et recuperabunlur (sic) possessiones, bona et iura episcopatus et Ecclesiae, a Potentibus illaruni partium occupata.” Hurmuzaki, I, 1, doc. CCCXCVI, pp. 622— 623.
  76. Nello Speculum Carmelilarum Fr. Danielis a Virgine Maria (II, 921) si legge la notiziola seguente: ,,Fr. Franciscus de Sancto Leonardo, Ordinis Carmelltarum, a Bonifacio, Papa IX, constitutus episcopus argiensis (di Arges) in Valachia, sub Metropoli Colocen, XVI. Mavì. Anno M.CCC.XC.” Cfr. Hurmuzaki I, 1, doc. CCLXIX, p. 330. Ai quali possiamo aggiungere, nel secolo seguente (XV) un Giacomo de’ Cavalli, già vescovo di Vercelli e poi di Severin (1412) un Johannes de Antiqua villa (Civitavecchia?) vescovo di Arges il 1418, e, nel scc. XVI mons. Bernardo Querini (1590— 1607), cui successe nel vescovato di Arges, Girolamo Arsengo (1607— 1611) col titolo di vicario apostolico c vescovo eletto di Moldavia. Nella diocesi di Bacău (Bacovia) troviamo il 1681, il celebre Vito Piluzio da Vignanello, autore di un catechismo italo-rumeno, del quale ci occuperemo più innanzi. Tra’ prefetti delle Missioni in Moldavia troviamo anche, a partire dal 1697 (epoca, in cui furono istituite) moltissimi italiani, fra i quali ricorderemo Francesco Antonio Mansi (1745) Giovan Crisostomo Di Giovanni (1768), Giuseppe Marlinotti (1111— ’1780), Anton Maria Mauro (1784), Fedele Rocchi (1785— 1795), Vincenzo Gatti (1798— 1803), Dionisio Brocani (1803— 1805), Luigi Laudi (1805— 1812) e Giuseppe Bonaventura Berardi (1812). Come si vede da codesta lista, dal 1777 al 1812 i prefetti italiani delle Missioni di Moldavia formali serie continua. Italiani furono similmente tutti e quattro i vescovi di Moldavia, che ressero la diocesi dal 26 dee. 1808 a tutto il 1827, e, ad eccezione del solo Dehm (1877— 80) tutti i prefetti apostolici dal 1826 al 1894. Dei vescovi di Iasi, il solo Jaquet è di nazionalità francese. Similmente i vescovi di Nicopoli, dal 1792 al 1870 furon tutti italiani, ad eccezione di un solo, e lo stesso si dica degli arcivescovi di Bucarest, fino al 1902, quando la tradizione fu rotta coll’elezione del de Hornestein, cui successe il 1905, l’attuale arcivescovo Netzliammer. Cfr. Wladislaw Abraam, Biskupstwa lacinskie w Moldawii w wieku XIV I XV, Lemberg, 1902. Carol Auner, A Romàniai magyar lelepek torténeli vàstata, Temesvar, 1908; Schmidt, Romanocatholici per Moldaviam episcopatus et rei romano-catholicac res gestae, Budapest, 1887; ma soprattutto N. Iorga, Istoria Bisericii românești și a vieții religioase a Românilor, Vâlenii-de-Munte, 1909, 11, 321 e sgg.
  77. Cfr. soprattutto il doc. VIII della Collezione Hurmuzaki (I-a, 8), in cui Clemente VI esorta i minoriti ungheresi a mandar delle missioni „in partibus Cumaniae et aliarum plurium nationum infidelium infra fines Regni Unngariae constitutis”, perchè la novella „plantacio”, su cui „lumen fidei elucescere iam coepit..., irrigante domino, continuum recipiat incrementum."
  78. Cfr. Iorga, Breve Storia, ecc., p. 39.
  79. Iorga, op. cit., p. 31.
  80. Iorga, op. cit.,
  81. Iorga, Istoria literaturii religioase, p. 108. Hurmuzaki, IX, p. LXIV.
  82. Cfr. Buletinul Comisiunii Monumentelor Istorice, III (1910) p. 59.
  83. Iorga, Breve Storia, ecc., p.
  84. Il quale ultimo ci ha lasciato nelle sue lettere una interessante descrizione della battaglia combattutasi sotto le mura della fortezza di Giurgiu, tra Michele il Bravo (aiutato dalle truppe del Granduca di Toscana, sotto il comando di Silvio Piccolomini) e i turchi rinchiusi nel castello. Un minuzioso resoconto della spedizione toscana in Valacchia ci ha lasciato col titolo di Descrizione del lungo et travaglioso viaggio che hanno fatto li cento Italiani o pur Toscani eletti dal Serenissimo di Toscana et dal medesimo mandati al Principe di Transilvania, un ignoto che par fosse uno degli ufficiali del Piccolomini. Ad onore del valore toscano, troppo spesso misconosciuto, riportiamo il brano che segue: „Il Serenissimo Transilvano (Michele il Bravo) et monsignor Nunzio di Sua Santità (il Visconti) et tutta la nobilita del essercito furon insieme spettatori et testimoni della virtù et del valore dagl’Italiani mostrato nel assalto, ma più al ponte [dell’isola su cui sorgeva la fortezza e che univa la della isola alla riva sinistra del Danubio]; et Sua Altezza disse che haveva bene allegrezza della vittoria, ma molto più che lutto l’essercito suo haveva veduto ch’egli non era solito a caso predicare le lodi de’ soldati . .” Cfr. Hurmuzaki, XII (Acte relative la răsboaiele și cuceririle lui Mihai-Vodă Viteazul, adunate și publicate de N. Iorga) (doc. CI. L’originale si trova, con molli altri relativi a codesta spedizione dei toscani di l’ordinando I dei Medici, nel ms. Il. VI. 118 della Marciana. Il grosso volume (di 1281 pagine) della Collezione Hukmuzaki, in cui c pubblicato per la prima volta, contiene documenti inediti, trovati quasi tutti dal Iorga negli archivii di Innsbruck, Vienna, Napoli e Berna e nelle biblioteche ambrosiana e marciano e rappresenta il monumento più bello che i rumeni potessero innalzare alla memoria del loro grande Capitano e l’oda, la cui storia il Iorga ha intrapreso a narrarre in pagine colorite e commosse, in una serie di Studii pubblicati nelle Convorbiri Literare degli anni 1902— 1903 e che ci auguriamo di veder presto ripresi e condotti a termine.
  85. Di quest’ultimo ci restali documenti, dai quali risulta come il 1589 facesse ritorno alla sua diocesi da una visita ad limina, latore di numerosi brevi apostolici, nei quali s’invitava per la centesima volta i principi rumeni a volersi unire, col loro popolo, alla chiesa romana (l’Occidente. Cfr. Iorga, Breve Storia ecc., p. 99. Dalla sua Relatione... intorno le cose del suo Vescovato fatta alta Santità di Mostro Signore l’anno 1599, togliamo il seguente periodo che riguarda la diffusione della cultura italiana in Rumania: „ Il detto Principe (Ieremia Movilă] è tanto amico, et affettionato alla chiesa latina, che non fa differenza alcuna tra li suoi greci et latini, anzi più volte in pubblico, et in privati ragionamenti alla prescntia de’ suoi Vescovi, et Baroni ha professato che V. S-tà è il vero capo di tutti li christiani et per mostrare questa sua affetlione maggioramente verso li italiani, mi ha promesso al mio ritorno di erigere un Seminario di giovani Ialini, et assegnarli una sufficiente dote acciò per l’avvenire vi siano molti preti latini, nella provincia che possano ben servire a tulle le chiese de’ latini.” (Hurmuzaki, op. cit., III, pp. 545 sgg.) E chiaro quanto l’istituzione di un tal seminario avrebbe potuto contribuire alla diffusione della cultura italiana in Rumania, giacche gl’insegnanti ne sarebbero stati per la maggior parte italiani; ad ogni modo, le parole citate ci mostrano uno dei modi, coi quali la propaganda cattolica contribuiva a quei tempi alla diffusione, della cultura italiana in Rumania.
  86. Iorga, Breve Storia ecc., p. 110.
  87. „Quaedam vero ludibriose explosere, in quibus rudi populo scandalosi sacenlotes ansam praebuere: cum enim Episcopus longe abesset, impuciditiae, ebrietati et contenlionibus ejusmodi sacerdotes emancipati dies et noctes, cum scurris atque mulierculis comessabantur, adeo ut populus a laberna ad Ecclesiam diebus festis Sacerdotali vocaret, qui cauteriata conscientia ebrius, celebrare tremendum Missae sacrificium non exhorruit, et ab altari rursus ad tabernam redire properavit. Cfr. il Codex Bandinus dell’Accademia rumena pubblicato da V. A. Urechie in Analele Academiei Romàne (Sezione storica) XVI, 197. Questo prezioso ms. che rappresenta uno dei più notevoli documenti storici dello stato in cui si trovava la Rumania, nel sec. XVII, fu comprato a Roma da C. Esareu, il valoroso storico rumeno che fu de’ primi a ricercar le relazioni interceduti in antico fra l’Italia e la Rumania pubblicando una serie di documenti dell’Archivio di Stato di Venezia intorno alla dimora in quella città di Petru Cercel. Prima che all’Esareu l’opera del Bandini fu nota al conte Ioseph Kemeny, che ne fece menzione nel suo studio Ueber dcis Bislhum urnl das Franziskanerklosler zu Bakau in der Moldau pubblicato in Mcigazin für Geschichle, Litcratur und alle Denk- und Merkwurdigkeilen Siebenbürgens (II, Band, I. Heft. Kronstadt, 18-16). Si tratta però non del ms. autografo, ch’è proprio quello scoperto e comprato dall’Esarca a Roma, ma di una copia esistente nella biblioteca del monastero francescano di Cluj. Il titolo del ms. dell’Acc. Rumena è: „Visitatio ❘ generalis Omnium Ecclesiarum Catholici Romani Ritus in provincia Moldaviae... cum nonnullis rerum Moldaviearum ❘ Annolationibus, quae apud scriptores vix vel raro inveniri possunt... per me Fratrem Marcum Bandinum a Scopia Minoris observantiae S. ac Seraphici Patris Nostri Francisci. Bacoviae in Moldavia in nostro Archiepiscopali ergastulo. Anno Domini 1648. Dell’elegante latino in cui è scritta daremo più giù un piccolo saggio. Non sarà ora inutile aggiungere che la Visitatio del Bandini è qualcosa di ben diverso dagli aridi e per lo più male scritti resoconti di altri missionarii. L’autore si propone, al contrario, di scrivere un’opera letteraria e perciò non solo cura lo stile, ma s’intrattiene a lungo sulla natura dei luoghi che attraversa e delle persone colle quali viene in contatto. Alcune sue descrizioni di spettacoli naturali e specialmente di paesaggi hanno un’evidenza e una grazia che ricordano (di lontano è vero) alcune tra le più belle scenette campestri del Piccolomini. Riportiamo qui la descrizione dei dintorni di Galatz, perchè il lettore si faccia un’idea di come occupava il suo tempo un Monsignore italiano del ’600, quando le nevi e i ghiacci lo rinchiudevano nel suo „episcopale ergastolo” di Bacali: „Aura undequaque spirat gratiosa et salubris, prospectus jucundissimus in obtutu Danubius, ultra quem nemora pulcherrima, pratis quasi hortis discriminata; ultra haec duorum milliarum tractu interposito Bulgariae montes conspiciuntur. Si quis oculos retorqueat in sinus Moldaviae, bine crystallini lacus visum recreant, illic vineta et pomaria diversorumque fructuum amoenissima viridaria oblectant.” Uomini così colti e pii fanno onore all’episcopato italiano e certo non inutile è stato il loro soggiorno in Rumania per la diffusione della cultura italiana!
  88. Per le relazioni colla S. Sede si servirono specialmente del Bandini e del Piluzio.
  89. Cfr. i documenti pubblicati del Prof. I. Bianu in Columna lui Traian (1883) e specialmente la lettera (op. cit., pp. 274 sgg.) in cui Gheorghe Ghica Vodă manifesta al Papa la sua intenzione di farsi cattolico e di venirlo a trovare a Roma.
  90. Miron Costin, Opere complecte, cd. V. A. Urechia, București, 1886, I, 385—386.
  91. Non forse quel „prete Giovanni Abrami, Veneziano di Rito Greco” predicatore a’ tempi del Cantacuzino „alla corte di Valachia”, di cui ci parla (p. 214) il Del Chiaro nella sua Istoria delle Moderne Rivoluzioni della Valachia? Mi ci fa pensare l’aver egli tradotto dall’italiano in greco ciucile Massime degli Orientali (Fior di filosofi) che il Del Chiaro stesso aveva tradotte dal francese in italiano, e, più ancora, l’esser stato questo prete uno delle colonne di quella tipografia ecclesiastica impiantata a Bucarest dal Metropolita Antim e che il Del Chiaro ci descrive a p. 42 della sua per noi preziosa Istoria.
  92. Del Quaresimale e del Penitente istruito (1891) potè dargli notizia anche il Del Chiaro, che, tanto lui che suo fratello Michele „molte volte degnavansi invitare alla loro mensa.” Cfr. la citata Istoria delle Moderne Rivoluzioni della Valachia del summentovato Del Chiaro, p. 124.
  93. Mi sia permesso rimediar con questa barzelletta cervantina alla storditaggine che mi ha fatto dimenticare il numero del vol. degli Acte și fragmente del Iorga. Nella „selva selvaggia” delle centinaia di documenti compresi nei 20 e più volumi non mi è riuscito pescarvela più.
  94. Di una grammatica rumena composta dal P. Francesco Antonio Minotto intorno al 1775 ci dà notizia il Prof. I. Bianu in uno studio su Vito Piluziu che avremo in seguito occasione di ricordare, pubblicato in Columna lui Traian del 1883. A p. 144— 45 leggiamo: „I missionarii cattolici, dovunque s’istallassero, avevano come lor primo pensiero quello d’impadronirsi delle lingua del paese, giacchè solo così la loro propaganda poteva riescir efficace ed alcuni compilavano anzi grammatiche e dizionarii per facilitare ai successori l’adempimento della loro missione. Lo stesso han fatto senz’alcun dubbio anche da noi e forse delle ricerche minuziose nell’archivio vaticano e nelle biblioteche prelatizie romane ci potrebbero dar dei testi rumeni più antichi di quelli che possediamo finora. Intanto ecco come scrive un missionario del secolo passato intorno al modo come ha appreso il rumeno. Il Padre Francescantonio Minotto dei Minori Conventuali scrive infatti in data del 23 maggio 1775 a Mons. Stefano Borgia Segretario di Propaganda Fide: „lo mai creduto avrei di aver potuto sì sollecitamente imparare questa mista e bigola lingua che è veramente curiosa, ed acciò ancor Lei nelle ore oziose possa un po’ ridere, gli spedirò la Grammatica manoscritta, quando l’avrò terminata di copiare. Tengo ancora un libro stampato in lingua Moldavica por V. S. III-ma e R-ma, nè so trasmetterglielo, perchè quivi la posta assai costa, ed a tal oggetto scrivo in pocha carta che so mi compatirà...” Il medesimo missionario continua nella via in cui questa lettere ci mostra si fosse messo, e due anni dopo, scrive al medesimo Mons. Borgia in data di Sabvano in Moldavia 10 ottobre 1777: „Vado componendo un dicionario in lingua Moldava e compito lo spedirò a V. S. III-ma e R-ma come pure un catechismo in sudetta lingua.” (Dossario Moldavia dell’Arch. di Prop. Fide, vol. 5). „È probabilissimo”, aggiunge il Bianu, „che il missionario abbia mantenuta la promessa fatta al suo superiore... e sarebbe prezioso per noi il poter rintracciare i lavori del padre Minotto, che potrebbero interessare non poco i nostri studiosi di filologia. La sua Grammatica sarebbe infatti anteriore di 15 anni alla più antica conosciuta finora (di S. Klain de Szad pubblicata a Vienna il 1780) e presenterebbe un particolar interesse, essendo stata composta senza alcuna particolare tendenza filologica. Una seria ricerca nelle biblioteche di Roma potrebbe condurre alla scoperta di questi due manoscritti.”
  95. Il GIOVANE | istruito | Ne’ dogmi cattolici; | nella verità | della religione cristiana:| e sua morale; | Con i Principj della Geografia, della Storia, | della Filosofia e Astronomia: e colla spiegazione della Teologia de’ Pagani. | Da | GEMINIANO GAETTI. | In Venezia | MDCCLIX | Appresso Antonio Zatta. Con licenza de’ Superiori e privilegio. Volumi 2.
  96. Cfr. nel Mattino i versi 227— 243.

                         A voi, divina schiatta,
    Vie più che a noi mortali, il ciel concesse
    Domabile midollo entro al celebro,
    Sì che breve lavor basta a stamparvi
    Novelle idee. Inoltre a voi fu dato
    Tal de’ sensi e de’ nervi e degli spiriti
    Moto e struttura, che ad un tempo mille
    Penetrar puote e concepir vostr’alma
    Cose diverse, e non però turbarle
    O confonder giammai, ma scevre e chiare
    Ne’ loro alberghi ricovrarle in mente.
    Il vulgo intanto, a cui non dessi il volo
    Aprir de’ venerabili misteri,
    Fie pago assai, poi che vedrà sovente
    Ire e tornar dal tuo palazzo i primi
    D’arte maestri; e con aperte fauci
    Stupefatto berrà le tue sentenze.

  97. Cfr, Hurmuzaki, Documente, IIV, 343— 1; Urechie, Istoria Românilor, I, 228.
  98. Cfr. Iorga, Ist. lit. rum. in sec. XVIII-lea, II, 136, nota 7 e Buciumul român, II, 347— 8.
  99. Ne riportiamo qui, a confronto col testo italiano, il principio del Capitolo che tratta... dei geroglifici egiziani, supponendo, che, dopo tanta Italia e Rumania, il lettore senta ormai il bisogno di cambiar aria. Ed eccolo trasportato in men che non si dica sulle rive del Nilo! Abbiamo tanto interesse a tenercelo amico!
    Cap. XIII (Della religione pagana.)

    p. II. L’invenzione della scrittura simbolica degli Egiziani.

    L’agricoltura degli Egizj, e la loro vita, che dipendeva da quella, erano strettamente legate coll’osservazione del soffiare dei venti, del levarsi della canicola, e dell’altezza dell’inondazione; sicchè la necessità li fece diventare osservatori ed astronomi; e That antichissimo abitatore dell’Egitto, fece tanti simboli, o figure scolpite sulla pietra, facili a capirsi, e a ritenersi a mente, quante erano [p. 6] le regole da osservarsi; affine di far passare a il tutto il popolo una corta ed uniforme lezione, per mezzo loro, di quanto si doveva operare successivamente in tutto l’anno; l’uso de’ quali simboli, o figure si riferiva al corso del Sole, all’ordine delle feste d’ogni stagione,e alle operazioni, che si dovevano fare in comune. Stabili per questo un ordine di persone, le quali erano destinate unicamente a tener cura di codeste figure; a studiare l’uso che occorreva di farne, e presentarle al pubblico, secondo le occasioni, per gli adeguati avvertimenti al popolo. (Op. cit., pp. 5-6 del vol. IV dell’ed. napoletana del 1836).

    Περὶ τῆς εὑρέσεως τῆς συμβολικῆς γραφῆς τῶν Αἰγυπτίων. Ἡ Γεωργικὴ τῶν Αἰγυπτίων, ἐξ ἧς ἐξήρτητο τὸ ζῇν αὐτῶν, οὖσα συνδεδεμένη μὲ τὰς παρατηρήσεις τῶν ἀνέμων, μὲ τὴν κατάβασιν τῆς κυνὸς, καὶ μὲ τὸ ὕψος τῆς πλημμύρας τοῦ Νείλου, τοὺς ἐβίασε νὰ γένωσι παρατηρηταὶ [p. 26] καὶ Ἀστρονόμοι· ὅθεν ὁ Τὰτ παλαιότατος οἰκήτωρ τῇς Αἰγύπτου, κατεσκεύασε τόσα σύμβολα ἤτοι ἀγάλματα, γλυπτὰ ἐπἀνω εἰς πέτραις, διὰ [p. 27] νὰ τὰ βλέπωσιν οἱ ἄνθρωποι, καὶ νὰ ἐνθυνοῦνται πόσαι ἦσαν αἱ τάξεις τῆς [p. 28] παρατηρήσεως, μὲ σκοπὸν τοῦ νὰ δώσῃ εἰς τὸν λαὸν σύντομον καὶ κοινὴν εἴδησιν διὲ μέσου τούτων τῶν Ἀγαλμάτων διὰ ὅλας ἐκείνας τὰς ἐργασίας,[p. 29] ὁποῦ
  100. Cfr. Iorga, Isl. lit. rom. In sec. al XVIII-lea, II, 412. Fra i ms. greci trovati nella Biblioteca del Seminario Yeniamin del Monastero di Socola, Constantin Erbiceanu registra in un lungo articolo (Manuscriptele Scoalei Grecesli aflale in Biblioteca Seminariului Veniamin din M-rea Socola) pubblicato in Revista Teologica, III (1885), p. 179, No. LXXIV, le traduzioni in greco moderno di due opere del Segneri: un panegirico dei monaci al tribunale dei laici ed una predica di Venerdì Santo tanto lunga da sembrare piuttosto un trattato. Eccone i titoli:α´— Λόγος πανηγυρικός τοῦ Παῦλοθ Σεγνέρι Ἰησουίτου. ἤτοι Ἀπολογία τῶν μοναχῶν εἰς κριτήριον τῶν κοσμικῶν, μεταγλωττισθεῖς ἀπὸ τὸ Ἰταλικὸν παρηλλαγμένος ὅμωε ἐν πολλοῖς διὰ προσθήκης καὶ ἀφαιρέσεώς τινων. β´— Ὁ παρών λόγος τοῦ Παύλου Σίγνερι Ἰησουΐτου, ἤτοι τῇ μεγάλῃ πααρασκεβῇ εἰς τὰ σωτήρια πάθη, μετεγλωττίσθη ἐκ τῆς Ἰταλικῆς φονῆς ἐν Πατάβιῳ.
  101. D. Iarcu, Aliatele bibliografice romàne, Burniresti, Impr. Slaluhii, 1865.
  102. Se ne conoscono altri due esemplari; della Biblioteca Nazionale di Parigi e di quella Reale di Berlino. Quello regalato dal Picot all’Accademia Rumena proviene „de la bibliothèque de M. Marcel, ancien membre de l’Institut d’Egypte, ancien recteur de l’Imprimèrie nationale” come è scritto di mano del donatore sulla copertina. Cfr. I. Bianu, Vita Piluzio, documente inedite din archivul Propagandei in Columna lui Traian, Luglio-Ottobre 1883, p. 287, n. finale.
  103. Schițee, de Istoria Literaturei Române, de V. A. Urechie, Bucuresci, 1885 I, 204:
  104. La sua importanza è soprattutto dovuta al fatto che rappresenta appena il secondo libro rumeno stampato con caratteri latini. Cfr. Urechie, op. cit., p. 36.
  105. Urechie, op. cit., pp. 203— 204.
  106. I costumi del quale eran si rilasciati che provocaron ben presto persecuzioni da parte dei Principi stufi di ricevere ogni giorno reclami dalla popolazione e delle accuse reciproche che i religiosi si scagliavano in faccia a vicenda. La cosa giunse al punto che il 1668, il Piluzio dovette all’intervento di un boiero italiano (Bartolomeo Bruti?) le commutazione della condanna a morte pronunziata da Iliaş-Voda contro un Padre Paolo e un Padre Sebastiano zoccolante il primo, gesuita il secondo che non sappiamo perfettamente di che si fossero resi colpevoli, ma che il Piluzio si guarda bene del difendere nel suo rapporto. Cfr. il doc. V nell’articolo citato dal Bianu.
  107. Op. cit., doc. IV, p. 157.
  108. Op. cit., doc. III, p. 155: „Per obbedire alla S. Congregatione sono ritornato in queste parti barbare con promesse di qualche rimuneratione, vivo di speranza, 10 anni ho servito da Missionario e 7 da Pref-o, mi parrebbe tempo di ritornare, se poi S. D. M. non vuole, faccia quel ch’ha determinato.”
  109. Op. cit., doc., XII, pp. 263—4.
  110. Op. cit., doc. XIII, p. 265.
  111. Ștefăniță-Vodă per esempio, del quale racconta il Piluzio che „se ne andò a Tergo Sireto ( Târg-Sărat), et spianò la Chiesa e fece fare per forza Scismatici i Cattolici, se ne andò alla Pietra e fece il simile, venne però il suo Cognato e cominciò a sagettare (infl. del rum., a sagetà) il Campanile, et immediatamente s’accecò.”
  112. Il doc. X (p. 259) allude nientemeno all’„estirpatione di tutti li Cattolici di tre Provincie”.
  113. Op. cit., doc. XI, p. 263: „In che miseria io qui stia con il P-dre F.-Antonio Giorgini mio Cappellano nessun lo credarebbe, ch’alle volte nemmeno un pezzo di pane di miglio havemo da mangiare.”
  114. Cfr. rum. doi. Dal che si vede che, se la lunga dimora in Rumania non era valsa a dargli una conoscenza men che mediocre della lingua parlata da’ suoi diocesani; era però ben servita a fargli alquanto dimenticar l’italiano!
  115. Cfr. Op. cit., doc. XI, p. 263.
  116. Op. cit., doc. V, pp. 158—159: „...hauendo servito la S. Congregatione 17 anni, non recordo tante calamità com’adesso le povere creature patiscono.”
  117. Intr’acea vreme: zise Isus ucenicilor săi: Vor fi semne in soare și în lună și în stele și pre pământ spre oamenilor de urletul mării și tulburăruta valurilor săi: veștejindu-se oamenii de frica și așteptatu acelor cari de ajunge spre toată lume cătările cerului se vor clăti: și atunci vor vedeâ pre Fiul omenesc a vini în aer cu mare putere și slavă deci acieste începându-se a fi vă aruncați ochii și vă ridicați capetele în sus ș. c. l.
  118. Pubblicata nel 1717 dall’inglese Steel di sul mss. A. 82 della Bibl. di Dresda e Ital. XI, 31 della Marciana di Venezia. Un altro ms. se ne trova nell’Arch. di Propaganda Fide e ne sono stati pubblicati estratti da I. Bianu in Columna lui Traian.
  119. Segnalati dal Iorga in Călălori ecc., p. 105.
  120. Botta ap. Gioberti, Primato, Bruxelles, 1845 (2-a ed.), note a pp. 576— 77.
  121. Sull’argomento, oltre la notissima Bibliografia dei viaggiatori italiani di Pietro Amat di San Filippo, 1874, che mi dispensa da molte citazioni, sono da consultare le buone pagine che ai Viaggi e viaggiatori nella seconda metà del settecento ha consacrato Gemma Sgrilli nella Miscellanea di Studi Critici pubblicata in onore di Guido Mazzoni, Firenze, Ariani, 1911 (II, 277— 308) e soprattutto l’articolo del Iorga, Călători, Ambasadori și Misionari în țările noastre și asupra țărilor noastre, in Buletinul Societăței Geografice române, vol. XIX (1898) Sem. II, pp. 52 sgg., in cui quasi il medesimo argomento è trattato da un punto di vista naturalmente assai diverso dal nostro. Non dimentico, s’intende, il bel volume di A. D’Ancona, Viaggiatori e avventurieri, Milano, Treves, 1913, nè gli studi, speciali del Iorga sui singoli viaggiatori, come p. es. l’articolo dell’Arhiva di Iassy, vol. IV (1894) pp. 571: Călătoriile lui Domenico Sestini e la memoria: Un calator italian în Turcia și Moldova în timpul răsboiului cu Polonia in Analele Academiei Române (Mem. Secțiunii Istorice) Seria II, Tomul XXXIII (1910— -1911), pp. 35 sgg. Quanto alle vecchie opere di M. G. Canale, Storia del Commercio, de’ viaggi, delle scoperte e carte nautiche degli Italiani, Genova, 1866 e di G. Branca, Storia dei viaggiatori italiani, Torino, Paravia, 1873, malgrado i difetti rilevati dall’Amat di San Filippo a p. XIX della citata Bibliografia, e anche dopo l’apparizione del buon volume di Carlo Errera, L’epoca delle grandi scoperte geografiche, Milano, Hoepli, 1910; mette ancora conto il consultarle, specie per quanto riguarda i viaggiatori genovesi dei quali il primo si occupa a preferenza, e quelli più recenti del Secolo XVIII che particolaramente c’interessano, dei quali il secondo tratta con molta erudizione e discernimento critico. Di quella Storia dei viaggiatori italiani che l’Amat di San Filippo si riprometteva di scrivere e che „allo studio diligente degli uomini e delle cose” avrebbe accoppiato „alcune carte dove” sarebbero state „disegnate le peregrinazioni dei maggiori fra i nostri viaggiatori di terra e di mare”, non ho notizia.
  122. Cito queste parole da un romanzo di Ricardo León, Casta de Hidalgos, (Tercera edicion) Madrid, Renacimiento, 1911.
  123. Casta de Hidalgos di Ricardo León.
  124. G. Carducci, Dello svolgimento dela letteratura nazionale in Discorsi letterari e storici (Vol. I delle Opere) Bologna, Zanichelli, 1905, pp. 129— 130.
  125. Cfr. D. Russo, Elenismul în România (Epoca bizantina și fanariotă), București, Göbl, 1912, p. 21: „Calcocondila, venendo a contatto coi Rumeni constata che parlano una lingua romanza che somiglia con quella italiana ed hanno usi, costumi ed armi come gli altri popoli d’origine romanza (p. 77 dell’ ed. di Bonn). Un altro scrittore bizantino del secolo XII, Kinam, parlando dei Valachi scrive: „si dice che siano coloni venuti dell’Italia”(οἳ τῶν ἐξ Ἰταλίας ἄποικοι πάλαι εἶναι λέγονται, (p. 260 ed. Bonn), parole che sembrano contenere la più antica testimonianza della tradizione sull’origine latina dei Rumeni”.
  126. Persino gli architetti, come p. es. Vincenzo Scamozzi (1552— 1616) nella sua Idea dell’architettura universale (Venetiis, an. MDCXV), trovano il modo di occuparsene nelle loro opere e descriverne le antichità.
  127. Hurmuzaki, op. cit., VIII, 129.
  128. Autore di una Historia turchesca pubblicata il 1909 da I. Ursu nelle edizioni dell’Accademia rumena. Cfr. ora, per ciò che riguarda la narrazione della disfatta di Războieni, del medesimo I. Ursu, Ștefan-cel-Mare și Turcii, Bucarest, 1914, e la recensione del Iorga in Bulletin de l’Institut pour l’étude de l’Europe sud-orientale, anno I, fase. 5 (Maggio 1914), p. 106.
  129. Cfr. I Diarii di Marino Sanuto, Venezia, 1983, Tomo VI.
  130. Nagy Jvantol, Grittii Alajost illetó credeti emlèkiratok in Magyar Törtènelmi Tàr, III (1857), pp. 22— 23.
  131. Cornelio Magni, Quanto di più curioso, ecc., Parma, Per Galeazzo Rosati, 1679.
  132. Del Chiaro, Ist. d. moderne rivoluzioni della Valacchia, Venezia, per Antonio Bortoli, 1718.
  133. Domenico Sestini, Viaggio da Costantinopoli a Bukoresti fatto Vanno 1779, Roma, per Antonio Fulgoni, 1794.
  134. Viaggio curioso, scientifico, archeologico in Valacchia, in Transilvania e in Ungheria fino a Vienna, Firenze, Magheri, 1815.
  135. Le date fra parentesi indicano l’epoca del viaggio, non la data di pubblicazione.
  136. Bassano, 1784.
  137. Napoli, per Gaetano Remondi, 1788, e Milano, per Giovanni Silvestri 1822. Fu tradotto in tedesco il 1789, e in francese, di sull’edizione milanese, il 1822.
  138. le | relationi | vniversali | di giovanni botero | benese | divise in quattro parti.|| In Venetia, appresso Giorgio Angelieri, 1599 || con privilegio.
  139. Op. cit., ed. cit., Al Serenissimo Carlo Emanuele Duca di Savoia.
  140. Op. cit., ed. cit. Lettera dell’Autore al Sig. di Monforte.
  141. Al. Sadi Ionescu autore di un’ottima Bibliografia dei viaggiatori stranieri in Rumania, di cui purtroppo non ha pubblicato che un solo fascicolo (1246— 1650) ma che ha avuto la cortesia di mettere a mia disposizione nel manoscritto, crede che „după toate indiciile Botero a fost... și prin Principate”, e in nota aggiunge: „Aceasta se vede din relațiile ce dă în opera sa Relationi universali, Bergamo, 1596. Astfel din descrierea portului Varna (Vol. I, pag. 180) se vede că l-a văzut și spune că a fost la Constantinopole (Vol. I, pag. 180) și în Ungaria (Vol. I, pag. 159). Apoi vorbește de Principate astfel că rezultă fară îndoială că a trecut prin ele. Intre alte amănunte ce nu le-a dat altul până la el, Botero spune că a văzut boii cei mari din țările noastre, descrie locuința și caracterul țăranului român, vorbește de localități prea puțin cunoscute atunci, etc.” Codeste considerazioni hanno certo qualche valore, ma non dimostrano che il Botero abbia veramente viaggiato in Rumania. Quanto ai buoi, il Boterò non dice di averli veduti: „...fan fuoco di stoppie, et di sterco di buoi, che ui sono [in Bessarabia] grandissimi: et se ne caua numero grandissimo per li paesi vicini”. Op. cit., p. 96.
  142. Cfr. N. Iorga, Istoria Românilor în chipuri și icoane, Vol. I (Românii in străinătate si străinii in țările românești), p. 218.
  143. L’esemplare posseduto dalla Biblioteca dell’Accademia Rumena porta infatti un cartellino, nel quale si legge: Biblioteca Centrală, București|Donațiunea repausatului| Ubicini | 1885. No. 90.
  144. Provinces Danubiennes et Roumaines par MM. Chopin et A. Ubicini, Paris, 1855.
  145. Sul Botero cfr. C. Gioda. La vita e le opere di G. Botero, Milano, Hoepli, 1896; — Cimbali, La sapienza politica di G. Botero in Nuova Antologia, 1 marzo 1896; P. Orsi, Saggio biografico e bibliografico su G. Botero, in Rivista geografica italiana, 1896, fase. V— VII.
  146. Nella Rivista d’Italia del novembre 1898 — Ripubblicato in Nuovi Studi Manzoniani, Milano, Iioepli, 1908, pp. 341— 353.
  147. Manzoni, Promessi Sposi, Cap. XXVII.
  148. Op. cit., ed. cit. Parte I, Libro I, pp. 85—96.
  149. Cfr. A. D. Xenopol, Les Roumains. Histoire, ètat maleriel et intellectuel. Huit leçons faites au Collège de France en 1908. Paris, 1899, p. 127—128: „...pendant que la classe cultivèe est arrivèe à alfiner ses goùts, à se crèer une foule de besoin autrefois inconnus (voyages, thèàtres, maisons belles, confortables et luxueuses, repas copieux, etc.), les paysans sont restès toujours dans leur ètat primitif, incultes, complètement ignorants de toute amèlioration à introduire dans la nature du sol ou dans celle des animaux; se servant encore d’instruments imparfaits pour le travail de la terre; minès et fauchès par les maladies, faute d’une assistance sanitaire suffisante, et partageant des prèjugès absurdes contre les mèdecins; ne connaissant pas les règles les plus èlèmentaires de l’hygiène; mal nourris, mal vètus, mal loyès (cfr. Botero: „habitano poueramente”); adonnès dans leur immense majoritè au vice de la boisson (cfr. Botero: „amici... delle tauerne”),— une loi contre l’ivresse ne vieni d’etre votèe que maintenant, 1908 — voilà l’ètat prècaire dans lequel se trouve l’immense majoritè des l’aysans de la Roumanie...” .
  150. Cfr. del medesimo A. D. Xenopol, Mijloace de îndreptare ale stării țăranimii române, Iași, 1907.
  151. Op. cit., p. 96.
  152. Ibid.
  153. Ibid.
  154. Ibid.
  155. Ibid.
  156. Viaggio a Costantinopoli di Tommaso Alberti (1609—1621) a cura di A. Bacchi della Lega, Bologna, Romagnoli, 1889. Forma il No. XCCXXI della Scelta di curiosità letterarie. Cfr. Iorga, Călători, Ambasadori și Misionari în țările noastre și asupra țărilor noastre in Buletinul Societății Geografice Române, Anul X (1898) pp. 53 sgg. Non avendo a mia dispozisione il volumetto della Scella di curiosità letterarie, cito dall’estratto fattone dal Iorga a pp. 58—63 dello studio di sopra citato.
  157. Nè il Iorga, (op. cit., p. 59) nè altri è riuscito a identificar codesta località.
  158. Op. cit., p. 59.
  159. Op. cit., p. 59.
  160. Op. cit., p. 60.
  161. Ibid
  162. Ibid
  163. Ibid
  164. Op. cit., p. 61.
  165. Ibid.
  166. Vedi su di lui lo studio del Iorga, Un călător italian in Turcia în Moldova în timpul răsboiului cu Polonia in Analele Academiei Române (Mem. Secțiunii Istorice) Seria II, Tomul XXXIII (1910—1911) pp. 35 sgg.
  167. Ciò non ostante le lettere del Magni sono un documento storico importantissimo, specie per quanto riguarda il commercio italiano in Levante, e l’estensione della lingua italiana compresa e parlata da per tutto. Cfr. p. es. le pp. 43, 47—48, 55, 128—29, 222—26, sul commercio veneziano; 58, 134, 141, 181 su quello genovese, e soprattutto quanto a pp. 101—105 ci dice sull’accezione del vocabolo „franco” in Levante e la diffusione dell’italiano: „Benchè tutti gli Europei che non soggiacciono al Turco, passino per Franchi, nondimeno l’idioma franco s’intende unico l’italiano, e questa lingua vengono astretti, intendere non solo, ma parlare li ministri de’ monarchi e potentati europei.”
  168. QVANTO | Di più curioso, e vago hà potuto | raccorre | CORNELIO MAGNI | Nel primo biennio da esso consumalo | in viaggi, e dimore per la | TVRCHIA.| In varie lettere scritte in Italia, le quali | principalmente includono l’esame | della Metropoli di Costantinopoli, de’ | luoghi aggiacenti, | e dell’esercito Ottomano, si in marcia, come in campo. | Dedicata | ALL’INCLITA CITTÀ | DI PARMA | SVA PATRIA. | Aggiontaui la relazione del Serraglio del| Gran Signore, e delle parti più recondite di esso, distesa da Alberto Bobanio Leopolitano, trattenutouisi con nome di | Ali Bei in qualità di Paggio da musica.| IN PARMA, | Per Galeazzo Rosati. 1679. Con lic. de’ Sup. pp. 446—47.
  169. Anton-Maria Del Chiaro, | Istoria | delle | moderne rivoluzioni | della | Valachia, | con la descrizione del Paese, Natura, Costumi, Riti | e Religione degli Abitanti. | Annessavi la Tavola Topografica di quella Provincia, dove si vede ciò, che| è restato nella Valachia agli Austriaci nel Congresso di Passarovitza, | Venezia, A. Bortoli, 1718.
  170. Lipitorile satelor. Alludo, com’è chiaro, al bel dramma (1863) di Vasile Alecsandri (1819—1890), in cui si descrivono le sofferenze dei contadini rumeni incredibilmente oppressi e dissanguati dalla rapacità di un esercito di funzionarii greci, imposti dai Fanarioti alle città, ma soprattutto alle campagne.
  171. Op. cit., p. 7.
  172. Op. cit., p. 8. Si può perdonare al nostro scrittore il non aver veduto quanto luoco covava sotto quella cenere; non gli si può perdonare, che, dopo la pace di Passarowitz, per rendersi gradito all’Altezza Serenissima di Antonio Ferdinando Gonzaga „congiunto coll’Austriaca Augustissima Casa Regnante voglia gabellarci la Valacchia, „racconsolata delle sue passate sventure in vedendo una parte di se stessa ridotta in potere di Cesare” e anelante al „felice momento di vedersi” tutta „ricoverata sotto le Ali dell’Aquila Austriaca.” Alla grazia del bel ricovero! O non sapeva l’ottimo Del Chiaro che le aquile hanno anche gli artigli? Il dolore, per quanto muto e impotente, di un popolo che si sente strappare un brano della propria carne, meritava, o m’inganno, un po’ più di rispetto.
  173. Op. cit., p. 8.
  174. Raicevich, op. cit., p. 182.
  175. Op. cit., pp. 41—42.
  176. Non c’è infatti storico rumeno che non lo citi, attribuendo alle sue parole valore di testimonianza preziosa. — Più degli altri mostra d’apprezzarlo il Iorga, che lo cita quasi da per tutto nelle innumerevoli memorie che ha dedicato a illustrar la storia dei rapporti politici e letterarii intercessi in antico fra la Rumania e gli altri Stati d’Europa. Sappiam da lui che il Del Chiaro aveva un aspetto incredibilmente florido e rubicondo, per cui gli fu dai boieri del Brancovani affibiato il nomignolo di „tacchino”. Lo scherzo, ripetuto un po’ troppo spesso, dispiacque al Del Chiaro che se ne lagnò col Voda, e questi ordinò che fosse proibito chiamar col nome dell’orgoglioso e rubicondo gallinaceo il suo fedel Segretario. I boieri però non lo lasciarono in pace, e, proibito il soprannome, si divertirono a rifare al suo apparire il verso del tacchino quando fa la ruota. Cfr. Iorga, Ist. tit. rom. in sec. al XVIII-lea, I, 41 nota 4.
  177. Bene, a questo proposito, il Sestini, un altro viaggiatore italiano, del quale avremo più tardi a far parola. A proposito di un’osteria assai poco comoda, toccatagli in Ungheria (a Mosony) esce nelle seguenti giustissime parole: „E così non è solamente in Italia, ove l’osterie sieno poco comode, ma posso dire che tutto il mondo è paese, e che a torto certi caca-sodi (sic) di viaggiatori, che meritano piuttosto di stare a casa, e di non mettersi mai in viaggio, se non possono tutte ritrovare le loro comodità, o l’istessa maniera di vivere della medesima nazione, alla quale appartengono, polendo lor dire che il mondo è bello, perchè è vario, ed è appunto questa varietà e bizzarria, che reca piacere al viaggiatore, oltre le tante pene e disagi che una tal vita somministra.” E continua, dando, con qualche vivacità, la berta ad un viaggiatore „del settentrione”, che, avendo visti a Roma, alla processione del Corpus Domini i „para-cera” affaccendarsi a raccoglier la colatura dei ceri per rivenderli „allo speziale”, procurando così in quell’occasione di guadagnar „qualche bajocco”; subito notò „nelle sue tavolette quanto fanatici e bigotti sono i romani nel fare raccogliere quelle gocciole di cera per conservarle nelle loro case come reliquie e per servirsene in guisa di amuleti”. Cfr. il Viaggio curioso-scientifico-antiquario per la Valachia, Transilvania e Ungheria fino a Vienna fatto da Domenico Sestini socio di più accademie. Firenze, 1815. Nella Stamperia di Luigi e fratelli Magheri. A spese di R. Tondini Librajo da Badia, pp. 181— 185.
  178. Op. cit. L’autore a chi legge, p. * 2 verso.
  179. Del Chiaro, op. cit., pp. 186—187.
  180. La quale, a non tener conto del solito Indice delle Cose più notabil e del Breve alfabeto di parole valacche, le quali hanno corrispondenza colla Lingua latina e italiana (pp. 235—154) non va oltre le 234 pagine in ottavo grande.
  181. Del Chiaro, op. cit., p. * 2 della „Prefatione”.
  182. Del Chiaro, op. cit., p. 122.
  183. Del Chiaro, op. cit., p. 122.
  184. Del Chiaro, op. cit., p. 24.
  185. Del Chiaro, op. cit., p. 235.
  186. Del Chiaro, op. cit., p. 235.
  187. Cfr. su di lui lo studio di N. Iorga, Călătoriile lui Domenico Sestini în Muntenia în Arhiva Societății Științifice și Literare din Iași, IV, 571 sgg. Era nato a Firenze il 10 agosto 1750. Frate trappista nel monastero di Buonsollazzo, non vi rimase a lungo, e, tornato a Firenze, vi pubblicò dissertazioni filologiche ed epigrafiche, che gli procuraron subito una larga reputazione di erudito. Il gusto dei viaggi, che non l’abbandonò mai per tutta la vita, si manifestò in lui per tempo, sicchè il 20 settembre 1774 lo vediamo partire verso il mezzogiorno d’Italia. Questo viaggio, e la continuazione di esso fino a Costantinopoli, dove vide la peste del 1778, gli forniscon l’argomento dei sette volumi di lettere che pubblicò a Livorno il 1774. Altre notizie sul Sestini dà Fruttuoso Pecchi nella prefazione al Viaggio de Costantinopoli a Bukoresti.
  188. viaggio | DA COSTANTINOPOLI A BUKORESTI | fatto l’anno 1779. | Con l’aggiunta DI DIVERSE LETTERE | Relative a varie produzioni, ed osservazioni Asiatiche | ROMA, 1794. || Per Antonio Fulgoni | Con licenza de’ Superiori, p. 2.
  189. Firenze, 1815.
  190. Tradotte in francese il 1809.
  191. Tradotte in francese il 1789 col titolo: Voyage dans la Grece asiatique, à la peninsule de Cyzique, a Brousse, à Nicèe, avec une flore du mont Olympe.
  192. Tradotto anch’esso in francese.
  193. Berlino, 1807.
  194. Firenze, 1777.
  195. Firenze, 1815.,
  196. Il Viaggio curioso, scientifico e archeologico in Valachia.
  197. Op. cit., p. VI, dove, a proposito de’ suoi „Viaggi”, li dice „scritti ora a guisa di lettere, ed ora a guisa di giornale con la familiare narrativa di quello che mi è occorso osservare, poco curandomi se i termini del mio dire saranno messi nel frullone o saranno approvati da chi „ne coglie il più bel fiore”. E questo il mio stile adottato per simili scritti, essendo stato sempre il mio scopo d’istruire i miei compatriotti, e tutti quei che mi leggeranno, restando nella ferma idea che un viaggio, bene o male scritto che sia, sarà sempre utile.”
  198. Op. cit., p. 1.
  199. Op. cit., p. 47.
  200. Op. cit., p. 49.
  201. E si che non dovevano essergli indifferenti! Almeno da quanto è lecito supporre da una certa visita che una domenica di giugno „dopo avere adempito al suo dovere” d’ascoltare la messa, si proponeva di fare „alla chiesa degli Evangelisti, per avere un’idea del bel sesso sassone!” Ah, ghiottone d’un abate!
  202. Op. cit., p. 49.
  203. Op. cit., pp. 49— 50.
  204. Abbiamo già parlato della poca simpatia del Sestini per la Crusca. Riportiamo qui un sunto per sommi capi della sua lunga digressione (op. cit., p. X— XVIII), in cui trova modo di far le lodi dell’Accademia Fiorentina e di quella soprattutto degli Apatisti; del giuoco del Sibillone, per cui quest’ultima era... „famigerata”; di scagliarsi contro Napoleone (=„un uomo singolare, la cui mente era piena di stravaganti-grandiose idee”), che aveva ristabilita l’odiata Accademia della Crusca „collo scopo per avventura di accaparrare piuttosto degli encomiatori, affine di celebrare, eternare, perpetuare le di lui chimeriche imprese”, e, nell’istesso tempo „di far imbastardir la nostra lingua con termini gallici”; di parlarci della „lingua filosofica”, inventata dai patrioti tedeschi, per convincere Federigo il Grande, che la lingua tedesca era non meno della francese „suscettibile, o capace di ogni stile”; di farci le lodi di Mendelsolm, di Kant, di Klopstock, di Schiller, e soprattutto di Gellert, l’Ovidio della Germania, come lo chiama lui, a proposito del quale narra l’aneddoto di un inglese, che, partitosi della sua patria per andarlo a conoscere e rendergli tributo d’onore, avendo saputo ch’era morto pochi giorni prima ed era stato seppellito nel cimitero comune, seminò „fiori preziosi sopra quel tumulo”, li coltivò e solo allora partì alla volta dell’Inghilterra, quando „la stagione rese infruttuoso il proseguimento di sì nobili cure”; di esporre infine la sua profonda teoria della lingua, per cui „la maniera di ben parlare, di ben pronunziare, e di astenersi nella familiare narrativa dai ripetuti dice, dice: e la cosa e il coso” si dove apprendere nella „buona società” e quella di scriver bene nella „lettura e nella profonda applicazione degli autori classici tanto greci che latini, per mezzo dei quali si viene ad arricchire le lingue, sottoposte sempre a variare col declinare d’ogni secolo.”
  205. Op. cit., p. 2.
  206. Cfr. p. es. a p. 20: „Questo luogo [ = Pitescty come scrive il Sestini, cioè Pitești] sarà ora rinomato tra le sanzioni ancora in mente, e non digerite dal sig. R.... segretario del principe, per mancanza d’una non profonda legislazione, mentre si è reso celebre per un fatto tragico seguito qui l’inverno passato, a motivo di qualche gelosia d’amore, e l’unico da contarsi presso un popolo, che mai ha registro d’onore o di reputazione per la galanteria, o sia per il bel sesso.” Segue il fatto, che rappresenta per noi un qualunque fattaccio di cronaca: un marito geloso che uccide il ganzo, o, come dice il Sestini, servendosi del vocabolo tecnico del tempo, „il cicisbeo della sua moglie”. Se non che il Sestini, si esprime così male, da non farci capire neppure perchè quel fattaccio gli sembri d’esser narrato al lettore. Orbene non è il fattaccio in sè che importa notare, ma piuttosto l’assenza assoluta di gelosia che si osservava e si osserva ancora nel carattere rumeno. Delitti passionali sul genere di quelli che i giurati italiani mandano costantemente assolti, non solo non si commettono, ma non si concepiscono neppure in Rumania; sono considerati come una tragica ingenuità tutta propria del carattere italiano, cose che posson succedere soltanto in Italia, delinquenza a fondo di romanticismo. Ecco perchè il Sestini crede parlarci di quella rara avis ch’è il marito di Pitești, omicida per gelosia. L’intenzione del Sestini è resa più chiara dalle parole che seguono, dove non si può non cogliere a volo l’intenzione sarcastica, resa maggiore dal tono indifferente del narratore: „Un tal caso, per sè nuovo diede molto da pensare, e nessuno sapeva od era capace di giudicare unu tale causa, motivo per cui fu mandata la questione a studiarsi, e a sciogliersi in qualche foro estero, ma indi fu sentenziato in ultimo esame dal Principe, in una pena pecuniaria, e non potendo il delinquente trovarla o pagarla, seguitava a stare ritirato nel monistero, e forse col tempo si farà Papas per esserne affatto libero”. E qui il Sestini non manca di scagliare un’altra frecciata all’indirizzo di quel Signor R..., col quale non aveva troppo buon sangue: „Forse se il codice delle leggi che il disopra citato segretario aveva in pensiero d’ordire, era stato scritto a lettere d’oro, naturalmente il delinquente si sarebbe trovato a peggior partito del primo.” Op. cit., pp. 22— 23.
  207. Sulla moda botanica nel settecento, si pul consultare utilmente la buona memoria di P. A. Saccardo, La botanica in Italia in Memorie del R. Istituto Veneto di Scienze, lettere ed arti, voll. XXV e XXVI, Venezia, 1894— 96. La moda durava ancora nei primi decenni del secolo XIX, e tutti ricordano la curiosa corrispondenza tra il Manzoni e il Fauriel negli anni che lo Scherillo chiama dell’„infatuamento georgico” del Manzoni, quando Madame de Condorcet gli mandava a regalare lAlmanach du Bon Jardinier de 1820, il povero Fauriel era tempestato di lettere perchè gli procurasse „graines de fleurs..., arbres et arbrisseaux exotiques, qui vous pourrez conjecturer n’etre pas encore multipliées en Italie”, e il Manzoni si vantava, più che d’avere scritto i Promessi Sposi, d’essere stato „il primo introduttore delle robinie in Italia” 1 Cfr. Scherillo. Il decennio dell’operosità poetica del Manzoni in Opere di A. Manzoni, Milano, Hoepli, 1907, III, pp. XXXIV, nota 1, XXXVI e XL. Nella medesima lettera al Fauriel del febbraio 1811, in cui lo prega di fornirgli semi di fiori esotici e di robinie, troviamo la seguente domanda: „La Datura arborea se multiplie-t-elle par graines?” Nota giustamente lo Scherillo (p. XLI) come in questo amore del M. per la botanica, si confondessero due amori: „quello avito del signore lombardo e quello nuovo del figlio dell’Enciclopedia e della Rivoluzione.”
  208. Gemma Sgrilli nel suo ottimo studio: Viaggi e viaggiatori nella seconda metà del Settecento (in Miscellanea di Studii Critici pubblicata in onore di Guido Mazzoni), Firenze, 1907, II, 300 124) rileva questo carattere comune alla maggior parte dei viaggi del Settecento, i quali, anche quando „ci danno i resultati di esplorazioni scientifiche fatte con scopo determinato”, recano nondimeno in sè „qualche traccia del tempo, e, come lo scienziato, un po’ enciclopedico anch’esso, non poteva compiere il suo viaggio senza osservare un poco anche ciò che non riguardava direttamente il proprio argomento, così qualcosa gli veniva fatto di esporne nella sua relazione,...benché, per lo più, in limiti molto ristretti.”
  209. Eccola: „É curiosa poi l’uniformità delle case di campagna, o ville che dir si potrebbe, che hanno tutti i Bojari nelle loro possessioni, il che fa vedere che tra di loro ritrovasi lo spìrito d’imitazione, e non il talento dell’invenzione. E perchè uno non debba restare con il desiderio sopra di ciò, dirò che una abitazione è fatta nella seguente maniera. È un gran recinto quadro di muro, costrutto tutto di mattoni, in mancanza di pietra per tali pianure: nel mezzo a questo resta piantata la loro casa, in croce per lo più, e sul gusto chinese, ricoperta con un tetto fatto a gran padiglione, composto invece d’embrici e tegole, di piccole tavolette, regoli, e tramezze, o, come dicono i francesi, à la Brancarde, dal nome dell’architetto. Una tale maniera di costruire i tetti può avere il suo vantaggio affine che le grandi nevi, che cadono, non siano di danno a tutto l’edificio pel loro peso. Le scale poi della casa restano sempre fuori, e le quali mettono in un verone scoperto, e dal quale si ha l’ingresso nel primo ed unico piano della casa, oltre quello a terreno. Le scale poi sono per lo più di legno, ma si ritrovano anche di pietra calcarea fatte venire dalle montagne della Valachia. Avanti la facciata della casa, si ha sempre una grande e spaziosa piazza, nella quale si vedono diverse casucule, per servizio della servitù, stalle per li cavalli e per li porci, e per il pollame, oltre la purumbaja cioè il riposto per il mays, che si chiama purumb o purumbu in valaco. Il mezzo quadro poi di dietro alla casa, è tenuto a giardino, o ad ortaggio, ma il tutto con poca cura, e con meno simmetria.” Op. cit., pp. 11— 12.
  210. T. Dragomirescu, Stăpâni și slugi, București, „Speranța”, 1910.
  211. Op. cit., pp. 24—26.
  212. Sestini, op. cit., p. 26.
  213. Merita ad ogni modo di venir qui ricordato un anteriore accenno a proposito delle parole Feriga e Liperiga, che il nostro botanico abate fa a p. 27, dove ci parla d’una delle sue solite erborizzazioni: „Se si fa attenzione alla nominazione dei nomi valachi, osserveremo, che la parola latina ritrovasi quasi sempre nella loro lingua; come Feriga è Filix, e Liperiga è Liperus.”
  214. Op. cit., pp. 178— 179.
  215. L’addio ai turchi fu dato con i seguenti versi francesi, „fatti ex-tempore" da uno dei viaggiatori (francese senza dubbio) che riporto qui per curiosità e anche per consolar quelli fra i lettori che reputino piaga della sola Italia, la poesia improvvisa:
    ADIEUX AUX TURCS.

    Messieurs les Turcs, sur vos rivages,
    D’amour je goutois les plaisirs,
    En me riant de vos usages,
    Gaiment j’employois mes loisirs,

    Sans regret pourtant j’abandonne
    Ce pays dont le site heureux,
    Qu’une belle ville couronne,
    Est fait pour étonner nos yeux;

    Je vais chercher dans ma patrie
    Et les arts, et la liberté,
    Cette liberté si cherie
    Qu’on bannit de vôtre cité;

    Je ne verrai plus les ravages
    De ce fléau desolateur
    Qui sur vous épuisant ses rages
    Nous épargne dans sa fureur;

    Mais puisque votre bon prophète,
    Content de votre foi parfaite,
    Vous promet un ciel plein d’houris;

    J’irai vous y faire visite,
    Adieu, pour longtemps je vous quitte;
    À nous revoir en paradis.
                               (p. 49.)

  216. Op. cit., p. 47
  217. GIORNALE | di un viaggio | da | Costantinopoli in Polonia | dell’abate | RUGGIERO GIUSEPPE BOSCOVICH | con una sua relazione sulle Rovine di Troja, | E in fine il Prospetto delle Opere nuove Matematiche | del medesimo AUTORE, contenute in cinque Tomi, | che attualmente lui presente sì stampano. || Bassano. MDCCCXXXIV || a spese remondini di Venezia.
  218. Op. cit., p. XXII.
  219. Op. cit., pp. IX— X.
  220. Op. cit., pp. X— XI.
  221. Op. cit., p. XI: „Mi allettava il comodo di vedere la Bulgaria, e la Moldavia, paesi troppo diversi da quelli, che avev’io scorsi nella più colta parte d’Europa, per li quali un viaggiatore non può passare senza gravissimi incomodi, e pericoli fuori di una occasione simile a quella di mettersi al seguito di un Ambasciatore assistito dalla pubblica autorità colla scorta di un Commissario destinato dal Gran Signore, munito di guardie, e di ordini ampi, e premurosi, colla somministrazione gratuita di vetture, cavalli da corsa, alloggi e viveri abbondanti.” Op. cit., p. XI.
  222. Op. cit., p. XVII.
  223. Op. cit., pp. XVI— XVII.
  224. Op. cit., p. XV.
  225. Op. cit., pp. 14— 15.
  226. Op. cit., pp. XXIII— XXIV.
  227. Op. cit., p. 104.
  228. Op. cit., p. 108 sgg.
  229. Op. cit., p. 97.
  230. Op. cit., p. 86.
  231. Op. cit., p. 100
  232. Op. cit., p. 98.
  233. Ibid.
  234. Op. cit., p. 127.
  235. La più antica edizione è quella napolitana del 1788: OSSERVAZIONI | Storiche | Naturali, e Politiche | Intorno | la | VALACHIA, e MOLDAVIA || *Nil Admirari* || NAPOLI 1788. | Presso Gaetano Raimondi | Con Licenza de’Superiori. - Segue in ordine di tempo, la traduzione tedesca del Piehl ( Strassburg, 1790): Geschichte, | natuerliche Beschaeeenheit | und | Vereassung | der | WALACHEN und MOLDAU. | Aus dem Italieniselien fibersetzt | von | Herrn Professor Piehl, || Strassburg. | In Verlag der akademischen Buchhandlung j 1790. — L’edizione milanese è del 1822: VIAGGIO | IN VALACHIA E MOLDAVIA | Con Osservazioni | Storiche, Naturali | e Politiche. || Nil Admirari. || MILANO. || Per Giovanni Silvestri. || m. dccc. xxii.— La traduzione francese, condotta sull’edizione milanese, manca anch’ essa del nome dell’autore: VOYAGE EN VALACHIE | et | EN MOLDAVIE, | avec des observations sur l’histoire. la phisique et la politique | augmenté de notes ET ADDITIONS POUR L’INTELLIGENCE DE DIVERS POINTS| ESSENTIELS. | Traduit de l’italien par M. I. M. Lejeune| Professeur de litterature, ex-Professeur particulier de Soli Altesse | le Prince de Moldavie. || Nihil admirari || A PARIS, | CHEZ masson et FILS, rue de tournon. No. 6. || 1822.— Del Raicevich, primo agente consolare dell’Austria-Ungheria nei due principati di Valachia e di Moldavia, sarà pubblicata fra breve l’iniportantisima corrispondenza diplomatica col Kaunitz in un grosso volume della collezione Hurmuzaki, che apparirà in questi giorni e sarà curato del Prof. I. Nistor dell’Università di Czernovitz.
  236. Op. cit., p. 231 dell' edizione napoletana.
  237. Op. cit., p. 233.
  238. Op. cit., p. 242.
  239. Op. cit., p. 247.
  240. Op. cit., p. 244.
  241. Op. cit., p. 231.
  242. Op. cit., p. 235 — 236.
  243. Op. cit., p. 124— 125.
  244. Op. cit., p. 261.
  245. Op. cit., p. 261.
  246. Cfr. Del Chiaro, op. cit., p. 218.
  247. Cfr. Iorga, Breve, storia, ecc., pp. 40— 41: „I libri di conti della Curia mentovano questi „ambasciatori dei Valachi”.
  248. Pretendenți domnești în secolul XVI in Analele Academiei Române (Mem. Secț istorice), XIXI p. 195.
  249. N. Iorga, Istoria Românilor în chipuri și icoane, I, 205.
  250. Ce ne furono del resto più tardi anche di italiani. Il 30 aprile 1622, il Cavaler Bailo Zorzi Giustinian scrive al Doge (Dispacci Costantinopoli, 1622, filza 93; — Hurmuzaki, IV, 392), informandolo degl’intrighi del pretendente Locadello per essere assunto al trono di Moldavia. È in fondo una vittima alquanto ingenua delle mene di un’ebrea e di alcuni ciarlatani di Costantinopoli, che, a detta del nostro Cavaler Giustinian, (vedi la lettera del 15 maggio), finiranno col rovinarlo, „facendogli’spender in donativi quanto mai può cavar per tutte le vie per spuntar prima della partita di Sua Maestà (il Sultano) e commettendo per poter far li detti donativi, di molte indegnità con pericolo finalmente di farsi impallar.” A quei tempi infatti la nomina dei Principi di Valacchia e di Moldavia „era diventata", come dice il Iorga (op. cit), una specie di giuoco di borsa pei capitalisti di tutte le nazioni”, si che il trono si dava al maggior offerente; che, se eletto, si rifaceva poi delle spese impiccando per i piedi i contadini e facendo sotto di loro dei suffumigi di paglia bruciata, finchè avessero vuotata la borsa fino all’ultimo centesimo. Cfr. Niculae Filimon, Ciocoii vechi si noui, Bucuresti, Minerva, 1902, p. 106. Il Locadello era stato preceduto nel mestiere di pretendente da un altro italiano, il medico lombardo Bernardo Rosso, che, dopo aver speso 10.000 ducati per ottenere il trono della Bessarabia, fu dalla Porta confinato a Rodi, dove sembra sia poi rimasto fino alla morte. Cfr. la citata memoria del Iorga, Pretendenți domnești, in An. Ac. Rom.,, XIX, 196.
  251. Antonii Mariae Gratiani, De Ioanne Heraclide Despota Vallachorum principe libri tres Varsaviae, 1759. Cfr. Emile Legrand, Deux vies de Jacques Basilicos... suivies de pièces rares et inedites, Paris, Maisonneuve, 1889 e N. Iorga, Nouveaux matèriaux pour servir à l’histoire de Jacques Basilikos l’Hèraclide dit le Dèspote de Moldavie, Bucarest, 1900,
  252. Cfr. Iorga, Breve Storia, p. 92.
  253. Dialoghi piaceuoli ] DEL SIG. STEFANO | GVAZZO. | Gentil’hvomo dì casale | di Monferrato. | Dalla cui famigliare Lettione potranno senza stanchezza, | & satietà non solo gli Huomini, ma ancora le Donne | raccogliere diuersi fratti morali, & spirituali. | All’Illustriss. & Eccellenliss. Sig. Lodouico Gonzaga | Duca di Neuers, Par di Francia. | CON PRIVILEGI. || In Venetia, Presso Gio. Antonio Bertano. MDLXXXVI. | Ad instantia di Pietro Tini, Libraro in Milano.
  254. Discorsi | DEL CONTE ANNIBALE | romei gentil’hvomo ferrarese,| di nuouo ristampati, ampliati, e con diligenza corretti. | Diuisi in Selle. Giornate, | nelle quali tra dame, e ’ cavaglieri | RAGIONANDO, | nella Prima si tratta della Bellezza,| nella seconda dell’Amor humano, | nella Terza dell’Honore,| nella Quarta dell’iniquità del Duello, del combattere alla Macchia; | e del modo d’accomodar le querele, e ridur à pace le | inimicitie priuale, | nella Quinta della Nobiltà, |nella Sesta delle Ricchezze, | nella Settima della precedenza dell’Arme, e delle Lettere. | con la risposta A TVTTI I dvbbii, | che in simil materie proponer si sogliono. | Alla Serenissima. Sig. la S. D. LUCRETIA| da Este Duchessa d’Vrbino. || In Ferrara, Per Vittorio Baldini, | Con licenza de’ Superiori. MDLXXXVI.
  255. I PRECETTI, | et | SENTENTIE PIV | notabili in materia | di stato DI M. Francesco | GVICCIARDINI. | Al Ser-mo Principe | ALLESSANDRO FARNESE, | Principe di Parma & di Piacenza, &c. Gouernaiore, Luogotenente, & Capitano generale per il Rè Cattolico ne’ paesi Bassi di Fiandra | In Anversa, | Appresso di Christophoro Piantino, [ M. D. LXXXV. [La scelta è fatta da Lodouico Guicciardini (cfr. su di lui lo studio di Albert Counson, Louis Guichardin et la Belgique in Miscellanea Renier) e dedicata al Farnese „per congratulatione della sua prospera venuta” in Anversa „la vigilia di S. Iacopo 1585.”!.
  256. Zacharias-Conrad von Uffenbach fu uno dei più celebri bibliofili tedeschi. Nacque il 22 febbraio 1863 a Francoforte sul Meno, dove morì il 6 gennaio del 1735. Publicò egli stesso un catalogo ragionato dei libri da lui posseduti col titolo di Bibliotheca Uffenbachiana universalis in 4 volumi (Francoforte 1729 — 31), cui fece precedere un catalogo de’ manoscritti: Bibliotheca manuscipta, (Halle, 1720). Cfr. Hermann. Uffenbach’s Leben, Ulm, 1753.
  257. Stefano Guazzi, ci fa sapere l’accademico incognito, abate Girolamo Ghilini (Teatro d’Huomini letterati, Venezia, MDCXLVIT, II, p. 230) „nacque [il 1530] nella Città di Casale Metropoli del Monferrato da nobilissima, e antichissima stirpe, la quale è stata per l’addietro padrona in parte del feudo di Villa nuova de’ Conchi, ouero de’ Guazzi nella Lomellina”. Suo padre (Giovanni) fu primo tesoriere dei duchi di Mantova nel Monferrato, „hvomo di qualificate parti e nel maneggio di publici e privati affari expertissimo: Stefano professò belle Lettere, e in prosa, e in poesia con molta eccellenza; fu gran Filosofo; hebbe costumi amabilissimi, co’ ì quali s’acquistava l’animo di quelli, che seco trattavano. Serui di Segretario per molti anni alla Duchessa di Mantoua Margherita, e poi a Ludouico Gonzaga Duco di Niuers; fu Autore dell’Accademia degli Illustrati nella sua Patria, trà quali si chiamò l’Eleuato; hebbe anco luogo principale tra gli Accademici Affidati di Pauia dove mori il 6 Dec. 1593. Oltre i Dialoghi piacevoli, scrisse ’a Civil Conversazione; Lettere; una Ghirlanda della Contessa Angela Branca Benaria contesta di madrigali di diversi autori; poesie toscane e latine, in diverse Opere altrui stampate”. Quando al Pugiella si vegga la pubblicazione recentissima di I. C. Filitti, Din Arhivele Vaticanului, II: Documente politice (1526— 1788), Bucarest, 1914, pp. 34— 35, No. XXXV, in cui si pubblica una lettera di Petru Cercel al Cardinal Commendone, nella quale dice di avergli spedito il suo segretario Francesco Pugiella. È datata da Torino, 18 febbraio 1581. In altri documenti riguardanti Petru Cercel trovati dal Filitti negli Archivi Vaticani, cfr. la recensione del Iorga in Bulletin pour Velude de l’Europe Sud-orientale, Anno I, fase. 9 (Settembre 1914), pp. 199 sgg.
  258. Op. cit., p. 15.
  259. Op. cit., p. 17.
  260. Op. cit., p. 17 v.
  261. Op. cit., p. 20 v.
  262. Op. cit., p. 22.
  263. Ibid.
  264. Ibid.
  265. Op. cit., p. 23.
  266. Op. cit., p. 28.
  267. Op. cit., p. 27.
  268. Non sarà inutile riprodurre qui in nota l’esordio umanistico di una lettera di Petru Cercel ad Alfonso II di Ferrara per chiedergli una raccomandazione per il re di Francia e Caterina dei Medici: „Se i marinari, perdendo le loro (sic) navi se ne condogiiono con marinari, i mercanti con mercanti: il simile infra humil plebe e genti di bassa conditione se ne ne consigliano ne i lor casi insieme, così in aversità, come in prosperità, piglio dunque esempio di lor; di poi che infra tanti santi principi, rè, imperatori et potentissimi monarchi preteriti, presenti, e futuri, tocca hoggi la sorte a me di truovarmi in disgratia della fortuna, non posso altro fare se non giacere sotto la sua empia rota, fino a tanto che il mio Creatore farà la sua divina volontà con esso meco, si come io debbo et non manco di credere che la sua bontà divina debbe aver noticia di me, di poi che gli piace haverme in tale stato, so che io debbo in lui solo me consolare et confortare“. — La lettera, datata da Parigi, 16 Decembre 1579, si trova a Modena (Arch. Est. busta Oriente) in doppio esemplare. È stata publicata in Hurmuzaki, op. cit., XI, 98.
  269. Op. cit., loc. cit.
  270. „Tutta la sua fanciullezza e buona parte della gioventù la passò in esilio: da Costantinopoli fu mandato a Rodi, di qui a Trapezunte, quindi a Cipro e a Damasco. Questa sua dimora in regioni di civiltà molto progredita per essere state molto tempo sotto la dominazione italiana, ed in special modo veneziana, non gli fu inutile”. Cfr. Hortensia Schachmann, Petru Cercel după izvoare de curând publicate sau inedite in Convorbiri Literare, XXXVI ’(1902), pp. 1033— 1034.
  271. Cfr.I. Bongars, Tagebuch seiner Reise von Wien nach Konslanlinopel im Jahr 1585, Il ms. (N. 468 della Stadtbibliotheck di Berna) è stato pubblicalo dal Dr. Hermann Hagen a pp. 62— 72 del suo studio: Jacobus Bongarsius. Ein Beitrag zur Geschichte der gelehrlen Studien des 16— 17 Jahrhunderts. Bern, Fischer, 1874. Universitàtsprogramm per l’anno 1874.
  272. Iorga, Breve storia, p. 94.
  273. Francesco Flamini, Il Cinquecento, Milano, Vallardi(s. d.), p. 479. Per ciò che riguarda la Francia, è noto che i trattatisti di eleganze „ebbero onore di versioni, e, ancor nel secolo XVII, seguitavano ad esser ricercati e tenuti in pregio”. Basterà a tal proposito ricordare col Flamini, che „il più lodato e caratteristico libro del Rinascimento italiano, quello del Castiglione, ebbe a traduttore il celebre Giacomo Colin, signore di Saint-Ambroise, caro a Francesco I e collaboratore del Budè e del Du Bellay nella fondazione del Collegio Reale; e che le anonime Loix de la galanterie, pubblicate nel 1644, ci rivelano la stretta parentela del „galante”, quale lo vagheggiava la società dei preziosi e delle preziose e lo parodiava sulle scene il Molière, col „cortegiano” del cavaliere di Casatico. Proprio dal gran codice della cortigiania, al pari che dalla Civil conversazione di Stefano Guazzo, dalle Veglie senesi di Girolamo Bargagli e dai Cento giuochi liberali e d’ingegno d’Innocenzio Ringhieri e via dicendo, appresero i Parigini del secento la maggior parte dei giuochi e trattenimenti dei salotti e delle ruelles... Per tal modo la prosa italiana venne trasfondendo nella francese non poco della sua regolarità, di quella lucida sua politezza aristocratica, raffinatamente classica, dalla quale abbagliati, i Francesi dell’alta società e della corte s’industriavano con tutti i modi di levigar le asprezze, smussare gli angoli e tornire i contorni all’idioma tutto muscoli e nervi del Rutebeuf e del Villon.” Cfr. Flamini, op. cit., loc. cit
  274. Tra i „cavaglieri italiani”, dei quali ci parla il Iorga, Breve Storia, p. 94, citeremo il nome d’un nobile genovese, Francesco Sivori, segretario di Petru Cercel, a nome del quale lo vediamo scriver lettere al nunzio apostolico Annibale da Capua (Hurmuzaki, III, I, 106-07), un Signor Franco, del quale (cfr. Hurmuzaki, XI, 828) non sappiamo se non che l’8 di ottobre dell’anno 1584 era ospitato per conto di Cercel in Brașov „mitt vielcm Gesindt, mitt villenn Personen”, e forse un Simone Massa, che il Iorga ritiene uno degli autori del Chronicon Fuchsio-Lupinum-Oltardinum. (Hurm., XI, 828 n. 2).
  275. Non vale obiettare che il Vârnav fosse moldavo. Le relazioni fra i due principati eran frequentissime e spesso l’una corte di sforzava d’emulare gli splendori dell’altra. Alla corte di Bucarest, i „cavaglieli” italiani del Cercel lasciaron certo un’orma del loro passaggio. Lo argomentiamo dalle relazioni artistiche, che i successori antennero coll’Italia e delle quali abbiamo già avuto occasione di parlare. Tali relazioni, promosse da Petru Cercel, continuate da’ suoi successori immediati: Mihnea II (1585—1591) ed Alexandru-cel-Rău (1592—1593), raggiungeranno nel secolo successivo l’epoca del loro massimo splendore sotto il regno di Constantin Brâncoveanu (1688—1714).
  276. Cfr. N. Iorga, Nouveaux matèriaux pour servir à l’histoire de Jacques Basilikos l’Hèraclide du le Despole de Moldavie, Bucarest, 1900.
  277. Pare infatti che fosse un morlacco.
  278. Opera omnia, p. 188 dell’ed. veneta del 1754.
  279. Intesa nel senso largo, in cui l’ha certo usata il Navagero, possiam comprendere fra gli accolae seplicornis Danubii anche i Polacchi, che, coi popoli danubiani, confinano.
  280. Compresi naturalmente quelli di Transilvania. Nei „Fontes rerum Transylvanicarum (Erdèlyi Törtènelmi Forrasok) cominciati a pubblicare il 1911 dal Dott. Andreas Veress di Kolozwar che consterà di 50 volumi (ne sono apparsi finora quattro), vedo annunziato sotto il No. 5: „Matricula et acta Transylvanorum Hungarorumqae in Universitate Palaviana studentium. A paduai egyetemen járt Erdé y és magyarorszàgi tanulók anyakönyve és iratai(1264— 1837), che certo contribuirà a rischiarar molti punti oscuri nelle relazioni intellettuali italo-runiene. Il volume è in corso di stampa e tutto fa credere che assai presto potremo farne tesoro. I voll. 17— 19 conterranno le: Relationes missionariorum catholicorum in Moldavia et in Valachia viventium; il vol. 20 l’Historia Transylvaniae. Auctore P. Johanni Argenti S. J. (1603— 1607), il vol. 35 l’Epistolarium Joannis Zamoyski cancellarii regni Poloniae, (1567— 1605) fonte preziosissima per ciò che riguarda il diffondersi in Polonia del movimento umanistico italiano; il vol. 39 le Descriptiones italicae itinerum in Transylvania Hungariaeque factorum (1493— 1690), il vol. 41, le Epistolae et acta relationum inter Sanctam Sedem Apostolicam et Transylvaniam (1571— 1613), il vol. 42, importantissimo, le Relationes Italicae de rebus Transilvanieis ex actis diurnis qui „Avvisi” nominantur (1591— 1613), il 48 le Matricula et acta Transilvanorum Hungarorumque in Collegio Germanico-Hungarico Romae studentium (1552 -1914); il vol. 49 gli Acta Bononiensia Hungarica (Matricula el acta Transylvanorum Hungarorumque in universitate Bononiensi studentium. Miscellanea Hungarica collectione Comitis Ferdinandi Aloysii Marsigli). Totta roba del massimo interesse per lo studio delle relazioni intellettuali fra l’Italia e la Romania.
  281. Miron Costin, Cartea pentru descălecalul de ’nteiu a Țărei Moldovei și neamului moldovenescu, in Cronicile României și Lelopisețele Moldoviei și Valahiei, a cura di Mihail Kogălniceanu, Bucuresci, 1872, I, 9 sgg.
  282. Ibid.
  283. La riassume egregiamente Giuseppe Manacorda nella sua interessantissima Rassegna degli studi sull’antico insegnamento italiano in Giorn. st. d. lelt. it. XLIX (1907) 114— 115 in poche e dense righe, che mette conto riprodurre: „[Nello studio del Brugi (Gli scolari dello studio di Padova nel’500, Padova Drucker, 1905)], palpita tutta vita universitaria della Padova cinquecentesca, quale la vide il Montaigne colle sue strade tortuose — ottima scena per risse e fughe di scolari; — povera, ma orgogliosa tanto del suo ateneo, daprovvedere ai lettori con una tassa speciale, il boccatico; animata da 1000 a 1500 studenti, ora così ricchi da tenere in affittto paiazzi con fasto di servi, „di bravi e di cavalli, ora poveri tanto da farsi servi per mangiare, più spesso vivacchianti alla meglio, a dozzina presso professori (tra cui Galileo stesso) od in camere da loro arredato con suppellettili prese in affitto nel Ghetto. Da vicino, Venezia, già sul declivio, ma non doma, veglia sullo Studio, frenando l’ingerenza ecclesiastica, facilitando la venuta agli stranieri, cercando di trattenervi i suoi sudditi. Il vescovo brontola: „Quello di Padova” — dice— „pare uno studio di pagani, non di cristiani”. Che importa? Intanto gli studenti tedeschi — quasi tutti luterani — accorrono: sono 200 nel 1533, 250 nel 1587, e crescono ancora a 300 nel 1597. Invano Pio IV papa impone una confessione di fede cattolica per conseguire la laurea: Venezia (fosse puro interesse economico che la spingesse a far ciò, o l’atteggiamento nuovo ardito assunto dietro l’impulso del Sarpi), gira, come si dice, la posizione, ed istituisce la laurea conferita per autorità di Stato. Grande innovazione certo: ma le Università, sedi della Scienza, non vogliono troppo rigida tutela uè di Chiesa, nè di Stato. Ecco infatti lo Studio di Padova, finora rettosi gloriosamente da sè, intristire a poco a poco nel ’600 e nel ’700 sotto la ferrea potenza accentratrice dello stato, tutto raccolto ormai nel bel palazzo del Bo’, che la repubblica gli ha costruito, sottraendolo alla simpatica sua forma primitivamente randagia dall’una casa all’altra presa in affitto”.
  284. Cfr. Manacorda, op. cit., p. 116: „Verso la fine del ’500, il collegio dei medici è interrogato da lontani paesi durante le pestilenze, quello dei legisti dà pareri a re e imperatori, mentre le lontane università chiedono a gara all’ateneo padovano, che mandi loro qualche maestro o lettore”.
  285. Dott. Biagio Brugi, Gli scolari dello Studio di Padova nel ’500, Padova, Drucker, 1905.
  286. Ant. Favaro, Lo studio di Padova e la republica veneta in Alti del Reale Istituto Veneto, Tomo VI (1888), Serie VI, dispensa settima, p. 1067.
  287. „Nous vismes les escoles d’escrime, du bal, de monter à cheval, ou il y avoit plus de 5ant Jantilshomes Francois”. Journal du voyage de Michel de Montaigne en Italie par la Suisse & l’Allemagne en 1580 & 1581. A Rome; Et se trouve à Paris, chez le Jay, libraire. M. DCCC. I.XX1V, I, 101.
  288. Il che non riusciva sempre facile. Si vegga quanto scrive il Montaigne a proposito della sua visita alla Vaticana: „Je la vis [la bibliothèque] sans nulle difficultè; chacun la voit ainsin, & en extrait ce qu’il veut; & est ouverte quasi toùs lès matins, & si fus conduit partout & conviè par un Jantilhiome, d’en user quand je voudrois. M. notre Ambassadur s’en partoit en niesme temps, sans l’avoir veue, & se pleignoit de ce qu’on lui vouloit faire faire la cour au Cardinal Charlet, maistre de cete Librerie pour cela; & n’avoit, disoit-il, james peu avoir le moi’en de voir ce Seneque à la mein, ce qu’il dèsiroit infinimant. La fortune m’y porta, comme je lenois sur ce lesmoingnage la chose pour desesperèe.” E, senza comprender la cortesia speciale fatta a lui, aggiunge una delle sue riflessioni preferite: „Toutes choses sont einsin aisèes à certains biais, & inaccessibles par autres. L’occasion & l’opportunitè ont leur privilieges, & offrent souvant au people ce qu’elles refusent aus Rois. La curiositè souvant s’ampeche elle niesme, come faict aussi la grandeur & la puissance.” Journal du voyage de Michel de Montaigne en Italie, par la Suisse & l’Allemagne en 1580 & 1581, avec des Notes par M. de Querlon, A ROME; Et se trouve à Paris, chez Le Jay, Libraire rue Saint-Jacques, au Grand-Corneille. M. DCCC. LXXIV. Vol. II, pp. 13—14.
  289. Saluti al Bbembo manda anche un Voda rumeno: Mihnea Turcitul in una lettera a sua madre Marioara a Venezia: „Αλω, κυρα Μαργιωα, πρακαλο σε, να βαλης κοπον νπαις στον αφεντη τον Καπελω, μαξη με τον Ρατουλ, και στον Πεμπο, να τους δοσε γραφες μου“. [„D’altro, signora Marioara, ti prego: di fare in modo da recarti dal Signor Cappello insieme con Radu e dal Bembo e dar loro le mie lettere.“] Cfr. Iorga, Studii și documente, București, Socec. 1901, III, pp. LIII-LIV della Prefazione. La letteratura è datata: Giugno 1595, ed è stata trovata dal Iorga a Venezia tra le carte dell’isola di Creta.
  290. [Ann. incl. nat. germ., I, 489—90.]
  291. [British Museum, ms. n. 8600.]
  292. Dott. Biagio Brugi, Gli Scolari dello Studio di Padova nel Cinquecento, seconda ed. con un’appendice su gli Studenti tedeschi e la S. Inquisizione a Padova nella seconda metà del secolo XYI, Padova — Verona, Fratelli Drucker, 1901, pp. 41—68.
  293. Cfr. A. Favaro, Lo studio di Padova e la repubblica veneta in Atti del Reale Istituto Veneto, Tomo VI (1888), Serie VI, dispensa Settima, pp. 1067.
  294. Nè solo per ciò che riguarda lo Studio padovano. Emilio Costa, che, negli Studi e memorie per la Storia dell’Università di Bologna (Vol. I. Parte I. Bologna, 1907), ha narrato le vicende d’una cattedra (La prima cattedra d’umanità nello studio bolognese durante il secolo XVI) in quello Studio, conchiude la sua interessante ricerca con queste precise parole: „Le sorti della cattedra bolognese [d’umanità] seguono le vicende della decadenza profonda sopraggiunta rapidamente nella cultura umanistica italiana: già avvertita da un umanista tedesco [Valente Acidalius] in sullo scorcio del cinquecento ad un antico discepolo [Caselius cioè Chassel] del Vittori e del Sigonio: „Nunc si de Italia me interrogas, libere tibi respondeo: Italiani in media non video Italia. De studiis itidem si quaeris, audacter aio, coli ea rectius et melius in omni Germaniae angulo, quam in his ipsis Musarum adytis, nec video quid proficere magis possim in hoc quam in transalpino aere.” Cfr. Costa, op. cit., pp. 62—63. Acidali, Epistolarum centuria, Hanau, 1606, nonchè l’opera sempre utile del Bursian, Geschichte der class. Philol., V, 261. [Sulle vicende dello Studio di Padova verso il medesimo tempo, cfr. ora l’articolo di A. Favaro, Informazione storica sullo Studio di Padova circa l’anno 1580 in Nuovo Archivio Veneto, XXX, I].
  295. Favaro,op. cit., pp. 1067— 68.
  296. Cfr. Belloni, Il Seicento, Milano, Vallardi, (s. d.) p. 445.
  297. Cfr. Fasti Gymnasii Patavini Iacobi Facciolati studio alque opera collecti, Patavii, Typis Seminarii, MDCCLVII, p. 228: „Graecum collegium institutum est, certisque legibus firmatimi. Monachus enim Gerasimus Paleocapa, Cydoniae in Creta nobili loco natus, exeunte sacculo superiore, Cyganensem Episcopatum Graecis ritibus instituit, et supremis tabulis heredem ex asse scripsit. Cavit autem si forte stare non posset (quod jure metuebat propter controvcrsias inter Graecos et Latinos) ut vendito patrimonio, pecunia Venetias transferretur, et ex ejus tenore pueri XXIV. Graeci generis partim Romae, partim Patavii collocati, Bonis Artibus instruerentur”. Alla morte del Paleocapa, si trovò, che, dalla rendita dei beni, non risultava abbastanza danaro per mantenere ventiquattro scolari ed il numero fu perciò ridotto a dodici, e questi, scelti „judicio triumvirum”, furon mandati al Collegio greco di Roma, finchè il 1633, il Senato, „gravis de caussis, censuit Patavium esse transferendos”. Ciò avvenne sotto il Pro-rettorato del Syndicus loco Rectoris Francesco Zamboni.
  298. Il regolamento infatti suonava chiaro: „Vetita sunt arma omnia, feminanim commercia, alca, et siquid est aliud, quod avertere a studiis juvenes possit, aut eorum disciplinam corrompere. Et quia statim majoribus disciplinis adijcere animum debent, nemo recipitur, quin rite recteque probet se Latinas literas retinere”. Fasti Gymnasii patavini, p. 228.
  299. Noto viaggiatore, che fu presente all’assedio di Creta e descrisse il suo viaggio in un volume apparso il 1668. Cfr. Iorga, Operele mi Constantin Cantacuzino, Bucuresti, Minerva, MCMI, p. XXXV.
  300. Rum. chindie = angelus.
  301. Aveva scritto prima: 4.
  302. Al lazzaretto.
  303. In quarantena.
  304. Padova.
  305. Cioè: dei cattolici — il Duomo, la Cattedrale di S. Antonio.
  306. Antonio Dall’Acqua, pronunciato come i greci ed i rumeni pronunziano il latino quo: acvila, acva ecc. L’effe rappresenta qui il suono dell’U grecomoderno.
  307. Sopra la data ortodossa, in cifre cirilliche, leggiamo la cattolica: 25, in cifre arabe.
  308. Albanio Albanese è l’unico professore del Cantacuzino, del quale ho potuto trovar qualche notizia nel LYCEYM PATAVINVM „| siue | icones et vitae | PROFESSORVM, | PATAVII, MDCLXXXU. PVBLICE DOCENTIVCM | PER. | CAROLVM PATINVM, EQ. D. M..„ | PATAVII, MDLXXXII. Vol.I, 45 sgg. Era nato a Padova, „ex nobili Albanosiorum familia inter Patavinas patricias non infima”, il 1640. Educato dai gesuiti, „in humanioribus literis, brevi sic proficit”, da poter, non ancora undicenne, recitare a Mantova un’orazione, „proprio Marte contetam”, in presenza del Duca „aliisque Magnatibus”. A trent’anni tornò a Padova, dove, dopo cinque anni di studi filosofici, „solemnibus illius scientiae insignibus est redimitus”, e, poco dopo, aggregato al Collegio de. Filosofi. Datosi allo studio della medicina, „ei tanta diligentia incubuit, ut istius faeullatis laurea brevi fuerit etiam insignitus”. Poco dopo, venne chiamato ad insegnar Logica nello Studio „in tertia sede”, la qual cattedra tenne fino all’età di ventotto anni, quando, „unanimi Gymnasii Moderatorum consensu, ad secundam cathedram fuit provectus. Finalmente il 1681 ottenne la cattedra, che ora diremmo di ordinario. Oltre un testo scolastico che passava per e mani degli studenti col nome di Puncta Laureandis interpretanda, pare non abbia scritto altre opere. In compenso, «eleganti doctrina explicandique facilitate”, attirava a sè gran numero di uditori, di maniera che si può dire, che „vix uilus erat philosophiae doctoratum in Patavino collegio postulans, qui eius eruditionem autoritatemque non ambiret et merito certe” — aggiunge il nostro biografo francese — „cum paucissimi tanti Philosophi arte imbuti, optatimi decus non consequantur”. Il volume, dal quale tolgo queste notizie, è proprio quello comperato dal Cantacuzinoa Padova e pagato litre 12, come appare da un Ex Libris Constantini Cantacuzeni che si legge sotto il nome dell’editore: Typis Petri Mariae Frambotti. Superiorum permissu.
  309. Cancellato: dalla medesima fonte, cioè sotto la guida del medesimo Albanio Albanese.
  310. Moneta d’oro molto diffusa in oriente, che equivale al ducato. Qui per galbeni veneziani bisogna intendere: zecchini.
  311. Stil nuovo. Frîne in rumeno non vuol dir propriamente francese, ma latino d’occidente.
  312. Son d’ordinario le donne di mal affare che son chiamate col nome del paese da cui provengono. Dal fatto poi che il Cantaeuzino paga all’Hermann e non alla Signora Virginia si può supporre che fra il tedesco a la romana le relazioni fossero molto... intime.
  313. Fino all’8 maggio si trattenne a Venezia.
  314. „E da Venezia son tornato l’8 maggio; e sono stato nella medesima camera di Herman”. Cfr. Operele lui Constantin Cantacuzino publicate de N. Iorga, București, Minerva, MCMI, p. 10.
  315. Questo volume con altri del Cantacuzino si conserva ora nella Biblioteca dell’Accademia Rumena. Si tratta del Lyceum (non Gymnasium) patavinum, sive icones et vitae Professorum Patavii MDCCXXXII, publice docentes... per Carolum Patinum, Patavii, MDCLXXXII.
  316. Cfr. Revista Teologica, III (1885), p. 335. No. VIII.
  317. Reca l’ex libris: Ἐκ τῶν τοῦ Κωνσταντίνου τοῦ Καντακουζηνοῦ.
  318. Sotto il nome dello stampatore: Typis Petri Mariae Frambolli. Superiorum permissu, si legge infatti chiarissimamente, di mano che ho potuto riscontrare del Cantacuzino medesimo: Ex libris Constantini Cantacuzeni.
  319. Sulla ricca biblioteca di libri latini, greci, slavi, rumeni raccolta nel monastero di Hurezi e ammirata da Giovanni Comneno, risultante di donazioni fatte da Brancovani, dal Cantacuzino ed anche di libri comperati espressamente a Venezia (Bibl. Camuzatii Tricassini) o a Parigi, quali per esempio un Pontificale (Venetiis, 1672), un Synodicon (Oxonii, 1672), i Commentarii di Origene (Oxonii, 1595) e conservati ora nel Museo della Commissione dei Monumenti Storici, cfr. Virgil Drâghiceanu, In amintirea lui Constantin Brâncoveanu (1716— 1916) București, Göbl, 1914, p. 28.
  320. Forse le Vite de’ Prencipi di Vinegia di Pietro Marcello tradotte in volgare da Ludovico Domestichi stampate a Venezia, per Plinio Pietrasanta il M. D. LVII, se pure non si tratti del De Venetis Magistratibus di M. A. Sabellico.
  321. Questo signor Paolo Loredado si è ostinato, malgrado tutte le mie ricerche, a volermi restar del tutto ignoto. Lo abbandono al suo destino.
  322. Tanto l’una che l’altra di codeste Logiche son notissime agli studiosi, sicchè „parole non ci appulero”. Del Cremonini parla a lungo e assai bene il mio dotto collega P. P. Negulescu nel primo volume delle sua Filosofia Renașterei (București, Göbl, 1910, I, 134 sgg.), opera meditata e forte ch’è un peccato resti inaccessibile agli studiosi italiani essendo scritta in rumeno. Sullo Zabarella è apparso recentemente (Cfr. in Nuovo Archivio Veneto N. S, XXX, 494— 96 la buona recensione di Roberto Cessi) una monografia di Gasparo Zonta, Francesco Zabarella (1360 — 1417), Padova, Tip. del Seminario, 1915, che non ho potuto consultare.
  323. [„Per la distrazione dell’udito”] o „di letteratura amena” come oggi diremmo. Cfr. la lettera del Cantacuzino pubblicata da C. Erbiceanu in Biserica Ortodoxă Româna, XV (1891), p. 790— 91, e altrove da noi ricordata a proposito dei calendari italiani e de’ foglietti novelli.
  324. Del Chiaro, op. cit., p. 156.
  325. Del Chiaro, op. cit., pp. 163— 4: „Tenne più che mai corrispondenza di Lettere con varj Potentati, al qual effetto manteneva con buono stipendio diversi Segretari per la Lingua Italiana, Latina, Tedesca e Pollacca (oltre alla Greca e alla Turchesca). Di tutte queste corrispondenze non solo ne faceva partecipe il Conte Costantino Cantacuzeno suo Zio; ma lasciavano, a lui la total cura, direzione circa le risposte, ed altro, secondo la importanza de’ negoz]; perlochè tutti i Segretari suddetti avevan ordine dal Principe di far capo dal medesimo”.
  326. Del Chiaro, op. cit., p. 198: „Soleva almeno una volta la settimana andar a trovare lo Stolnic Costantino suo Padre, con cui trattenevasi lungo tempo in segrete conferenze, che alle volte duravano fin quasi la mezza notte”.
  327. Del Chiaro, op. cit., p. 198: „Proibì (spezialmente a noi altri forestieri) sotto rigorosissime pene lo scrivere a’ nostri Amici solto qualunque pretesto. Non si potevano aver foglietti stampati per saper le cose del Mondo; e quel ch’è più curioso nemmeno era permesso il far venire da Venezia un Lunario: istigazione maligna di un cervello torbido, e perverso, il quale spacciavasi per uomo Politico; ma tutta la sua Politica non aveva poi altro scopo, se non un sordido gua dagno, col tradur le gazzette dalla Italiana lingua nella Greca; frammischiandovi a suo capriccio tutte quelle, benchè false, particolarità, clic credeva potessero incontrar il genio di chi leggeva le sue imposture.” Leggendo queste parole, mi è sembrato impossibile che il cervello torbido e perverso cui allude il Del Chiaro, potesse identificarsi collo Stolnic Cantacuzino, il quale nè traduceva lui dall’italiano in greco i „foglietti”, (Cfr. una lettera del Cantacuzino al patriarca di Gerusalemme pubblicata dall’Erbiceanu in Biserica ortodoxă română, XV (1891), pp. 790— -92) nè è presumibile potesse farlo a scopo di sordido guadagno. Ho quindi pensato che si trattasse di quel tal Nobile innominato, di cui il Del Chiaro tocca a p. 196 della sua opera, insistendo sulla cattiva impressione prodotta sui boieri dalla sua nomina ad agente del Principe presso la Porta, appartenendo egli „ad una di quelle famiglie che hanno tramandato no’ discendenti loro la malignità contro di qualunque Principe, la discordia e la incostanza”, ma questo tale, appunto perchè nominato agente del Principe a Costantinopoli, doveva esser lontano da Bucarest e dalla Corte, sicchè si potrebbe pensare ad uno dei colleghi del nostro Del Chiaro, i diabolici intrighi del quale contribuirono più tardi alla rovina del Cantacuzino stesso. Intercettate infatti alcune lettere a lui dirette „dal General Comandante di Transilvania; e perchè esse lettere non contenevano veramente cosa veruna che avesse potuto arrecar pregiudizio al suddetto Principe Stefano dalla parte de’ Turchi, s’impiegò l’opera di una cerici persona, che nel tradurre, aggiunse tali e tante circostanze, che il Gran Visir, in leggendole, mandò subito espresso comando al Caimacam di Costantinopoli, che facesse strangolare il Principe e il di lui Padre.” Del Chiaro, op. cit., p. 205.
  328. N. Iorga, Manuscripte din Biblioteci străine relative la Istoria Roâànilor în Analele Academiei Române (Sect. ist.), XXI, 62.
  329. Nei Cronicarii greci editi da C. Erbiceanu, Bucuresci, 1888, p 173. Per altre notizie biografiche si vegga: N Iorga, Ist. lit. rom. in sec. al XVIII lea, I, 157 sgg. Nella Genealogia Cantacuzinilor, scritta nel secolo XVIII da un membro della famiglia e pubblicata in Buciumul român, I, 523, si leggono le seguenti non inutili notizie: „Numitul Stolnic Constantin Cantacuzino, din copilăria sa a fost dat cu totui asupra Invàtàturii: la limba elineasea era un mare filosof. După ce a venit in vrîsta, s’a dus in Europa iară pentru invățătură; la Roma [?]a-invătat limba latinească, in care limbă era desăvârsit spudeu; el pentru prartică a petrecut câțiva ani in Viena, in Veneția, in Varșovia și pe la altre Crăie ale Europei... Viața si vremea sa o petrecea punire cu dascaii, cu spudeii și cu bărbații procopsiți.”
  330. N. Iorga, op. cit., loc. cit.
  331. Cfr. Iorga, op. cit., 62.
  332. Il Conte Luigi Ferdinando Marsigli, nato a Bologna il 1658, morto nella medesima città il 1730, è un personaggio ben conosciuto non solo per i suoi meriti scientifici (fu, a non parlar de’ suoi studi sulla generazione dei funghi, sul coral’o, sulle anguille, il fondatore del celebre Istituto di Scienze Naturali di Bologna), ma anche per la sua vita avventurosa e per la parte che prese ad avvenimenti storici di grande importanza, come p. es. la guerra di successione di Spagna. Studente in matematica e in Scienze Naturali, allievo del Borelli e del Malpighi, viaggiatore in oriente, semplice soldato che fa stupire i suoi superiori colle sue idee ardite sulle fortificazioni, poi capitano nell’esercito di S. M. reale e imperiale Leopoldo I nella guerra contro i Turchi, schiavo di due mussulmani che la sera l’incatenavano, perchè non fuggisse, a un piolo nel mezzo della loro misera capanna, dove poco mancò non morisse di fame; colonnello, poi generale comandante in seconda la piazza fort. di Brisach, che, priva di munizioni, dovè, nella guerra di successione di Spagna, arrendersi al duca di Borgogna che l’assediava; condannato per questa capitolazione che non andò a genio all’Imperatore, ad esser degradato ed aver pubblicamente infranta la spada; riconosciuto innocente da chiunque abbia letta la sua vigorosa Apologia; di nuovo viaggiatore, e benefattore a Marsiglia d’uno di quei turchi che la sera lo legavano al piolo, ch’egli ritrovò galeotto nel porto e fece liberare; matematico, ingegnere, stratego, naturalista, fisico, geografo, storico, archeologo (una sua Lettera intorno al ponte fatto sul Danubio sotto l’imperio di Trajano si può leggere ed ammirare nel Tomo XXII del Giornale di Venezia), medico, oceanografo, membro dell’Academie des Sciences di Parigi, della Royal Society di Londra; — il Conte Luigi Ferdinando Marsigli, bolognese, è uno di quegli avventurieri italiani del Settecento, per i quali vorremmo che il vocabolo conservasse il significato che gli si dava dai contemporanei, dal Metastasio p. es. che in una lettera dice d’aver „piene le stanze di nobili avventurieri”, non quello che ha preso per noi d’imbroglione e cavaliere d’industria: sonasse insomma lode, non infamia. E lode ebbe il Marsigli da molti, italiani e stranieri, tra i quali ultimi dal Iorga in ispecial modo, che, nella memoria citata, parla a lungo, mettendo a profitto, con quella rara informazione ch’egli ha delle cose nostre, le fonti italiane trascurate dagli altri biografi e insistendo sulle relazioni ch’egli ebbe coi Principati rumeni, nei quali fu mandato più volte in missioni diplomatiche dall’Imperatore. A lumeggiar meglio colle parole d’uno straniero questa luminosa figura d’italiano, che parve in pieno secolo XVIII far rivivere la versatilità miracolosa degli uomini del rinascimento, mi piace conchiuder questa nota sul dotto bolognese con le parole scritte in suo onore dal Fonteneixe negli Eloges des Academiciens (Vedi Hist. de l’Ac. des Sciences, Vol. II sotto Marsigli), che mi sembran riassumere quanto di più comprensivo possa dirsi in onore del Marsigli: „Au milieu des pèrils de la guerre, Marsigli fìt toul ce qu’aurait pu faire un savant qui aurait voyagè tranquillement pour acquèrir des connaissances. Les armes à la main, il levait des plans, dèterminait des positions pai- les mèthodes astronomiques, mèsurait la vitesse des rivières, ètudiait les fossiles de chaque pays, les mines, les mètaux, les’oiseaux, les poissons, tout ce qui pouvait mèriter les regards d’un homme qui sait où il les porter. Il allait jusqu’à faire dès èpreuves chimiques et des anatomies”. Altre sue opere sono: Osservazioni intorno al Bosforo Tracio, ovvero Canale di Costantinopoli, Roma, 1681; Breve ristretto del saggio fisico del mare, Venezia, 1711, tradotto il 1725 dal Ledere in francese col titolo: Histoire physique de la mer, Amsterdam, 1725; Stato militare dell’Impero Ottomano, suoi progressi e sua decadenza, Amsterdam, 1732. Il titolo dell’opera che maggiormente c’interessa, e cui si riferiscono le notizie del Cantacuzino è: Danubius pannonico-moesicus, observationibus geographicis, astronomicis, etc., illustratus... ab Aloysio Ferd. Com. Marsili, Hamstelodami, M.D.CC.XXVI.
  333. Cfr. Iorga, op. cit., p. 63.
  334. Allude al passaggio delle truppe turco-tartare, che traversarono il Danubio a Vidin per recarsi a Belgrado, le spese delle quali la Valacchia dovè sostenere.
  335. il del chiaro (op. cit. p. 197) accenna a una gran simpatia di Stefano Cantacuzino (Ștefan-Vodă) per i padri Francescani; certo è che, da quando apparre sull'orrizonte politico della Valachia la figura dello stolnic Cantacuzino, i cattolici furono non solo tollerati, ma trattati con ogni gentilezza, forse a causa della loro dottrina, per cui non si esitava a tradurre in greco e in rumeno, adattandole al culto ortodosso, persino opere di gesuiti quali p. es quelle del Segneri. Tra il 1680 poi e il 1690, si ebbero persino traduzioni da S. Tommaso e S. Agostino, sulle quali cfr. Litzica, Catalogul Manuscriptelor Grecești[posedute de Biblioteca Academiei Române], București, Göbi, 1909, N-i. 353, 354, 598, 602. Nel medesimo torno di tempo (1687), fu eseguita una traduzione greca delle Vitae Pontificum del Platina, παρὰ Ἱερεμίου Κακαβέλλα per comando (διὰ προσταγῆς) di Constantino Brâncoveanu, il Principe italianizzante, di cui tanto spesso ci è occorso parlare in queste pagine, ed alla corte del quale il nostro stolnic rappresentò una parte tanto notevole. Cfr. Litzica, op. cit., p.3 No. 1 (313).
  336. Anche l’autore della traduzione in greco moderno dal trattato dell’Aquinate sull’Esistenza della materia contenuto nel ms. 353, crede doversi scusare dell’aver tradotto l’opera d’un cattolico, col dire, che, mentre „τῷ γένει καὶ τῇ δόξῃ ... καὶ τοῖς οἷς καὶ ἡ ῥωμαϊκὴ ἑκκλησία διαφέρεται”, S. Tommaso si allontana dalla dottrina ortodossa, „τὰ δὲ ἄλλα σοφὸς καὶ τοῖς ἀναγιγνώσκουσι πάνυ ὀφέλιμός ἐστιν”; sicchè dei molti trattati che scrisse parecchi ne ha tradotti egli stesso, (πολλὰ βιβλία συνεγράφατο, ᾧν καὶ ἡμεῖς πολλὰ μετεγλωττίσαμεν.)
  337. „Ma” — aggiunge — „vorrei si leggesse e il Bonfinio”, cioè la Historia Pannonica, sive Hungaricarum rerum decades IV di Antonio Bonfinio pubblicata Coloniae Agrippinae il 1690 e ripubblicata a Lipsia e a Vienna rispettivamente il 1771 e 1774.
  338. Son parole del Marsigli, che dice di averlo veduto e d’avervi anzi pescata la notizia che la Moldavia „era una provincia spopolata, e, veduta dagli abitanti del Marmaros (qui il Cantacuzino sottilinea la parola errata) in congiuntura d’andare a caccia di buoi salvatici, si venne da loro all’abitatione di essa terra”. Che codesto manoscritto si possa identificare con una delle fonti della
  339. Operele lui Constantin Cantacuzino publicate de N. Iorga, București, Minerva, MCMI, p 50.
  340. Del Chiaro, op. cit., Introduzione, p. 3 della num razione per fogli a piedi di pagina.
  341. Coi nomi però scrini in caratteri intuii, mentre quella del Cantacuzino li aveva segnati in caratteri greci.
  342. Del Chiaro, op. cit., loc cit.
  343. Se a qualcuno uesta verità sembrasse un po’ troppo ovvia per essere affermata con lauto sussiego, non ci ho che fare. La ritenga pure un’ammenda onorevole al paradosso di poco fa. E del resto accade sempre cosi. Quando ci si abitua al paradosso, si finisce col trovar nuove le verità di M. de La Patisse.
  344. A nulla son valse le ricerche del Iorga (Manuscripte din Bibl. străine in An. Ac. Române, Secț. Ist., XXI, p. 88, nota 1) a Padova e a Venezia. Tuttavia qualcuno potrebbe essere più fortunato. Sarebbe bene pertant o che gli studiosi italiani se n’occupassero, soprattutto a Padova, dove la cattedra di geografia è tenuta da Un insegnante giovane, dotto e attivo e che si occupa per di più di cartografia. Si tratta in fin dei conti di una carta stampata nel 1700, non nei tempi preistorici!
  345. Cito qui le più recenti pubblicazioni intorno a Costantino Bràncoveanu e il suo regno, comparse in occasione del bicentenario (15 agosto 1714—15 agosto 1914) della tragica morte di questo principe, cui tanto deve la cultura rumena:N. Iorga, Constantin-Vodă Brâncoveanu. Viața și domnia lui, Vălenii-de-Munte, 1914, magnifico volume con più di 130 illustrazioni utilissime per lo studio delle influenze che il barocco italiano ha potuto esercitare sull’arte decorativa rumena di quel tempo; N. Iorga, Valoarea politică a lui Constantin Brâncoveanu (Conferenza tenuta all’Ateneo Rumeno di Bucarest il 15 agosto 1914), Vălenii-de-Munte, 1914, importante per i raffronti col momento politico attuale, e per la conclusione, in cui si attribuisce a merito al Brâncoveanu l’aver compreso, che, „mentre i legami politici esistono oggi e domani posson cadere infranti, e i successi facilmente ottenuti con un colpo di fortuna, colla medesima facilità si perdono per un colpo contrario; tutto quanto si conquista per mezzo di una cultura profondamente radicata negli spiriti, fa parte dell’eredità immortale d’un popolo.” Ma più di tutto c’interessa una memoria del medesimo infatigabile Iorga, Activitatea culturală a lui Constantin-Vodă Brâncoveanu letta all’Accademia Rumena il 12 Settembre 1914 e inserita nel vol. XXXVII degli Atti (Sez. Storica) pp. 161 sgg., ch’è una sintesi pregevolissima delle sue ricerche anteriori.
  346. Cfr. A. I. Odobescu, Foletul novel și Kalendarele lui Constantin-Vodă Brâncoveanul in Revista Română, I, pp. 657—660 e N. Iorga, Studii și documente, vol. V, pp. 126—7 e 311, nota 1. Dal medesimo Iorga sappiamo (Activitatea culturală a lui Constantin-Vodă Brâncoveanu in An. Ac. Române, Secț. ist., XXXVII, pp. 173—174 che „din nenorooire s’a pierdut Foletul Novel, calendarul italian, tradus în româneste si plin de note istorice autografe, pe care Grigore Brâncoveanu il împrumutase lui Odobescu pentru ca aceste note să apară in volumul I din Revista Română.” Il Iorga (op. cit., loc. cit.) afferma che ne son rimaste solo due pagine, ma lo confonde con altro calendario, essendo il Foiletul Novel del 1693, mentre le pagine in questione contengono nel verso un giornale, del Brâncoveanu del 1688. Il calendario di cui facevan parte non può esser quindi posteriore a questa data.
  347. Una quarantina di Avvisi romani intorno alle imprese di Michele il Bravo possiede (A. 7908) la Bibblioleca dell’Accademia Rumena. Sono divenuti rarissimi e perciò molto ricercati dai bibliofili di tutto il mondo. „Pochi anni fa
  348. Del Chiaro, op. cit., pp. 163—164: „Esatto e diligente in tutte le cose sue, non sol domestiche, ma straniere, tenne pili che mai corrispondenza di Lettere con varj Potentati, al qual effetto manteneva con buono stipendio diversi Segretarii per la Lingua Italiana, Latina, Tedesca, e Pollacca (oltre alla Greca e alla Turchesca). Di tutte queste corrispondenze non solo ne faceva partecipe il Conte Costantino Cantacuzeno suo Zio; ma lasciavano a lui la total cura e direzione circa le risposte, ed altro, secondo la importanza de’ negozi, perlochè tutti i Segretari suddetti avean ordine dal Principe di far capo col medesimo”.
  349. Cfr. C(onslantin) K(rbiceanu), Materiale pentru complectarea Istoriei Bisericești și Nationale. Documente istorice inedite in Biserica orlodoxă Română, XV (1891), 790. La lettera del Cantacuzino è pubblicata a pp. 790—91.
  350. Distretto di: Vâlcea.
  351. [Dupre calindarele Frăncești] e [dupre limba F[r]ăncească].
  352. Per „lingua francesca” annota l’Odobescu, (ed è d’altronde cosa notissima) il nostro autore vuol qui intender l’italiano, che ancor oggi, nei porti orientali del Mediterraneo, vien designato col nome di „lingua franca”.
  353. a le?
  354. Queste parole farebbe pensare che l’autore della traduzione sapesse più di francese che d’italiano e di rumeno. Probabilmente però ha cercato rendere con questo francesismo quel colore cabalistico che la troppo comune e semplice e volgare parola rumena: împreunare non poteva offrirgli.
  355. Italianismul per Ianuarte.
  356. Similmente.
  357. ṭȃrilor?
  358. Costantinopoli.
  359. Tutti sanno in che razza di lingua, di stile e di sintassi sono scritti tali almanacchi. S’aggiunga, come par verisimile, la poca conoscenza d’italiano che doveva avere il compilatore e si potrà immaginare che pasticcio ne sia venuto fuori. Ad ogni modo facciamo un tentativo di traduzione, più in grazia delle glosse del Brȃncoveanu che perchè il testo ne valga la pena:


    SCRUTINIO DELE STELLE.

    dice.

    Sono secondo i calcoli desunti dalle Figure celesti, ed altre cose molte e dalla gran congiunzione ovvero unione delle due grandi (costellazioni) avvenuta l’anno passato ai 20 di Maggio, e da quella (congiunzione) che si verificherà ai 15 di Gennaio, alle ore 23 e minuti 20 di Cronos e Marte. E similmente (la congiunzione che avverrà) ai 27 dello stesso mese, ore 7 e minuti 48, di Zeus e Marte, insieme con l’ecclissi che si verificherà, annunziano accrescimento di mali al Turco ed ai Paesi vicini a Costantinopoli, secondo che anche l’anno scorso ho predetto. Al presente annunzia una tragedia. Alla prima figura del Principe di Macedonia Questo vuol dire il re di Spagna.(Alessandro Magno) rassomiglia chi fa politica di discordia. Rassomiglia alla seconda figura: Nectanabo che si vede con un pugno di uomini, colui che dalla felicità cadrà in miseria e sarà Per questi s’intende l’Imperatore Tedesco. deposto dal trono. Il terzo poi somiglia a Ciro che con una gran quantità d’armati si sforza di consolidare quanto ha acquistato.

  360. Italianismo per: Prinț.
  361. Italianismo per Vânător.
  362. Altro chiarissimo italianismo per: „Schimbă fața”. Cfr. l’italiano: ,,Muta la faccia”.
  363. Cfr. quanto ne abbiamo toccato a p. 157 di questo nostro studio.
  364. Neppure un’annotazione p. es. si legge accanto al pronostico del Foglietto Novello intorno ai mali che si annunziano al Turco ed ai paesi vicini a Costantinopoli ! Eppure doveva ben esser quello il pronostico più importante agli occhi del Brâncoveanu!
  365. La traduzione del Fiore di filosofi e di molti savi pubblicata a Târgoviste il 1713.
  366. Si tratta del noto umanista Guarino Favorino, allievo del Poliziano e del Lascaris e poi vescovo di Novara. Nacque a Favora nell’Umbria il 1450, mori a Nocera il 1537. L’opera sua massima, in cui Guarino Favolino (o Camerte= da Camerino) coordinò e fuse i lessici di Suida, Esichio, Arpocrate, Eustazio e Frinico ed alla quale lo stesso Enrico Stefano attinse più volte senza farne menzione, è il Magnum Dictionarium, sive Thesaurus universae linguae Graecae, ex multis variisque autoribus collectus, pubblicato la prima volta a Roma il 1523. e ristampato poi a Basilea (1538) e a Venezia per opera del Brâncoveanu. Cfr. Jacobilli, Cronologia de’ vescovi di Nocera, la Biblioteca degli scrittori dell’Umbria e i Mèmoires del Niceron pour servir à l’histoire des hommes illustres, vol. XXII.
  367. Venetiis, 1726, II, 193: „Ex co tamen vir hic [Varinus Favorinus] celeberrimus posteritati vivit, ac vivet venerabilis semper, quod Lexicon ingens ediderit, linguae graecae amplissimum et opulentissimi,m promptuarium, non latinis dumtaxat, sed etiam Graecis, atquc bis maxime usu perpetuo commendatimi. Illud nuperrime, iussu sumptuquc bonae sed et infelicis memoriae Ioannis Constantini Basababae Daciae Tkanstlvanae Principis, recusum est lypis Venetis Barlolianis.”
  368. Cfr. su di esse lo studio di Constantin Moisil, Medaliile lui Constantin - Vodă Brâncoveanu in Bulelinul societății numismalice române, XI, (1914) pp.9— 18.
  369. Cfr. Del Chiaro, op. cit., pp. 175— 176: „Diverse sono le opinioni circa il motivo, per cui il Principe Brancovani fece stampare queste medaglie d’oro: la più comune però è questa. Ne] solenne giorno del]’ Assunzion della Vergine (che, secondo il Calendario Latino è il 26 Agosto) del 1714, entrando egli nell’anno sessantesimo della sua età, e nel ventesimosesto del Principato, avea risposto di fare, un sontuosissimo Banchetto a tutto il fiore della Nobiltà, nel fine del quale volea dispensare ad ognuno de’ Commensali, rispettivamente secondo il grado loro, alcune delle suddette Medaglie: ma o Dio! In quel giorno medesimo con metamorfosi non più udita, vidde cadèrsi a’ piedi le teste de’ quattro suoi Figliuoli, e poi cadde la sua a’ piedi de] Manigoldo”. I suoi nemici ad ogni modo interpretarono la cosa diversamente, e, tra gli altri capi d’accusa che spedirono contro di lui alla Porta, ci fu anche quello di aver battuto moneta come principe independente. Il decimo infatti di di questi capi d’accusa afferma; „che aveva fatto batter nella Transilvania molte monete di oro in forma di Medaglie, del valore di due fino a dieci Ungheri l’una, delle quali monete se ne mandava una in Costantinopoli, acciò il Gran Signore fusse sincerato della verità del fatto. Quanto poi alle altre monete, sariensi ritrovate nel Tesoro privato del Principe, dopo la sua Deposizione, insieme con molte gioie d’inestimabil valore”. Cfr. Del Ciaro op. cit., pp. 174— 175.
  370. Rec. allo studio citato del Moisil in Bulletin de l’Institut pour l’ètude de l’Europe, sud-orientale, I, fase. 9 (Sept. 1914) p. 212: „Nous croyons que Brâncoveanu, conseillè par le „Stolnic” Constantin Cantacuzène, ancien elève de l’Universitè de Padoue, adopta l’usage venitien des „oselle”, médailles remplaçant les anciens cadeaux de venaison, que le Doge distribuait à la Nouvelle An à ses conseillers et aux autres magistrats de la rèpublique. La variètè des types, aussi bien que le fait que ces médailles ne correspondent à aucune unité monetaire, en serait la preuve.”
  371. Cfr. Aldo Jesurum, Cronistoria delle „oselle” di Venezia, Venezia, 1912.
  372. Emile Picot, Notice biographique et bibliographique sur l’imprimeur Antim d’Ivir, Mètropolitain de Valachie in Nouveaux Mélanges Orienteaux (Memoires et textes publiés par les Professeurs de l’École Speciale des Langues Orientales vivantes à l’occasion du septième Congrès International des Orientalistes réuni à Vienne) Paris, Imprimerie Nationale, M.DCCC.LXXXVI, p. 554, nota al No. 44: Γνωμικὰ παλαιῶν τινων φιλοσόφων. La nota si riferisce anche al No. 45: Pilde filosofești de pe limba grecească tălmăcite pe românește ș. c. l., ch’egli caratterizza così: „Recueil de sentences extraites des philosophes grecs par un auteur français, et traduit du français en italien par Del Chiaro, de l’italien en grec, puis du grec en roumain. Iarcu [Bibliografia chronologică Română, București, 1873] assigne à ce volume la date de 1713, date que l’èdition roumaine rend tres vraisemblable. M. Gaster qui a consacré une notice à cet ouvrage (Literatura populară română, p. 204) n’a pu en découvrir un seul exemplaire complet. En tout cas, l’existence de l’èdition de Târgoviște est attesté par le litre même de la réimpression donnée à Venise par Panaiotis Lampanitziotis en 1780, in-12.”
  373. La Fleur de vertu, auquel est traicte de l’effet de plusieurs vertus et vices contraires a icelles, en induysant a propos les dietz et les sentences des sainctz docleurs et philosophes, traduyete de vulgaire italien en languaige françoys. Imprimé à Paris. On le vend en boutique de Galiol du Pré 1530. Cfr. Brunet, Manuel du libraire, II, p. 1286.
  374. Libro llamado Flor de Virtudes... en Burgos por Fadrique Aleman, 1516. Cfr. Brunet, op. cit., II, 1264. Di una ignota traduzione spagnuola del „Fiore di Virtù” posseduta dalla R. Biblioteca Universitaria di Torino si è occupato Rodolfo Renier in Zeitschrift für romanische Philologie, XVIII, 305 sgg.
  375. Il Brunet, op. cit., II, p. 1264 ne registra due edizioni: una di Roma del 1740 (De Rossi), l’altra di Padova del 1751 (Comino).
  376. Floarea Darurilor | Carte foarte frumoasă și de folosu | fiește căruia creștinu, carele să | vrea să se împodobească pre sine | cu bunătăți. | De pre grecie scoase pre Rumănie. | In zâele prea luminatului Domn Ioann | Constandinu Băsarabă Voevod. | Cu blagoslovenia prea sfințitului Mi | Iropolitului Kyru Theodosie. | Cu îndemnarea și cu cheltuiala dumnealui | Conslandinu Păh Sarachinu. snă Gheorghie dohlorulu Critcanula. | Și s-au typărit în shânta [cioè: sfînta] mânăstire în | Sneagovu. | Vă leato, 7209 Mëță i-u.| De smeritul Ieromonah Anthim Ivireanul. Cfr. I. Blanu și Nerva Hodoș, Bibliografia românească veche.
  377. Poco dopo (1765) fu tradotto a Roma in armeno, e, di nuovo, nello stesso anno, in francese. Cfr. Brunet, op. cit, II, 1264.
  378. Sulle fonti e la fortuna del Fiore di Virtù si consulti l’ottimo studio di G. Frati, Ricerche sul „Fiore di Virtù” in Studi di Filologia Romanza, VI (1893), pp. 281 e sgg. „Dei racconti del „Fiore”’ si piaceva ancora in pieno rinascimento... Leonardo da Vinci, il quale non si peritava di trascriverne parecchi brani ne’ suoi zibaldoni”. Quanto alla gente di comune levatura è noto come „.prima del Rinascimento e dopo, prendesse vivo interesse a quel libro, tanto è vero che se ne smalli un numero prodigioso di edizioni dagli incunaboli della stampa ai giorni nostri.” Renier, op. cit., p. 305.
  379. Per ciò che riguarda la traduzione armena è cosa certa, come apparò dal titolo di essa riportato dal Prati, op. cit., p. 230: „FLOS | vibtvtvm | (occhio in armeno e latino), Romae, Typis Sacrcie Congr. de Pro-| pagando Fide MDCCLXV.
  380. Cfr. le belle pagine del Iorga, Activitatea culturală a lui Constantin Vodă Brâncoveanu in An. Ac. Rom., XXXVII, 165—167.