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stesso ha cura di avvertire nella Prefazione, vien presentato „al Pubblico curioso, dopo un periodo di trentacinque anni”1

Alcune parole greche sulla vera e falsa amicizia, stampate a grossi caratteri sulla pagina che precede il frontespizio, potrebbero sembrarci di colore oscuro, se, messe accanto ad altre della Prefazione, non acquistassero subito un significato chiarissimo, che ci dà la chiave dell’enigma.

Le parole greche dicono così:Πολλοὶ δοκοῦντες εἶναι φίλοι, οὔκ εἰσιν, καὶ οὐ δοκοῦντες εἰσί. σοφοῦ οὖν ἐστί γινώσκειν ἕκαστον. Φεύγειν δὲ τὴν φιλίαν, ὧν τινων ἀμφίβολος ἡ διάθεσις. Chi era il falso amico di cui si lagnava il Sestini? Sappiamo già ch’egli non ebbe troppo a lodarsi del trattamento fattogli in Valachia; vediamo ora se ci riesce di saper qualcosa di più preciso intorno a questo punto non chiaro. La prefazione comincia col rilevare, che, se gli aforismi d’Ippocrate hanno sempre meritamente goduto di gran fama fra i medici, lo stesso dovrebbe essere di certi giudizii che gli scrittori antichi ci han tramandato sul carattere di alcuni popoli, come per es. il cretenses autem iniquissimi di Ci-

  1. Abbiamo già parlato della poca simpatia del Sestini per la Crusca. Riportiamo qui un sunto per sommi capi della sua lunga digressione (op. cit., p. X— XVIII), in cui trova modo di far le lodi dell’Accademia Fiorentina e di quella soprattutto degli Apatisti; del giuoco del Sibillone, per cui quest’ultima era... „famigerata”; di scagliarsi contro Napoleone (=„un uomo singolare, la cui mente era piena di stravaganti-grandiose idee”), che aveva ristabilita l’odiata Accademia della Crusca „collo scopo per avventura di accaparrare piuttosto degli encomiatori, affine di celebrare, eternare, perpetuare le di lui chimeriche imprese”, e, nell’istesso tempo „di far imbastardir la nostra lingua con termini gallici”; di parlarci della „lingua filosofica”, inventata dai patrioti tedeschi, per convincere Federigo il Grande, che la lingua tedesca era non meno della francese „suscettibile, o capace di ogni stile”; di farci le lodi di Mendelsolm, di Kant, di Klopstock, di Schiller, e soprattutto di Gellert, l’Ovidio della Germania, come lo chiama lui, a proposito del quale narra l’aneddoto di un inglese, che, partitosi della sua patria per andarlo a conoscere e rendergli tributo d’onore, avendo saputo ch’era morto pochi giorni prima ed era stato seppellito nel cimitero comune, seminò „fiori preziosi sopra quel tumulo”, li coltivò e solo allora partì alla volta dell’Inghilterra, quando „la stagione rese infruttuoso il proseguimento di sì nobili cure”; di esporre infine la sua profonda teoria della lingua, per cui „la maniera di ben parlare, di ben pronunziare, e di astenersi nella familiare narrativa dai ripetuti dice, dice: e la cosa e il coso” si dove apprendere nella „buona società” e quella di scriver bene nella „lettura e nella profonda applicazione degli autori classici tanto greci che latini, per mezzo dei quali si viene ad arricchire le lingue, sottoposte sempre a variare col declinare d’ogni secolo.”