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tino, del quale ci son rimasti certi appunti di viaggio.1Accompagnato da Pana Pepano, nipote di Dona, se n’andò egli a Padova a perfezionarsi negli studii, e, per via si fermò (1667) qualche giorno a Venezia, dove visitò tutto quanto meritasse la pena di esser veduto e prese appunti su quel suo taccuino che abbiamo testé mentovato. Vide allora il famoso Palazzo dei Dogi ( „la casa dove risiede il Principe cogli alici grandi”), i quadri nei quali il Veronese immortalò la gloria di Venezia e lesse anche l’iscrizione che corre sotto il gran quadro allegorico che simboleggia lo sterminato dominio della Sposa dell’Adriatico sui mari. Annotava infatti nel suo taccuino: „Scritto leggesi sul soffitto della casa, come entri per la porta, questo motto: Robur imperii...”

Certo che, non senza esercitare una certa influenza sulla cultura de’ loro connazionali, ritornavano in patria dagli studii di Padova, uomini come questi, amanti delle lettere e delle arti e cogli occhi pieni delle bellezze vedute colà!

Ma oltre agli italiani e agl’italianizzati che danno un nuovo impulso ad ogni forma di arte (non esclusa quella bizantina, come si vede nei palazzi del Cremlino in cui, malgrado gl’interni siano bizantini, le facciate rifulgono degli splendori armonici del Rinascimento)2; i Serbi e i Dalmati rappresentano degli intermediarii non trascurabili tra il gran focolare artistico italiano ed il resto del mondo.

Attraverso Ragusa infatti, il genio slavo era in costante contatto colla cultura italiana ed è perciò che l’arte serba è un misto di rigidità bizantina e di raffinatezza occidentale3. Orbene i Serbi non potendo più lavorare a casa loro, dove s’erano istallati i Turchi da padroni, lavoravan per conto d’altri. Un certo Stalacić, architetto ed un tal Giovanni Dalmata, decoratore, lavorarono infatti in Ungheria per conto di Mattia Cor-

    paterna, alle tavole dipinte su fondi d’oro delle piccole chiese rumene ed alle immagini trasparenti sul fondo illuminato della stella delle colinde natalizie; gli si erano ormai talmente infitte nell’animo, che un quadro di chiesa, che fosse privo della grazia ieratica di quelle linee rigide, ma espressive, gli sarebbe sembrato quasi una profanazione.

  1. N. Iorga, op., cit., loc., cit.
  2. [Cfr. Beylié, op. cit.]
  3. [F. Kanitz, „Serbiens byzuntinische Monumente”, Wien, 1862, p. 18.]