Diario sentimentale della guerra/Dal luglio 1914 al maggio 1915

Dal luglio 1914 al maggio 1915

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Avvertimento Dal maggio 1915 al novembre 1918
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DAL LUGLIO 1914

AL MAGGIO 1915

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Milano, luglio 1914

Fu il 30 giugno, giorno degli esami al Politecnico. Uno studente trentino giunse in ritardo. Aveva quasi le lagrime agli occhi per la commozione. La sera precedente — mi pare — era scoppiata la notizia della tragedia di Serajevo: l’arciduca Francèsco Ferdinando da Este, l’erede al trono d’Austria, era stato assassinato1.

— Giustiziato!

— Come crede lei, caro giovane — risposi, — ma i frutti della violenza non mi piacciono.

— La storia procede per atti di violenza!

— Lo so; ed appunto per questo non è un’allegra storia. E quella povera arciduchessa? [p. 14 modifica]

— Una reazionaria fanatica, peggio di suo marito.

— E quei poveri figliuoli che non vedranno più i loro genitori?

— Questioni di dettaglio di cui non si può tener conto.

***

Stetti un po’ in silenzio. Eravamo appoggiati al davanzale della grande finestra: il mattino estivo traeva dalla folta verzura dei giardini pubblici una purità grande e solenne. I giardini erano pieni di bimbi in festa.

***

— Be’ — dissi infine — , vada per la sua gioia! Un gran nemico — nemico aperto, conviene dirlo — d’Italia è scomparso; ma lei che cosa spera che venga fuori da tutta questa faccenda?

— Una guerra immensa.....

— Eh?

— Per forza! L’Austria-Ungheria, con gli Slavi che, ora, le scappano da tutte le parti, è messa in una condizione disperata. Cercherà di venirne fuori con una guerra....

— Vada, vada, — esclamai — scelga un posto [p. 15 modifica]e faccia un poco di còmpito. — E non volli sentire altro.

Una guerra? La guerra? Un’immensa guerra? Ma si potevano dire più bestialità in poche parole? E da un giovane che fa studi positivi!

Mi ricordo che proprio lì, al Politecnico, uno dei più autorevoli professori mi diceva un giorno: «Ma sa lei che bisogna essere ben letterati, ben poeti, per credere alla possibilità di una guerra europea? La rete degli interessi è tale da impedire automaticamente qualunque guerra. Gli armamenti? un premio d’assicurazione contro la guerra, dovuto purtroppo, anche ad un fattore economico: l’industria degli armamenti».

Un altro professore osservava come i progressi della chimica nella fabbricazione degli esplosivi era giunta a tale punto che la guerra doveva per forza essere uccisa dalla guerra.

«Piccole guerre coloniali avverranno ancora — diceva un altro signore —, ma guerre europee sono un non senso, un anacronismo, specialmente dato il rispetto per la vita umana! Ma c’è dell’altro: i governi a tipo ancora feudale, bisognerà che ci pensino due volte! L’Internazionale oggi è una potenza! Del resto il Kaiser, con tutti i suoi travestimenti un po’ medievali, è un garbato signore, un onesto, pacifico viaggiatore di commercio per gli articoli, made in Germany». [p. 16 modifica]

***

Avevo lì i giornali del mattino, fra cui l’Avanti!2 Lo buttai sul banco al giovane, dicendo piano: — Ecco, caso mai, i nuovi pompieri pel suo incendio.

***

Ora chi avrebbe pensato mai che dopo un mese — ma nemmeno! — ciò che era fantastico, sarebbe divenuto realtà?

***

La macchina del pensiero però in quella mattina era stata messa in moto e non era in mia facoltà l’arrestarla. I tumulti e le sommosse in Italia erano in quel giorno, 30 giugno, ancora in prima linea3.

I giornali dell’ordine un po’ deridevano le così battezzate «repubbliche di Pinocchio», un po’ denunciavano le violenze, gli incendi, i saccheggi, i mezzi teppistici usati. Se ne raccoglieva un senso di pavore da parte delle classi dirigenti. E su quel pavore tonava da Milano la voce del prof. Benito Mussolini, direttore dell’Avanti!, per nulla [p. 17 modifica]midito, per nulla pentito: «Ma questa era la guerra di classe! la guerra non si fa coi guanti; la teppa rappresenta gli eroici sanculotti della nuova rivoluzione. Vi si preparassero i signori borghesi!»

***

Di queste cose m’intrattenevo nel mese di luglio — quando il sipario dell’orrenda tragedia europea non era ancora levato — con l’amico Renato Serra, qui in Bellaria, lungo la riva del mare.

Renato Serra — non se ne dolga l’amico, restio ad ogni lode — è una delle più luminose intelligenze che io abbia avuto la ventura di conoscere in questi ultimi tempi; e se le cose andassero come dovrebbero andare, il suo posto sarebbe ben altro che in una deserta biblioteca di Romagna. Egli si trova oggi in tutta piena giovinezza: alto, quasi atletico, quasi imberbe, coi nervi molto a posto (non come i miei): porge tuttavia, a prima vista, l’impressione di un ragazzone, riguardoso e quasi timido. Ma quando guizza la spada del suo pensiero, diventa invece timido e riguardoso chi l’ascolta. Non che egli sia o folgorante parlatore o dialettico. È persuasivo perchè è profondo, arrendevole, umano. Parla pianamente con spiccata cadenza romagnola, chiudendo un po’ le palpebre quasi a meglio concentrare la sua imagine di pensiero: spesso, un impercettibile sorriso! Dà piacere [p. 18 modifica]ascoltarlo e dargli ragione. Nella sua città di Romagna lo chiamano, semplicemente, Renato. Ama di vivere col popolo, ma non beve il gran vino del popolo, perchè egli è bevitore d’acqua. Adora nostalgicamente la Romagna e il suo popolo, benchè il popolo non sospetti affatto chi sia Renato.

Veniva spesso a sorprendermi, sfolgorando su la bicicletta lucida, con quel suo sano affettuoso sorriso, sotto il gran sole. Eravamo così lontani dalla guerra che si faceva la psicologia dei fatti del giugno, specialmente in Romagna. Era stata allora chiamata sotto le armi una classe, e pareva imminente un nuovo sciopero dei ferrovieri.

— Mussolini4 — diceva Serra — è un romagnolo di schietto temperamento rivoluzionario, un sincero. Potrà spiacere, in segreto, anche a qualcuno, de i suoi; ma ha il mèrito di avere dissipato un equivoco in cui ci cullavamo. Esiste realmente in Italia uno stato d’animo rivoluzionario.

A Renato la cosa, forse a cagione della giovane età, non dispiaceva. A me quella gran confusione seccava innanzi tutto.

Si stava così bene lì, in riva al mare!

— In tale caso — dicevo io — la pace goduta fino ad ora è stata comperata dall’on. Giolitti. [p. 19 modifica]Forse questa era la verità, ma Renato Serra trovava che era inutile proclamare una verità quando nessuno ci avrebbe prestato fede.

Così si parlava, tanto si era lontani dalla idea della guerra. Era così sereno il mare in quei giorni! Tanta vita allegra e spensierata fioriva su la riva del mare!

***

Sul mondo, d’improvviso, è apparso lo spettro immane della guerra. Oh, non mai più terribile cometa vide il mondo! Il Vescovo ordinò ai devoti le orazioni pro tempore belli: in tutta l’Italia si tennero comizi popolari contro la guerra. Ma le preghiere pro tempore belli non valsero più degli ordini del giorno nei comizi.

Si sono adombrati i fatti alla maniera così derisa dei vecchi tempi: cioè si diede tutta la colpa al Kaiser, alla bellicosità del figlio del Kaiser: Tisza, Francesco Giuseppe, la casa Krupp, il Papa, i fornitori di muletti e di buoi...

***

Il 2 agosto, ero per breve tempo di ritorno a Milano: una domenica asfissiante, deserta. Il sole avea riflessi quasi cinerei.

Mi imbatto nel signor H***, un giovane [p. 20 modifica]germanico, mio scolaro del Filologico5. Egli mi assiura che la Germania non vuole il Cosacco a Berlino.

Dice:

— La Francia come una meretrice, seduta su le ginocchia del Cosacco, lo accarezza, lo ubbriaca, gli dice: Dà per me una pugnalata alla Germania. Aspetta tre anni!, dice il Cosacco. Ma noi tedeschi siamo pronti oggi!

Il paragone non manca di qualche verità. Il signor H*** batte poi queste parole, nel buon italiano che gli ho insegnato io, su la incudine metallica dell’accento teutonico: il suono è impressionante.

Mi dispiega poi un articolo del Corriere della Sera. Mi fissa, quasi minaccioso, col bianco de’ suoi occhi azzurri: — Anche il Corriere, il giornale dei ben pensanti, il sostenitore, fino a ieri, della Triplice, approva la neutralità del vostro Governo.

(Io avevo veduto il Secolo e l’Avanti! che sostenevano la neutralità).

Dissi: — Anche il Corriere della Sera? Impossibile.

Mi squinternò il foglio: — Legga quest’articolo dell’on. Torre....! [p. 21 modifica]

— Non c’è niente da dire — risposi un po’ impacciato. — Così che Avanti!, Secolo, Corriere, si trovano per la prima volta in congiunzione. È ben strano!

— Niente strano! Prevedibile, pur troppo! Ma è il più pericoloso giro di valzer che abbia fatto l’Italia! Dunque, Italia neutrale, Inghilterra contro......

— Ah, questo è impossibile! — risposi sùbito con premura, anche per non raccogliere quell’affare del giro di valzer. — L’Inghilterra, gente pratica, fare la guerra? Impossibile! «E poi — pensavo — cane non mangia cane».

— Possibilissimo! La Germania perderà forse per mare: ma si batterà, oh, in maniera formidabile per terra!

Mi pare di vedere una lagrima diffondersi su quelle pupille d’acciaio del signor H***.

— Senta, signor H*** — dissi, — mi pare che in questo momento, dipenda dal loro Kaiser volere la pace o la guerra. La Serbia è umiliata...

— Il nostro Kaiser è cavalleresco e fedele alleato.... — dice il signor H*** con intenzione non dubbia.

Ho capito: torniamo ai giri di valzer; e mi sento quasi sollevato quando il signor H*** mi saluta. [p. 22 modifica]

***


Mi pare tutto un sogno: penso al solito serpente di mare, che pescano i giornali quando è l’estate.

Entro nel Circolo Filologico. Vediamo cosa dicono i giornali esteri.

I giornali esteri non sono arrivati. Tutta la posta con l’estero è sospesa.

C’era il numero ultimo dell’Humanité (30 giugno) del socialista francese Jaurès.

Jaurès scrive che ha ferma fiducia che la guerra non si farà. Ciò mi rimette un po’. I socialisti tedeschi sono una potenza, un impero nell’impero. No, la guerra non si farà. E poi è possibile che il Kaiser si voglia mettere in urto col suo popolo? Dei socialisti e sindacalisti francesi, poi, non ne parliamo! Vaillant, l’antico comunardo, ha dichiarato: «Votiamo dunque la proposta dello sciopero contro la guerra!».

Si deve trattare d’uno scherzo — diciamo pure — di cattivo genere, che il Kaiser fa all’Europa. «Via, piccola Europa, — dice il Kaiser — non tremare!» S’ode un gran rumore: è il Kaiser che ha rimessa la spada nel fodero: l’Europa tira il respiro. I figliuoli del Kaiser sono un po’ bellicosi, ma ci penserà il babbo a metterli a posto: «Vi [p. 23 modifica]pare, ragazzi, che nel secolo ventesimo si possa fare la guerra sul serio?»

Ohimè! Proprio lì, al Circolo Filologico, trovo le tracce della guerra! Un gruppo di giovani tedeschi, già miei scolari, mi salutano. Sono in abito estivo. Dolci volti imberbi escono dai larghi colletti alla Robespierre. Sono calmissimi: consultano l’orario delle ferrovie.

Ci salutiamo.

— E gli altri? — domando.

— Già partiti per la guerra! — (mi prende un tremito, dentro).

— E voi?

— Partiamo domani. — Mi mostrano i fogli di via del consolato germanico, del consolato austriaco: pochi sgorbi su di un mòdulo, eppure segnano la storia!

— Simplon, chiuso. Bisognerà passare per Verona, Ala. Oggi niente arrivati giornali. Neppure posta arrivata. — Così dicono e nulla più. Sembrano tutti presi da un’unica idea rettilinea.

Un sàssone biondiccio, che mi aveva promesso di portarmi un bell’orologio a cucù, dalla Selva nera, mi indica un suo compagno, e dice:

— Anche questo qui, Kriegsfreiwillinger: come si dice in italiano? Oh! «volontario» per la guerra! [p. 24 modifica]

Guardo. È un esile adolescente, un fanciullo addirittura.

L’adolescente sorride: nulla dice.

***

Mi salutano poi tranquillamente: — Buon ciorno, signor professore!

Rabbrividii. Forse, buona eterna notte! Domani, a questi giovani teutonici sarà messo in mano un fucile; andranno ad uccidere un francese, un russo.... Perchè?

Eppure in tanti inverni, in questa scuola del Filologico di Milano, i giovani francesi, russi, teutonici, inglesi, turchi, anche, si trattarono con la più squisita cortesia. Domani si piglieranno a fucilate.

Che brutta ora segna il cucù dell’orologio della Selva Nera!

***

Miei cari giovani tedeschi, permettete che vi dica una parola, con sincerità: nessuno più di me ha ammirato le vostre invidiabili qualità; e spesso ho pensato che una nazione la quale lancia tali giovani per il mondo, si merita un bel posto al sole! Quante volte vi ho proposto alla [p. 25 modifica]sentimentalità, volubile e tumultuosa, dei miei scolari italiani! E ne ebbi male parole!

«Voi non volete ubbidire — dicevo — , e volete sapere il perchè. I tedeschi ubbidiscono anche senza sapere il perchè!» Ebbene, cari giovani tedeschi, voi dominerete i mari, e le terre; ma mai avrei pensato, o giovani tedeschi, di veder voi, così puliti, oggi così in via di imbrattarvi di sangue! E allora che vale, per la salute del mondo, che voi siate dominatori dei mercati, delle banche, delle terre, dei mari?

***

Un giornale fa della letteratura e ripete le parole di Goethe, perchè annuncia come da oggi comincia la novella istoria!

Va, va su la forca!

***

Non ho visto mai Milano così triste, così deserta come in questa domenica. L’asfalto delle vie ardeva, il cielo aveva un colore come d’asfalto. Tutte le persiane dell’aristocratica via di Borgonuovo erano chiuse. Vi ho contato tre viandanti appena. Davanti al Cova niente automobili laccate; dietro le vetrate, niente dame del five’ o clok thea.

Sull’angolo del Cova, per campione, appena [p. 26 modifica]tre gentiluomini con l’erre scemo. Sento che parlano anch’essi della guerra, ma con indifferenza. Ciò è indizio di gran signoria.

***

In una trattoria, dove mi sono recato a mangiare un boccone (vecchio risotto al salto che sa di ràncido, vino tetro! oh, Bellaria, mare azzurro, vino rubino, pane con profumo di grano, frutta appena spiccata!) siede un vecchio signore, un po’ sgangherato, sdentato e sordo. È preso dal convulso della politica: parla, mangia e ride nel tempo stesso. Aveva letto il decreto di neutralità del governo italiano, e diceva con gioia:

— Io non voglio il male di nessuno: ma è certo che ì fastidi degli altri ci fanno maggiormente sentire la nostra pace.

Si rivolgeva a me, e chiedeva con insistenza:

— Non è della mia opinione?

***

Volevo riposare un po’ nel pomeriggio: ma non mi fu possibile. Che cosa stava per fare l’Italia? Poteva conservarsi neutrale? Non è una folle illusione lo sperare di non ardere in mezzo a tanto incendio? Ma e poi? Non fu rinnovato il [p. 27 modifica]trattato di alleanza con la Germania e con l’Austria prima ancora che scadesse il tempo? E a Mònaco, a Vienna, a Berlino, si suona ora la marcia reale, l’inno a Tripoli; si grida: Viva l’Italia! viva il re Vittorio Emanuele III! Ma che cosa diranno quando sapranno della nostra neutralità?

Ci manderanno un ultimatum di ventìquattro ore! Adesso è un giuoco di società spedire ultimatum.

Non potendo dormire, sono andato a trovare, con un pretesto qualsiasi, un signore autorevole.

Ho bisogno di sentire qualcuno. Non che io stimi quel signore un genio; ma siccome non ho visto mai la sua cravatta scomposta, nè mai ho udito la sua parola concitata, così voglio vedere se le sue parole e la sua cravatta si mantengono ancora così composte in mezzo a questo ciclone.

Mi fa l’effetto che anche lui non sia eccessivamente orientato: però è tranquillissimo.

Dice: — Già, è un momento climatèrico che attraversa l’Europa...

Non so: questa frase mi fa venire in mente i periodi ciclonici ed anti-ciclonici del Corriere della Sera.

— Ma è la fine del mondo! — dico io.

Sorride della mia ipèrbole.

— E l’Italia? [p. 28 modifica]

— Ecco — dice — , tutto dipende dal contegno che terrà l’Inghilterra. Se l’Inghilterra dichiarerà la guerra alla Germania, è molto probabile che anche l’Italia sarà trascinata nel conflitto....

— E dovremo andare contro la Francia?

— Eh, già!

— E dovremo marciare a fianco dell’Austria? ma le pare possìbile che questo possa avvenire?

— La moglie deve seguire il marito — risponde quel signore.

— Ma allora i re e gli imperatori mentivano quando levando i càlici dello champagne, dicevano: «La pace è garantita ai nostri cari popoli!»

Il signore mi guarda in un modo che vuol dire: «si capisce che si mentisce!», ma non dice parola, perchè parlando così, avrebbe anche lui mentito.

Parlo io, dicendo:

— Se noi marciamo con la Germania, l’Inghilterra darà una ripassatina con le sue formidabili dreadnoughts a tutte le nostre città di mare!

— Ma lei rimane a Milano, che non è ancora porto di mare! Del resto, creda che per quanto possa far dispiacere, una lezione ai nostri buoni vicini francesi va mica male. Si metta tranquillo. Lei vedrà che la Germania in pochi giorni si [p. 29 modifica]spiccia, e l’Inghilterra non avrà nemmeno il tempo di decidersi: tutto finirà bene.

Quel signore mi accommiatò così, come il medico che per tranquillare l’ammalato, dice: «Vedrà che tutto andrà bene».

Io non sono calmo: sono esasperato!

La sera è profondamente triste. Ma come faremo per giorni e giorni, forse per mesi, a vivere nell’ansia di simili notizie? Ho le tasche piene di giornali. Ma uno ne sa come l’altro.

Si attende sino alle dieci un supplemento del Secolo e del Corriere. Si dà per certo l’ordine di mobilitazione di tutto l’esercito.

Esce il supplemento del Secolo. Un furgoncino ha attraversato in furia Via S. Margherita. La luce elettrica è strana nella gran via senza gente, coi negozi chiusi, i palazzi soli. Un movimento di rigùrgito di poca gente in corsa si forma dietro il furgoncino. Non so per quale associazione di idee mi viene in mente il ricordo del primo carro chiuso notturno, che trasportava i cadaveri, in un anno lontano, che ci fu un po’ di colera.

Sotto l’arco della Galleria tutti hanno il foglio del supplemento spiegato. Si tratta semplicemente della chiamata di due classi. Si legge in un attimo: ma ho la visione di tutta quella gente, fisa a lungo e immota, sul foglio. Sarà per domani! [p. 30 modifica]

***

Milano, lunedì, 3 agosto 1914.

Il mattino è sereno. Il platano del giardino diffonde, nell’appartamento, attraverso le larghe foglie, una luce verde, fra cui scherzano tranquilli gli occhi del sole nascente. Soltanto molta polvere è caduta sui mòbili in questi giorni di assenza.

Mi pare un sogno la guerra. Ecco: la realtà mi richiama, terribile.

Ad un bar dove prendo il caffè, ci sono già i fogli del mattino. Rècano le dichiarazioni di guerra. Anche l’Inghilterra!

L’Inghilterra! Guglielmo annunzia al mondo che ha levato la spada e non la deporrà se non con onore.

Le dichiarazioni di sfida delle grandi nazioni, in caratteri grandi, neri, con parole immote, in istile di prammatica, prodùcono un’azione paralizzante anche nel giovane che mesce il caffè.

Ma non tremò la mano di chi le scrisse? V’è uno stupore, un silenzio! I tram, la gente di via Torino, tutto è più lieve, sospeso; tutto pare preso da sbigottimento.

***

Le Banche sono affollate: file lunghe, sommesse, pàvide, davanti agli sportelli. Buoni [p. 31 modifica]ambrosiani! Un vecchietto sì stacca infine con un grande fascio di banconote da cinquecento. È felice.

Saluta un amico che sta in fila. Ma, poi, un improvviso dubbio l’assale. Chiede a bassa voce all’amico: — Questa roba qui avrà poi valore?

Sento un uomo che dice ad un altro uomo, con meditazione:

— Sai cosa bisognerebbe fare oggi? Mutare tutti i valori in oro! Sùbito!

Non capisco.

***

Mi raccolgo su me stesso e mi domando: «ma che bisogno ho io di pigliàrmela così calda? In fondo questa guerra non è il fallimento più clamoroso di tutte quelle idee di umanità, di fratellanza, di pace, a cui non ho mai voluto apporre la mia firma'»

Ah, quanto ne soffriva Teodoro Moneta!

Diventava rosso come un gàmbero, e il ciuffo dei capelli bianchi gli si rizzava sulla fronte.

Caro e buon Moneta! gran vecchio, cieco e dolente, ora!

— Sapete — mi disse un giorno, — anche perchè io sono pacifista? perchè cerco di comporre il dissidio fra italiani e slavi dell’Austria? Perchè sento che un conflitto armato con l’Austria ci [p. 32 modifica]sarebbe fatale. L’Italia deve combattere con le armi del suo genio.

***

4 Agosto 1914. Da Milano a Bellaria.

In treno si parla ancora come cosa certa di mobilitazione imminente. Frontiera nord-est o frontiera nord-ovest? Ah, questo, poi, nessuno lo sa.

Un grosso signore di mezza età, con uno spolverino di tela e il più schietto accento toscano, è tutto occupato del prezzo del cambio. Per il resto è tranquillo. Gli faccio il quadro di tutte le eventualità della guerra. Non si commuove troppo. Io arrivo sino alla possibilità del ritorno dei Lorena in Toscana. — O, senti! ma io prendo ìcche viene!

— Ma, scusi, lei è?..

— Fabbricante all’ingrosso di casso mortuarie!

***

Bellaria. Qui, a Bellaria, se ne parla appena della guerra, come di una cosa che avviene in un altro pianeta. La buona gente ragiona ancora con soddisfazione dei fatti del giugno, della rivoluzion dei polli che si vendevano a due soldi. Qualcuno, un po’ più scalmanato, mi consulta sul modo più [p. 33 modifica]semplice di abolire i signori e mi fissa con intenzione.

Non è cosa semplice, abolire i signori, per la ragione che si formano di per sè: rinascono.

Del resto Bellaria è un’oasi tranquilla in Romagna: la gente vi è mite e gentile. Chi a Bellaria non possiede la sua casetta? la sua barca? il suo arenile? la sua bottega?

Io ci vengo qui da tanti anni e mi pare di goderci una certa reputazione. Non credo, però, che sappiano precisamente quale è il mio mestiere. Dire, scrivo, non dice nulla per loro. Dire, artista, sarebbe presunzione, e poi non sarei inteso. Artista qui vuol dire uno che fa cose strabilianti, per esempio, tenore, baritono; ma allora bisogna avere ville grandi, automobili, e non trattare col popolo. Ecco: professore! Ma di che cosa? Mi presentano talvolta questioni di rettifiche di confini, di numeri mappali. Una bella sposina mi chiamò in disparte per sapere come si fa per non aver figli.

Questa buona gente insomma non concepisce il lavoro del pensiero.

***

Si ode quasi ogni sera, per la serenità della sera, dalla parte di Pola, un sordo brontolìo che sorvola su le onde del mare come un alito pauroso: il cannone. La guerra è in questo pianeta! [p. 34 modifica]

La gente mite me ne chiede: — Lei che ha sempre quel foglio in mano, come va questa guerra? Non si sono accomodati?

— Chi?

— Quelli che fanno la guerra, i signori, quelli che comandano....

— No, non si sono accomodati.

— Speriamo che si accòmodino! e intanto la farina aumenterà di prezzo, la miseria crescerà!

Emigrati, giunti da Longway, da Trieste, raccontano cose paurose dei tedeschi.

La gente si restringe a dire: «Speriamo che non arrivino fin qui!» Del resto le loro casette non si elevano oltre le cime delle marruche e dei tamarischi.

Strano, mio figliuolo Piero! Mi strappa i giornali di tasca e più le notizie sono terribili, più sorride. Dice: — Allora è la guerra sul serio! — Egli ha visto le guerre, orrida bella, nei libri: ora la vede nella realtà. Per lui è uno spettacolo.

Si parla sempre di chiamata di classi: i più evoluti assicurano che, in tale caso, sapranno ben loro quello che c’è da fare!

È venuta la chiamata alle armi di due leve, ma nessuno si è ribellato. Le teste si curvano come le cime degli alberì sotto l’uragano.

Ma l’oste, vecchio abbonato all’Avanti!, non [p. 35 modifica]si sa dar pace: — Ma come? la guerra? la guerra tra la Germania e la Francia? E i socialisti tedeschi?

— Marciano con l’imperatore.

— Sarà, ma non ci credo.

Le notizie dell’invasione del Belgio gli hanno fatto una seria impressione. Lo sorprendo che catechizza certi giovanotti, sdraiati lungo una siepe:

— Insomma, raghezz, se vengono in casa, bisogna che marciate anche vuiter!

***

Mi sorprende l’espressione del barbiere, buttata a caso, mentre mi faceva la barba: — La vita degli uomini oggi vale poco: siamo in troppi!

Era necessario un grossolano barbiere per illuminarmi! Ma che luce lìvida! come di un lampo nella notte.

Ah, il rispetto della vita umana, la conquista più sicura ed «incontrovertibile» della nostra civiltà. Miserabili ciarlatani!

***

28 Agosto 1914. Martedì.

La grande battaglia è impegnata. Quando se ne saprà l’esito? Non ho pazienza di attendere i giornali del mattino sino alle nove. Poi questa [p. 36 modifica]gente, in accappatoio, in pijama, che fa tranquillamente il bagno, queste donnette che contrattano uova, pesche, polli, che si raccontano bolognesamente gioiose, eh!, come hanno ammannito il ragù o l’anitra col risotto, i tortelloni col butirro e la forma; queste signorine che bisbigliano dell’abito che sta bene, dell’abito che sta male, mi producono un’oppressione intollerabile.

Renato Serra in questi giorni è venuto di frequente, e mi lascia ogni volta con un «arrivederci» sempre più incerto. Nella sua qualità di ufficiale di complemento, si aspetta ogni giorno il precetto di richiamo.

Anche lui, come me, non ha più voglia di far niente. — Si vive — dice — come in un’altra atmosfera. I consueti discorsi, le consuete occupazioni non mi sembra che abbiano più scopo.

Ho passato tutta una mattina con la schiena nuda, grondante, sotto il sole, in un lavoro bestiale tanto per fare qualche cosa: vagliare la ghiaia del giardino.

— Si desidera — prosegue Serra — , così, appena di parlare con quei due o tre con cui si può parlare senza parole. Ecco perchè vengo da lei.

— Grazie!

Andammo lungo la riva del mare. Egli recitò una sestina del Petrarca.

Fa quasi ridere Serra, questo quasi atletico [p. 37 modifica]giocator di pallone, quando mòdula i versi tutt’a suo modo, salendo e digradando con una vocina flèbile di rosignolo in amore.

— Ma perchè poi questa guerra? — interruppi io.

— Per la causa per cui sono sempre avvenute le guerre — risponde Serra con la stessa voce mite con cui modulava la sestina del Petrarca. — Ella ricorda il ver sacrum dei romani? I nomi delle cause sono mutati, ma la causa rimane sempre la stessa! Il popolo tedesco è cresciuto in proporzioni gigantesche. Sente la necessità di spezzare i suoi vestiti che non lo contengono più.

— Allora qualcosa di automatico....

— Tutta la vita, se la guardiamo un poco al di là della superficie parvente, è formata dalla ripetizione di antiche, consuete, piccole azioni automatiche: coltiviamo le stesse biade, mangiamo gli stessi frutti come tremila anni fa, ubbidiamo alle stesse necessità: umanità che è vissuta, e non ha mai fatto troppa osservazione dove, come è vissuta. La vita? Una piccola parabola davanti al sole; un pullulare di bolle in fondo a una fonte perenne! Alcune bolle vanno più in su, altre scompaiono sùbito. In verità sono sensazioni che non si acquistano se non nell’attraversare queste ore tragiche. La guerra è lo scoppio di una crisi latente. Poi si riprende ancora il sòlito ritmo fino [p. 38 modifica]ad accumulare, dopo un certo numero di anni, gli elementi di crisi per un nuovo cataclisma.

Domandai: — Allora che resta da fare, nella vita, caro Serra?

— Vagliare pietre, come ha fatto lei, ieri; oppure recitare una sestina del Petrarca.

È sopraggiunta la Titì dal mare, con le chiome ondanti e bionde, giù per l’accappatoio. Ride. Anche se ci sarà Serra a colazione, ella vuole a tavola la contadinella, sua piccola compagna di giuoco.

— Beato lei, Serra, che non ha figli! — mi avvenne di dire.

Accenna tristamente col capo di sì.

***

La grande battaglia è impegnata: due milioni di combattenti s’allineano lungo il confine di Francia. È così? Così assicurano i giornali. Una immane battaglia frontale come ai tempi primordiali. Il pensiero si smarrisce. Non ho la pazienza di attendere. Prendo il treno e vado a Bologna.

Quando fu sera, incontrai l’amico Lolli. Ha sessant’anni, quasi; ma conserva ancora l’aria dei tempi dell’Internazionale. Fu amico del Costa, del Cafiero, del Pascoli, del povero Severino, nei giorni della loro giovinezza, in Bologna. Ne assorbì [p. 39 modifica]— da quel popolano che egli è — alcuna intellettualità. Non ha però mai rinnegato «scientificamente» l’Italia, e perciò non è in odore di santità presso i socialisti, anche se appartiene alla vecchia guardia.

All’ora di mezzanotte, siamo andati alla redazione del Giornale del Mattino per avere notizie. Buone notizie! L’esito della battaglia è ancora incerto. Non si domanda, del resto, che la Francia vinca: unicamente che resista. Si annuncia che i russi, improvvisi, inattesi, hanno invaso la Germania orientale con immenso arco, ai laghi, ai laghi... Un nome che non si può decifrare.

Ma quando fu il mattino, ottenebramento completo: i francesi battuti a Charleroi. Particolari orrendi di strage. Longway caduta! Non so che cosa fare tutto il giorno.

Dal barbiere, un vecchio petroniano legge, come può, il numero dei morti. Commenta: «Quante pipe hanno perduta la loro cannuccia!» La gente ride. (È la parafrasi plebea della canzone di gesta: «Quanti francesi vi hanno perduta la loro giovinezza!»)

Un ufficialetto tutto fresco, elegante, seduto all’aristocratico caffè Mèdica, immerge, con le unghie rosee, un panino dolce nel caffè e latte dolce. Vorrei vedere ufficiali più terribili. [p. 40 modifica]

In via Rizzoli mi sorprende questa frase bisbigliata sotto i baffi grigi da un maggiore di artiglieria ad un suo collega: «Quale imprudenza! Ma non dovevano mai attaccare!».

Vi sono molti ufficiali fra via Rizzoli e via Indipendenza: imberbi, eleganti, in istile. Ripeto: troppa eleganza!

Mi viene alla mente il mio tenente dei bersaglieri, a Milano. Ha un battere di ciglia impressionante. Ha poche idee, ma lùcide: «Bàttersi!» Dove? come? quando? Non sa: ma bàttersi. Era mio scolaro: marinava spesso la scuola. Ora è bersagliere.

— È buono — gli domandai un giorno — con i suoi soldati?

Minga tant! Quando mi vedono, cercano di nascondersi.

Durante lo sciopero del giugno, l’ho visto coi suoi bersaglieri, bloccare una via. La teppa gli gridava: «Tenentino, te cognossi! Se ti troviamo solo, ti mettiamo le busecchie al sole». «Veda — mi diceva — in Germania, quando passa un reggimento, tutto si ferma: passa l’esercito! Qui, a Milano, siamo pregati di fare il giro dei vergognosi per le vie di circonvallazione. Non si deve disturbare il commercio col militarismo». Gli battevano le ciglia per disdegno. [p. 41 modifica]

***

Incontro in via Rizzoli, il capitano X***, mio conoscente. — Nessuna notizia quanto alla mobilitazione?

— Pel momento, nessuna.

— Davvero?

Sorride.

— E se viene?

— Se viene, avremo due guerre....

— A quale frontiera....?

— Non so. Ma certo una guerra fuori d’Italia, e l’altra dentro.

***

Vado al Carlino. Ecco Mario Missiroli che ne esce. Ci salutiamo. Chiacchiereremo alquanto, poi andremo a cena insieme.

— Lo converta! — mi dice un giornalista — Missiroli è germanofilo!

— Non è vero! — dice sorridendo Missiroli — le spiegherò....

Missiroli è un giovane pallido, esile, diafano; figura un po’ da asceta. Pare cresciuto al chiaror bianco della luce elettrica, nelle lunghe notti vegliate alla redazione del giornale.

Intelligenza lùcida, fredda, lievemente ironica, sovrabbondante a spese, credo, delle facoltà [p. 42 modifica]affettive. Segue la logica sino alle conseguenze più spietate. Direi che se ne compiaccia come un atleta si compiace del suo ardimento. Egli crede al suo ragionamento, e un moto nervoso degli occhi rivela lo sforzo del cervello. Ma se crede alla cosa espressa, non so. Un sorriso enigmatico, eppur sincero, farebbe supporre che la cosa gli è indifferente. I suoi ragionamenti riuscirebbero del tutto persuasivi, se gli uomini fossero pedine logiche e se la ragione fosse una cosa sicura.

Passa per cattolico, ma credo che questo sia un travestimento, una reazione contro questa nostra democrazia un po’ aristofanesca.

Mi dice: — La Germania odierna è un possente organismo di popolo; invece dei lieds e ballate, sìbilano le sirene di mille officine, le quali riversano sul mercato mondiale una produzione impressionante; le sue applicazioni tecniche sono fra le più perfette; la sua cultura è la più vasta cultura del mondo; la sua letteratura è la più sterminata letteratura; il suo esercito è la più perfezionata e formidabile macchina che mai sia stata ideata. Nel momento stòrico attuale quest’organismo subisce una crisi di dilatazione. La lenta infiltrazione non basta più! È l’esplosione, cioè è la guerra.

Ma il pensiero di Missiroli procede più oltre.

— La guerra che la Germania combatte — [p. 43 modifica]cominciò egli a dire — è la guerra contro i popoli ricchi e capitalisti, che hanno il dominio del mondo, ma non lo sanno più tenere questo dominio; non hanno più aumento di popolazione; non possibilità di azioni eroiche. Tali, l’Inghilterra e la Francia.

La ricca Inghilterra fa la guerra col sangue degli altri. Ha spinto il Giappone contro la Russia, perchè non sa più combattere essa! Vedrà cosa farà di noi! Del resto badi bene: la politica inglese è sempre quella: impedire che una nazione egemònica si affermi in Europa. Così ha combattuto Filippo secondo e la Spagna nel Seicento, così ha combattuto Napoleone primo nell’Ottocento, e ora combatte contro la Germania imperiale.

I francesi? gaudenti, lascivi, scettici, pacifici fermiers, pacifici rentiers, intenti a tagliare coupons! E chi non è rentier, fa il rivoluzionario per diventare rentier. Hanno oro molto, ma sono oramai in pochi a difenderlo. Hanno ingegno da vendere. Ma fanno troppe commedie. Ora si alza il sipario della tragedia.

Tutto questo costituisce il buon diritto della Germania; e la guerra che essa combatte è essenzialmente rivoluzionaria. La democrazia che odia la violenza, ha compiuto la sua paràbola. La guerra presente avrebbe fatto delirare di entusiasmo Carlo Marx, che ne fu il profeta. Ecco perchè i socialisti [p. 44 modifica]tedeschi marciano sotto il vessillo dell’imperatore; ecco perchè il posto logico dei socialisti del mondo sarebbe là!

L’egemonia germanica non è che una fase della storia moderna, di quella storia che io chiamerei protestante, perchè comincia con Martin Lutero!

Lutero, Rousseau, Rivoluzione francese: ecco i tre grandi momenti! Ma la Francia si è fermata a Rousseau, alla democrazia sentimentale ed astratta; al tentativo di conciliare la trascendenza col razionalismo.

Tutta la tragedia della Francia è qui!

Ora la trascendenza è vera quando arriva alle ultime conclusioni, cioè al dogma morale, alla rivelazione: al cattolicesimo puro, in una parola.

In caso contrario, conviene arrivare alle ultime conseguenze del razionalismo, cioè a Kant, ad Hegel, pel quale la verità e la giustizia non sono cose immutàbili, ma una continua creazione dell’uomo, un perpetuo divenire.

Ed infine bisogna arrivare a Carlo Marx, che è l’erede della filosofia classica tedesca: è l’azione di questa filosofia.

— La conclusione?

— La conclusione è questa, miei cari amici — dice Missiroli (perchè egli dice miei cari amici [p. 45 modifica]anche quando parla con una persona sola — : intendendo così la vita come una serie perenne di azioni che non coincidono mai con qualcosa di fermo e di vero: abolita qualsiasi autorità che possa distinguere la cosa giusta dalla cosa ingiusta, è necessario rimettersi alla guerra...

Questa tragedia è fatalmente senza tregua e senza epilogo. Tutta la vita è concepita sotto la categoria della distruzione. Essa assume le forme più diverse, i nomi più strani, le armi più insidiose: lotta per la vita e selezione nel mondo animale, spietata concorrenza nel campo commerciale, lotta di classe nel campo sociale, guerra nella vita internazionale. Da per tutto ira e furore.

La guerra attuale non è altro che un episodio saliente e riassuntivo della guerra che si perpetua ogni ora in tutti i campi del pensiero e dell’azione: è il quadro tragico e orribile dell’orgoglio umano, ribellàtosi alla parola dì Dio.

Ecco perchè la democrazia razionalista è impotente contro la guerra.

Il socialismo è l'erede di questa dottrina spietata.

Ecco perchè la Germania da mezzo secolo si prepara alla guerra, in modo inesoràbile, senza il pentimento di un’ora! Ecco perchè i socialisti tedeschi lealmente già avvertirono il mondo: [p. 46 modifica]«Quando suonerà l’ora della guerra, badate! noi saremo col Kaiser!» Ah, il Kaiser, cari amici, il Kaiser! Il militarismo germanico!, dicono i nostri democratici.

I nostri perfetti democratici credono che lo Stato germanico sia lo Stato ancien régime, lo Stato anti-democratico, perchè è militare, perchè è disciplinato!

Colossale errore!

Stato, con un’S maiuscola enorme! Stato moderno, Stato in cui il cittadino e lo Stato si identificano. Esercito che è lo Stato! Imperialismo che è l’ultima parola della democrazia; e la guerra è il suo mezzo.

E quando Missiroli finì di parlare, gli domandai: — Ma se le cose stanno così come lei dice, allora a che vale tanta scienza, tanti studi, tanta cultura?

— Ma la scienza dalle molte pagine non è propriamente la sapienza che è di poche parole — dice Missiroli. — La sapienza può valere per me, per lei, per gli anacoreti...., ma nella vita....!

— Basta, vediamo di farla finita presto!

E non mi accorsi che io ragionavo come il mio contadino di Bellaria.

Camminammo a lungo per via Rizzoli. Io non ho parlato. [p. 47 modifica]

Sono sotto l’impressione di raccapriccio, mi pare inutile discutere. Mi guardo i piedi, le mani, guardo le vetrine eleganti, colme di cravatte, guanti, scarpe, calze di seta che servono a vestire uomini e donne.

Ma un’idea è persistente:

— Senta, Missiroli — gli chiesi — , non ha lei, così, come per una specie di brivido dell’epidermide, il terrore del giogo teutonico?

Povero e caro Missiroli! Sì, questo lo sentiva anche lui e lo confessò con candidezza, diafana come le sue mani.

Passammo ad altro. — È vero che la Triplice è già un’alleanza cadaverica e che l’Italia non deve fare i sei mesi di lutto prima di passare a nuove nozze?

Per Missiroli la Triplice alleanza sussiste ancora, ed adduce l’autorità di Bismarck; ma forse un cadavere c’è....

Si parla dell’onorevole Bissolati, che fino a ieri era contro le «spese improduttive», ed ora fa esercizi militari a Roma. Ma il popolo che viene sotto le armi dalle officine, dai campi, e sente parlare di «Italia, onore, dovere, disciplina, bandiera!» come ci può credere se queste sono le parole contro le quali ha imparato a stare in guardia?

Andiamo a cena insieme. [p. 48 modifica]

Missiroli mi legge, in confidenza, una lunghissima lettera di un famoso nazionalista. La ha ricevuta due ore fa da...

«Che fare? Marciare con la Germania? dichiarare guerra all’Austria?» È un dramma di tragica incertezza, ma sincero!

Marciando con la Germania e con l’Austria, noi possiamo riprendere Nizza, Savoia, la Corsica. E, perchè no, Tunisi? Basta che mettiamo un trombetta e quattro bersaglieri al confine della Francia come domandava Bismarck a noi. Niente altro! Ma e Trieste? e Trento? E tutta la nostra tradizione liberale? E tutte le ragioni sentimentali? E tutto il nostro patrimonio spirituale? La lettera riferisce una frase di patriotti triestini. Dicono: «Noi abbiamo tanto sofferto per amore dell’Italia, che, se per il bene d’Italia è necessario, noi continueremo ancora nel nostro martirio».

***

Sono tornato a Bellaria, convinto che tutto è finito. Riposo un po’. È vespero. Sento di là la voce di Serra. Ci salutiamo; entra nella stanza; si siede su la poltrona. Gli espongo — così, un po’ convulso — i ragionamenti di Missiroli e del nazionalista di....

Serra ascolta senza dir nulla. Credevo che [p. 49 modifica]rispondesse con un lungo discorso. Intravedo un lieve moto delle spalle. Dice soltanto: — Sì, Missiroli, un bravo ragazzo! pieno d’ingegno! Ma se ne dicono tante oggi!

— E adesso?

Risponde: — Io non ho perso ancora la speranza di fare alle fucilate...

— Contro chi?

— Contro l’Austria.

La sua voce è piana, ma mi pare là, nell’ombra della poltrona, che il suo nobile corpo abbia un frèmito.

— Ma è una pazzia. Serra!

— Ma no, una pazzia! — risponde con calma.

Siamo usciti. Ho accompagnato Serra a piedi per il sentiero delle alte marruche finchè giungemmo alla strada maestra. La luna nuova continuava, col suo biancore, il dolce crepuscolo.

Riandiamo le fasi della battaglia tanto per dire qualcosa, per spiegare ciò che è inesplicabile. I belgi si sono chiusi in Anversa, e avran detto: Noi abbiamo fatto anche troppo! Seppure non hanno accolto segrete proposte. I russi, probabilmente, fanno la guerra per onore di firma. E poi, Russia ed Inghilterra che hanno a temere? Dànno il colpo. Se il colpo va male, si ritirano in casa. Chi li va a pigliare? Sull’incudine rimane la Francia. E, dopo la Francia...., noi! [p. 50 modifica]

— Ma può scomparire la nostra civiltà latina? — domando.

— Problema di violenza, — risponde Serra — perciò quello che ora occorre è la violenza.

Ai lati della via maestra, presso le case coloniche, si trebbiava. Ogni tanto nella penombra del crepuscolo si presentava il profilo di un carro colmo di strame, e la bianchezza dei grandi buoi si appressava con l’àlito mite del présepio.

Esiste la guerra?

Ci siamo lasciati tristamente. Egli montò in bicicletta e scomparve per la via bianca, sotto la piccola luna; io ripresi il sentiero verso il mare, fra le alte marruche. Ripetevo le parole di Serra: «Problema di violenza!»

La Titì, quella sera, fu più affettuosa del sòlito. Domandò a bruciapelo:

— È vero che vengono i tedeschi?

Quasi mi venne da piangere. Non risposi. Un suo ricciolo, attorno al mio dito, pareva un magico anello d’oro. Hanno fucilato anche dei bimbi nel Belgio! Nel piroscafo Barone Gausch affondato da una mina, ci furono più vittime di quelle pubblicate dai giornali: v’erano cento creature, ancora anonime: dei bimbi!

E Bering, che ha salvato tanti bimbi dalla difterite col suo siero, era un tedesco!

Piero, mio figliolo, è indignato. Ha letto il [p. 51 modifica]Corriere. Come? i francesi non sapevano che i tedeschi avevano mortai da 420 millimetri?

— Che mortai?

Legge: «Enormi mortai adoperati dai Tedeschi. Un deputato al Reichstag ha telegrafato al corrispondente della Frankfurter Zeitung di qui che la presa di Liegi e la ragione della rapida caduta di Namur si deve all’entrata in azione di un mortaio del calibro di 420 mm., al quale nessun strato di cemento può resistere. L’esistenza di tale mortaio era un segreto noto a pochissimi in Germania. Anche la maggior parte degli ufficiali l’ignoravano».

Adesso, come hanno preso Namur, prenderanno Epinal, Verdun, Parigi...

Notte insonne! Penso a Tello ateniese che fu giudicato beato da Solone. Perchè? Perchè visse con modeste sostanze, perchè lui ed i figli morirono combattendo per la patria...

Ma un’idea mi tempesta nel cervello: val la pena di dare la vita per la patria? Per sentire poi questa bella commemorazione: «Quei guerrafondai, quei bruti, che non conobbero la fratellanza universale!»

***

Notte insonne. Apro la finestra che ancora è notte. Il carro dell’Orsa! Che strana sensazione [p. 52 modifica]vedere quelle mirabili stelle in altra zona del cielo da quella dove le lasciammo la sera, e tutte precipìti giù, col timone fino a toccare il mare! Come hanno viaggiato nel cielo? Sembrano più fiammeggianti le stelle, quando il cielo traspare per la nascente alba. V’è una stella crinita fra le stelle dell’Orsa. È la cometa della guerra? E il sole sorge sempre più in là, verso laggiù. Passa i tetti delle casette ad una ad una, passa le pioppe, e poi tornerà quassù. Vengono in mente le parole di Serra: tutto automatico, tutto ripetuto, tutto perpetuo! E il nostro pensiero, che pensa queste cose, che cosa è?

***

27 Agosto 1914.

Il Kaiser ha telegrafato alla nuora: «Mia cara figlia con quale magnificenza il nostro buon vecchio Iddio ci ha aiutati! Io conferisco a Wilhelm la croce di prima e di seconda classe, ecc.»

Mi viene in mente l’on. Filippo Turati. Egli è stato per tanti anni, come dire? l’ajo marxista di questa nostra Italia. Dovrebbe quel signore trovarsi, oggi, un po’ in imbarazzo.

***

Una voce fermenta, cresce, si propaga fra gli uomini: Bàrbara Germania! [p. 53 modifica]

Gherardo Hauptmann protesta poderosamente contro la parola «bàrbara». Dice: «Ci avevano messo un anello di ferro intorno al petto e il nostro petto, ampliandosi, doveva o rompere il cerchio o cessare di respirare. Ma la Germania non cessò di respirare e preferì rompere il cerchio».

Mèdito su le parole: il nostro petto ampliandosi.... È quello che diceva Serra, sulla riva del mare, quando io gli chiesi: «Ma perchè questa guerra?»

***

Stasera furono da noi a pranzo le contessine Fossombroni. Hanno una loro governante tedesca, un cosino così: docile, devoto. Ella ha due fratelli alla guerra: ma ciò non la preoccupa. Ella è convinta del beneficio che la Germania fa al mondo... È preoccupata osservando che il mondo non accetta di buon grado questo beneficio. È terribile, un popolo che ragiona così!

***

28 Agosto 1914.

Tutti ci vogliono bene. A Vienna, a Berlino sono contenti di noi. Niente più traditori, come fino a ieri: ma savie persone neutrali. [p. 54 modifica]

Anche il gran generale austriaco, conte Conrad von Hotzendorf, assicura che egli non ha nessuna intenzione aggressiva verso l’Italia — e pare che per il passato ne avesse — . Idee di vendetta, assolutamente, no!

Queste dichiarazioni sembrano a molti italiani molto confortevoli; e l’Italia, in pace fra tanta guerra, sembra godere d’un trattamento privilegiato.

Eppure la condizione d’Italia è ben tragica!

Nei canti di quei brutti serbi e montenegrini si canta: Da Trieste a Càttaro, tutto slavo!

L’amico Serra nutre, invece, molta fiducia nella dolcezza dei canti slavi.

***

La nomina del duca degli Abruzzi ad ammiraglio supremo fa credere che qualcosa si stia preparando.

Ma dove è l’uomo di genio, il divinatore del momento? Cavour è morto da tempo, e i nostri uomini politici si consumano nel provvedere come arrivare alla sera.

***

Noi non odiamo la Germania, siamo d’accordo — come scrive Borgese nel Carlino d’oggi, — [p. 55 modifica]noi, anzi, non l’abbiamo mai odiata; ma la Germania romantica, formata di uomini tutto spirito e musica, che camminano per la neve, fra i boschi, ragionando soltanto di metafisica e di morale, non esiste più che in letteratura!

***

29 Agosto 1914. Stamattina, patatrac! Il treno aveva un’ora di ritardo. Il piccolo monello che viene di corsa coi giornali dalla stazione, su la bicicletta, è assalito.

Vedo l’intestazione del Carlino: Sette eserciti tedeschi invàdono la Francia. Non c’è bisogno di leggere altro. Il Mattino, francofilo, non dice nulla. Parla dell’avanzata russa. Ma io non credo più ai russi. Sono un mito. Godono di una fama usurpata i russi.

Il Giornale d’Italia ha una intestazione spaventosa come il Carlino. Assolutamente è finita!

Ho un piccolo trèmito: questa volta non ho voglia di parlare con nessuno.

— Come va? — mi domanda uno del popolo.

— Male!

— Vincono i tedeschi! (Lo sentono anche loro che male vuol dire «vincono i tedeschi»).

Per fortuna è venuto Serra. — Caro mio, tutto è finito! [p. 56 modifica]

Mi sorprende il suo sorriso tranquillo su la sua faccia sbarbata, anzi, un piccolo sorrisino ironico, dedicato a me, sull’angolo estremo delle labbra.

Domando:

— Non è atterrito lei?

— Io no! È la prima fase finita; ciò che era attendìbile: i francesi non furono nè messi in fuga, nè accerchiati. Legga bene il comunicato dello Stato Maggiore germanico, e vedrà un po’.

Siamo risaliti in bicicletta. Io ho perso tutto l’appetito. Su la tavola, attorno alla carta geografica. Serra si è messo tranquillamente a spiegare: i francesi hanno ripiegato su le linee fortificate: gli inglesi hanno dovuto arrestarsi a sud di San Quintino, ma non furono tagliati fuori....

— Ma se le fortezze cadono come le mura di Gerico al comando dell’imperatore, d’accordo con il vecchio Jehova? E poi non ha lei. Serra, la sensazione della fine? Babilonia sarà distrutta?

— Oggi no, assolutamente. Certo domani, l’idea di una dèroute davanti all’enorme valanga...

L’osservazione di Serra è ragionevole e mi persuade: tuttavia mi pare che oggi dopo quello ch’è successo, il più elementare buon senso vieti di creder a qualunque partecipazione di guerra dell’Italia contro l’Austria.... [p. 57 modifica]

Serra sorride: — Lei si lascia sgomentare da un semplice episodio. Ma sa quanto durerà questa guerra? Per fortuna lei non è un generale!

— Ah, sì! Sarei un pessimo generale.

La minestra è in tavola. Ma anche Serra ha poco appetito.

La donna mi avverte, sottovoce, che vino non ce n’è più, fuor che una piccola damigiana da travasare.

— Vorrei avere tutto il vino — gridai forte — che oggi berranno i preti per la gioia della Francia vinta! Io non credevo di amarla così la Francia! Avevo quasi piacere che quella sua insolente demagogia venisse punita. Glielo confesso! ma oggi!

Abbiamo parlato a lungo tutto il pomeriggio, afoso, lento: ma il discorso moriva, si infrangeva stanco, contro la muraglia di bronzo della realtà.

***

Mi domanda un quieto vecchio savio signore:

— Chi sa oggi, da qui un anno, che cosa ci sarà?

Non so che rispondere.

Mah! Certo quella piccola luna nascente lassù, in quel posto; quelle anatre lì, o, se non quelle proprio, altre anatre, ma è lo stesso; queste pescivèndole col ventre in su, queste foglie di marruche, i lumachini che divorano tutte le foglie, le [p. 58 modifica]anatre che divorano i lumachini, gli uomini che divorano tutto, e quella piccola luna che guarda lassù. Se i re, i guerrieri, i diplomatici leggessero, come si legge, per esempio: la tale città fu per tanti secoli romana, poi per tanti altri secoli bizantina, poi per tanti altri secoli veneta, poi passò all’Austria, ecc. ecc. lascierebbero arrugginire le inutili loro spade e starebbero, come me, a guardare quella piccola luna che cresce, poi quando è cresciuta, si volta dall’altra parte e diventa sempre più piccola e così in eterno.

***

Bellaria, 29 Agosto 1914. Domenica.

Niente! La grande battaglia in Galizia, fra austriaci e russi, è tuttora indecisa.

Ci si lascia con la parola: speriamo! Già, speriamo nella santa Russia. Ma donde trae la Germania i soldati? Come Cadmo dai denti del serpente?

***

I monumenti di Louvain, di Malines, gioielli dell’arte fiamminga, caduti sotto le granate teutoniche.

Guerra di esterminio! È supponibile che il grande Stato Maggiore tedesco abbia stabilito di [p. 59 modifica]mandare avanti, come furiere, il terrore ottenebrante. I tècnici dicono che la guerra si deve fare così, proprio così. Però bisogna anche possedere la certezza di vincere, giacchè come potrà salvarsi dalle vendette chi fa la guerra così?

Mi viene in mente Lucullo generale romano: egli pianse quando, impotente contro la furia dei suoi legionari, vide lo strazio dell’ellenica città di Amiso!

Chi di voi piange, o tedeschi? I vostri intellettuali hanno soltanto parole di oltracotante sarcasmo.

La parola latina humànitas è morta. Il volto che la Germania discopre, è disumano. È la distruzione di tutto ciò che non è teutonico.

Certamente i civili germani non ragionano così. Certamente così non può essere. Ma dànno al mondo questa impressione. È un’impressione di terrore!

***

«Signor professore — mi ricordo che mi obbiettava uno scolarino il 22 febbraio degli anni scorsi quando, ministro Rava, ministro Daneo, ministro Credaro, con circolari ai presidi, ai provveditori, si faceva comandamento a noi maestri di scuola di sospendere le lezioni, e in nome di [p. 60 modifica]

Giorgio Washington, che era nato in quel giorno, — vedete un po’! — intrattenere i giovani sui supremi ideali della pace universale (pace era scritto nelle circolari con un gran p maiuscolo, pace era proclamata la aspirazione di ogni nazione) — oh, signor professore, la signora professoressa di storia ha fatto una bella conferenza per dimostrare che le guerre non vi saranno più, o, caso mai, saranno guerre umanitarie: c’è già il fucile umanitario; c’è la Croce Rossa; c’è il Codice della Convenzione dell’Aia. Anche la guerra è diventata civile!».

«Sì, carino».

«Signor professore — mi ricordo che mi chiedeva un altro scolaro — , che cosa sono gli ostaggi?»

«Una parola antiquata! Sono o, meglio, erano gli individui più ricchi e più ragguardevoli di una città, che il vincitore si toglieva per malleveria dei patti. Cesare li chiedeva sempre. Iubet obsides dari, arma proici».

«Ma oggi non si usano più!»

«Parole fuori d’uso, figliuolo!»

Oggi si fucilano contro un muro. Risarà tutto quello che fu! [p. 61 modifica]

***

A proposito di vino bevuto ieri dai preti, non è questa una mia malignità. L’amico dottore, qui di condotta, mi assicura che un signore — clericalone — sta, da ieri ad oggi, molto meglio.

— I tedeschi a Parigi, eh? — , gli ha detto il dottore.

— Non dico questo, — ha risposto il clericalone — ma sono notizie che fanno bene.

***

Non riesco più ad andare dal macellaio per la spesa. Ho una visione macabra! Organi di animali, organi di uomini.

***

Quell’intelligente municipio di Rimini ha, qui, per Bellaria, stabilito il calmiere... per le uova. Due uova, tre soldi. Non si trova più un uovo al mercato. I contadini le lasciano marcire, piuttosto! I contadini sono miti animali feroci. Devono essere loro che formano le iene dei campi di battaglia. Ma il piccolo chirurgo mio amico, dr. Cecca, ride coi suoi denti bianchi, nella faccia olivigna. Ha una frase chirurgica, spietata: — Viene, viene chi metterà il calmiere alla guerra!

— Chi? [p. 62 modifica]

— La peste! I mìcrobi della peste, del colera hanno il loro pabulum! E poi con questo caldo!

Oggi, penultimo giorno d’agosto, è di una limpidezza incantevole. È una vergogna stare a sentire la canzone azzurra del mare.

Chi vi è stato, racconta che le gallerie, i ponti del Veneto, sono tutti minati.

***

Leggo: In Germania, le grandi fabbriche di stoffe a colori si sono oggi quasi esclusivamente dedicate al nero.

Anche il mio amico Prezzolini, oggi, nel Carlino, ripete le vecchie storie: Il mistero della generazione di un nuovo mondo europeo si compie. Forze oscure scaturite dalla profondità dell’essere sono al travaglio, ed il parto avviene tra rivi mostruosi di sangue e gemiti che fanno fremere. Noi non guarderemo soltanto il dolore. Salute al nuovo mondo! La civiltà non muore! Indietreggia per prendere un nuovo slancio. Si tuffa nella barbarie per rinvigorirsi.

***

Quale cosa terribile succede in Francia? Leggo nel Giornale d’Italia (corrispondenza da Parigi del 25): Sento che l’insonnia domina qui [p. 63 modifica]sovrana: per le vie m’ha colpito stamane l’aspetto delle donne; non hanno più sul volto ciprie e belletti, e nel vestito nessun adornamento, ecc.

Sarà! Ma come i marinai! Giurano di non più bestemmiare, e poi quando il mare ritorna in bonaccia, sono da capo.

***

La tragedia in Vaticano si svolge muta. Sono giunti i porporati per il Conclave. Cardinali tedeschi, cardinali francesi e belgi. Il primo incontro è avvenuto nelle grandi sale del Vaticano, ove tutti i porporati si sono scambiati i primi ossequi e saluti. Tutti gli occhi erano fissi sui cardinali tedeschi e francesi: corretti, quasi stilizzati in una rigidità ieratica, essi apparivano in qualche momento come trasognati. Nella massima parte di loro non si vedeva alcun segno di turbamento, ma l’immobilità del volto tradiva la loro interna commozione.

Il cardinale belga, Mercier, quando apprese dai giornali la distruzione della sua città di Malines, ha rotto in pianto, e si mise a gridare disperatamente: «Poveri miei figli! Povera patria mia!»

Volle dir messa, ma all’offertorio svenne. [p. 64 modifica]

***

Ho avuto una visione, stanotte. Sul rogo di Patroclo, Achille scaglia, da lui sgozzati, i giovanetti figli di Priamo, in suffragio ed olocausto. Mi è apparsa la figura dell’assassinato arciduca d’Austria. Levò la mano imperiale: «Basta di giuochi funebri in nostro onore!»

***

31 Agosto.

Il casellante della ferrovia legge tranquillamente, al rezzo, nella calda ora, così come può, le notizie della guerra. Una contadina giovane gli sta, sopra, attenta. Altre sopraggiungono: due lattaie; l’una quasi titanica ed incinta, l’altra ancor giovinetta. Ci salutiamo. Sto a sentire anch’io. «Saint Quintin, 26 Agosto, telefonato dalla frontiera.» San Quintino? Nome perduto, giù, nella storia. Vittoria di San Quintino, 1597! Emanuele Filiberto! Sentir parlare di San Quintino, mi fa l’effetto di vedere Emanuele Filiberto vivo. E così Longwy; così le Argonne; così Verdun (Udite, udite, (canta il Carducci) o cittadini, ieri Verdun all’inimico aprì le porte). Le Argonne sono la selva Ardenna dove va cavalcando Angelica del mio Bojardo? E la Mosa? (O Mosa errante, o tepidi lavacri d’Acquisgrano)... Questi poeti ci [p. 65 modifica]mettono in un grado di superiorità rispetto a questa gente; ma ci giocano anche scherzi speciali.

Ma ben mi accorgo che quei nomi rappresentano misteri di cose ignote; e così i titoli: Di bivacco in bivacco, Anversa la nuova Israele...

Le donne violate. Ah, questo è più facile! Il cantoniere ha già letto, e racconta per conto suo con molto vivace parola: Un povero vecchio, come impazzito dal dolore, è stato costretto a presenziare allo strazio della propria figlia ventenne, fatto nella sua abitazione da un drappello di soldati tedeschi. Erano costoro circa una ventina e nessuno di essi volle rinunziare agli esperimenti barbarici ecc.

— E se vengono qui i tedeschi, faranno lo stesso? — chiede una donna.

Il cantoniere ci si diverte, e assicura di sì.

Un piccolo terrore invade le donne. Intèrrogano me. Anch’io dico di sì.

La giovinetta chiede: — Ma lo possono fare?

— Non capite - spiega il cantoniere alle donne — che i soldati tedeschi hanno mano regia dai loro superiori....?

Un sorriso succede al piccolo terrore. Dice la donna titanica e incinta: — Se fossero trenta o quaranta soltanto, i tedeschi, io me li sbatto. Basterebbe che dopo non mi ammazzassero.

Anche l’altra donna si dichiara capace di [p. 66 modifica]tanto. — Ma almeno, dopo, dessero un bacio. — Ora ridono. — Se fossero — spiega poi a me la donna titanica — quelle signorine civiline..., ma noi siamo più burrascose. Mi capisce, nevvero?

La giovinetta nulla dice. Sorride.

***

I giornali della sera (Corriere, Secolo) annunziano d’urgenza che i tedeschi sono a Compiègne: ottanta chilometri da Parigi. È uno smarrimento. È finita! Ma tutti sentono che non soltanto per la Francia è finita; ma anche per noi.

Nessuno più si faceva illusione su possibili vittorie francesi, ma così presto....! E le fortezze? E gli eserciti? Nel 70, Parigi resistette tutto l’inverno. Sì, ma nel ’70 i prussiani potevano tranquillamente attendere. La preda era certa: bastava bloccarla! Ora, no! Questa è la guerra del tempo. Perciò nessuna attesa, nessuna pietà.

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Parigi! Parigi! Le donne di Francia non hanno più belletto! Esse che sono così «civiline!». Altro seme vi feconderà? [p. 67 modifica]

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All’osteria, la sera, al lume della lampada acetilene, quattro «proletari» giuocano tranquillamente a tresette.

— Adesso, con la guerra — dice l’oste — tutti hanno perso la testa. Si stava così bene prima..

(Già, si stava così bene prima: bere vino, partite a tresette, un po’ di sciopero ogni tanto, e guerra ai signori).

— Abbasso le armi e viva la pace! — esclama uno, possibile richiamato. — I signori fanno adesso la loro guerra, ma verrà il giorno che noi faremo la nostra!

L’oste dice che anche i signori oggi non stanno bene. Legge: Due banchieri di Bruxelles, ostaggi per il pagamento dei 200 milioni.

— Ci sta ben bene ai signori — dice un calzolaio senza degnare di voltarsi. — Busso e striscio.. Noi siamo proletari!

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1. Settembre 14.

Quella dolce e buona signora Maria Meloni è disperata. Suo figliuolo — lei è vedova — vuol partire per la guerra. Mi dice: — Non mi è [p. 68 modifica]scappato due anni fa quando ci fu la guerra tra il Montenegro e la Turchia? Per fortuna me lo fermarono a Bari... Lo persuada lei; ha tanta soggezione di lei...

E stamane, alle otto e mezzo, mentre attendo il treno che porta i giornali, quel caro figliuolo mi è venuto incontro.

È il più mite giovane che si possa pensare: forse ha un po’ del semplice, cioè è un ragazzo che ha alcune idee semplici.

Gli dico: — Dunque lei vuole andare alla guerra?

— Sì, primo reggimento degli Ussari della Morte.

Rimango un po’ intontito.

— Ma non è lei italiano?

Sì, italiano, ma, secondo lui, l’Italia deve marciare con le sue alleate, e siccome l’Italia non si muove, andrà lui. E poi odia i russi, ed ama il Kaiser da lui conosciuto personalmente in un libro (Guglielmo II, fatti, parole, carattere); e poi gli Ussari della Morte sono all’avanguardia delle più pericolose scorrerie. Spargono il terrore! Poi un popolo che l’imperatore chiama alla guerra e vanno tutti, bello è! Merita un aiuto. — Crede — mi domanda trepidando — che i cosacchi vadano a Berlino?

Non rispondo. Lo guardo. Del resto quanti, fra [p. 69 modifica]quei cavalieri tremendi che portano sul casco la morte fra due ossi incrociati, non sono che fanciulli con un piccolo odio germogliato nel cuore.

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Esodo dei bagnanti: gran folla in partenza alla piccola stazione: giorno puro, estivo. Ecco il giornale: gli uomini l’afferrano, lo dispiegano; leggono i grandi titoli, i dispacci. Notizie incerte, oggi.

Tu hai promesso, o Renato, di non tornare più a Bellaria, se non porterai novelle più felici per la nobile Francia. Ah, non ti vedrò allora più, Renato Serra!

Il piccolo treno è ripartito e la gente lascia la stazione. Due belle donne erette, in accappatoio, mi strisciano col fianco adiposo. Una dice all’altra: «Che bella giornata! Che bellezza, che bellezza, che bellezza!» L’altra dice: «Vedrai come ce la godiamo bene ora che c’è poca gente! Sai? Quest’anno dicono che con la guerra non verrà mica la moda da Parigi!»

È mortificante! Il contatto di questo essere pingue, che è la donna, fa dimenticare anche la guerra! Non so: le donne belle mi sembrano oggi più rigogliose, più erte, più belle.

Non sente la donna questa maledizione? forse perchè ha nel grembo la maledizione? [p. 70 modifica]

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Il Giornale d’Italia ha una lettera del Sergi. Deve essere vecchio questo professore. La sua voce ha accompagnato la mia giovinezza e ne conservo un’impressione di intollerabile fastidio. Anche lui deve avere scritto qualche cosa, in nome della scienza, su la Decadenza latina; qualche cosa, in nome della scienza: «la scienza assicura questo, la scienza vieta quest’altro; chi non è fisiologicamente allegro, come vuole la scienza, sarà collocato da noi nelle tavole degli squilibrati, dei paranoici, dei malati» ecc.

Confessiamo la nostra viltà: il timore di apparire nelle tavole dei mistici, dei pazzi, dei delinquenti, mi rese assai timido ed allora vestii il mio pensiero di un tenue sorriso. Ognuno si difende coi mezzi che ha.

Ed ora cosa viene questo signore a piagnucolare contro la distruzione di Louvain e dire che l’uomo è sempre barbaro, anche quando ha una cultura superiore?

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2 Settembre 1914.

Bombe da aereoplani su Parigi. Die Taube, la colomba che getta bombe! La ville lumière bombardata! il cervello del mondo bombardato dalla colomba! [p. 71 modifica]

Scriverà d’Annunzio un’altra canzone sul Corriere della Sera?

In altri tempi questa lezione di bombe mi sarebbe piaciuta. E perchè ora tanta tristezza mi vince?

***

In terza pagina l’Avanti! ha un articolo del prof. Giovanni Zibordi: Il socialismo italiano e il socialismo europeo. Il semplicismo di questa prosa è implacabile. Dire: guerra a nessun patto, nemmeno contro l’invasore, è un’idea tolstoiana, e sta bene. Ma l’insistere nell’affermare che questa immane guerra non è altro che la guerra borghese contro il proletariato è... è intollerabile.

Via! Anche i preti, che dividono gli uomini in due categorie, o tutti in inferno o tutti in paradiso, hanno sentito che questa partizione assoluta era deficiente, ed hanno creato il purgatorio!

***

Un gruppo di giovanotti scamiciati (due fiaccherai, il garzone del macellaio, un facchino ecc.) sono sdraiati alquanto liberamente sui cuscini d’una vettura ferma. [p. 72 modifica]

Uno mi domanda: — Be’, come va questa guerra? Ci saremo fra poco anche noi?

— I tedeschi sono a Parigi... — rispondo.

Lo sanno, e perciò domandano: — E verranno anche qui?

— Chi lo sa? Del resto, se anche verranno, per voialtri non andrà mai male; andrà male per noi.

— Come sarebbe a dire?

Bisognò spiegare: — Se lì, nelle scritte, invece di esserci Regio Governo Italiano, ci fosse scritto Kaiserlich - Königliche Regierung, a voi cosa vi fa? Quando il grano, quando il vino fosse a quel prezzo, quando corresse il denaro, quando le vostre leghe andassero avanti bene, a voi, cosa vi fa?

Uno dice: — Ah, per me è lo stesso. — Dice un altro: — Lei vuole dire allora che l’andrà male pei signori?

— Anche per i signori andrà lo stesso. Faranno i loro affari, viaggeranno su le loro automobili...

Scattò il fiaccheraio: — Ah! i signori che viaggiano su le automobili, che ci buttano tutta quella polvere in faccia..., che fanno la mattina una spesa che il mercato non basta mai....

— Tu li invidi — dissi. — A me sono indifferenti, loro, le loro automobili, i loro denari...

Ma il fiaccheraio, bizzarro, viso da salapuzio, obbietta e dice: — Ma le donne tutte in [p. 73 modifica]ghìngheri, le belle donne dei signori come si possono avere senza soldi? A noi non ci guardano nemmeno...

— Ma non avete le vostre donne?

— Nere come la madonna di Loreto, buone a fetare come i conigli, e poi puzzano di pesce. Vogliamo anche noi le donne bianche con l’odor della cipria e che non facciano tanti figli...

Scoppia una risata. Io non so che rispondere.

***

Lunedì, 7 Settembre 1914.

Prego il postino, un buon uomo che ha un po’ di conoscenza dell’alfabeto, di cambiarmi un assegno della Banca d’Italia.

— La posta non cambia.

— Perchè?

Risponde gravemente: — Perchè non si fa niente nel mondo senza interesse!

Cara la mia Romagna, se perdi quel poco di generosità che ancora possiedi, che ti rimarrà?

***

— È vero che si fa la pace? — mi chiede il salumiere. Ho letto il titolo del giornale, che ha lì il banco. Dice: «I Governi inglese, francese e russo si impegnano mutuamente a non [p. 74 modifica]concludere la pace separatamente durante la guerra attuale»

— Il contrario — rispondo — : è la guerra terribile, senza fine, senza quartiere!

E il salumaio se la piglia con me perchè so leggere.

I russi hanno vinto in Galizia.

Dicono che la spina dorsale dell’esercito austriaco è rotta.

Ci vuol altro!

Si sente dire: Finis Austriae! Ci vuol altro! L’Austria è come quei gattacci che uno scaccia di qua, uno percuote di là, uno gli mozza la coda. Ma èccolo ancora lassù sul tetto con la coda più lunga e gli occhiacci più grifagni di prima!

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Molti sono per la guerra: Alceste de Ambris, il sindacalista. Anche la anarchica Maria Rygier è per la guerra. Questi passaggi, dall’apologia dei soldati indisciplinati, agli entusiasmi per la guerra sono antipatici.

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8 Settembre.

Natività di Maria Vergine. Se l’avesse saputo, non avrebbe sacrificato suo figlio.

10 Settembre 1914. Il capo socialista tedesco, [p. 75 modifica]Ludvrig Frank, morto nella guerra. Deputato, giovane, avvocato di grido: odiava le teorie vacue. Era figlio di popolo. Morto con una palla alla tempia, in Lorena, all’avanguardia. I giornali riportano di lui alcune espressioni ben commoventi.

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Il Corriere della Sera di oggi reca: «I socialisti si riunirono ier sera al Teatro del Popolo per accordarsi sull’atteggiamento da tenere nell’attuale momento politico».

Hanno parlato autorevoli oratori: ma si è fatta mezzanotte. Il resto a domani. Follia guerresca, neutralità ad ogni costo, guerra borghese, proletariato che non ha patria, patria di lor signori, proteste contro la guerra, guerra santa del proletariato, ecc. Il resto a domani — Queste frasi mi fanno l’effetto di visioni di sogno, che cozzano sorprese dal terribile risveglio della realtà. Non si è fatta mezzanotte. È l’alba! Ludovico Frank! Germania! Germania! Ammaestratrice tremenda della crudele realtà che governa il mondo! Che peccato che il dio Thor ti abbia preso la mano!

Ve però nel discorso di Mussolini, uno degli oratori, un pensiero: la preoccupazione per l’Italia! Egli parlò anche di autocandidatura dell’Italia a grande nazione. [p. 76 modifica]

Senza ironia! sarebbe desiderabile che il popolo d’Italia ponesse la sua candidatura a nazione! Necessario è dignità di nazione. Non necessario grande nazione!

I nazionalisti inveiscono invece contro i socialisti e contro i bravi mercanti e moderati lombardi e il loro piede di casa!

Grande Italia! — essi dicono — Piccola Italia! — rispondono quegli altri.

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L’enciclica del nuovo papa contro la guerra non mi piace niente. Ma lasci stare la Madonna! Oh, povero Pio X! Egli disse:

— Io non benedico niente e benedico tutti! — o almeno si dice che l’abbia detto all’Ambasciatore d’Austria, quando questi lo pregò di benedire le armi imperiali.

Avrebbe voluto. Pio X, come il predecessore suo che andò contro Attila, andare contro il vincitore tremendo! Ma a quei tempi apparvero anche San Pietro, e San Paolo. Lui era solo, ed è morto!

Dicono che il nuovo Papa sia grande politico.

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Bellaria, 12 Settembre 1914.

Leggo come anche il Consiglio Comunale di [p. 77 modifica]Milano plaude alla neutralità. Filippo Turati vi commemora, con parole molto poetiche, Giovanni Jaurès.

Curiosa una cosa: l’on. Turati adopera la parola destino. Egli sa che questa è parola irrazionale, e naturalmente ne domanda scusa. Ma no, ma no, onorevole! Quando non sappiamo che cosa dire, noi diciamo ancora: Destino, Fato, Dio e anche Maria Vergine.

***

Ma certamente non è dell’opinione del defunto Jaurès, nè dell’on. Turati, nè del Consiglio Comunale di Milano, un socialista il cui nome mi è nuovo che scrive nella terza pagina dello stesso numero dell’Avanti! un ben curioso articolo, Guerra e socialismo, in sostegno della guerra, mentre tutti sono per la neutralità. Come ha fatto l’Avanti! che è tutta pace, a pubblicare questo articolo che è tutta guerra? Il ragionamento, spoglio delle impurità verbali, dice così: «Compagni, non siamo tutti d’accordo che questa è la guerra borghese? Ebbene, la presente guerra borghese abbatte e sconvolge tutti i valori, brucia tutti i còdici: diritto privato, chiese, diritto internazionale, banche, famiglia, proprietà dell’ingegno, brevetti ecc. Orbene: questa guerra non è altro che la preparazione della nostra guerra. Il ministro inglese [p. 78 modifica]Asquith ha promesso che la guerra borghese durerà almeno venti anni. Aiutiamo, dunque, gli Stati borghesi a rovinarsi. Dopo comincerà la nostra guerra, la quale sarà così tremenda, con milioni di proletari, gridanti vendetta, che la attuale sarà in paragone, piccola cosa. Dopo di che avverrà la purificazione ideale. Bismark è stato il cancelliere di ferro della borghesia, Carlo Marx è il cancelliere di ferro del proletariato. Picchiamo, dunque, sodo (come dice il Kaiser), o compagni!»

Non so perchè invece di sorridere di queste profezie, mi è venuta una gran tristezza!

È una pagina apocalittica. Bisognerà ricordarla!

Certo questi re e imperatori che si sfidano a vicenda, sono pazzi! È la danza macabra dei re che corrono al suicidio.

Il signore, mio vicino di villa, mi dice, un po’ seccato: — Non si può mai sapere con precisione il numero dei morti. — Un pacifico, ben pensante signore! Vive nella sua casetta di campagna, come il grillo nel suo buco. Coltiva a tempo perso l’orticello. Egli non si affretta verso i giornali del mattino. Attende sino alle quattro che gli portino il suo Corriere della Sera. Ma non lo legge sùbito, lo ripone per il dopo pranzo quando fa siesta e fuma la pipa. Non ha figli che còrrano pericolo, non capitali in azioni che còrrano pericolo. — E, [p. 79 modifica]dice lei che vengano fin qui a bombardare? — mi domanda.

Ma è un fatto che non si può sapere il numero dei morti.

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Non ho osato mai in questi giorni fermare alcuna nota su la carta, temendo ogni mattina, all’aprir del giornale, un disinganno. Ma è oramai un fatto che nel campo di battaglia, da Parigi a Verdun, i francesi da sei giorni ributtano il nemico. No, i francesi non vinceranno, ma i germanici forse dovranno correggere il loro giudizio su la «imputridita» razza latina. Intanto ammettono che i francesi non furono mai vili.

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Bellaria, 1 Settembre 1914.

Come è trasformata la Francia! Deroulède, che pareva un maniaco, un superstite di altre età, è morto ieri; e rivive in ogni francese. La canzonetta del De Musset, Nous l’avons vu vôtre Rhin allemand, che si affievoliva nella malinconia del vecchio tempo romantico, oggi squilla a battaglia. Pare quasi risorgere la religione nell’empia terra di Francia. Parlano della Pulcella e di Rolando! [p. 80 modifica]

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14 Settembre, lunedì.

Il Carlino — strappato proprio all’arrivo del treno (attendevo in casa della sig.ra Maria Meloni, la madre del giovinetto che vuol far l’ussaro della morte) — ha un titolo che fa tremare il cuore: La rapida conquista del territorio francese da parte degli alleati. Gli austriaci battuti su tutta la linea di battaglia.

Joffre, il generale taciturno, ha parlato: «La nostra vittoria si afferma sempre più completa». È autentico? Pare cosa portentosa. L’immensa mole tedesca è arretrata oltre la Marna? Chi ha operato il miracolo?

Mi sta tutt’ora nella mente una descrizione del giornalista Campolonghi dove è rappresentato il passaggio dell’esercito germanico per Bruxelles: L’impressione che dànno le schiere germaniche sfilanti senza tregua, è quella di un fiume gonfio, inesauribile, di liquido acciaio, e su la cui onda, uniformemente grigia, un artista cerchi di ricamare con la mano possente qualche imagine umana.

Nelle stanze del giovanetto, dove leggo il giornale, sta il ritratto del Kaiser, alto, col colbacco e col teschio.

Chi ha avuto l’ardimento di venire a contatto con quella serpe di acciaio? [p. 81 modifica]

Lo stupore, il senso del miracolo ha percosso Parigi, prima ancora della gioia. In Nostra Donna di Parigi si adunò folla immensa. Instancabilmente la gente ripeteva: «Dio di clemenza, Dio vittorioso, salvate la Francia».

Appare la statua equestre di Giovanna d’Arco e tutto il popolo grida: «Liberatrice della patria, salvàteci!»

Il mio giovane ussaro della morte è avvilito.

— Ab, signore, non può essere! — mi dice — Il Gran Stato Maggiore tedesco ha preveduto anche questo. Deve essere una mossa strategica. Ah, potere trovarsi là! Combattere per l’imperatore!

— .... Se dopo si rimanesse in vita, come credono i giovani...

— Ma morire per una grande causa, non è morire!

***

Più grave pare la condizione dell’Austria. Vi è chi la dà per disperata. Ma chi ricorda i prodigi di resistenza militare di quell’impero, ne può dubitare. Comunque, pare grave. Certo, dopo il 1866, l’Austria privata della secolare base germanica, costretta a cercare altra base verso Oriente, ha qualcosa di fatale. La Prussia, per quanto fedele, non darà mai ciò che Bismarck tolse con Sadowa.

I nunzi degli immani colpi di maglio che l’ [p. 82 modifica]esercito russo impone all’Austria, hanno una ripercussione impressionante in Italia. «Abbasso l’Austria!», fu gridato ieri a Roma.

Sarebbe cosa nobile, ora, far guerra all’Austria? Si racconta che, quando avvenne il terremoto di Messina, fu detto in Austria: «Questo è il momento buono per assalire l’Italia!» Ma diremo noi lo stesso?

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Martedì, 15 Settembre 1914.

Barzini, in uno dei suoi migliori scritti da Parigi, dice che i parigini ci hanno preso gusto al Die Taube, l’aereoplano tedesco scaglia-bombe. Inesauribile popolo! L’ora della Taube, come si dice l’ora del tè.

Un’elegante donna parigina dice alla compagna: — Cochon d’alboche, il fait caca sur nous!

Questo è più rapido della descrizione di Gabriele d’Annunzio, in altre Faville del maglio datate da Parigi: la cortigiana abbandonata dal mantenitore, su gli alti tacchi, con un gioco sapiente di ginocchi e di lombi nella gonna stretta lungo le botteghe chiuse, sotto l’ingiuria delle oneste portinaie, già pronta ad accogliere il dragone bavaro o l’ussero della morte.

Dice anche cose note con parole folgoranti: Dove il carnaio si dissolve, quivi nascono i fermenti [p. 83 modifica]sublimi. Dove si sprofonda il peso mortale, quivi la libertà dell’anima si leva. Quanto più larga sarà l’offerta, tanto più alto sarà il prodigio. A pensarci bene, è anche l’idea di quel tale dell’Avanti!: distruggere per fare la purificazione ideale. Sempre lo stesso ragionamento.

Noi non rifiutiamo la guerra e la morte, ma glorifichiamo una più alta lode della vita.

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Mercoledì, 16 Settembre 1914.

Ho scoperto il mistero di quel povero figliuolo che vuole diventare ussaro della morte. Abbiamo parlato ieri, mentre tristamente annottava, lungo il mare.

I suoi vecchi erano al servizio di Casa d’Este, e vecchia nobiltà era la sua: ora più nulla! Un suo antico scortò, nel ’59, Francesco V d’Este nella fuga da Modena a Mantova. Ne ebbe in compenso non so quale magnifica villa. Ma il nuovo Governo, la democrazia, la rivoluzione non riconobbero il dono. Rimane soltanto lo stemma, memorie araldiche, nomi di parentado in Austria, o che altro disse. Alcunchè di confuso, povero figliuolo! di esagerato: ma alcunchè di vero ci doveva pur essere.

— Dunque lei non è italiano? [p. 84 modifica]

— Italiano sì, ma italiano austriaco.

— Lei non è, allora, nemmeno monarchico...

— Il re vada là — accennava i monti — in val di Moriana. È il suo posto quello lì?

— Quale?

— Quello dove l’ha messo la carbonieria, la mazzinianeria, la massoneria, e compagnia bella: Roma! Roma deve essere del papa. E il Lombardo-Veneto all’Austria! Francesco Ferdinando l’ha detto quando inaugurò il monumento a Radetzky: «Ritorneremo!» E l’avrebbe fatto!

— Così che lei ha sofferto molto per la morte di Francesco Ferdinando...

— Ho esposto per tre giorni la bandiera a lutto. Era la sua guerra, questa...

Ho domandato da chi avesse preso simili idee.

— Da me, dalla storia, pensando.

Ha vagheggiato tanti progetti per operare: frate domenicano, aviatore bombardiere, ussaro della morte. — Ma adesso bisogna ubbidire alla mamma. Poveretta, è sola.

Stetti un poco in silenzio e domandai in fine: — Lei che è religioso, non trova un contrasto fra Cristo e questi progetti bellicosi?

Alzò le spalle; borbottò: — Papa, Cristo, re, imperatore formano tutta una baracca! E poi chi ha più forza, l’adopera. I socialisti non fanno così anche loro? [p. 85 modifica]

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Giovedì, 17 Settembre.

Giorno natale di Titì in questa casetta al mare, dove ella vide il dì natale sei anni or sono.

Titì dice:

— È vero che oggi è il mio giorno? Chi si invita oggi a pranzo? Viene Marino Moretti? Vai a fare la torta dolce?

***

Marino Moretti! Spesso sono andato in bicicletta a trovarlo nella sua vecchia casa paterna, a Cesenatico, fiorita di gelsomini e davanti c’è il porto con le vele rosse. Ferme sono le navi, oggi che c’è la guerra. Spesso egli venne da noi.

Caro, mite, signorile Moretti! Diceva con la sua amabile voce, un po’ blesa: — C’è un po’ di guerra anche per noi. Nei giornali, non più novelle, non più poesie! La letteratura è abolita.

— E le pare un male?

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Bellaria, 19 Settembre 1914.

Sabato. Papini elenca (Giornale del Mattino) i vantaggi della guerra: La guerra in grande c’insegna per lo meno che la vita degli individui [p. 86 modifica]oscuri acquista valore soltanto quand’è perduta per la vita dei popoli gloriosi.

Dottrine un po’ alla Nietzsche e, come discorso ai soldati, non consigliabile; tanto più che non è esatto. È morto per la patria un giovane non oscuro, Carlo Pèguy, autore di un bel libro sul Mistero di Giovanna d’Arco.

Buono e caro Papini, se Ugo Foscolo avesse pensato come lei, mai avrebbe scritto i «Sepolcri»!

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Domenica, 20 Settembre.

Il numero ultimo della Critica Sociale porta uno scritto pieno di complicazione: I socialisti vogliono la neutralità per non uscirne assolutamente. La ragione è sempre la stessa: questa è la guerra borghese, la quale nasconde il perfido intento di sopprimere la lotta di classe, la santa guerra del proletariato. Se la paghi la borghesia la sua guerra! Ma v’è di più: se i socialisti volessero la guerra, commetterebbero un grave crimine perchè commesso coscientemente: «contribuirebbero cioè ad assassinare la Internazionale, nel supremo ricetto (l’Italia) dove si è rifugiata, nell’attesa della inevitabile risurrezione!»

Allora viene subito da dire: questo crimine lo [p. 87 modifica]hanno commesso i compagni socialisti della Germania...

Distinguiamo — risponde l’articolista.

E quando si comincia col distinguiamo, non si distingue più niente.

Non dovrebbe essere troppo facile, anche per il Conte di Cavour, fare il ministro degli Esteri in Italia «supremo ricetto dell’Internazionale».

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21 Settembre ’14.

I giornali riportano un disperato appello della Trento e Trieste che termina: «Italia, salvaci! Ora o mai».

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La stagione si è voltata: pioggia, vento, grande umidore, freddo; il mare in burrasca. Le nubi cavalcano sul mare. Il grosso fabbro, mio vicino e claudicante un po’ come Vulcano, esce dal suo antro con lo schioppaccio in mano e mi chiede licenza di sparare attorno alla mia casa.

— Perchè?

— Ma non vede? (Si vedeva da lontano: tutte rondini, rondini oltremarine, sbattute forse dal vento, dalla tempesta, che si erano abbattute lì, su la mia casa).

Il fabbro assicurò che con un colpo ne avrebbe [p. 88 modifica]fatte cadere cento. Lo pregai di desistere col pretesto delle donne. Se ne ebbe a male.

«Ma come? esse vengono dal mare, per un momento domandano ospitalità alla tua casa e tu — cioè io — le fai uccidere?»

Questo ragionamento era romantico; ma vi sono sensazioni che non si possono vincere.

Mi accostai alla casa: qualche centinaio di rondini, l’una presso dell’altra, fitte fitte, rigano di nero e di bianco il cornicione, sotto la gronda scrosciante: tutte le mensole, tutti gli scuri, ogni sporgenza aveva quel vivo ornamento. Ed ecco dal lato opposto ove io era, rintronò un colpo. Non il fabbro, ma il contadino. I bimbi del contadino, fra cui era Titì, raccoglievano allegramente rondini morte, rondini ferite.

La rondine ferita fra le mani di Titì: testolina tonda tonda, qualcosa di puro, di aereo; zampine lievemente rosee, che mai non toccarono l’infame terra! Non ci sono più le rondini. Hanno ripreso tutte il loro volo.

— La rondine ferita, Titì, non mangerà pane!

Si trascina in un angolo oscuro per morire. Le altre già volano verso l’oriente.

La sera è tetra. All’osteria, il fabbro, davanti al suo litro, mi dice che se gli avessi lasciato sparare, lui avrebbe ora la cena. Ora ha bevuto, beve e non ascolta obbiezioni: «L’uomo — dice — ha diritto su tutti, uccide tutti: necessità non ha [p. 89 modifica]legge!» Sì, ha detto così, il fabbro! Ed ha aggiunto quasi con un certo disprezzo: «E poi cos’è tutta questa compassione? Non rinasce forse tutto? Uomini grano, insalata, fagioli, uccelli, tutti rinascono! Ed io intanto, per cagion sua, sono senza cena!»

«Necessità non ha legge!» Chi disse al mondo di recente le stesse parole del fabbro?

Il ministro degli esteri germanico, von Jagow.

***

Bellaria, 22 Settembre.

Cattedrale di Reims, bombardata, incendiata!

Biblioteca di Louvain, incendiata! In furia da Parigi portano via la Venere di Milo, la Gioconda di Leonardo, la Vittoria di Samotracia! Nel Belgio occultano i quadri del Rubens. È venuto il giorno! È venuto il giorno in cui le antiche deità guerresche della Germania si leveranno dalle loro tombe favolose?

Quando cadranno le torri di Nostra Donna in Parigi?

Che cosa succede nel mondo?

***

I socialisti ufficiali e il loro gruppo parlamentare, hanno «lanciato» un manifesto ai compagni socialisti ed ai lavoratori italiani. [p. 90 modifica]

Dice: Nessuna concessione alla guerra, ma opposizione recisa, implacabile.

Che siano d’accordo con il Governo?

Anche Teodoro Wolff, nel Berliner Tageblatt, conforta cioè l’Italia a conservare la più stretta neutralità.

***

Bellaria, 24 Settembre 1914.

Giovedì. Bora, bora! Ha nevicato anche lassù in Carpegna. Le aiuole delle campanelle si sbattono con paura, son vizze, non hanno più colore. Sul mare livido le onde accorrono con fragore di battaglia: il sole vi batte ogni tanto sprazzi di un biancore troppo lucido.

Il tenentino — che era venuto qui per cura — ha ricevuto ordine di ritornare al reggimento.

Parte stamane. La sorella sua, piccina e gracile, trema come i fiori! Un’anima linda e dolce. Qui, al mare, ella non voleva che il fratello andasse troppo in là col sandolino; voleva che tenesse chiusa la pistola; che non andasse a caccia per non farsi male; insomma, ella, minore di età, lo sorvegliava. Nella cassettina militare ora gli ha messo un vasettino di miele, un pollastrino arrosto, cioccolata, uova, un formaggino. Io penso alle trincee fulminate sull’Aisne, dove si combatte da otto giorni, [p. 91 modifica]giorno e notte. La signorina è pallida: questa notte non ha dormito.

— Ma perchè c’è la guerra? — mi domanda contorcendosi come le povere campanelle lì nelle aiuole della stazione.

— Perchè soffia la bora? Perchè siamo nati? Lo sa lei, signorina?

Forse lei pensava che la montura militare fosse nient’altro che una bella toilette maschile.

Una vittima della guerra. Guido Fusinato si è ucciso. Lo ricordo nel collegio Marco Foscarini, a Venezia. Snello, signorile: uno dei primi a scuola, e tiratore bellissimo di fioretto. Andò poi — come è costume dei nostri giovani eletti — a perfezionarsi a Berlino, dove studiò il più preciso diritto internazionale, poi diventò professore all’Università, poi ministro d’Italia. Ma presentemente è professore di diritto internazionale un homunculus di molto peso, e alto quasi come un uomo: il proiettile del mortaio da 420 mm.!

Questo proiettile combinato con il pangermanista Alldeutscher Atlas deve avere contribuito ad acuire la neurastenia del povero Fusinato.

***

Bellaria, 26 Settembre 1914.

Bisognerà riprendere la via del ritorno; [p. 92 modifica]bisognerà rimettere le scarpe ai piedi ed il colletto al collo. È seccante! Stelle dell’Orsa, stella di Venere, stella diana, gran manto dell’Aurora, arrivederci — se ci rivedremo — un altro anno! Queste cose celesti esistono, certamente, anche sopra Milano; anzi in piazza del Duomo c’è un omarino col cannocchiale che le fa vedere più da vicino per mezza lira. Ma è altra cosa. Mi avviene di trovare quasi naturale la domanda di Titì: «La luna che c’è a Milano, è come quella che c’è a Bellaria?»

Guardo il contadino che dissoda con la vanga il terreno: il contadino che semina la fava da seppellire come ingrasso di questa sterile arena, quando la primavera verrà. L’inverno parla della primavera mercè la mirabile alternativa delle opere.

Giorni ed Opere di Esiodo!

Alcuni pescatori allestiscono con ogni cura la loro tartana e la riforniscono di ogni provvisione. Andranno alle bocche del Po, lontani da ogni consorzio umano, da ogni voce umana, a pescare anguille. Vi rimarranno fin sotto Natale. Dormono profondi sonni, bevono nero vino. Quanta invidia!

Addio, dunque, stelle dell’Orsa, stella diana, animato alfabeto del cielo! [p. 93 modifica]

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Milano, 30 Settembre 1914.

Ho trovato Bologna normale, Milano — poi — normalissima.

Quel giorno, due agosto, fu un momento di pànico. Forse io ne ebbi un’impressione eccessiva: i signori erano in villa, le cocottine erano in missione ai mari ed ai monti.

Oggi la città ha l’aspetto normale. «Si credeva peggio — dice la gente — Molta merce si spedisce in Germania».

Si sente parlare di esaurimento: i giganti in guerra cadranno in istato comatoso e allora verrà fuori l’Italia e dirà: «Che cosa c’è? Son qua io!»

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Ho trovato per via — dopo un anno — il dottor Biagi, un savio e valente medico. Egli va a portare la salute, e nel mondo si porta la morte.

Dice sorridendo: — Io non ho mai creduto troppo negli uomini.

Io gli domando: — Non era anche lei uno dei credenti nei destini umani? Oh, da quando ha perso la sua fede?

— Da quando ho assistito ai drammi di Sofocle e di Eschilo. Ma già! Quando ho visto che gli uomini di duemila e cinquecento anni fa ragionavano come adesso, ho detto: Addio fichi! [p. 94 modifica]

E allora avviene una cosa che pare da pazzi ed è savia: una civiltà di uomini distrugge la civiltà precedente. Gli uomini vogliono credere nel bene della vita, ad ogni costo!

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Milano, 7 Ottobre 1914.

Lungo il vecchio naviglio: via Senato.

Nel cortile triste, verde, del gran palazzo del Senato, fra le colonne solitarie, da anni ed anni, sta in prigionia Napoleone terzo. Col berrettino in mano egli saluta il popolo di Milano, ma il cavallo di bronzo con la testa in giù pare spargere lagrimoni.

Fu lui, quell’imperatore, che liberò nel ’59 questa città dagli austriaci. Era un imperatore che allora faceva tremare l’Europa.

Adesso c’è quest’altro che fa tremare, il Kaiser. Tutto il mondo è pieno del suo nome. Attila, Alarico, Sigfrido!

Noi nel 1870 siamo andati ad abitare in Campidoglio. Ma anche lui ha una casa sul Campidoglio6.

Il suo Bismarck, il suo grande nonno — lui dice — sono quelli che ci hanno fatto andare a [p. 95 modifica]Roma: «Se non c’era la Prussia, non si andava a Roma».

E quando morì Vittorio Emanuele secondo, fu lui, che allora era principe, che presentò al popolo di Roma un bambino: quello che adesso è il nostro re.

Poi diventò Kaiser.

Kaiser, Guglielmo secondo, il giovane baldo; e venne spesso a Roma e dava vigorose strette di mano al nostro re.

A Venezia veniva anche più di sovente. Vi onorava belle donne, e mi sta in mente di aver letto come una volta volle assaggiare il pesce fritto da un pubblico friggitore. Oh, ci era molto benevolo il giovane Kaiser; e quando quell’altro imperatore, quello vecchio di Vienna, ci faceva di brutte smorfie ogni tanto, il Kaiser giovane pareva dire: «Herren taliani, non ci badate! È un tic nervoso che hanno quelli di Absburgo. Non tutti posseggono il bel sorriso, il bel modo gentile di noi, ateniesi della Sprea. Garantisco io!» Egli era così forte!

Ma mi sta a mente anche un altro fatto che mi fece grande impressione. Una volta il Kaiser andò a Roma, e cavalcò per tutta la città eterna, per tutto un dì, alla testa di un nostro drappello di carabinieri. [p. 96 modifica]

Al popolo romano questa cavalcata non fece gran caso. Ne ha visti tanti di imperatori! Anzi si racconta che, un dì, il Kaiser vestito di abiti borghesi, si recasse con un suo aiutante in un modesto spaccio di vino delli Castelli in Trastevere, e che l’aiutante di campo, per godersi e far godere dell’immenso stupore dell’oste, gli domandasse: «Sapete voi chi avete l’onore di ospitare in questo momento nel vostro negozio? L’imperatore di Germania!» E l’oste per nulla turbato, rispose con largo sorriso: «Me rillegro, me rillegro!» Come dire: che bella carriera ha fatto quel signore.

Non ci fu che una gatta, una vecchia gatta che abitava in Campidoglio, che fece opposizione al Kaiser. Egli apponeva la imperial firma nel registro. La gatta montò su e scancellò, con gran terrore dei circostanti.

Quella gatta discendeva dalle oche capitoline.

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Che cosa era prima della guerra, per noi, Guglielmo? Un personaggio eminentemente teatrale: una specie di Lohengrin con certe pose medievali, che urtavano tremendamente i nervi alle nostre democrazie, specie quando minacciava di radere al suolo la rocca forte del socialismo: però simpatico: Guglielmone! Guglielmone, il monco, [p. 97 modifica]come diceva il popolo a Roma. Impossibile però era per noi prenderlo sul serio! Quei discorsi imprudenti che, sùbito, un qualche gravissimo personaggio della Dieta germanica si affrettava a mettere in sordina, quel Dio terribile in capo linea di tutte le falangi delle sue concioni militari, era qualcosa che faceva sorridere la nostra borghesia!

Ci voleva tutta la sancta simplicitas dei germani per tollerarlo. Ammirava egli, il Kaiser, i nostri diroccati castelli imperiali, ricordo degli Ottoni, degli Hohenstaufen? Ma noi, potendo, glieli avremmo ben spediti tutti per pacco postale, in Germania!

«Badate però — dicevano molti — che sotto quella teatralità si nasconde un omarino che sa lavorare molto bene gli affari del suo paese».

Questo personaggio, ora, improvvisamente, è balzato dal palco scenico nella più tragica realtà. La rocca forte della social-democrazia non l’ha abbattuta, ma più semplicemente: su di essa egli ha inalberato il gonfalone imperiale con lo stemma del santo augello dantesco. Tutti ne sono impensieriti.

Questo è un fatto: il socialista tedesco Haase ha dichiarato nel Reichstag: «Nell’ora del pericolo noi siamo per la patria!»

E siamo sinceri! Anche nei tanti congressi [p. 98 modifica]internazionali, i socialisti tedeschi hanno sempre avvertito che, con dolore, sì, ma avrebbero ubbidito al loro Kaiser.

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Milano, 30 Ottobre 1914.

Più nulla commuove. I corrispondenti di guerra ci perdono la loro arte. Particolari di stragi, corazzate colate a picco, massacri di bimbi, fucilazioni in massa, uccisione di feriti e di prigionieri, distruzione di corpi d’esercito ecc., tutto si legge con molta indifferenza.

Pensare a quello che accadde lo scorso giugno, quando in Ancona i carabinieri fecero fuoco ed uccisero due o tre dimostranti! «È ora di finirla con queste stragi! La vita umana è sacra. Vi sfidiamo, o governo di sanguinari, a fare altre vittime umane!» Anche il Corriere dei Piccoli adesso fa le vignette dei suoi bamboccini in favolose visioni di guerra. Il giornale La Sigaretta rappresenta le sue ideali meretrici in perfetto costume di guerra.

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È caduta Anversa. Scrive la Vossiche Zeitung: Un attacco così formidabile è stato possibile perchè i tedeschi disponevano di un cannone [p. 99 modifica]superiore, il quale distrusse in breve tempo tutte le cupole corazzate e tutte le opere di muratura.

È una pura constatazione di fatti: tutte le fortezze a cui si accostarono i tedeschi, sono cadute dopo pochi giorni.

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30 Ottobre. Il mio scolaro tedesco che mi promise l’orologio a cucù, della Selvanera, mi manda un saluto da X***.

Egli è Kriegsfreiwillinger. Mi promette che il Kuckùck dello Schwarzwald me lo manderà finita la guerra.

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2 Novembre.

Nel giorno dei Morti. Gino... è venuto ier sera a salutarmi, dopo sei mesi che non lo vedevo. In fretta. Ha la carrozza alla porta. Parte per la Spagna. Però anche in quei pochi minuti, si parlò della guerra.

Dice gestendo convulsamente:

— Sente lei odor d’ozono?

— D’ozono?

— Sì, l’odore sano, purificatore delle grandi tempeste! La guerra è la gran purificatrice. Gloria alla Germania! È la bancarotta completa della [p. 100 modifica]miserabile civiltà in cui noi credevamo! Monumenti, codici, diritto, proprietà, tutto crolla. Ed è la Germania — la nazione più avanzata in questa civiltà — che fa crollare tutta la vergognosa baracca.

— Il guerriero — continuò lui sempre più entusiasta — vincerà il mercante e il filisteo! Ricorda la profezia di Zaratustra?

Così ci siamo lasciati. La sua carrozza è scomparsa nella notte, sotto la dolorosa pioggia. Egli parte per terre lontane!

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Gino ha diciannove anni!

Tutti questi giovani fanno lo stesso ragionamento: vogliono la purificazione ideale. E non capiscono che la purificazione non può essere che un fatto interiore.

Anche quello che ha scritto quell’articolo apocalittico sull’Avanti! deve essere un giovane.

Mi piacerebbe che ognuno che scrive, mettesse oltre al nome, l’età, e come sta di salute.

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10 Novembre 1914, Milano.

Tsing-Tao, perla delle colonie tedesche, che costava tanto oro e doveva diffondere tanta Kultur [p. 101 modifica]in Oriente, è, infine, caduta sotto l’assalto dei Giapponesi.

I giornali tedeschi sono pieni di parole terribili. «Onta a te, o Inghilterra, che hai spinto il Giappone contro la Germania, e guai a te, o Giappone!»

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Oh, come sono furenti i tedeschi contro l’Inghilterra e contro quelli che scrivono poco bene della Germania! E, viceversa, come sono riconoscenti, gentili verso quelli che si mostrano appena un po’ benevoli verso di loro! Bisogna leggere gli opuscoli, scritti in italiano, con cui i germani inondano il nostro mondo commerciale ed universitario!

Trovo scritto così:

«C’è più filosofia in un mortaio tedesco che in un libro di filosofia..., non in tedesco».

Questo è troppo! Ma non lo ha detto un tedesco, bensì un intellettuale italiano; ed uno dei più autorevoli.

Hans Barth è un tedesco, amico d’Italia. Risiede in Roma; è corrispondente del Berliner Tageblatt; ha scritto un dionisiaco libro bizzarro su le osterie d’Italia, al quale libro il d’Annunzio premise una delle sue prose più eleganti. [p. 102 modifica]

Ora Hans Barth scrive una lettera che è riprodotta nel Secolo di ieri, in cui dice molte cose bellissime e già dette: ma quello che più interessa sono le parole in cui dichiara che in Germania non si tratta di una guerra dinastica e diplomatica ma della guerra più popolare che un popolo possa mai combattere...., di una guerra veramente nazionale ed ideale.

Allora, quello stesso che diceva Missiroli: imperialismo socialista sotto lo stemma feudale degli Hohenzollern!

Che tremenda confusione!

Chi poi viene dalla Germania reca la maravigliosa novella che quell’immenso popolo è stupendamente tranquillo, sicuro del suo diritto, sicuro della vittoria. La gran dama teutonica e l’umile operaia ora fanno, con pacate mani, grosse calze di lana bigia per i soldati.

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Dicono i giornali che l’Inghilterra, la sola che si era permessa il lusso aristocratico della libertà, dovrà costringere, per legge, i suoi figli al servizio militare per avere i milioni dei combattenti che questa guerra domanda. Ma allora le democrazie sono bellicose e tiranniche più delle aristocrazie! [p. 103 modifica]

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Milano, 7 dicembre 1915, Sant’Ambrogio.

«Vater unser, der du in Himmel oppure, Padre nostro che sei nei cieli, il che fa lo stesso» andavo mormorando fra me, ritornandomene a casa: «Padre Iddio, il quale forse àbiti nel cielo, ma in terra, no, certo!»

Attraversavo la piazza di Sant’Ambrogio, affollata in quella domenica della vecchia fiera: — Oh, bei! Oh, bei!

Un nebbione denso calava già dalle torri quadrate della basilica; e si mescolava col fumo dei friggitori e dei rivenditori di caldarroste.

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Perchè mi soffermai davanti al banco del venditore degli specifici contro i calli? Perchè costui aveva una marmotta.

Perchè, poi, la marmotta? Ah, per dire che il grasso della marmotta è semplicemente miracoloso, come tutti dovrebbero sapere.

Apriva una cassetta e mostrava la marmotta al pubblico.

Ma non era costei la interessante, e nemmeno l’imbonitore pei calli, nè la serpe, nè il teschio che stava sul banco.

L’interessante per me era il costume e la vita della marmotta, come spiegava quell’imbonitore, [p. 104 modifica]ed era la sola verità che dicesse: «un animale che, quando viene — vedete — il novembre, si scava una tana sotto terra e la guarnisce di un materasso di foglie secche e fine, e lì si cova, grassa grassa, e dorme in soave letargo finchè vien l’aprile; e allora esce fuori, magra magra, e manda fischi per tutta la selva»

«Bello! — pensava — dormire senza morire e senza sognare, come sospetta il principe Amleto, e poi l’aprile, e la selva rinascente, e poi i fischi, cioè i richiami dell’amore, allo scopo di perpetuare la felice razza delle marmotte....»

E certo la marmotta era brutta; era uno stùpido animale, a somiglianza di un gran topo decumano, con setole che pareva un istrice; ma, Vater unser, der du in Himmel, perchè hai tu creato la marmotta più felice di me? Un animale che dorme sei mesi continui e si desta una sol volta, in aprile, mentre a me sfugge così spesso il sonno, in una sola notte! Ah, Vater unser, der du in Himmel!

Ed allora una voce mi scosse, dicendo:

— Lei guarda la marmotta?

— Ah, caro Santamaria, sì: guardo la marmotta.

E’ un uomo ben conservato da tanti anni, un uomo retto. Tutte le domeniche va a Sant’Ambrogio col suo libro da messa sotto il braccio e la sua famiglia, e ne esce verso mezzodì. [p. 105 modifica]

Pel Corpus Domini regge il baldacchino nella processione. Tutto ciò gli fa molto onore. Ma non so perchè: siamo stati per tanti anni colleghi al ginnasio Parini, ma più in là del lei non siamo andati. Ora quando mi incontra, un sorrisino, due paroline, e passa via!

Perchè? Anch’io — ohimè — sono un uomo retto!

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La guarda anche lui la marmotta e fa:

— Oh, mica bella...

— Possiamo, a rigor di termini, affermare — dissi io — che è una brutta bestia: ma l’uomo è più orribile.

— Non dica così — , mi corresse sùbito.

— Che male c’è?

Lui fa così con la testa, come quando si ode uno sproposito grosso. Se fossi stato uno scolaro mi avrebbe mandato a posto con uno zero.

Aspetta che mi corregga da me.

Dissi io: — Forse, perchè l’uomo è stato fabbricato da Dio, non è permesso dirne male? lei voleva dir questo?

— Mi pare — , rispose con intenzione.

— Ma non sente lei, un invincibile terrore per quello che oggi commettono gli uomini? [p. 106 modifica]

— Mio caro — mi rispose gravemente — , bisognerebbe che lei potesse interrogare nel segreto il cuore di questi uomini, compresi re, imperatori, generali, ministri, e allora li vedrebbe piangere amaramente ed umiliarsi. Vedrebbe dove è il loro orgoglio!

— Sarà! Ma intanto tirano fior di cannonate!

— Lo so — rispose — , vi saranno le sue vittime, i suoi morti; ma intanto io scorgo un pocolino di Bene, che lavora lavora, che si fa strada. Creda, la luce del Signore verrà....

— Così che allora lei, in conclusione, è contento?

— Contento? Spero nel Bene. E poi è dovere per noi cristiani sperare nel Bene.

— Non mi pare! Il vero Cristianesimo è negazione di fede nelle cose mondane, e quindi nel Bene fra gli uomini.

— Ma lei — dice quel signore, e non ride più — lei vuole interpretare i sacri testi con la sua ragione!

— E, scusi, con che devo interpretare?

— Mio caro — dice con amàbile compatimento — , quando lei ha un qualche dubbio, non si rivolga nè alla sua ragione nè a quella dei filosofi. Si rivolga ad un sacerdote. Creda, ne sa di più un pretino, il quale sia consacrato, che il più grande dei filosofi!

— Non discuto — risposi — il miracolo della [p. 107 modifica]consacrazione. Ma ci penserò ancora prima di ricorrere ai preti.

— Cominci, almeno, con l’invocare la Divina Grazia.

— Be’, questa è una cosa che si può fare. E come si fa ad invocare la Divina Grazia?

— Si domanda a Dio.

— La cosa mi piace. E se Dio non me la manda?

— Si torna a domandare. E intanto si frequentano le chiese.

— Sì, questa è una cosa che mi piace, e ne terrò conto. E perchè, scusi, il Papa nuovo non dà questi bei consigli al Kaiser?

— Ma non siamo noi — dice — che dobbiamo dare consigli al Pontefice! Lo sa lui quello che fa! E già che lo vuol sapere, non sa lei che tutti, tutti siamo colpevoli?

— Anch’io?

Mi pare che se la prenda con me come fossi io uno di quelli che vògliono la guerra. Dice:

— Tutti quelli che si allontanano dalla via del Signore!

***

Così quel signore toglie commiato da me; ed io rimango lì, davanti, alla marmotta ed all’imbonitore dei calli.

Ma oramai davanti al banchetto del macero, [p. 108 modifica]magro imbonitore c’era poca gente, o non avessero calli o fosse mezzodì.

E l’imbonitore trasse pane e lugànega, e si mise a masticare. Poi da una bottiglia da litro, fatta di vetro verde, e pieno di cupo vino paonazzo, traeva lunghi sorsi e faceva glu glu! con un senso di beatitudine.

La nebbia calava già sulle torri di Sant’Ambrogio.

Ma, Vater unser, dimmi tu, per divina grazia, chi crede ai preti come Cristo credeva al levita; chi non potrebbe mai mandar giù per sua beatitudine quel feroce vino, che quell’imbonitore inghiotte; chi non è nato animale in letargo come la marmotta, cosa sta a fare nel mondo, Vater unser, o Padre nostro che stai nei cieli?

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Milano, 24 dicembre 1914.

Vigilia di Natale. I vetri imbiancano appena. Ricami di gelo ai vetri.

Titì si è destata.

Sento il suo grido, dal mio studio: — Viva l’Italia!

Perchè, poi, questo grido?

— Ciao, Titì, dormi che è notte.

— Viva la bandiera bianca rossa e verde, la più bella di tutte. [p. 109 modifica]

— Dormi, Titì.

L’allegria si sveglia. — C’è la neve? — Titì ha sognato l’albero del Natale, che è di là.

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A quest’ora, anche in Germania, bambini e bambine si desteranno prima del tempo. O, die fröhliche Zeit!, dicono i tedeschi.

Ma l’imperatore tedesco dice, la notte di Natale: «Noi accampiamo in terra nemica e la nostra spada è puntata contro il nemico».

— No, cara, dormi. E’ ancora notte profonda.

— Mi sembra — dice Titì — di vedere il sole.

— Ma non esiste più sole.

E’ ben terribile! Anche una fra le cose più care e pure del mondo, come vedere l’aspetto dei propri figli, oggi non interessa più.

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25 dicembre 1914.

Cesarino è un bambolino tutto roseo e ben sveglio: vicino di casa. Ha tre anni e mezzo. Egli ai dì passati ha dato le botte alla Titi ed anche i mòrseghi; sotto questo ragionevole pretesto che i donn bisogna pestaj giò. Ma adesso più, perchè adesso sono già grande come un metro. [p. 110 modifica]

Egli è dunque venuto (ore dieci) a trovare Titì ed a mostrare i doni che gli ha portato la notte di Natale, Bambin Gesù: un Bambin Gesù molto bellicoso, perchè Cesarino risultava di una comicità irresistibile: la sua testolina tonda è sottratta per metà da un piumato cappello alla bersagliera; zaino con la tenda affardellata che gli fa sporgere la pancia ritondetta; gavetta, tromba, fucile; e tutta questa armatura sopra un grembiule bianco bianco, da cui escono due pantofoline rosse.

Ha dato spiegazioni sui doni del Bambin Gesù, e poi si è seduto in una seggiolina di vimini sotto l’albero di Natale e guarda in su le melarance appese, i torroncini, i fondants.

— Cesarino, tu, dunque, vuoi andare alla guerra?

Sì, sont preparaa, ghe manca niente, — ma è distratto perchè guarda, in su, l’albero di Natale.

Sua mamma non solo lo ha armato, ma lo ha lavato così bene che, colorito e fresco come è, pare un fondant di rosa.

— Hai anche la gavetta, Cesarino?

Sì, per la pasta sutta.

(È un’impressione dal vero. Sotto le nostre finestre stanno schiere di miserabili con gamelle, bidoni, in attesa della pasta asciutta che i soldati della caserma dànno a loro con una disgustevole generosità; perchè, o i soldati sono [p. 111 modifica]irragionevolmente pretensiosi o la pasta è immangiabile: due cose che non dovrebbero essere).

— Ma tu hai anche lo schioppo, Cesarino!

Adess sont minga bon de sparà. Ma impararoo.

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Cesarino, Cesarino, se tu dovessi sul serio esser chiamato sotto le armi, la madre tua non ti avrebbe certo fatto trovare questi doni del Santo Natale.

Cesarino, Cesarino, con le pantofoline rosse, per non sentir freddo, conosci tu i campi gelidi dove i figli non vedranno più i vecchi padri, e i padri non vedranno più i piccoli figli? Cesarino, non guardare le melarance, mettiamo le cose a posto! La poesia di Natale non è più:

               Per la notte di Natale
               È venuto un bel bambino...

Questa è una falsa poesia. Senti quella vera:

     ......Una feroce
     Forza il mondo possiede e fa nomarsi
     Dritto: la man degli avi insanguinata
     Seminò l'ingiustizia; i padri l’hanno
     Coltivata col sangue; e omai la terra
     Altra messe non dà.

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— Non capisci?

Caro Cesarino, anche molti uomini la capiscono come te questa cantilena.

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26 Dicembre 1914.

La guerra in primavera! E’ su le labbra di tutti. Dunque, gennaio, febbraio, marzo: tre mesi di vita. Chi ne sa niente? Non credo che l’Italia voglia la guerra: è il terreno, sono le sabbie mobili, che frànano verso la guerra. V’è chi dice che il Governo fa spese militari approfittando del silenzio a cui sono costretti i socialisti.

La gente però è come prima. Per Natale, la gente ha mangiato torrone, mostarda, panettone, pan certosino; il Papa è stato su le generali: ha detto in concistoro: Deh, cadano al suolo le armi fratricide! Il terreno si muove anche sotto i piedi di lui, pontefice, come degli altri uomini. L’umanità è quella che è: e Missiroli ha ragione quando scrive (Giornale d’Italia, 26 dicembre) che Gesù sulla Croce è il simbolo eterno della tragedia della Umanità; è la tragedia del padre che si illude col suo sacrificio di risparmiare ai figli il tributo di dolore e di sangue. Nessuno sfugge al sacrificio della creazione.

Ben detto, caro Missiroli. Sono però cose [p. 113 modifica]osservate da una quota di tremila metri d’altezza.

Ed allora si finisce col giustificare tutto, anche con il Vangelo di Cristo, là dove Cristo dice: Non sono venuto a portare la pace, ma la spada.

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28 decembre 1914.

Goffredo Bellonci rincara oggi (Giornale d’Italia) la dose di Missiroli. La guerra, un dramma divino. Ma sì! Lo dice Nietzsche!

E se lo dice Nietzsche? e se lo dice il professor G..., che importa?

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I positivisti la pensano diversamente!

In Italia non ce un uomo positivo che non ne trovi uno anche più positivo: per esempio il prof. Achille Loria.

Egli in una sua conferenza (Milano, Università Popolare, 28 decembre) ha «criticamente vagliate le spiegazioni che comunemente si dànno dell’attuale immenso conflitto».

La prava volontà dei re, imperatori, ecc.? No!

La preparazione guerresca della Germania? No!

Rivalità industriale e commerciale fra Inghilterra e Germania? Piuttosto.... no! [p. 114 modifica]

La causa prima, efficiente, sostanziale, afferma il dotto economista, si deve ricercare in una degressione del profitto capitalista (supponiamo di un 3 per cento, invece del 10 per cento).

Il capitale trovando in patria soltanto il 3 per cento, cerca il 10 per cento, espandendosi nelle terre non ancora entrate nell’orbita della civiltà industriale. I capitalismi, cioè, si vengono ad urtare e cercano di distruggersi a vicenda. Ecco tutto.

Ed il rimedio? La guarigione? Eccola:

«La guarigione non potrà avvenire se non per effetto dell’instaurarsi nel mondo di una economia superiore, che sarà anche una superiore civiltà, e dalla quale soltanto avrà principio una nuova forma indefettibile di progresso umano, illuminata dal raggio mite della pace».

Così è finita la conferenza del prof. Loria: è finita, ma — come si può vedere — spunta il Sol dell’avvenir.

Spaventoso bisogno nell’uomo di credere!

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I resoconti dei giornali parlano di ovazioni e del più sincero entusiasmo da parte della folla straordinaria che assisteva alla magnifica conferenza; la quale folla doveva essere la stessa che assisteva alle conferenze di tanti anni fa di [p. 115 modifica]Guglielmo Ferrero, quando dimostrava come la guerra non era altro che un fenomeno dovuto alle vecchie società a base militarista e teocratica, mentre con la nuova civiltà a base industriale avremmo goduta del raggio mite — anche lui diceva così — della pace.

Bei tempi quando si combatteva per la bella Elena, invece che per il dieci per cento!

Ma in qualche libro io ho letto che non è vero; non fu per la bella Elena che la guerra di Troia fu combattuta! La bella Elena non fu che un pretesto. La vera ragione fu un’altra: che gli Dei di Olimpo furono preoccupati del numero eccessivo degli uomini sulla superficie terrestre, e allora escogitarono questo mezzo di distruzione. E allora? Oggi che siamo in tanti di più e aumentiamo continuamente?

Però Omero non dice mai che la guerra è un dramma divino, ma la chiama orrida guerra, dolorosa guerra.

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20 Gennaio 1915.

Germania, Germania! Mi è stato raccontato — da chi venne di là — di una donna germanica la quale perdette il marito in guerra, di altra donna che perdette il figlio, i figli. Ed hanno detto: [p. 116 modifica] Macht nichts, cioè Nil est, Non fa nulla. «Ma voi non moverete contro di noi, italiani?» Che muoiano i figli, macht nichts. Che gli italiani non si muovano, molto importa!

Ricevo questa lettera da uno dei miei scolari germanici del Circolo Filologico di Milano: un giovane altissimo di statura, un bel giovane, e un buon giovane, perchè non dirlo?


Central • Pferde • Depot 6 Leib Drag Regiment Darnistad (Assia)

lì 14 Gennaio 1915

Gentilissimo Signor Prof. Panzini!

Prima, buona salute pel capo d’anno. Ho l’onore di comunicarle, che io ancora vivo. Benchè sono già stato in cinque battaglie non sono ancora ferito. Sono ritornato dalla frontiera francese con un trasporto degli prigionieri alla «Concentrations-Lager» (in latino castra). Ma, devo andare di nuovo in questa guerra spaventevole e bensì presto, forse in prossimo tempo, e perciò mando a Ella, pregiatissimo magister la mia fotografia, perchè non so se io ritornerò. Questoggi ricevei la notizia dolorosa dal grande disastro, dal terremoto in Italia negli Abruzzi. Conosco bene quella paese, perchè sono già stato là. Tal notizia dalla sua disgrazia mi ha afflitto profondamente e colla maggior compassione mi rammarico delle sue perdite.

Mi ricordo adesso, che Francia ha data dopo al terremoto in Messina: ottocento mila, ma Germania dieci milioni! Frattanto non ho dimenticato tutto a sua bella lingua, benchè non ho l’esercizio qui, quasi nulla. Ed in Italia non ho imparato molto. Ella sa bene! Principalmente sono stato [p. 117 modifica]sempre nemico del passato remoto, molto difficile per me ed inutile per altri. Mi ricordo bene con molto piacere, che ella, Signore, è stato un animo cordiale dei tedeschi, permette perciò, che parlo adesso tedesco.

Ia Herr Panzini ich weiss, dass Sie stets den deutschen Fleiss und die deutsche Liebsamkeit bewundert haben und Sie werden nicht das glauben, was unsere Feinde von uns sagen. Es ist alles eine einzige grosse Lüge, was aus Paris, London und Petersburg über uns geschrieben wird. Sie haben sich nie getäuscht in der deutschen Nation. Unsere Soldaten ohne Ubertreibung zu sagen, sind die tapfersten der Welt. Ich habe diete Tatsache oft und immer beobachten hönnen: vie angeschossene Tiger haben sie sich in die Schltacht geworfen nach unendlichen vorangegangenen Strapazzen, nichtachtend ihres Hungers und ihrer Müdigkeit. Sie haben Vater und Mutter und Frau und Kind vergessen, um das herrliche heilige Deutschland zu schützen. Appunto per quello che Horaz disse: «Dulce et decorum est pro patria mori.»

Und weiter sagte Horaz I/35:

     Serves iturum Caesarem in ultimos
     Orbis Britannos et juvenum recens
     Examen, Eoïs timendum
     Partibus Oceanoque rubro.

Wie schön! Che bello! Ma «Caesar» vuol dire in questo caso «imperator» — Kaiser Wilhelm II. Und, Herr Professor, glauben Sie, dass wir Barbaren sind, wie die im Westen und die jenseits des Kanals sagen? Gehen Sie in unser Land, sie finden grosse Städte, die dennoch sauber sind, freundliche herzliche Menschen werden Sie finden, die die Kultur, die Kunst und die Wissenschaft pflegen. Nein. Herr Panzini, das sind keine Barbaren, das ist ein hochstehendes Kulturvolk, welches sich nicht so ohne [p. 118 modifica]Weiteres vernichten lässt. Unsere Feinde haben gesagt, das wir das vorzüglichst eingerichtete rote Kreuz haben und Sie nennen uns in einem ettem Barbaren. Paradox oder Niedertracht! In Deutschland gibt es nur ein gewaltiger Willen zum Sieg. Volksstimmung ist nicth einen Augenblick wankend gewesen in der festen Zuversicht zum guten Ausgang dieses schrecklichen Krieges.7

Come si è trovata da che ebbi l’onore di vederla? Si rammenti qualche volta di me e saluti sua moglie e bimba da parte mia. Mi ricordo bene alla sua fanciulla. Una volta Lei disse per ella: Guarda! che è un gigante. E quello gigante sono stato io.

Nella speranza che ella sia bene ho l’onore di protestarmi

KURT GEIBEL


Molti degli suoi scolari sono già caduti.

[p. 119 modifica]

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Guardo a lungo la sua fotografia di guerra. Ha un non so che di torvo, di amaro, di triste. Mi ricordo che sorrideva sempre.

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Milano, 31 gennaio 1915.

Discorsi che si fanno. Prèstito di un miliardo al 4 e mezzo per cento realizzabile dopo venticinque anni. Prezzo di emissione, L.97.

Un povero vecchio travet porta le sue 97 lire alla Banca per sottoscrivere al prèstito. Però, prima, consulta il suo principale, uomo d’affari: «Faccio bene o faccio male?»

Il principale domanda: «Sa lei quando quel denaro le sarà rimborsato?»

«Fra venticinque anni».

«E fra venticinque anni crede lei d’essere ancora al mondo? No! E allora quel denaro non lo vedrà più».

***

Un dovizioso borghese non ha sottoscritto nulla del prestito. È evidente! «Sono nelle industrie: il danaro mi rende il sei, il sette per cento. Posso darlo al quattro e mezzo per cento? Non è un buon affare; almeno così mi dice la mia ragione». [p. 120 modifica]

***

Davanti al notaio. Si sta per sottoscrivere un mutuo. I fogli di carta bollata sono stesi: il mutuante già tiene nella mano tremebonda il pacco dei biglietti da mille da consegnare al mutuatario. Non rimane che leggere e firmare. Il notaio legge: «daremo ipoteca su la casa, ecc.; nuova, ecc.; che rende tanto, ecc.».

Ad un certo punto il mutuante, che stava pensieroso, crolla la testa, interrompe.

«Non eravamo d’accordo così?» domanda il notaio.

«Sì, ieri sì! Ma lei mi aveva promessa una garanzia sicura. E questa casa, nel Veneto, se viene la guerra, se vengono gli austriaci, col metodo che hanno oggi di fare la guerra... Che cosa mi resta della mia ipoteca?»

Il notaio rimane colpito. I libri della legge, tutt’intorno alle pareti, rimangono colpiti. Il notaio finisce col dire: «Lei ha ragione!»

I libri della legge, come il sòlito, nei casi molto gravi, non dicono proprio niente.

***

In un ristorante. Ricchi mercanti, uomini di affari, siedono ad un tavolo. Hanno mangiato bene. Sono tranquilli. Molto oro, oro, oro, è entrato in [p. 121 modifica]Italia per molta merce che è uscita dalle frontiere. Speriamo che le cose vadano avanti così. Oro francese, oro germanico, oro austriaco: oro insomma!

Raccontano una graziosa storiella. Nella casa di primo ordine da cinque lire in via San Pietro all’Orto, una signorina rifiutò le sue prestazioni ad un cliente. La signorina era francese, il cliente era tedesco.

Uomo e donna si azzuffarono, graffiarono. I mercanti ridevano al racconto. «Ma quando si è in commercio, come era la signorina — dicevano concordemente — non si fa distinzione fra oro italiano, francese, tedesco. Tutto oro!»

Povera, onesta signorina da cinque lire!

***

C’è nell’aria un avvicinamento di tragedia; ne hanno percezione anche gli individui dalla sensibilità più ottusa, come il mio droghiere.

Il mio droghiere, un omarino assestatuzzo e savio, è un po’ atterrito dalla guerra. Cioè la guerra...; un’invasione di tedeschi a Milano! Lui come lui, non ha niente da temere.

Eppure ha gli occhi rossi. Dice con voce rassegnata:

— Ci prenderanno..., ciao!

— «Ci prenderanno?» — domando — Ma come «ci prenderanno?» [p. 122 modifica]

— Ma sì, come ci hanno preso cinquanta, cento anni fa.

È una cosa spaventosa: per il droghiere sono i tedeschi che si degneranno di accogliere noi italiani come popolo di conquista.

Rivive Giovannin Bongée:

Hin chi i Todisch, hin chi quij car Pattan!

Dove sono sfumati sessant’anni di libertà?

***

Mi pare di essere in un treno, e di avvicinarmi alla stazione chiamata Terminus. Non capisco perchè prendo questi appunti.

Forse come il grammatico, che sta per morire e seguita a coniugare «morior mòreris, e non morèris!»

***

Bologna, febbraio 1915.

A San Michele in Bosco. Il tram si arrampica sino in vetta al colle, lassù: ma il luogo era deserto. La sera oramai cadeva violacea su la neve dei colli d’intorno. Sottostante, Bologna.

Come un’asta sottile, la torre degli Asinelli si vedeva salire nel cielo. Ma lì — dove io era — quella porta della chiesa, nella marmorea linea [p. 123 modifica]cinquecentesca, sigillata più che chiusa, mi infondeva, o diffondeva all’intorno una grande tristezza.

Però solo del tutto, no.

Dove il viale si incurva per discendere giù e smarrirsi nel verde folto del bosco, stavano due figure immobili, appoggiate alla balaustra: un uomo e una donna, così in lontananza.

Una gran quiete fredda. Eppure la tempesta si avvicina. Quando nasceranno le viole, la guerra sarà arrivata forse anche qui!

Un brivido di freddo, oltre al rigido della sera.

Dietro l’altro colle dell’Osservanza — che è più verso occidente — uno squarcio di cielo rosato si veniva chiudendo, a poco a poco, come una pupilla che si rinserri. La pupilla del sole si rinchiude. Gli uomini sono abbandonati, qui, soli.

M’avvoltolai nel mantello e mi misi a camminare in fretta. «Tornerò giù a Bologna a piedi» pensai fra me.

E così passai avanti a quei due.

Non parlavano: erano lì, l’uno al contatto dell’altra.

Lui poteva avere vent’anni appena: magro, un pastrano leggero, un’aria di miseria. Lei, una cosina fresca, molto giovine, elegante: forse bella, ma una di quelle bellezze della durata di poche primavere. Stava in contemplazione muta di lui, affissa con due pupille lattee, liquide. [p. 124 modifica]

Ma più io discendevo e m’addentravo nel bosco, più crescevano le tenebre. Mi venne in mente che giù c’è il precipizio dell’Aposa, dove più d’uno cercò la morte: lì nel bosco, mi insorsero imagini paurose: il bosco scintillò di imagini, come nelle fole dei bimbi i boschi si riempiono degli occhi dei lupi. Ed allora rifeci la strada. Sarei tornato a Bologna col tram. Ogni venti minuti ce n’è uno.

E ripassando, c’erano ancora, quei due: immobili.

«Ma non avete freddo, a star lì così fermi?» Veniva proprio voglia di chiedere loro così.

Ma forse era quella liquefazione interiore, quale appariva dagli occhi della giovinetta, che non faceva sentire ne il freddo, nè la miseria.

***

San Michele in Bosco, colle dove fioriscono le viole e gli amori. Ti cantò già Lorenzo Stecchetti. Ma come si trascina oramai stanco Olindo Guerrini! Ti cantò Severino Ferrari, e vedeva, giù nel piano, accendersi al sole, rossa nell’estivo mattino, Bologna; e vedeva, per il gran verde, ondeggiar Biancofiore col seno di latte e la gran chioma bionda. Severino adesso dov’è?

E Giovanni Pascoli che abitava là di contro, dove abita adesso? [p. 125 modifica] E Giosuè Carducci, che vide nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna, dov’è?

Muoiono i poeti, ma tu fiorisci come le viole, ad ogni primavera, o Biancofiore! Ed è quello che importa. Tu non muori mai!

Ho posseduto anch’io — or mi sovviene — una piccola Biancofiore.

Oh, chiaro viso di pervinca!

La faccenda non durò oltre un maggio. Pane e salame sotto la frasca d’una osteria di campagna, era una grande ricchezza. Ma strano ricordo! In una esuberanza di vita, io sentivo la voglia di distruggere: sassate contro i pioppi ed i nidi, sassate contro i rospi nei fossati. Ed ella mi fermava il braccio, e ripeteva: «Lasciali vivere! Lascia vivere, carezza mia, le botterelle».

Io crudele? io uccisore? Semplice esuberanza di vita.

Chi sa che questa guerra non sia un l’effetto di esuberanza di vita? E Biancofiore, èccola ancora qui, attonita, che previene le viole e le generazioni.

***

Finalmente il tram, giallo! e più che il rumore, mi avvertì la luce che saliva dal fanale: poi uno stridere su le rotaie in curva. Era buio, oramai. [p. 126 modifica]Però come si sono già allungate le giornate!

Guardai nel viale. I due non c’erano più.

Il tramviere stette alquanto, ed infine manovrò per la partenza. Dalla piattaforma posteriore salutai San Michele in Bosco. Macchè! I due c’erano ancora. Avevano soltanto mutata posizione. Ora stavano seduti sul sedile di marmo di fronte alla porta cinquecentesca, sigillata, del tempio. Sopra di loro i marmi del colonnato perielio stendevano come un baldacchino. Biancofiore era come sul trono, e le stelle del cielo le si accendevano di fronte.

***

Francia, Germania, ferrovia di Bagdad, Costantinopoli, ecc. Che ne sanno quei due? Eppure il problema della guerra, cioè della distruzione, è in rapporto coi problema della generazione.

***

Generazione! A casa ho trovato un avviso di generazione.

Un biglietto di visita in bella litografia: Ottorino X*** e Maria Y*** Ottorino X*** e signora? Che vogliono da me? Niente vi è scritto. Un ricco, savio, egregio giovane, in verità, è questo Ottorino X*** Ma non ha già preso moglie l’anno scorso? [p. 127 modifica] E’ un avviso di seconde nozze?

No! È l’effetto regolare della prima volta, delle prime nozze. Niente è scritto sul biglietto; ma esiste un eloquente, secondo, minuscolo biglietto di visita, il quale è legato al primo con un grazioso nastrino, e porta scritto: Pier Luigi - 13 febbraio 1915. Pier Luigi è dunque il bimbo che annuncia la sua venuta al mondo.

«O disgraziato!» mi avvenne di esclamare, così per istinto.

Anche lui, il nominato Pier Luigi, non sa nulla della guerra. Chi sa di quante cure adesso lo circonderanno i suoi genitori! fra quante trine, riguardi, delicatezze! Ecco che Pier Luigi poppa suntuosamente.

Anche l’altro che forse nascerà da quei due insensati amanti di San Michele in Bosco, popperà. Forse meno suntuosamente!

E fra vent’anni? si intenderanno? o sarà l’uno in guerra contro l’altro? Quale linguaggio parleranno?

Formatevi questa doppia imagine nella mente: due bimbi poppanti con quella loro boccuccia sdentata che si apre al sorriso, e si guardano attoniti: e poi dopo vent’anni, due giovani con le baionette innastate: l’uno lanciato contro l’altro.

Cade ogni volontà di generare. [p. 128 modifica]

***

Milano 28 febbraio 1915.

Gli intellettuali germanici hanno parlato all’Italia ed al mondo fino all’esuberanza, e v’è chi dice che abbiano parlato anche troppo!

Ma il nostro ceto universitario — generalmente parlando — si è mostrato olimpico.

Olimpico; e forse un po’ stupefatto!

«Ma come? — parevano dire fra loro — non vi sono più uomini pacifici in Germania? Dove è Ernst Sieper, il leader dell’accordo fra Germania e Inghilterra? Dove è l’onorevole professor Guidde? E perchè tace il valoroso A. N. Fried, il detentore del premio Nobel per la pace?»

Olimpici, e anche un po’ mortificati sono i nostri universitari.

Avevano lasciato, alla sera, il laboratorio filosofico in perfettissimo ordine e pace, ed al mattino lo trovarono in terribile disordine.

Quale dèmone vi era penetrato? Inoltre gli apparecchi sismici chiamavano disperatamente.

E — diciamo pure — olimpici, ma un pochino... preoccupati in quanto sentivano dai colleghi germanici alitare sul volto l’alito infuocato della guerra.

«Ma tutta questa gente — esclamò qualcuno [p. 129 modifica]fra i nostri dotti, in gran segreto — è còlta da follia alla Nietzsche

La visione era realmente spaventosa: i più venerabili professori germanici cavalcavano su cavalli da guerra; scuotevano l’antica fràmea germanica, e per copricapo avevano l’elmo alato dei Nibelunghi.

Olimpici ma disorientati! In quanto che abituati a non pronunciarsi risolutamente, per non turbare la serenità della scienza, sentivano che era necessario giudicare pur non avendo tutto il corredo delle documentazioni.

Illustri nostri professori che da anni facevano «incursioni» — come essi le chiamano — nel mondo dei morti, si sentivano richiamati violentemente nel mondo dei vivi.

Olimpici, ma non così che in via del tutto confidenziale, non dicessero:

«Ma illustri colleghi germanici, voi avete l’aurea di Kikero sentenza, Kedant arma toghae, quasi dimenticata!»

Rispondevano i germanici: «Mai le armi hanno ceduto alla toga, tanto è vero che Kikero stesso, il giorno delle elezioni politiche di Catilina, pensò bene di presentarsi ai comizi con la corazza lucente e non con la toga!»

Dicevano i nostri universitari:

«Colleghi, illustri colleghi germanici, voi [p. 130 modifica]avete del tutto perturbata la serenità del nostro, del vostro bel mondo scientifico».

«Colleghi? — rispondevano i germanici — Noi non abbiamo colleghi! Noi non abbiamo uguali! Se qualche rispettabile ingegno apparve fra voi, fummo noi a segnalarlo: Segantini pittore, lo abbiamo fatto conoscere noi; Galileo Ferraris lo abbiamo onorato noi, col battezzare la sua scoperta del campo magnètico rotante, Ferraris’sches Feld. E avremmo, forse, riconosciuto il signor Marconi, se questo signore non avesse avuto il pessimo gusto di rivolgersi all’avida ed ipocrita Inghilterra. Avete avuto per mezzo secolo un poeta animatore, e lo avete interpretato per filologia: Carducci! Avevate — vivo — un altro poeta dionisiaco, che predicò qualcosa di simile al nostro Nietzsche! Ma, sdegnato di voi, se ne è ito nell’abbominevole Francia: Gabriel d’Annunzio

Allora qualcuno fra i nostri dotti è ricorso alle ombre di Engel e di Marx: come a dire: «venite voi a mettere a posto questi ostinatissimi, orgogliosissimi vostri connazionali!»

Senonchè, studiando meglio Engel e Marx, si accorsero che questi due internazionalisti germanici, defunti, erano non meno imperialisti e bellicosi di quello che siano oggi i loro viventi connazionali.

Olimpici, dico, i nostri universitari, ma un [p. 131 modifica]pochino preoccupati su la sorte dei loro studi, saggi, contributi. Dovessero buttare questa roba al màcero, ed impugnare l’asta di Quirino?

«O magna ombra di Carlo Marx — sembrano dire, e non i socialisti soltanto — vieni ad apprettarci il fàrmaco della Intemazionale!»

Ma Carlo Marx assicura che lui non sarà pronto che verso la fine del secolo XXII; e la Internazionale dei proletari non sarà, in ogni caso, un fàrmaco pacifista.

***

Una vignetta dell’Avanti! dei passati giorni (12 febbraio) figura una lunghissima tràppola, e ad ogni buco della detta tràppola sta un topo impiccato, Francia, Germania, Russia, Austria, ecc., ecc. Soltanto uno dei buchi è libero, e attorno ad caso, va saltellando, ancor libero, un topolino: l’Italia.

Può l’Italia, che sta in mezzo all’incendio, sottrarsi al destino comune?

Uomini di senno e di guerra dicevano sino a ieri: «Vedrete che la guerra cesserà per esaurimento!»

Forse c’è da sperare nella peste, col primo apparire del potente sole, come diceva in agosto quel medico a Bellaria. [p. 132 modifica]

Ahi! Non c’è più da sperare nella peste, come al tempo dei Promessi Sposi! La scienza ha debellato la peste! Quella dei bubboni.

Dire.... dire — mi vien quasi da sorridere — che se anni addietro l’Austria avesse concesso.... che cosa? niente! dell’amàbile fumo: la così detta Università di Trieste, la facoltà di cantare, in terra irredenta, prima dell’agosto 1914, l’inno di Mameli ed altre piacevoli canzoni e allocuzioni, questa guerra avrebbe preso altra via.

Ma immutabile è l’Austria! Così prima del 1859; così adesso.

***

Benedetto Croce ha detto a un dipresso così: «L’Italia bizantina senza guerra, rimarrà bizantina anche con la guerra».

Eppure l’Italia vuol vivere! Alcuni nostri eruditi che la credevano una cosa morta, hanno visto l’Italia sul marmo anatòmico palpitare.

***

Milano, 14 marzo 1915.

Agli intellettuali germanici hanno risposto Augusto Murri, Guglielmo Ferrero, Piero Giacosa, il prof. Emilio Bodrero. [p. 133 modifica]

Guglielmo Ferrero! Come è tramontato lontano il suo dolce idillio scientifico della Pace!

Secondo lui, la Germania è stata colpita da una specie di malattia, l’ipèrbole, cioè l’esagerazione.

E riducendo il fenomeno morale, in fenomeno fisico, potremmo dire l’elefantiasi, il colossalismo.

Di questa malattia direi quasi che la Germania si compiace, come ognuno può convenire se passa in rassegna i giornali illustrati della Germania: in quanto che avrà occasione di ritrovarvi una ben tetra figura, rappresentativa o simbòlica: cioè un colossale guerriero medievale, tetragono, con visiera calata, tutto acciaio, braccio d’acciaio, pugno d’acciaio levato per minaccia sul mondo.

In Italia molti sono gli ammiratori di quel guerriero: «Per amor del cielo, non colpitelo, non offendètelo! Esso è la spina dorsale d’Europa! Senza di lui, tutta l’Europa va a ramengo!»

Ed altri dice: «Ma sapete voi chi ci sta sotto quell’armatura, sotto quella visiera? Ci sta la timida romantica Margherita del Faust.»

Ma anche queste cose lasciàmole là, perchè per ora quel guerriero picchia: non solo; ma pare dire tutta la verità quando dice: «Io? Non mi accorgo nemmeno dei colpi che mi danno. E poi che giova colpirmi? Le mie armi sono fatate». [p. 134 modifica]

L’imperatore Guglielmo II, il Kaiser, come lo chiamano tutti, adesso ha proprio questa fisonomia spaventosa.

Ma come è possibile che egli sia figlio del buon imperatore Federigo?

Io mai lo vidi, Federigo. Ma a me, giovanetto, lo descriveva con commossa parola il senatore Fabbri di Ravenna.

Un uomo germanico, grande, barbuto di bionda barba, che in incognito soleva sovente recarsi in Ravenna.

Guardava i Santi. Guardava i cervi assetati ai piedi del Redentore. Azzurro e oro dei musaici mirabili.

Allora io capivo anche meno di adesso di civiltà industriale, di polìtica, ecc., ma quel nome Federigo, mi ricordava il gran Federigo II che nacque in Italia, quella barba bionda mi richiamava un po’ anche Federigo Barbarossa! Ma quel nome imperatore mi ricordava Trajano.

Martire egli è morto di crudele malattia.

Come da quell’uomo fu generato l’Imperatore crudele?

Non esistono nei cieli le ànime dei padri preganti pei figli? [p. 135 modifica]

***

Guglielmo Ferrero non vuole, per quel che mi par di capire, la morte di quel guerriero; ma che sia messo in condizioni di non nuocere. Quindi bisogna curarlo di quel colossalismo.

E la cura consiste nella sana aria iodata; cura della sapienza antica, la quale diventò, attraverso i secoli, vita, natura, misura. Cura del mare, del sole, dei campi semplici; dopo (si intende) un poco di bìsturi. Condurre quel gigante a bere alle grandi, pure fonti di Grecia e di Roma.

Benissimo! Ma quel guerriero non ne vuol sapere; e poi mi sembra che dica con notabile ironia: «signori latini, non potreste cominciar la cura da voi? Non foste voi sino a ieri gli ammiratori e gli imitatori del mio kolossalismum?»

E quanto alle grandi fonti di Grecia e di Roma, come si farà?

Oh, Guglielmo Ferrero, le fonti non gettano più! I nostri Oberlehrers a furia di analisi hanno perso di vista la sintesi: i nostri Philologen, a furia di lavorare attorno alla fontana, stùzzica che ti stùzzica, hanno ostruito i condotti. La fontana non getta più. Ma i nostri Philologen seguitano a lavorare e a stuzzicare lo stesso, perfettamente indifferenti della verace funzione delle fontane, che è sopratutto quella di abbeverare. [p. 136 modifica]

***

Cara Italia! Terra dei canti e dei suoni,

O Lola, che hai di latte la camisa!

ma immortale terra ove l’ingegno e la intemerata coscienza fiorisce tuttavia come ne porge esempio il professore e medico Piero Giacosa! Come impressionante è il suo scritto: I Professori tedeschi e la guerra!8 Quali pacate parole egli rivolge al prof. Harnack!

Sembra che il Giacosa, con la umile ma intensa parola di padre Cristoforo, presenti al professore Harnach, don Rodrigo germanico, questa nostra Italia, sperimentata da tanta vita e da tante sventure, e gli faccia osservare che l’edificio su cui posa la Germania trascura una base morale, ed è quella costituita dalla sapienza itàlica.

Il prof. germanico Harnach ha risposto al Giacosa con cortesia: tagliente e freddo, ma cortese: «Nel concerto umano non si nega la voce latina, la rivoluzione di Francia, ecc. Ma queste cose già furono ed altre oggi sono da noi, germanici, create».

E par che dica: «il patrimonio intellettuale è fuori del diritto di proprietà, e ognuno se lo assimila col suo organismo. L’ora che passa è l’ora [p. 137 modifica]della gloria della Germania. Noi abbiamo creato una nostra civiltà, una nostra morale, che scomunica le altre morali. E combattiamo per difenderla. Non contro voi, latini! Non eravate, del resto, voi latini, con noi? Dalla Russia immensa, altra gente che noi reputiamo barbarica, si concentra e minaccia. Noi difendiamo l’Europa!».

Viene in mente la risposta di Ghino di Taco ironicamente cortese all’abate di Clignì, caduto in un’imboscata: «Messere, voi siete venuto in parte dove dalla forza di Dio in fuori, di niente si teme per noi e dove le scomuniche e gli interdetti tutti sono scomunicati tutti».

Davvero riesce inconcepibile come un popolo, quale è il tedesco, il quale ha scritto volumi di psicologia, comincia sempre col bitte non possegga psicologia e buona grazia, o quella affabilitade che, come dice Dante, «fa noi bene convenire con gli altri».

Ma poi, dove è più questa nostra italica sapienza? Una cosa lontana, lontana. Pitagora? Ne parla il Vico, ma come di cosa lontana, anche ai suoi tempi.

E poi diciamo la verità: sino a ieri, chiunque di noi mostrava di nutrire vivaci sentimenti di amore per l’Italia e per l’antica sapienza italica, era considerato come un individuo in arretrato su la via del progresso. [p. 138 modifica]

***

Ma di maggiore interesse mi è sembrato lo scritto del professore di filosofia Emilio Bodrero, apparso, già da tempo, nella Nuova Antologia, col titolo impressionante: Finis Germaniae?

Questo scritto si legge volentieri anche dopo tre mesi da quando fu stampato9, ed anche un profano lo capisce. E sùbito capisce che non si tratta di una «fine» per effetto di mosse strategiche, o per opera delle super-navi inglesi, o per fame, o per peste, o per inauditi tormenti bèllici; ma semplicemente finis Germaniae per filosofia.

E questo fatto, che un filosofo si faccia capire, scrivendo, è pure un gran fatto! Perchè noi respiriamo per polmoni: ma i filosofi respirano per polmoni e per branchie. E quando loro pare opportuno, si attuffano nei gorghi profondi di certi loro sillogismi. Ed allora chi mai li può seguire? E, quando vogliono, respirano anche senza polmoni; perchè si elevano sopra l’oceano atmosferico entro il quale noi viviamo.

La civiltà tedesca — dice il Bodrero — è stata essenzialmente organizzatrice: è stata la civiltà del metodo, del sistema, della disciplina. [p. 139 modifica]

Lo spirito germanico assunse ed esaurì questo còmpito gloriosamente....

Assunse, va bene; ma esaurì mi pare che vada male.

La Germania intende, proprio ora, d’esaurire il suo programma in tutto il mondo, a beneficio — dice lei — di tutto il mondo, salvo una giusta e ragionevole provvisione per la Germania, assuntrice della impresa.

Prosegue il prof. Bodrero.

Tutto il mondo volle aiutare la Germania in questa impresa: volle cooperare con il lavoro tedesco per il risultato umano che doveva conseguirsi.

E va bene! Tuttavia io — che pure mi vanto di essere piuttosto modesto — mi permetto a questo punto di protestare: umilmente, ma protestare: tutto il mondo, sia pure, ma io, per mio conto, no! Omne individuum ineffabile! Io ci tengo molto alla mia individualità.

Ho ammirato sinceramente, per tanti anni, l’esercito della civiltà germànica, che si dilatava pel mondo, che inquadrava gli eserciti minori delle altre civiltà; ma ho sempre tenuto le finestre aperte...

E la ragione del tenere le finestre aperte, è stata questa: come il giornale ufficiale del socialismo italiano, l’Avanti!, bandisce sistematicamente: [p. 140 modifica]Proletari d’Italia, in piedi per il pane, e contro la guerra; così io dico: La finestra aperta per l’aria respirabile!

I proletari dell’Avanti! hanno bisogno del pane; ma io ho bisogno oltre che del pane, anche di ossigeno, e non posso respirare gas irrespirabili.

***

L’umanità, in questo secolo, si è modellata — dice il prof. Bodrero — su l’organizzazione germanica.

Le nostre democrazie non tendono esse tutte al socialismo di Stato? La statolatria, in cui la democrazia vuol soffocare l’individuo, è prodotto genuino del pensiero germanico.

Ma l’attuazione vittoriosa dell’egemonia tedesca condurrebbe fatalmente all’organizzazione dell’Europa in un solo grande Stato, in una burocrazia spaventevole.

Ma la Germania può rispondere: niente affatto «spaventevole», semplicemente «ammirevole!»

Di là di questa egemonia a-nazionale non c’è che l’imperialismo militaristico — conclude il prof. Bodrero.

Appunto quello che la Germania sta facendo da sette mesi a questa parte; e ciò conforme alla nota sentenza: «La politica è la guerra»; ed anche [p. 141 modifica]conforme alla sentenza di Virgilio, poeta imperiale: Tu règere imperio pòpulos, Romanae, memento!

In lingua povera, il prof. Bodrero mi pare che dica:

«Cara Germania, illustre Germania, grazie della tua Kultur per i bassi servizi della vita. Ammiriamo, ringraziamo, ne approfittiamo, ma adesso basta!»

Ma il professore germanico Ludovico Stein non ha mica tutto il torto quando rifiuta nel giornale Vossische Zeitung, quei ringraziamenti. E par che dica con ragionevole ironia:

«Voi ci volete seppellire sotto le rose! Ma niente affatto!

«Voi volete andàrvene per conto vostro?

«Dove volete andare, piccolo Fausto? Correte il rischio di farvi male».

***

Ma in filosofia si possono fare tanti ragionamenti, come i «solitari» con le carte da giuoco.

***

Ma io sono rimasto stupefatto il giorno in cui ho letto queste parole, che proprio uscirono dalle labbra di Augusto Murri, il grande medico, il quale [p. 142 modifica]fu sempre nemico di ogni guerra. Egli disse: Per la giustizia e per la coscienza, oltraggiate dalla Germania è ben fatto anche il sacrificio della vita umana.

Ho pensato lì per lì: che sia avvenuta una rivoluzione nel cervello di Augusto Murri? Perchè oltre che nemico di ogni guerra, egli era anche socialista.

In questi tempi fui a Bologna diverse volte, e avrei voluto bussare alla porta di Augusto Murri, per chiedergli: «E’ avvenuta una qualche rivoluzione dentro di lei, perchè ella proferisse così inattese parole?»

Ma è che quel grande medico, anche con i suoi capelli càndidi, incute dall’alta magra figura una soggezione gèlida.

E gli avrei voluto rivolgere anche quest’altra domanda: «Giustizia e Coscienza, che ella ha ricordato, in quale labirinto risiedono del cervello dell’uomo?»

E gli avrei anche voluto esporre questo mio caso: «Signore, anch’io ho cercato la Giustizia e la Coscienza perchè senza di esse mi sembrava che dovesse mancare l’equilibrio del mondo.

«Ma senza un’idea religiosa, cioè che trascenda le cose materiali, — non mi fùlmini, signore, — non credo possa esistere Coscienza e Giustizia». [p. 143 modifica]

***

Vi è mai capitato di parlare con un botànico, e chiedergli notizie di certe piante dal profumo magico, dal sapore incompàrabile, dalle sovrumane virtù; che so io, l’issopo, l’asfodelo, il loto?

Risponde il botànico:

— Umili labiate, ombrellifere, cucurbitacee, che so io. Servono anche per far l’insalata...

— Ma come va allora che gli antichi...

— Mio caro — risponde il botanico — , gli antichi erano poeti come voi, e, come voi, semplicisti.

***

Tale sembra a me la storia della Coscienza e della Giustizia, mitiche concezioni, come l’elleboro, l’issopo, l’asfodelo, l’araba fenice.

Ah, quale indomabile ebbrezza mi infondevano queste parole dei libri della rivelazione: Aspergi me, o Signore, con l’issòpo e sarò fatto puro! Lava me, o Signore, con l’issòpo e sarò fatto più candido della neve!

Ed ho consumato molta parte della vita in cerca dell’issòpo. Ma che cosa mi è avvenuto? Che trovai, un giorno, l’issòpo in un negozio di [p. 144 modifica]profumeria in Via Santa Margherita, a Milano, per l’appunto. Ma che cosa era? Un articolo di toilette per imbiancare le dame. «A cinque lire il flacon, garantito issòp!» diceva la femminetta, che funzionava da commessa.

***

Per fortuna (o per disgrazia) gli altri non fanno tanti ragionamenti: prendono su e vanno! Molti sono andati a combattere in Francia.

Arnaldo De Mohr ha lasciato tutto: figlio, moglie, un romanzo che stava scrivendo, ed è là che combatte nelle Argonne. Sua moglie m’ha fatto vedere questo dispaccio: «Sono finalmente soldato della Francia, dell’Italia, dell’Ideale».

***

Milano, 1915.

I miei occhi — durante la lunga attesa — si fissarono su di un Catalogo speciale di safes.

Dove ero io quel giorno?

In un gabinetto di una Banca, in attesa di un impiegato di detta Banca. Fra una stanza d’aspetto, nuda, lùcida, gèlida, pur essendo ammobigliata e riscaldata col termosifone. Anzi un caldo asfissiante! Fuor che una delle sedie superbe, stupidamente allineate lungo le pareti, o lo sfacciato [p. 145 modifica]lampadario elèttrico in alto, impossibile rubare altra cosa! Non un oggetto staccàbile, trafugàbile!

Intendiàmoci! Io non avevo intenzione di rubare; ma quel vuoto fatto ad arte pareva dire: «Probabilmente voi avrete intenzione di rubare».

Nessun soprammòbile, nessun giornale su cui almeno fissare l’attenzione durante l’attesa: nulla! Nulla, all’infuori che quel grosso catalogo di impianti di safes.

Il signore si faceva attendere troppo, e fui costretto a leggere il catalogo dei safes, e conseguentemente, a meditare sull’istituzione dei safes.

Safes è parola straniera che vuol dire: salvo, cioè sicuro, senza cura o preoccupazione.

I safes sono impianti che si fanno nei sotterranei delle Banche per mettervi le casseforti o forzieri, per mettervi l’oro, le carte-oro, i titoli-oro, ai quali stanno attaccate le cedolette, le quali si staccano ogni tanto e dànno la vita all’uomo. E quando le cedolette sono consumate, rinascono in perpetuo. Un’ammirabile istituzione! Per il grano è necessario arare e seminare e mietere. Ma le cedolette rinascono da sè. Durano in perpetuo, finchè durano, s’intende.

Titoli-oro, oro-vita, oro trasformabile in tutto: pane, vino, onore, virtù, piacere, vizio. Oro proteiforme!

Quale incomparabile amico è l’oro! «In che [p. 146 modifica]mi debbo trasformare?» E tu comandi, e lui si trasforma!

Nei tempi moderni in cui la Carità è stata messa prima in berlina, e poi crocifissa, l’oro è diventato indispensabile. E’ un amico fedele l’oro! fedele come una spada, come una pistola, come il cannone! Ma come la spada, come la pistola, come il cannone può essere rivoltato contro il legittimo proprietario. Ecco perchè esiste l’istituzione dei safes in tutte le Banche.

Voi potete deporre i vostri preziosi beni in una cassettina, in un minuscolo forziere, parte minima dell’immenso forziere, e poi vivere securi, cioè sine-cura. Scendete poi ogni tanto — quando vi garba — sotto il livello del suolo, per una scala marmorea: lì trovate una sala lùcida, abbagliante per effetto di lampadine elettriche, perchè lì mai non splende il sole! Osservate: vedete porte d’acciaio, lùcide, dal peso enorme, dallo spessore spaventoso: tonnellate d’acciaio. Quelle porte girano sui cardini senza stridere, deliziosamente soavi: ma lì non è come nelle grotte dei tesori antichi di cui si parla nelle fole, dove c’è un terrìbile drago giallo-verde con occhi spaventosi che difende il tesoro. Ci trovate impiegati, di solito, corretti, che si assicùrano che voi siate proprio voi, il proprietario. E quando voi dormite, la notte, essi vìgilano per voi. No, non svegliàtevi a mezzo la notte di [p. 147 modifica]soprassalto, pensando: «Che cosa farà adesso quell’onesto impiegato che vìgila? Lì solo, nella notte, quale sarà il suo volto? Sorridente come ieri, di giorno? O sarà cupo per effetto di un criminoso pensiero?» Non vi agitate!

Nella scàtola cranica dell’onesto impiegato, possono bensì passare pensieri rei. Ma sono nubi, ombre di idee! E, del resto, non passano anche per la vostra scàtola cranica?

Niente paura! Voltàtevi dall’altra parte del letto e dormite!

«E se intanto vengono i ladri?»

«Ma non sapete come sono fatte le pareti?... Impenetràbili! Esiste poi anche un corridoio misterioso, il quale gira all’intorno. Ad un mìnimo sospetto, campanelli di allarme squillano: guardie con la rivoltella in pugno si precìpitano. Dormite!»

«Mio Dio! I ladri, gli spaventosi ladri! Dove ho letto io di una prodigiosa piccola fiamma, posseduta dai ladri, la quale fonde come cera i più temprati metalli?»

«La fiamma ossìdrica, voi volete dire?»

«Ah sì, la terribile fiamma ossìdrica! E poi, dove ho letto io che esiste un altro arnese del pari terribile, posseduto dai ladri: la sega circolare? Un piccolo istrumento diabòlico che taglia tutto...»

«L’avrete letto nella deplorevole letteratura [p. 148 modifica]criminale della quale si nutre la nostra gioventù, o l’avrete veduta in azione in qualche cinematògrafo. Dormite in pace».

«Ma i ladri possono caricarsi tutti i safes sulle spalle e portar via tutto. La forza di cui dispone un ladro moderno è incommensurabile».

«Sì, questo è vero, ma, osservate quale robusto meccanismo di chiavistelli cilìndrici d’acciaio! Osservate le serrature di sicurezza. Sopratutto osservate come la corazza, compòsita, è intrapanabile, è garantita contro la sega circolare, contro la vostra fiamma ossidrica, contro gli incendi, contro le cadute. Fra le pareti, poi, vi sono — leggete! — centocinquantasei millimetri di materiale refrattario: insomma tutta la cassaforte è assolutamente refrattaria contro ogni più audace ed ingegnoso tentativo di seduzione. La ditta costruttrice, Panser di Berlino, garantisce! Garantisce, capite?»

«Ah, non respiro più. Ecco la guerra! La cassa forte rimane intatta, ma la ditta di Berlino porta via la città, il territorio dove è la cassaforte».

«Ah! Non volete la guerra? Abolite allora l’oro!»

***

Conoscete la vecchia leggenda di Cristo? Andando un giorno Cristo, coi discepoli suoi, per un [p. 149 modifica]luogo foresto, videro rilucere in terra piastre d’oro fine. Ben volevano i discepoli ristare per raccattare quell’oro, ma Cristo disse: «Voi volete di quelle cose che tolgono al Cielo la più parte delle anime, e sono cagione di sangue e strage fra gli uomini. Voi ne vedrete l’esempio». E passò oltre. E quando i discepoli ritornarono, videro l’esempio. Sovra le piastre dell’oro videro giacere due uomini, trapassati da grandi ferite. Erano due fratelli i quali si erano mutuamente uccisi per il possesso dell’oro.

***

Così un giorno si dirà di questa guerra europea.

V’è chi parla di comunismo, ma occorrerebbe costruire una civiltà di santi, proprio l’opposto di quella verso cui ci incamminiamo.

***

Milano, Aprile 1915.

La primavera è oramai in fiore, i merli dal giardino mandano fischi modulati e lunghi che paiono scherni.

Le pervinche bianche sono aperte, le modeste viole mammole sono già state colte. Si attendono le fiammeggianti rose.

Che cosa avviene ora in Italia? [p. 150 modifica]

Da oltre otto mesi dura la guerra.

La Francia è irrigidita nella sua angoscia indomabile; la Russia pare travalicare i Carpazi. Santa Sofia attende la messa di Cristo.

Pare, per quel che che si capisce, che la Germania non possa più ripetere il dispaccio di Cesare imperatore e soldato: Veni, vidi, vici. La guerra, contro l’aspettazione germanica, si trascina lunga ed esauriente.

Ebbene, ora, che cosa succede in Italia?

Prima di questa guerra, come eravamo noi? Certo in pace. Una gran pace! Sì, è vero, esistevano predizioni funeste, libri che annunciavano future guerre. Ma noi li credevamo romanzi di genere lùgubre.

Anche Dio, ogni tanto, minaccia con le comete lo schiacciamento della terra. Eppure non è avvenuto mai niente! Anzi, ogni cosa che richiamasse la guerra, pareva un anacronismo. Della guerra di Libia non ne potevamo più! Tanti generali, centomila soldati, un miliardo di spese, due anni di ànsie per mettere a posto pochi beduini. E poi era finita?

Certo non sarebbe esatto dire che fosse una piacèvole pace: era una pace un poco afosa, come un pomeriggio di agosto sciroccale.

Anzi molte cose erano spiacèvoli a tal punto che qualche spirito bizzarro invocava la venuta di [p. 151 modifica]qualsiasi Anticristo o del Zaratustra del buon Federico Nietzsche.

Molti dì noi speravano nella gran rivoluzione promessa dai socialisti. Ma ci siamo dovuti accorgere che la gran rivoluzione non sarebbe venuta. «La rivoluzione? Ah, voi sperate nella rivoluzione? — parevano dirci, così a quattr’occhi, i dignitari dell’ordine socialista — ; ma una sìmile gioia noi non ve la daremo mai! Noi vi uccideremo a colpi di spillo! Noi vi spiumeremo vivi, ma dolcemente, una penna per volta, come si usa con le galline».

E il Governo? lo Stato? Il Governo, lo Stato, parevano come quei re dei tempi feudali. Erano tutto se andavano d’accordo coi feudatari, e se non andavano d’accordo coi feudatari, nulla erano.

Perciò molti si domandavano: «Il padrone dove è? dove ha la sua residenza? Il Codice è uno? son due, son tre? La famiglia che roba è? La proprietà c’è o non c’è? E il proprio dovere si compie facèndolo o piuttosto non facèndolo? E la parola galantuomo in quale senso la si deve interpretare? E il vessillo tricolore?»

Per queste ragioni molti di noi — anche senza avere speciali simpatie — guardavano a Berlino dove era imperatore Guglielmo II. Il quale faceva marciare il suo popolo con sì bel passo da parata che era un piacere. Lì, a Berlino, disciplina e [p. 152 modifica]libertà, religione e ragione, pace ed armi, socialismo e feudalismo, tradizione e progresso, premio e castigo, fisica e metafisica vivevano d’accordo, senza proclamar sciopero ogni terzo giorno. E infine, come era noto per tradizione, c’erano dei giudici a Berlino! Felice popolo! felice imperatore!

Forse troppe armi, troppi cannoni, e, negli ultimi anni, tutte quelle navi! e poi quei Zeppelini! Il sospetto che continuando a marciare con quel passo il popolo tedesco sconfinasse, un bel giorno, non era infondato. Ebbene, pazienza, — si diceva. Già il mondo è sempre stato di chi più sa, più vuole, e sa quel che vuole.

Vi fu però una volta — ricordo benissimo — in cui rimasi alquanto atterrito: era di maggio, mi pare nel 1913, e mi trovavo in uno di quei tanti hôtels di tipo tedesco che sono sparsi su la riviera del lago di Como. Erano le quattro dopo mezzodì ed il sole dava già un po’ di fastidio. Il lago, immoto, invitava a far siesta secondo il buon costume italiano. Invece, lì, mangiavano. Lì, nell’elegantissimo giardino dell’hôtel, sotto i pergolati di glicine, seduti a tanti tavoli dalle tovaglie multicolori, tedeschi e tedesche mangiavano. Dio mio! Ma quello non era uno spuntino! Mangiavano formidabilmente, uomini e donne. Con bel garbo, sì, portando con le due dita i fini crostini alla bocca; ma non finivano più! Certi lacchè italiani, in [p. 153 modifica]marsine nere, non finivano più di portare vassoi di metallo con tante cosine, tanti servizi, tante delicatezze: carni in gelatina, conserve, burro lavorato, dolci, latte, thè, birra; e poi carni ancora. Una interminabìle musica, suonata da altri lacchè italiani in marsine scarlatte, pareva aiutare quell’interminàbile pasto. Il sole pareva fermo sul lago.

Io guardavo con occhi spalancati.

«Ma questo popolo mangia enormemente», dissi fra me.

Finalmente venne il vespero, ed allora scesero giù — da dove erano scesi? dai monti della Tremezzina? — schiere di altri tedeschi, con certi polpacci, certi bastoni, certe scarpe ferrate da far paura. Oh, ma tutti cortesi, tutti inghirlandati delle fronde e dei fiori del maggio novello. Ma quanti! Allora mi ricordai che quel popolo cresce a milioni, e che tutti mangiano così e che anche gli operai hanno il salottino. E poi càntano grandi cori lungo le rive del Reno!

Ma chi pensava, allora, in quel maggio 1913, alla guerra?

***

Improvvisamente che cosa è successo nel 1914?

Abbiamo udita una voce oltracotante che parve la voce del signor Tale nei Promessi Sposi: «Fate luogo!» [p. 154 modifica]

Contemporaneamente le guance nostre si arrossarono come fossero state percosse.

L’umanità ha risposto: «Guerra!» Gli uomini più autorevoli hanno annunziato che è necessario combattere per debellare l’ultimo popolo guerriero che minaccia la civiltà.

Giorni terribili dell’agosto 1914! La Germania riceveva le dichiarazioni di guerra, come un guerriero omèrico accoglie, ridendo di scherno, su lo scudo proteso, le imbelli saette del nemico.

***

Ed è così che, sotto questo orribile premere della necessità, si è venuta in questi ultimi tempi consolidando fra noi in modo naturale l’idea della patria, innanzi tutto; cioè l’unione dei vivi coi morti e coi nascituri. Affinchè l’anima non muoia!

Ed è così che molti i quali avevano superato l’idea antica e barbarica della guerra, si sono venuti acclimatando all’idea della guerra, come una fatalità quadrata, massiccia. Senza odio per nessuno, però. Tale è la gentilezza dell’anima italiana.

Vedo sotto i portici della Galleria passare una splendente giovinezza. Giovani ufficiali: i molti ufficiali di complemento. Non credevamo di possedere tanta splendente giovinezza! [p. 155 modifica] Con le stellette e con la montura sembrano tutti rinovellati questi giovani.

E fra un mese, fra due, dove saranno essi?

Ma queste femmine, femminette, bislacche, con le gonne a sghembo, affatturate, incapsulate nei loro cappellini, vi saranno ancora.

***

E allora? Gran silenzio è in Italia! il re non parla, i ministri del re sono assai silenziosi.

I giornali russi hanno di gran parolacce: ci dicono di far presto ad entrare in guerra; se no, non ci daranno niente.

Appunto per questo — io risponderei — faccio il comodo mio. Invece pare — a leggere i grandi fogli — che noi domandiamo scusa del ritardo.

I giornali francesi ci scherniscono. Dicono che noi entreremo in guerra quando si tratterà di fare il beccamorto all’Austria.

Dicono che l’ambasciatore francese a Roma si dìa un gran da fare!

I giornali di Berlino dicono che per chi non vuol capire (oh, parlano con noi), c’è l’esperanto10 di Hindenburg. [p. 156 modifica]

Il giornale l’Avanti! è immutabile: sempre contro la guerra, contro tutte le guerre: Guerra alla guerra!

Non esistono - scrive (13 aprile) - due strade, una per l’Inferno (Germania ed Austria), l’altra per il Paradiso (Francia, Inghilterra, Russia). Noi vediamo ricongiungersi le due diramazioni del preteso bivio in una ripugnante identità di barbarie militare.

Le rivendicazioni nazionali non sono di spettanza del socialismo.

Volete andare, o italiani, al macello per i sassi del Trentino?

E quel giornale ha una figurina che rappresenta il popolo che va al macello in una carretta, sospinta dal militarismo borghese; tanto che si racconta che uno del popolo, fuggito dalla carretta, abbia gridato: «Viva l’Austria!».

Oh, povera Italia!

***

Ma dalla Villa delle rose si diffòndono voci rosee.

Alla sua Villa delle rose, in Roma, è arrivato l’ambasciatore.

È il principe di Bülow, quel bel signore anziano, che fu cancelliere del Kaiser e ha scritto [p. 157 modifica]quel cortese tremendo libro, Germania imperiale.

La mattina, l’ambasciatore, fa la sua bella cavalcata per villa Borghese, sopra un bel cavallo bianco, senza coda.

Quando è notte, poi, tiene conciliaboli coi nostri uomini politici ai quali dice che ama molto l’Italia, dopo la Germania, si intende!

Si sente la voce della Villa delle rose: la ho udita ripetuta, riecheggiata da tanti; in lettere, in conversari, in giornali; da letterati, da italiani, da italiane, dimoranti in Italia, dimoranti in Germania. È un coro: il coro delle rose.

Esso dice:

«Ma voi italiani avete sognato, o piuttosto l’Inghilterra vi ha fornito oppio, morfina; ma certamente voi avete sognato!

«La Germania non ha mai pensato di dominare il mondo. Non si è mai proclamata popolo eletto. La Germania non ha mai provocato la guerra. Essa è stata provocata. Ecco tutto! Certi scritti? Esuberanze di un popolo forte. Scritti senza importanza, abilmente propalati dall’Inghilterra, che approfittò della ben nota franchezza germanica. Il Belgio? Nessuno più lo compiange della Germania. Ma fu sua colpa! È documentato oramai. Il Belgio sanguinante? È come il mostro lagrimèvole coi moncherini coloriti col minio, che l’Inghilterra conduce in giro per le fiere allo scopo [p. 158 modifica]di destare il sentimentalismo. Le donne violate? Uno dei fenòmeni più comuni in tutte le guerre. Affermazioni di conquista mondiale? Esuberanze di popolo giovane. I francesi con Napoleone non fecero lo stesso? Le distruzioni? E che fece Roma con Cartagine? E senza Cartagine, forse si comprende Roma? Quelli erano altri tempi, — voi dite. — Ma i tempi sono sempre uguali finchè vive l’uomo. Peggio per voi se l’ignorate».

«Ma la preparazione germanica alla guerra da mezzo secolo?».

«Peggio per le altre nazioni che hanno dimenticato la storia!»

«Insomma una causa morale di guerra non esiste: esiste una bugia di guerra, invenzione della réclame inglese, francese, russa. La Russia! Quale pùlpito!

«La verità priva di frònzoli è una sola: v’era un popolo che aveva voglia di lavorare: il popolo tedesco; v’era un popolo che si vedeva perduto perchè non aveva più voglia di lavorare: il popolo inglese, il popolo francese!

«Le vostre rivendicazioni nazionali? — dice l’ambasciatore, principe di Bülow. — Ma questa è una questione personale che voi italiani avete con l’Austria!

«Se è per codesto, la Germania ve le farà ottenere nel limite del possìbile. Ma bisogna non essere ingordi! [p. 159 modifica]

«E d’altronde quale cosa di meglio che ottenere le rivendicazioni nazionali senza guerra?

«Che se poi voi, italiani, sentiste così prepotenti ardori bèllici da voler varcare i confini, ebbene varcàteli; ma per arrivare... sino ai Carpazi insieme con noi; e allora vi potrà essere dato qualche cosa di più! C’è Nizza, Savoia, la Corsica, Malta, Tunisi. Non vorrete mica lavorare, romanticamente, per la Russia! per l’Inghilterra!»

Tali sono le voci delle rose.

***

Bàggio (Milano), 17 aprile 1915 — Ghè ôna minestrina cont i rann — mi disse l’oste, un uomo tozzo, di media età avanzata, di media statura, con due grossi baffi grigi, ma una cera assai onesta. — Non ha mai mangiato la minestra con le rane?

— No! Ma mangerò lo stesso quello che c’è, quello che pare a lei. Già — aggiunsi mentalmente — nel momento in cui siamo, bisogna prepararci a mangiar di tutto. Purchè, badi, non vi siano rospi.

— Oh! — fece il bravo uomo mortificato. — Sentirà anzi una cosa scicca. È proprio adesso, in aprile, che son buone le rane! Mia moglie le sta preparando. Minestra rinfrescativa!

— Allora appunto quello che ci vuole nel caso mio. Mangeremo le rane e la minestra con le rane. [p. 160 modifica]

***

Eppure ieri, nel giornale belga Le XX Siècle (quotidien belge paraissant au Havre), v’erano due fredde colonne di nomi di civili massacrati: ed era la continuazione di una lista precedente. E la lista continuerà! Nomi inventati anche quelli? Invenzioni di «un Barzini qualsiasi», come mi assicurava il germanòfilo X***?

Eppure ieri tutto il proletariato di Milano si è commosso, od è parso commosso: certo ha sospeso per un giorno la vita cittadina a scopo di protesta contro l’atto micidiale di una guardia.

Ma ieri, mentre l’enorme folla nera fluiva dietro il feretro dell’ucciso, per le vie della città in lutto, io mi affissavo in quella figurina, che è in tutte le vetrine: il fanciullo belga che eleva i moncherini con le mani recise.

I dolci occhi del piccolo martire guardavano attoniti; ed io pure guardavo attonito.

Invenzione anche quella?

«Mai è esistito — voi dite — il bimbo dalle braccia mozzate!»

Non so!

Ma noi abbiamo sentito, noi abbiamo veduto un bimbo reciso; era figlio dell’umanità: anche figlio vostro, o germani! [p. 161 modifica] E allora, essendo un giorno di sole, ho lasciato la città.

Il tram giallo lascia dietro di sè case e case, cemento e cemento; lascia dietro di sè le vie uniformi dai palazzi uniformi, grigi, grigi; lascia addietro comignoli, officine, ospizi, il grigio enorme ospizio Trivulzio: ecco un po’ di verde; più ancora, procedendo il tram, ecco, fra il cemento dei caseggiati sparsi qua e là, dilata il verde. Tutto verde oramai come un polmone che — compresso — respiri. Respiriamo! Il cemento della città ha rappreso l’anima umana.

Il sole d’aprile sul mezzodì rende pur bella anche questa bassa landa lombarda; le foglioline dei sàlici, lungo la via maestra, hanno come un tenero palpitare e, dal recinto di un vecchio muricciolo campestre, alcune alberelle elevano l’èsile pennacchio tutto stellato di fiori rosei: una grazia! un vessillo!

***

— È la prima volta che viene a Baggio? — chiese l’oste poichè ebbe fatta un po’ di dimestichezza. — A cambiar aria lei viene?

— Così appunto, a cambiar aria.

Oh, molto gentile quell’uomo dai duri mustacchi! Mandò i suoi ragazzini a prendere i [p. 162 modifica]sigari. Parlò della eccellenza del vino sopra ogni altra bevanda: e del suo vino in ispecie. — E lo vuole dolce o brusco?

Intanto una sua figliuola, del tipo ancor sèmplice dell’illustre Lucia Mondella, stese un tovagliolino di puro bucato; un’altra figliuola, di tipo spiccatamente idem, e silenziosa idem, portò piatto e posate.

Ma loquace era il padre.

— E l’orghen de Bagg l’ha vist? Però lo avrà sentito nominare l’organo di Baggio! Un orghen che l’ha ventiquater moviment. Ci vuole un maestrone, ghe voeur un maestròn a sonàll.

Poi mi parlò della sua osteria. — A chi viene con intenzioni oneste — diceva — , di bere un bicchiere di vino sincero, egli fa buona cera; ma a chi viene per far bordello, o amorazzi, egli fa sùbito cera brutta. Ha figliuole da marito, lui!

Così mentre parlavamo, una delle Lucie silenziose mi portò la terrina della minestra cont i rann.

In verità, squisita; ed il riso era cotto così appuntino che anche dal modo di cuocere una vivanda si può desumere la storia di un popolo.

Ma poi che accadde?

Togliendo col mestolo, vennero su, caddero nel piatto certi organismi bianchi, disfatti, con certi ossicini tra la polpa: le rane. Organismi tagliuzzati, recisi. [p. 163 modifica] Il bimbo belga dalle braccia mutilate, mi balzò davanti.

Non potei più mangiare.

— Sembrano bambini!

L’oste sorrise, poi disse saviamente: — Bisogna pensagh su, ma minga tropp!

— Lasci stare le rane, — aggiunse per consiglio — e mangi il riso soltanto, e beva il brodo.

— È inutile! Non ci riesco. In verità, in Italia vi sono ancora individui troppo sentimentali.

Via, torniamo a Milano.

L’oste mi pregò di non «fargli torto» un’altra volta e di venire ancora alla sua osteria.

Ed era cosa strana come il bravo uomo insistesse sull’idea dell’onore, l’onore nella sua osteria, l’onore nel suo vino, l’onore nella sua famiglia!

E per l’appunto andava ripetendo:

Sem daccord che in sto mond chi pussè che onor ghe minga, no! Si può essere papa, imperatore, ma siamo d’accordo che in questo mondo qui, di più assai che l’onore, nulla è!

E dire — pensava tra me — mentre il tram giallo si allontanava e il campanile di Baggio scompariva nel biancicore del giorno luminoso — che a Milano si suole ripetere per motto di dileggio, come a dire: «va a farti friggere», andare a Baggio a suonar l’organo! [p. 164 modifica]

***

Milano, Aprile 1915.

Un petit bleu, un dispaccio di città che da noi è rosso, mi dice: «Sono a Milano, la aspetto a mezzogiorno al Continental. Maraini.»

Dopo la zuppa con le rane, ecco faremo una colazione in un grande hôtel.

***

Ecco come ho conosciuto l’on. Maraini. Da molti anni mi ero messo a scrivere, ma dei miei libri non se ne vendeva.

Emilio Treves mi diceva: «Amico mio, mi dispiace, ma io vi pagherò, quando vi venderò».

Avevo, nel maggio del 1910, pubblicato un libro: «La Lanterna di Diògene». Nessun critico se ne era accorto, eppure!

Raffaello Barbiera dall’alto della sua persona mi consolava sorridendo: «Vedete, caro, anche Pietro Verri, della sua Storia di Milano, non ne ha venduta una copia».

Un mio collega che faceva anche il crìtico, mi diceva: «Tu hai ucciso tuo figlio. Ma sì! Non capisci che quel nome di Diògene su la copertina di un libro, allontana il pubblico? Un nome clàssico oggi! E a Milano, poi!....» [p. 165 modifica] Basta! Eravamo nel luglio del 1910, quando mi vedo arrivare una lettera con su scritto «Camera dei deputati». E chi li conosce?

Dentro c’erano pochi sgorbi che lì per lì non capii, ma contenevano molti complimenti per il mio libro e dicevano che ne aveva ordinato venticinque copie alla Casa Treves per distribuire agli amici.

Ma sarà un gran signore costui! Ecco che anch’io avrò venticinque lettori!

Così ho imparato chi era Emilio Maraini: un grande condottiero dell’industria, e per l’appunto dello zucchero.

Nel seguente anno l’ho conosciuto di persona alla stazione di Bologna. Andava anche lui a Milano. Ha voluto che salissi con lui nel vagone ristorante. Egli non mangiò quasi niente. Si capiva da allora che era ammalato, povero signore.

Anzi dirò che avendo saputo che egli era un gran manovriere di enormi affari, lo guardavo stupito! Avevo davanti a me un piccolo, gràcile uomo. Lo pensavo come un Ercole, un Teseo. E più stupore mi dava sentirlo parlare di arte, di cose fini e delicate. Proprio ne parlava con sincerità! [p. 166 modifica]

Alle dodici ero al Continental. Si fece colazione in quella gran sala tutta stucchi bianchi, con quegli odiosi camerieri tutti neri. Confesso che preferivo la zuppa cont i rann dell’oste di Baggio.

Poi si andò nell’hall. Ci si sprofondò in due poltrone a prendere il caffè.

Era molto malandato, e molto preoccupato, povero Maraini! Mi narrava di un suo recente viaggio in automobile, in Austria, pieno di peripezie.

Il nome del Maraini era stato fatto dai giornali: «un grande industriale, uno svizzero, che ha una gran villa, vicina a Villa delle Rose, amico di Bülow, uno di quelli che congiurano a favore della Germania, ecc.».

La possibilità di una guerra contro l’Austria e la Germania gli appariva come un disastro per l’Italia. La visione del disastro gli aumentava la malattia; e la malattia gli aumentava il disastro.

Io gli dissi: — Ebbene, lei che è amico di Bülow e di quegli altri signori, dica che la smettano con quella storia dei compensi, di un pezzo di terra di confine di più o meno. È irritante! Ma non capite che oltre ai deputati in Italia vi sono anche gli italiani? Ma come si fa a mettere in piazza: abbiamo comperato la neutralità dell’Italia [p. 167 modifica]

***

a prezzo di tanto? Non si dice nemmeno delle cortigiane, quanto si sono pagate.

Lui, povero signore, sorrideva del suo sorriso malato, e diceva che in politica si fanno degli affari. La mia mentalità è ancora quella dell’oste di Bàggio: che più assai che onor in sto mond ghe minga no!

Me ne andai tristamente.

Questa gente di gran mondo perde la conoscenza della umanità. Forse è la bollatura che il Dio Mammona fa anche nei migliori uomini.

***

Il 20 aprile (1915), all’Albergo «Numero Cinque» (Milano), fu dato un banchetto all’Onorevole Battisti, deputato socialista di Trento, qui rifugiato.

Io vi andai perchè mi vi tirò l’amico Avancinio Avancini, rettore del collegio Calchi Taeggi, che mi garantì nel modo più assoluto che non era un convegno politico, ma soltanto patriottico.

Il menu era promettente, e l’esecuzione superò tutte le aspettative. Questo miracolo per cinque lire, tutto compreso, si sussurra che sia dovuto all’on. Agnelli11 che è frequentatore dell’Albergo. [p. 168 modifica]Ci fu anche lo spumante. Ed ecco il menu, anzi la distinta in omaggio all’italianità!12

Questo Cesare Battisti, che io udivo nominare la prima volta, è un bell’uomo, alto, scarno, fisonomia italiana. Sedeva a capo tavola, vicino a sua moglie, una donna dall’aspetto molto semplice e modesto: la sola donna del banchetto. Egli, in mezzo alla vivacità dei commensali, se ne stette assorto e triste. Veniva in mente Cristo all’ultima cena.

Verso la fine del banchetto, si levò, parlò con altissima nobiltà. L’emozione in fine lo travolse: travolse un po’ tutti.

Fu una serata eroica, semplice: molto ordine: lieta sotto un presentimento di tempesta. V’era dell’àgape cristiana dei primi tempi; v’era ciò che non saprei dire dove e in che cosa risieda: l’Italia!

Una sensazione indimenticabile! Grida di «Evviva! Abbasso!» ce ne furono, ma ben poche le parole di odio.

Teodoro Moneta, ottantenne, infuocato in volto perchè non ha più gli occhi dove si accendono le fiamme, parlò: girava, agitando il pappafico bianco, ed il soprabito nero, dalla parte opposta ai [p. 169 modifica]commensali. Un caro giovane lo rigirava, il povero cieco, ogni tanto, dolcemente, verso il pubblico. Uno spettacolo còmico. Ma veniva da piangere.

Sante Garibaldi, bel ragazzo forte, allegro, parlò poche parole forti, allegre, con accento romanesco. Veniva dalla Francia dove aveva perduto un fratello. Triestini e trentini furono sublimi. Strani accenti! Strano il suono stesso delle parole! L’accento italico pareva venir da lontano, come dominato da infiltrazioni tedesche, come umiliato dalla servitù. Ora prorompeva indòmito.

Il giovane Gualtiero Castellini13, alto, in piedi, aristocratico, vestito da ufficiale, mi pare che avesse come una lacrima. Parlava per quella e diceva con quella sua lacrima cose che la montura militare gli vietava di dire.

L’on. Agnelli avvocato e uomo politico, ha avuto il notevole coraggio di riconoscere la realtà di molte cose giudicate fantastiche, e la inconsistenza di molte cose giudicate realtà. Tutto ciò con molta saviezza. Un onorevole senso critico, condito con un po’ d’ironia, gli apre le vàlvole del pensiero e gli fa dire la verità, tutta la verità. Ma quanto a voli lirici, adagio! Lo stesso senso crìtico e irònico lo tira per le falde dell’abito e par dica: [p. 170 modifica]«Che fai, onorevole Agnelli?», ed egli sorride, e vòltandosi indietro, pare dica: «Oh, làsciami un po’ parlare!»

Serata indimenticablle!

Pensavo a Giosuè Carducci che è morto e mi pareva, quella sera, fosse lì vivo in ispirito.

Rivendicazione di Trento e Trieste? Qualcosa di più. Alitava in quella sera come l’idea di una sublime rivendicazione umana.

Ho chiesto sommessamente all’on. Agnelli, che mi sedeva accanto, quale fosse il pensiero intimo dell’on. Giolitti. Stette un po’ incerto prima di rispondere. Poi disse:

— L’uomo prende, ma non dà.

— Cioè?

— Giolitti ascolta l’opinione degli altri, ma non dice la sua.

— Ma insomma cosa ha detto?

— Ha detto che per far l’abito per un gobbo, bisogna pigliare la misura del gobbo.

— Allora (escluda pur me) si vede che non ha mai osservato italiani diritti come quelli che sono qui.

Già, ma hinn minga tant! E poi c’è la Russia — dice Giolitti — che l’è minga tanta ciara! Caro lü, la poesia l'è una bella cosa, ma...

Sono uscito dal banchetto con la testa bassa [p. 171 modifica]senza poter dire parola. V’è qualcosa di ineluttàbile! e anche se la guerra all’Austria è un errore, come dice Maraini, tutta la storia d’Italia vi sospinge.

***

25 Aprile 1915.

I due lunghi articoli del Barzini nel Corriere della Sera, «Kriegsbrauch im Landkriege», hanno destato una profonda impressione, benchè non si tratti di cosa nuova.

Una signora, socialista, ma di molta intelligenza. Margherita Sarfatti, dopo letti i due articoli del Barzini mi scrive: «Ho pianto di rabbia e di vergogna ancor più che di orrore. No no, non c’è posto nel pianeta per loro e per noi. È troppo atroce!».

***

L’avvocato, professor Porro, che viene a scuola sempre col suo codicetto rosso della legge in mano, dopo aver letto i due articoli del Barzini, tremava quasi nella voce. In fondo, sì, è terrore!

E diceva: — Come se io dovessi prendere con queste mani un oggetto portato al calore bianco! Io non ho gli organi per prendere... [p. 172 modifica]

E il codicetto cadeva dalle mani dell’uomo della legge.

***

Uno scrittore del Corriere dice dei tedeschi:

Non barbari, ma filosofi. Cioè «logici sino all’estremo».

***

Milano, 2 maggio 1915.

Incontro il signor Guido Treves: mi prega di andare a Quarto e di fare in fretta un artìcolo squillo di guerra, per la inaugurazione del monumento a Quarto. Viene d’Annunzio di Francia, viene il re. Sarà la dichiarazione di guerra. Il ministro lascierà al poeta libertà di parola.

Ringrazio ma non mi sento adatto a fare articoli «squilli di guerra».

— Si rivolga al poeta Y*** che è specialista in isquilli.

— Lo so, lei non ha fede...

Rimango sorpreso da queste parole: forse Guido Treves ha detto una verità. [p. 173 modifica]

***

4 maggio 1915.

M’è venuta un’idea: fare un dono ai soldati. Una specie di corazza d’acciaio, non più grande di un grosso cuore, come un scapolare che difenda i grossi vasi, e a forma carenata o di petto di uccello, sì che il proièttile vi scìvoli sopra.

Poi una calotta d’acciaio che difenda il cranio.

Quanto ho girato per questa cosa!

Vado dall’ing. P.. Mi dice: — Manca l’acciaio assolutamente, mancano macchine utensili per punzonare. Gli stabilimenti metallùrgici lavorano tutti per il governo.

Vado da un mèdico militare. Proposta non nuova. Due ore di colloquio atroce. Calmo come un buddista, quel signore mi spiega l’azione dei proièttili moderni, palle dum-dum, ferite deformanti, orribili. Azione di trauma interno senza lesioni esterne per iscoppio di granate, spappolamento di visceri. Civiltà, barbarie, mine terrestri, gas asfissianti. Mia proposta utopìstica. — Però presenti un modello.

Ah, la umana ragione!...

***

4 Maggio 1915.

Mutamento di scena. Prima di tutto [p. 174 modifica]tradimento di arabi alle Sirti, in Libia. Eccidio di italiani. Dicono che c’è sotto la Germania.

Il re, i ministri non vanno più a Quarto. D’Annunzio torna in Francia? L’Avanti! gòngola e schernisce.

Che cosa succede? Che cosa è successo?

***

Il mio caro giovane amico Ginetto X... è tornato di Spagna. Mi racconta: «In Ispagna tutti germanofili. Guglielmo per gli spagnoli è cattolico! Se vincitore, deporrà la spada ai piedi di non so quale Madonna de los Dolores.

«Restituirà Gibilterra alla Spagna. Le stragi del Belgio? Non esistono per la Spagna. La guerra? Non esiste per la Spagna. Toreros, bei preti, belle donne dagli incantevoli occhioni, cantilene, manton mantillas, sudiceria, beata vita di accattonaggio, beso a Usted las manos! e beso los pies alle dame! Divino paese di mendicanti dove un solo liquore si cerca, che nulla costa: il veleno degli occhi neri delle donne. Repubblicani? Socialisti in Ispagna? Parole? Un governo quasi feudale, una società quasi feudale, che fa l’elemosina. Ma v’è tanta libertà! e tutto si rimanda a domani».

Per venire in Italia, è passato per la Francia. [p. 175 modifica]— È finita! A Marsiglia, sul porto, tutte le finestre chiuse: la morte! Visione di morte. La Francia è finita. Sul quai ho visto passar quattro reggimenti di senegalesi, con quegli occhi cupi, insensati, e quelle spade, coltelli curvi. Nudi! Oh, li avesse visti! Orribile! Devono entrare nella carne quei coltelli! La carne, capisce? Applausi? Macchè! Il più tragico silenzio! La Francia è finita, finita, le dico... Fa il gesto eroico per gli altri, per sè, ma è finita. Inghilterra e Francia si odiano.

— E allora?

— Allora chi lo sa?

Appena toccata l’Italia, il mio caro Gino, è entrato nell’atmosfera tragica in cui noi da mesi viviamo. Ne è atterrito, si esalta: — Morire, capisce? Pensare che si deve morire! Ma io non ho che i miei vent’anni! Morire, perchè?14 Per la patria? Si morisse per la patria! Ma non si muore per la patria, più. Si muore per questa idiota civiltà, perchè tutti abbiano i guanti, il colletto, le scarpe coi tacchi di gomma, i maestri elementari, perchè le industrie producano tanto, perchè gli operai producano tanto, lavorino tanto, consumino tanto, perchè tutti abbiano il campanello elettrico, [p. 176 modifica]la lampada elettrica. Si muore per organizzare questa stupida vita. È una cosa mostruosa. La Spagna, la Spagna! Divino paese! Il Borbone, Ferdinando II, re Bomba! Ecco il governo ideale!...

Povero e caro Gino, è stanco, è esausto del lungo viaggio. Poi tutte le nature nobili sono così, di una eccitabilità estrema. Forse perciò è inutile possedere una natura nobile.

Ora che è in Italia, ha sentito l’afflizione e l’ansia. Parla del babbo e della mamma con un affetto.... paterno.

In Ispagna, essendo straniero, nulla lo toccava: qui tutto lo tocca. — Ah sì, — continuava — non c’è che una soluzione: essere stranieri. Ma più ampiamente stranieri che andare in Ispagna! E sopratutto, non procreare! I preti! I preti di Spagna che fanno i corni, e sono come i corni dei toreros; non arrecano disonore.

Gino è andato via, verrà domani.

Spero di trovarlo più calmo, domani.

Allora mi è entrata nella stanza la memoria di quel prete passionista, lungo, vecchio, patito, polveroso, che incontrai per una ardente via di campagna, tanti anni fa. Non l’ho più dimenticato. A vederlo pareva Cristo staccato dalla croce, pareva il patimento in persona, con quella croce rossa cucita sulla gran gonna unta, nera, pesante. [p. 177 modifica]Pietà? Sorrise. Aveva tutti i denti bianchi. Disse: «Io questa croce me la tolgo la sera con la tonaca e dormo e dormo, ma tu, la tua invisìbile croce non te la toglierai mai, e non dormirai!».

Vedo ancora tutti i suoi denti: il vecchio passionista non era Cristo: non aveva nulla a che far con Cristo!

Quanti anni passati! E la mia croce è aumentata di peso.

***

Gino è tornato. È più tranquillo. È vèspero, è caldo! Ma la camera è fresca, il plàtano è fresco. Disse il giovine amico: — Lei sente così questi uccellini cantare, ed ha visto le foglie del plàtano germogliare ancora. È una gioia.

— Ma sì.

Cantavano gli uccellini sul plàtano.

Io dissi:

— Un po’ di birra fresca? Questa bottiglia di birra fresca, caro Gino, perchè non berla? Perchè birra è bevanda tedesca? È caldo: bevo la birra. Tutte le cose buone dovrebbero servire al consorzio degli uomini.

Quanto durerà la guerra? Gino ed io vediamo il plàtano, non vediamo la fine della guerra. Una [p. 178 modifica]esasperazione senza confine invade il mio giovine amico. Riprese:

— Lo schiacciamento della Germania? Prima di tutto un assurdo, e poi? Abbiamo noi un tipo di società diverso da quello della Germania? La Germania anzi rappresenta la espressione perfetta di questa società. È una cosa mostruosa, d’accordo! Ma per lei, per me, mostruosa! Certo la Germania combatte con tutto il misticismo di una religione. Quei mostruosi materialisti sono dei mìstici. Misticismo ottenebrante. Il concetto materialistico della vita è per loro diventato una religione. Protestante, cattolico, ebreo, Freidenker, libero pensatore? sono nomi, parvenze, categorie. La loro chimica, la loro sociologia, la loro meccanica, il loro ordine, la loro giustizia, sono i loro Iddii.

— Tutto qui?

— Già, tutto qui.

— Per il bene della umanità, per la felicità del genere umano. Dante, Leopardi, i Fioretti di San Francesco non sono niente affatto necessari. Si impara per l’utile: non per possedere virtù! Ha visto i tedeschi? Essi sono più felici di noi che abbiamo Dante, Leopardi, i Fioretti di San Francesco. Grossi, rosei, formidabili, lavati, [p. 179 modifica]impeccabili: orologeria perfetta. Non sono essi felici? I figli dei nostri figli, parleranno tedesco, berranno pinte di birra, mangieranno chili di Schwarzbrod, di Kaiserfleich, di Delikatessen, e saranno felici. Che vuole di più?

— Smetta, Gino. È orribile.

— Ma sempre la verità lucida è orribile. La verità in istato puro non è nemmeno commerciabile.

Domandai al giovane amico se avesse letto nella «Voce» del 30 aprile quello scritto di Renato Serra, che ha per titolo: «Esame di coscienza di un letterato».

Mi rispose che sì, lo aveva letto.

— Si sente, è vero, che queste parole sono state scritte nel silenzio claustrale della biblioteca Malatestiana di Cesena?

Che largo respiro umano! Le cose sensibili e le cose ultra-sensìbili vengono, come le onde dall’alto mare, a infrangersi qui melodiosamente. V’è un senso di musica, come v’è tanta giovinezza in questa tristezza di pagine, così gravi che le direi religiose.

E lessi questo passo dal libro di Renato Serra: facciano i tedeschi e i loro amici tutto quello che vogliono, e che possono. Noi abbiamo una cosa sola [p. 180 modifica]da offrire per compenso a tutte le ingiustizie dell’universo, ma questo ci basta: è il nostro cristianesimo, che ha perduto tutto il Dio e tutta la speranza, non ha perduta la tristezza e il gusto dell’ eternità. Del resto viviamo perchè non se ne può fare a meno, e la vita è così.

Disse il mio giovine amico:

— I tedeschi non capiranno mai questa parole di Renato Serra; musica ad un sordo! Già, questa è la guerra di un popolo diventato sordo. Pensi alla leggenda di Attila, che vive nel Veneto. Attila prima di parlare, abbaiava. Così i germani, in pena del loro orgoglio, abbaiano!

***

— Come può — mi chiese poi Gino — vivere in Cesena un giovane come Renato Serra?

— Felice come un re in incognito! Il pensiero letterario e filosofico in Romagna non ha troppo valore, e perciò si gode colà il beneficio di vivere in incognito.

Badi però che Serra presentemente è ufficiale, al confine. Almeno così, da quest’ultima cartolina da San Vito al Tagliamento. Vede questa parola: finalmente? Egli sentiva la fatalità di questa soluzione e la desiderava. La cosa è tanto più notevole perchè Serra non crede nella guerra come [p. 181 modifica]specifico per l’umanità. Ci credono alcuni infatuati, appartenenti alla bassa forza del pensiero. La guerra non paga nessun dèbito: tutt’al più apre nuove partite.

***

5 maggio 1915.

Vado, non a Quarto dove vanno tutti, ma a Gorlago presso Bergamo a trovare Rèbora, ieri professore, filosofo, poeta: oggi sergente di fanteria, aspirante agli alpini, perchè gli alpini — dice lui — sono la più bell’arma d’Italia. Pensare che Rèbora adora Nietzsche!

Dal finestrino del treno i villani pèttinano con amore la nuova terra risorta. Quando la guerra tutto devasterà? Cosa state a lavorare? Fra poco passerà la guerra anche di qui. Ma no! il filo dell’erba è forse la sola cosa che il tedesco non potrà distruggere. Lo calpesterà: risorgerà.

Leggo, riprodotta nel Corriere, la orazione del d’Annunzio per la sagra dei mille. Come componimento letterario è molto bello, ma tutti quelli aggettivi e comparazioni: stirpe leonina, ossa dure, anime protese, il re, richiamato dalla morte, e che venne dal mare ecc., altra volta li ho conosciuti. Beati sì, beati quelli che muoiono per la patria! Beati i poveri di spirito, beati i puri di cuore, [p. 182 modifica]beati i pacifici. Ma non riesco a mettere in concordanza queste parole di Cristo nel sermone della montagna, con la esaltazione delle forze belluine nella Laus vitae del d’Annunzio15.

Alcuni placidi borghesi lombardi, nel treno, leggono, commentano a modo loro, l’omelìa del d’Annunzio.

Dicono:

«Le parole le va a trovare sotto terra» «L’è el so mestèe!» «Questo d’Annunzio l’ha faa diventà beati tucc» «Questa qui l’è robba che mi leggerò quater o cinq volt, come el Manzoni.» «L’è un inno alla guerra» «Mi vo no!».

Quei buoni uomini lombardi ripongono con cura il Corriere, e poi estraggono dalla busta nera le loro carte legali. Parlano dei loro affari.

Ecco: mi si affaccia, mi balla davanti, fuori del finestrino, l’immagine del sig. X... professore di ginnasio, col quale spesso mi trovo a contatto alla trattoria. Penso e mi càdono le braccia.

Eccolo! È di media statura, media età, mezzo pelato, baffi grigi e sporchi, camicia di flanella con cravattina nera, un po’ unta. Vive solo. Ha l’aspetto, la voce, la placidezza canonicale. Oh, anche [p. 183 modifica]arguto! Sa quello che avviene nel mondo? Così, a un di presso: c’è la guerra. Ma i giornali non legge. Latineggia, toscaneggia così qua e là, con la sua voce lombarda e con un certo fare un po’ chiesastico, ma burlandosi un pochino anche della chiesa. Credo però che vada alla messa.

Le notizie della guerra sono tristi? Esclama: «Vita multis repleta miseriis, come dice Geremia». — I tedeschi massàcrano? «Al cielo al cielo! figli miei devotissimi, come dice il Segneri nella predica del paradiso. Ed io dico: al letto, al letto!», perchè dopo colazione, lui va a letto e non lo sveglierebbero le cannonate. — Che farà l’Italia? «Videbimus infra!» — Una notizia triste? — «Sapevàmcelo, come dice Davanzati. Oh, ma che c’è di pronto per la colazione? osso buco? busecca? ah, questa sì! Ha un certo sapore lontano di finocchio quest’osso buco!».

È un po’ parente con Apicio, ma è parsimonioso e sobrio. «Per oggi basta — dice — Non mangio più per conservare la dolcezza dell’ultima vivanda».

Ascolta con rassegnazione cristiana i discorsi un po’ grassi di certi giovani commensali. Commenta: «Porcus requirit porcua».

Non manca di un’esatta scienza della vita: «Elevate un monumento, non a chi muore in guerra, non a chi suda sui libri, ma a chi raduna le sue [p. 184 modifica] forze per la domenica, in cui fa le ore straordinarie in ufficio, e legge l’Avanti!». Certo per essere felice gli occorrerebbe la cura del santo re Davide contro la vecchiezza: coricarsi con una fresca fanciulla, piena di vitamine. Ma si accontenta.

«Comperare della rendita? Mio caro, non è tempo ancora. Quando sarà scesa a settanta, allora se ne potrà parlare».

Quando penso che un simile uomo è rappresentativo di tanta umanità, che simili uomini rimarranno in perpetuo, muore in me ogni senso eroico, e mi chiedo: «A che vale combattere contro i germani?»

***

A Gorlago, giornata serena di sole e solicello, con l’amico sergente Rèbora. Bel figliuolo, soave. Fa il saluto militare con perfezione germanica. Lo trovai in una stanzetta, dove è accantonato, rèduce da una marcia notturna. Tante calze, calzette di lana fumide! Arrossiva di quelle calze.

— Ma io non sono una signora.

Mi offrì acqua e sapone. Mi disse che i superiori si valgono sempre di lui. Si vestì; uscimmo. Ebbe licenza per qualche ora.

Fra il verde: antiche ville lombarde! L’occhio riposa, non soffre come a Milano. Come era [p. 185 modifica] lontana Milano e la sua mastodontica architettura berlinese! Ville lombarde patriarcali, collicelli, glicine in fiore, rose specchiantisi nelle verdi acque correnti, campi stellati di fiori, grano, viti con le foglie tènere; casolari e occhi di bimbi.

Un prete trèmulo e canuto su la soglia del sagrato, — eremo puro nella primavera, — saluta con un sorriso gràcile la assisa grigia del giovane soldato d’Italia. Bimbi giòcano sul sagrato. Dice il prete ai bimbi, nel suo bergamasco accento: — Se mancate di rispetto al prete, cosa farete?

Allibìscono i bimbi!

Oh, il goffo accento bergamasco! Volti curiosi di uomini! Baffacci pendenti, menti neri, cappellacci su la nuca, bonari bevitori (brillo, birillo, porcillo, dicono per indicare i tre gradi dell’ebbrezza potatoria).

Si parla del d’Annunzio, del suo discorso. — D’Annunzio? Un gran sincero! Non ha, come l’Ulisse dantesco, varcato le colonne d’Ercole: ma ha girato per tutto lo zodìaco umano: la virtù come il vizio gli sono passati vicini e uguali, cioè grandi cose dell’uomo. La sua vita è la sua letteratura.. Unico, forse, egli ha dato valore spirituale a ciò che gli uomini e le donne tenevano in occulto, come disonorevole: il piacere! Ne proviene che il pensiero di lui, pur espresso con màgica parola, non è in dislivello, ma al livello dei più. [p. 186 modifica] Egli fa godere a tutti il suo godimento. Tutti i doni a lui gli Dei hanno largito.

Si parlò anche della guerra. Disse tristemente l’amico: — La guerra deve essere una cosa enormemente seria per il fatto che si muore. Ma per il resto! Una sofferenza immane delle masse, polarizzate nella volontà di alcuni che sono fuori della guerra. I giovani sognano ancora la guerra classica, eroica! È la guerra anonima, tedesca, senza nemmeno il bel gesto.

— I soldati parlano, sanno della guerra?

— Ma no, niente! Non parlano della guerra. In fondo ciò è bene.

Si parlò della poesia pura secondo le nuove teorie: «La poesia deve essere libera da riferimenti ad ogni altro valore: senza contenuto dottrinale, puro atto, attimo creativo». Oh, la grande novità dell’uovo di Colombo! Atto creativo, d’accordo, ma scrivere in modo da farsi capire. Ma tenni queste cose per me. Vero, amico Rebora?

***

Abbiamo fatto colazione sotto una tettoia, senza tovaglia. Polenta sorda, uova, vino acidetto. Non c’era altro. Ma intorno a noi occhi di bimbi attòniti a guardarci, gran verde attònito. Dove beve poi l’uomo la sua ferocia? [p. 187 modifica]

Gli ultimi sproni delle Alpi, si confondevano nel piano verde. L’amico Rèbora beve acqua mera, mangia polenta sorda, scioglie un ditirambo tolstoiano all’acqua e alla polenta.

— Il segreto delle guerre — dice — è qui: se domanderemo alla vita poco di quello che è artificio degli uomini, molto di ciò che la natura dispensa a tutti in tanta copia: aria, sole, verde, pane, vino, amore, le guerre cesseranno. Se no sarà guerra in perpetuo. Questa è una nozione elementare: ma non è l'algebra, la chimica, la meccanica, il greco, il latino, che sono difficili per l’uomo. Le nozioni elementari sono difficili.

Una società di anacoreti, amico Rèbora? Bellissimo! Ma, e il mondo come va a finire? E l’amore? Altro affare serio! La donna è una fontana; ma l’acqua si guasta se tutti vanno a bere alla stessa bella fontana. E il pane? e il vino?

Anche qui tenni il mio ragionamento per me.

Egli accarezzava intanto e donava caramelle ai bimbi mocciosi dell'osteria. Tutti attorno a lui.

Ritorno. In treno. Alcuni alpini, giovanissimi, belli, volontari, cantano: «Italia, Trento e Trieste, Alpi...». [p. 188 modifica]

***

Giorno tetro, orribile! I russi sono battuti, la Germania ci oltraggia con un linguaggio, di cui lei sola sa lo stile. Ho ancora nelle orecchie il colloquio con il colonnello medico X... su le orribili ferite nelle guerre moderne (a proposito delle mie corazze).

Renato mi manda il suo ritratto e una lettera. Che lettera triste con presentimento di morte! Scrive:

«Non ne avevo mai regalati nè a uomini, nè a donne per quanto mi ricordi. E anche adesso mi trovo un po’ imbarazzato e quasi ridìcolo a spedirne qualcuno. D’altronde non lo faccio per tenerezza di me stesso....»

Ho guardato a lungo il suo silenzioso imberbe profilo forte. Come qualcosa di sigillato! Così sono rimasto a lungo a guardare. Poi venne l’idea della morte che tutto sigilla.

Un’altra imagine frattanto era sorta. £ si concretava, e io la respingevo.

Deposi con non so quale devozione quella cartolina che portava il profilo di Renato. Quell’altra imagine si impose alla mia volontà: un altro profilo, imberbe e forte.

Allora non ne potei più e mi levai. Dove l’ho messo? Ho cercato: ho trovato. Era il [p. 189 modifica] ritratto-cartolina del gigantesco germanico, mio scolaro del Filologico.

Una forza strana, maligna mi spinge a mettere accanto, al contatto, le due cartoline-ritratto. Uguali! Una profanazione? Sono uomini.

***

Giungo in ritardo alla scuola. Non ho anima, non ho voglia di fare lezione.

Do un compito: «Dite con sincerità quale pensate sia il vostro dovere nella vita».

Uno scolaretto, un po’ bècero, un po’ barabba, rosso, sano, sta con la penna in aria in idiota ispirazione.

Mi siedo presso di lui. Domando piano:

— Lei è felice?

Sorride. È sorpreso dalla strana domanda.

— Certo — risponde — , gli affari vanno bene.

— Come «gli affari vanno bene?»

Risponde: — Mando molto vino a Marsiglia, a Tolone; in Germania non più tanto, adesso.

— Ha avuto mai dispiaceri?

— Mai.

— Allora lei è felice perchè guadagna?

— Sì. — E il sorriso gli sta fissato nel volto.

— Quanto?

— Non so, molto! E tutti quei denari sono la mia eredità. Adesso non ne posso disporre, ma [p. 190 modifica] verrà un giorno che ne disporrò. Abbiamo molte vigne sul Monferrato.

Domando: — Allora altro che una malattia alle vigne le può dar dispiacere?

— Eh, già!

— E quando sarà grande, si divertirà?

— Eh, già!

— È figlio solo?

— Sì, sono rimasto ultimo di tre fratelli. Ma si sta meglio soli.

Non vedo più il ragazzo, il piccolo barabba: è l’uomo!

— Perchè mi guarda, professore?

— Nulla: non guardo lei, guardo me.

Come sono stùpidi, a volte, anche i professori! Un tema sul «dovere!»

***

Milano, 8 Maggio 1915.

La grande nave inglese Lusitania, affondata da un sottomarino tedesco: duemila esseri umani affondati con tanti bimbi!

Jus gentium! Grozio dice...., Alberigo Gentile dice..., Luigi Luzzatti dice... ecc. ecc.

Una notizia d’oltre tomba. È morto il medico tedesco Löfler, che trovò il bacillo della difterite. A che vale la scienza senza sapienza?

Ma l’errore è del nostro sentimentalismo: [p. 191 modifica] siamo noi che crediamo, che ripetiamo: «la scienza è benefica!»

La scienza non è nè benefica, nè malefica: ci porge con la stessa indifferenza il siluro che affonda e il siero anti-difterico.

I russi battuti ancora! Fra poco udremo la riconquista di Przemyal. Chi ne capisce niente dei russi? Mi ricordo di aver letto16 che anche Cavour diceva che i russi sono un volubile enigma.

***

9 Maggio 1915.

Un mio scolaro, rumeno, al Politecnico, è partito. Allora anche la Rumenia mobìlita. Sono rimasti un russo ebreo, e un bulgaro. Il bulgaro è un giovanottone sveglio, bonario, massiccio. Mi assicura che tutti i bulgari sono costruiti come lui. — L’ottanta per cento — dice — sono contadini, e vogliono la Macedonia, se non tutta, una parte.

Mi ha diviso la Macedonia in tante parti, con un’esosità di vero contadino. Quelle fette di Macedonia sono come una proprietà personale di ogni bulgaro.

A me pare una cosa molto utile avere dalla parte nostra un esercito di giovinottoni come quel [p. 192 modifica] bulgaro, e perciò gli domando se i bulgari vogliono bene alla Russia, e quindi marciare a fianco della Russia, che ora va male, molto male! La Bulgaria pagherebbe così anche un debito di riconoscenza verso gli Czar.

— Sì, Bulgaria vuol bene a Russia, ma vuole quelle sue fette di Macedonia — risponde quel giovanotto. Quanto alla riconoscenza egli non fa parola: mi dice poi che ha già preso parte, come volontario studente, alle due guerre balcaniche.

Ne ragiona con indifferenza, così come io lo guardo con stupore.

— Così che lei ha ammazzato molta gente?

— Probabilmente.

Io sono commosso, lui no.

Guardo la cattedra su la quale siedo, e mi domando: «che sto a fare qui?»

Per avere quelle fette di Macedonia, lui e tutti i bulgari in ventiquattro ore fanno mobilitazione.

Gli parlo della causa dell’umanità, ma ci sente poco. Però mi assicura che, dopo, quando avranno avuto la Macedonia, i bulgari saranno contenti e torneranno in pace a fare i contadini come prima.

Ma è curiosa! Far la guerra per la Macedonia! Mi fa l’effetto che la Macedonia sia una cosa che c’era una volta, al tempo di Filippo re di Macedonia padre di Alessandro il Grande.

Ma il russo, ebreo, protesta in un suo goffo [p. 193 modifica] linguaggìo contro il mio bulgaro e contro l’ideale della vita bucòlica dei contadini bulgari: «Ah, no!» e si storce come un bimbo a cui si neghi il balocco preferito: la guerra! Piagnùcola: «Ma allora, senza guerra, non c’è più civiltà, non c’è più progresso...»

Ma sono così bellicosi gli ebrei russi? Viceversa tutti quegli ebrei russi, e ve ne sono parecchi qui al Politecnico, dimostrano una ben strana impassibilità per le sconfitte della Russia.

— Ma non è russo, lei?

Correggono: — Sùddito russo.

Confabulano fra loro: ho sorpreso fra loro sorrisi irònici. Sono strani! Uno di essi mi ha fatto un discorso di odio implacabile contro la Russia dello czar. Non avevo un’idea, in Italia, dell’odio sotto zero, odio gèlido.

Al tempo della guerra russo-giapponese, il Politecnico era pieno di ebrei russi disertori, insieme con le loro russe.

***

In via Dante s’è fermato il tram. Passavano i volontari. In fila di quattro: studenti, professionisti, qualcuno del popolo. Ho additato a Sibilla Aleramo, che era con me in tram: — Quello lì è Battisti, il deputato socialista di Trento. [p. 194 modifica]

Passava la sua figura alta, scarna, assorta. In tutti quei giovani, silenzio, uno sguardo severo! Si sentiva la gravità dell’ora. Comandava il bel maggiore dei bersaglieri che era al banchetto dell’on. Battisti.

La signora era commossa. Le ho stretto la mano fino al dolore.

Ma deve essere una commozione estetica.

***

10 Maggio 1915.

Colloquio doloroso con Alfredo Comandini. Pochi come lui conoscono la storia viva d’Italia. Nella sua giovinezza deve essere stato idealista: ora il suo idealismo si è inacidito in paradossi spaventosi, che si diverte a far scoppiare come tanti petardi davanti agli amici. Nelle sue note politiche su la «Illustrazione Italiana» egli è riserbatissimo, sino a riuscire insignificante, ma bisogna sentirlo parlare! Parlatore che affascina: «L’ideale? bisogna imporlo con la forza, perchè l’uomo è cattivo».

Quando gli si parla della guerra contro la Germania per la causa dell’umanità, sorride e guarda con pietà, come io posso guardare uno scolaretto di prima ginnasio.

La guerra? «E chi ne vedrà la fine? Prima di [p. 195 modifica] arrivare al trattato di Vienna, nel 1815, che diede un qualunque assetto all’Europa, quanti anni ci vollero? E la guerra dei trenta anni, dopo la Riforma di Martin Lutero

Egli inoltre possiede gli incartamenti segreti di tutti gli uomini politici vivi e morti.

Giolitti? Un traditore? Ma no! Un grossolano, che vede i fatti giorno per giorno, ma non li connette. Salandra? Un professore. Sonnino? Un uomo altamente stimabile, ma che per la sua chiusa ruvidezza allontana tutti.

— Nessuno a Milano — dice lui — vuole la guerra. Ci sono dei ventriloqui che la gridano, c’è una campagna giornalistica fatta bene. Qualche ingenuo! Ecco tutto. Ma nessuno vuole la guerra. Li interroghi ad uno ad uno. Ciao!

E va a casa. Cammina senza cappello e d’inverno senza cappotto. Si riscalda coi bagni freddi! I suoi figli sono i documenti storici. Comandini è povero, ma possiede tesori di carte, cimeli, rarità. Lo studio è imbottito. In alto ha una soffitta tutta piena di carte.

A proposito della Svizzera: un elegante giornalista, germanofilo, assicura che la Svizzera non farà alcuna opposizione al passaggio dell’esercito germànico. Si limiterà ad una protesta formale. In una settimana, nelle carrozze della Gothardbahn, i tedeschi sono a Milano. Dispòngono di [p. 196 modifica] forze inesauribili. Non è vero che i migliori soldati siano morti. Errore! Sono stati tenuti in riserva. In agosto hanno mandato avanti le forze più scadenti. Previsto tutto!

— Allora che fare? — domando atterrito.

È mezzogiorno. Risponde: — Andare a colazione.

Egli va al Savini a far colazione. Non ha figli, neppur lui, e in caso di guerra, farà il corrispondente di guerra di un grande giornale.

***

Caesar, Caesar Germaniae, quo ruis? quo ruit Europa? Mentre questa guerra dilania l’Europa, il Giappone ha steso lo zampino velenoso e dolce su la Cina, dal gran ventre pieno di milioni di uomini gialli: quattrocento milioni, dicono. E che cosa vuol dire questo protettorato del Giappone su la Cina? Mi pare che voglia dire in un lontano avvenire: l’Europa via dall’Asia.

Meravigliosa Europa, piena di così splendide forze, che la federazione non pareva utopia! Se davanti alla tua grandezza esisteva un pericolo, era quello che il Cesare germanico aveva conclamato: il pericolo di quel giallo formicolaio dall’oriente.

Se i tedeschi avessero avuto più intelligenza! Ma già, se Atene e Sparta non si fossero [p. 197 modifica] dissanguate per mezzo secolo... Ma è assurda la speranza di una storia fabbricata secondo logica e ragione.

Le nostre democrazie occidentali erano così poveramente spregevoli! Ciò è vero! Ma la Germania presenta un caso di patologia criminale! La Germania è impazzita: la Germania luterana ha abolito la confessione: essa non rientra più nella sua coscienza.

La Germania dice che vuol salvare l’Europa, ma l’Europa va a ramengo!

***

11 maggio 1915.

Molti tedeschi se ne sono andati, molte Fräulein molti marcantonii coi baffi da gatto, come il loro Kaiser, che parevano essi i padroni di Milano, non si vedono più. Però Milano rimane poco bella lo stesso. Ieri, a Brescia, per esempio, si credeva allo scoppio della guerra. E oggi?

L’on. Giolitti è venuto a Roma. Che cosa succederà? Come in Atene? Dimissione di.... Venizelos? Siamo anche noi graeculi o andres athenaioi?

Giolitti non crede necessaria la guerra. Il risotto della guerra, bene o male, stava per essere levato dal fuoco con la sua bella manteca di burro. Invece del burro, Giolitti ci versa acqua di gelo. [p. 198 modifica]

Ci vuole la guerra, o non ci vuole la guerra? Questo nessuno lo sa. Si sa che il Parlamento, per tre quarti, e la nazione idem, non la vuole: la subisce come un’ananke. Ma è realmente un ananke: questo lo sentono tutti.

E il risotto, con quell’acqua di gelo, diventerà un pessimo risotto! Come sarebbe quasi tutta da ridere la tragedia nel mondo, se non ci fossimo noi in mezzo.

Oh, Giove barbanera, del sublime ironico Omero, che te ne stai sull’Olimpo a guardare in giù, come ti devi divertire!

Certo il momento è terribile. Una nazione non provocata, non assalita, anzi blandita, che deve trovare la forza per gettarsi in tale conflitto! Come Curio romano che si getta nella voràgine affinchè la patria compaja più bella!

Sarà così anche l’Italia?

Quanto tempo potrà resistere l’Italia?

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12 maggio 1915.

Giornata terribile, altre ne seguiranno! La storia d’Italia corre alla sua redderationem. Andiamo contro il disastro della guerra civile, prima della guerra guerreggiata?

L’azione di Giolitti svalorizza di colpo tutta l’opera del Governo. Leggiamo l’Avanti! Per [p. 199 modifica] l’Avanti! Sonnino è l’uomo perverso che sta preparando alla nazione l’estrema rovina: «Il giallo Sonnino»!

Dicono, invece, che Sonnino sia rosso di volto.

Sonnino, Salandra sono per l’Avanti! il colpo di Stato. La democrazia radicale, anarchica, massonica rappresenta il colpo di Stato. Giolitti invece è il popolo d’Italia, cioè le masse socialiste, alle quali il suffragio universale ha dato modo di valere qualche cosa. «Giolitti è il Parlamento! deliberi il Parlamento».

I termini sono così?

Ma i socialisti non tengono conto che, oltre alle masse socialiste, oltre alla democrazia massonica, radicale ecc. esìstono in Italia anche gli altri, cioè italiani, che hanno un patrimonio ideale da difendere. La suprema indifferenza dei socialisti per questo patrimonio ideale, distrugge tutta la ragione di essere dell’Italia; porta ad un gesto disperato! Anche qualche socialista, che conosce la storia d’Italia, freme nel suo cuore!

Senza volerlo, senza saperlo, i socialisti dell’Avanti! fanno il giuoco di quelli che vogliono spingere l'Italia nella guerra.

Il problema, nella mente di Giolitti, deve stare in termini prettamente realistici, che noi non conosciamo. Giolitti li possiede, li valorizza col suo cervello, e risponde: No! [p. 200 modifica]

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Il grottesco della tragedia. Il tribunale inglese emette una sentenza di assassinio contro il Kaiser, contro il governo germanico, per l’affondamento del Lusitania.

È rituale nella legislazione inglese. Sta bene, ma dimostra anche di quanta ironia il buon Dio abbia cosparsa la vita.

Il pragmatismo tedesco è di una formidabile verità: la violenza sana tutto, l’umanità concede alle violenze supreme il verdetto dell’assoluzione. Tutt’al più la storia vi aggiunge poi una inutile glossa marginale, che non fa parte del testo.

Il collega, professor Lagomaggiore, ha avuto il precetto. Parte per Asiago. Vedovo, con un figlioletto per cui trema, ed adora! È pallido, ma molto calmo, anzi sorridente. Bella tempra!

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Ricevo da Latisana (al confine) una lettera da Serra di contenutezza eroica. Sì! adoperiamo questa parola, anche se alla social-democrazia può dispiacere. In fine della lettera stanno queste parole riguardanti la preparazione militare: «Di quel poco che si vede, mi pare che non stia bene parlare». [p. 201 modifica]

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Pel corso, per via Manzoni: donne dipinte, occhi di magnifiche civette, gambe quasi nude. Oh, Weininger!

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13 Maggio 1915.

Il prof. Santamaria, quello della marmotta, sorridente, composto, con moglie, con figli, con figlie, col messale sotto il braccio, va alla messa. Ci salutiamo. Risponde: — Speriamo.

— Ma in che cosa?

— Spero nella pace.

— Nella pace?

— Sì, spero che l’Italia accetti quello che oggi l’Austria ci offre, e poi si interponga a dettare la pace fra «le belligeranti nazioni». Del resto io ho sempre sognato l’Italia così...., e non si deve vivere di sogno?

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E infatti noi viviamo di sogni: sogni per i bimbi, sogni per gli uomini con la barba grigia come il prof. Santamaria, che va alla messa; la messa che rinovella, ogni dì, il gran sogno della liberazione dal male e della comunione di questa [p. 202 modifica]belva con un Dio, sogno di un Dio di perdono e di amore.

«Ma come, — altri del popolo dice — ci dànno quello che domandiamo, e vogliono la guerra?» Ed il tranviere additando una dimostrazione esclama: — Sono i sciuri, i signori che vogliono la guerra.

O mio onesto idiota, è invece il contrario: i sciuri, i preti, come i socialisti, non vogliono la guerra. Ma poi riflèttendoci, mi pare che il tranviere abbia ragione: da noi, in Italia, esiste una aristocrazia che può anche avere gli abiti a brandelli; ma è una aristocrazia quella che vuole la guerra!

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— Perchè la guerra? — mi domanda un grande industriale — Francia, Inghilterra non ci vogliono più bene della Germania. Ma crede lei che l’Inghilterra, una volta che siamo nelle peste, ci venga ad aiutare? Mi disi de no. E badi che io faccio ottimi affari con l’Inghilterra; pagamento in oro! La Francia la fa la generosa, ci dà il permesso di far la guerra contro l’Austria... Ah, merci bien...

Gli espongo le ragioni ideali della guerra. Ascolta un po’, poi dice: — Sì, capissi, ma ch’el [p. 203 modifica]senta: un prepotente, grand e gross come l’è, bastona un povero diavolo. L’è minga bell, già se saa! Ma è una faccenda che avviene tutti i giorni. Ora lei vedrà che chi rimane con la testa rotta è quasi sempre quello che fa il gentiluomo e va ad aiutare il più debole. Per mio conto le posso assicurare questo, che tutte le volte che mi sono intromesso fra due contendenti, dopo, il meno che mi è capitato, è stato di non trovarmi più el borsin. Badi che di libri ne ho letti pochi; ma lei, per caso, è un letterato?

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Gran sole oggi nel glorioso giorno dell'Ascensione. Donne, donnine eleganti, passano per via. Sembrano freschi fondants nel delizioso maggio. «Ottima è l’acqua» canta Pindaro, ma più ottimi sono i fondants. Le belle femmine dànno furor di vita al maggio, come dànno luce al gennaio grigio di Milano.

Guerra, furore erotico, spàsimo sàdico! Dove ho letto che l’Austria riempie gli ospedali ove stanno feriti e morenti, con femminette lascive?

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L’Avanti! di oggi scopre, come si suole dire, le batterie; dichiara apertamente che quello di [p. 204 modifica] prima era stato riserbo di vìgile attesa. Denuncia il ministro Salandra di illegalità costituzionale.

Ma quello che fa più pena nel giornale socialista è quest’unica, implacabile, ottenebrante idea: «non esiste che il proletariato, non ci sono che le lacrime e il sangue del proletariato. Tutto il resto è borghese: guerra borghese». Ma non c’è che il proletariato che soffre?

Senso di freddo, impossibilità di persuadere: come ragionare con una spaventosa testa di morto. Neutralità! E sia! Ma per considerazioni politiche, che ci possono anche essere, per un alto senso umano e civile! Ma no! Neutralità, perchè non vi siano lacrime e sangue proletario! E dire che un socialismo illuminato avrebbe potuto trascinare dietro di sè quasi tutta la nazione, ed evitare la guerra! Non ha trascinato dietro sè, nemmeno se stesso!

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Il discorso del d’Annunzio a Roma è stato impressionante.

Sibilla ne è entusiasta, e si meraviglia che io non mi entusiasmi. Ah, io ho presso di me questa scarna, macera, gelida ironia che mi apre gli uomini e le cose e non mi fa vedere se non ciò che è più tristo e più vano!

Ah, poeta nato sotto benigne stelle! Se anche [p. 205 modifica] non hai la fede, hai la bellezza, la quale ti è velame di ogni altra imagine, toilette piacevole alla morte, alle lacrime, al sangue: fede della vita!

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Mattino, 14 maggio 1915.

Dimissioni Salandra. Grecia bis? Del resto era prevedibile. Avremo un po’ di tumulto, ma la rivoluzione, la repubblica.... Il Parlamento indicherà Giolitti al re: jeu fait!

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Vado a scuola. Un po’ di tumulto. Scuole chiuse.

La professoressa d’inglese, signorina Lily Marchall, ha un sorriso macabro, più che irònico: mi stende la mano èsile: — Profonde condoglianze — mi dice — : meglio che affondino le corazzate che l’onore.

(Di navi inglesi se ne sono affondate oltre il preventivo).

Non rispondo niente. È quasi bella nel suo freddo odio la signorina Lily Marchall.

Però anche voialtri, britanni, foste già alquanto tedeschi verso molti uomini e popoli, ed ora volete far nozze coi fichi.... degli altri.

Il ceto professorale è un poco allibito. [p. 206 modifica]

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Giunti sull’orlo della guerra, l’on. Giolitti viene fuori con la nota combinata col Bülow delle concessioni territoriali che l’Austria è disposta a fare all’Italia.

L'onta di un’Italia tacitata come una meretrice, è nel cuore più che nelle parole di tutti.

L’on. Turati ha detto per celia: «Andiamo a fare i vigliacchi di dentro»; ma una nazione non può dire così.

I poveri scolari sfilano per via Torino cantando: «Iddio la creò»...

Che pietà!

La città apprende la notizia coi giornali del mattino, e si anima. Bandiere, grida di «Morte a Giolitti», qualche abbasso alla monarchia. Ma si vede, si sente l’assenza di quell’elemento che dà l’atmosfera fosca della tempesta: la massa. V’è chi attende la proclamazione della repubblica da Roma!... Forse a Roma la attendono da Milano! Certo le persone di cuore e di onore, che si incontrano per via, si salutano con un’ansia, con un pallore, come se ognuno avesse ricevuto su le guance un invisibile schiaffo.

Il signore che è con me, insiste sul problema: «Siamo vili o civili?» Un altro signore, indicando i soldati che sbarrano la Galleria, mi fa osservare [p. 207 modifica] che sono tutti richiamati, cioè socialisti in prevalenza. Ben felici, quindi, di far fuoco sui dimostranti italiani, anche senz’ordine degli ufficiali.

Il socialismo avrebbe così il suo esercito con la buffetteria nuova, regalata dal Governo.

Grave, sintomatica notizia leggo nel Carlino: un bersagliere ha gridato: morte all’Italia! un fantaccino ha sputato su la bandiera. Le grida di Viva l’Austria, sono qualcosa di più che un fenomeno sporadico.

Un po’ per volta è tutta un’insurrezione di grida, di scritte contro Giolitti: traditore, tradimento! La grossolanità di questo signore certo è notevole. Ha trattato l’Italia come una lega socialista emiliana, contrattando la pace.

Il principe di Bülow può ad ogni modo dire: Sehr gut!

Ha affidato l’Italia al suo storico elemento: il tumulto. I preti gioiscono in silenzio.

***

Più atroce il discorso col nobile giovane signor X***

Abbiamo fumato una scatola di sigarette: cioè lui me le offriva con grazia, come a lenimento delle sue parole corrosive. Dunque: «Francia finita, Inghilterra, sempre perfida Albione, soldati [p. 208 modifica] col biscottino e la marmellata, navi senza marinai, Russia non fa sul serio e poi.. la Russia! I tedeschi, a loro modo, si intende, vogliono bene all’Italia, ma sono seccati di questo can-can. Il nostro fatto odierno? Eccolo: Salandra e Sonnino si sono accorti di essersi spinti in un cul de sac, sino al punto da far dichiarar la guerra da un poeta che viene di Francia! Enorme! Ma ecco che di fronte all’atto operatorio, quei signori si accorgono che l’ammalata ha il polso intermittente. Momento tràgico! Che fare? Si chiama a consulto il medico Giolitti da Cavour. Ironia dei nomi! D’accordo, ma non c’è di meglio. Il medico consulente dichiara che il cuore è debole, la cloroformizzazione impossibile. Attenderà ancora, oppure l’operazione la farà lui. Grottesco! Per trenta anni il governo italiano ha seguito un programma di rinuncia, ed oggi dichiara che non può rinunciare ad una particella sola del suo programma nazionale. Questo è peggio che grottesco! È ricatto!»

Il giovane signore così parla, e parla con piacevole volubilità. Io lo ascolto con un indefinibile senso di angoscia. Per me la guerra ha una sola principale ragione di essere: la insurrezione degli uomini contro un popolo che si è collocato fuori del genere umano.

Ma il sorriso del giovane signore è spietato. «Capisco perfettamente. Lei vuol fare la guerra [p. 209 modifica] col sacramento. Parli così con me, ma non con gli altri. Lei parla italiano a chi parla papuasiano. Per lei esistono i valori morali, umani, come li vuol chiamare, ma per gli altri non esistono che i valori commerciali; i valori di horsa, di banca, i trattati di commercio. Costoro sono i papuasiani. Conosce lei il dietro-scena dei giornali a, b, c? Conosce lei massoneria verde, verdolina, verderosa? A scelta come per le stoffe. Conosce il gioco parlamentare del bene inseparabile della patria con gli interessi dell’amico, dell’amica, dell’amico dell’amica? Anche costoro sono papuasiani. Conosce il gran patriotta, on. X***, che voleva andare a Quarto, ma rimase a casa per non far dispiacere all’on. Giolitti? Crede lei che gli Stati Uniti dichiarino guerra alla Germania per la causa dell’umanità?»

Arrossisco. Il giovin signore (fu già mio scolaro) ha tutti i capelli d’un bel nero corvino.

Ah, vita mia, inutilmente spesa!

Dice: — Mi permette di offrirle un caffè?

Andiamo. Davanti a noi cammina un’imagine nauseabonda: un uomo deforme, nanerello, con le gambe arcuate che pare el Marchionn di gamb avert. Con lui è il figliuolo, nanerello, deforme, arcuato. Quel miserabile non doveva procreare! Mi specchio in quell’uomo.

Forse anch’io sono un deforme. [p. 210 modifica]

Folla di bandierine per le vie: scritte innumerevoli di «Morte a Giolitti!, Giolitti traditore»! Bandierine sul petto delle donne. Venditori urlanti: «Il vessillo della patria, un soldo!»

Al bar, un’elegante mondana francese porta il tricolore al petto.

Il mio giovin signore, col più squisito garbo, prega la «signorina» di togliersi quei colori.

Pour l’amour de l’Italie...

— Veda, non lo porto io, che sono italiano...

***

15 maggio 1915.

Il re ha incaricato l’On. Marcora, l’On. Boselli di formare il gabinetto.

Comandini mi dice: «Ah, sì! Rispettabili uomini, ma che hanno gli interruttori del sistema nervoso, rotti per eccesso di senilità.

«Il re costituzionale! Un artritico in permanenza, il quale tiene nell’anticamera queste vecchie stampelle, Marcora, Luzzatti, Giolitti, ecc. Si appoggia all’una o all’altra secondo i dolori che sente. Va bene così? No? Allora mutiamo».

***

Oggi, sole meraviglioso: vita cittadina quasi normale. Senso cadaverico nel cuore di pochi. [p. 211 modifica] Passa nell’atonia di via S. Margherita, una schiera di scolari: tricolore, cantano: «L’Italia s’è desta!»

Cerco un vicolo per non vedere, per non udire. Certo è meravigliosa sino alle lagrime questa giovinezza: cresciuta in tanto materialismo, eppure arde di fede! Avanza col sacramento! Leggo queste parole della Zeit:

«Noi dobbiamo dichiarare espressamente che l’Austria-Ungheria e la Germania non nutrono sentimenti ostili verso l’Italia con la quale sono state unite da rapporti di alleanza per un’intera generazione. Da parte nostra non è accaduto nulla che possa trasformare l’antica alleanza in una improvvisa inimicizia. Non è colpa nostra se in Italia esistono partiti ai quali i due Imperi centrali non vanno a genio, e i quali, spinti dalle passioni dei demagoghi, cercano di aizzare gli istinti popolari contro i provati amici dell’Italia. Noi non desideriamo la cessazione dei buoni rapporti con l’Italia. Se però, nonostante i nostri desideri e le nostre buone intenzioni, dovesse succedere ciò che non ha riscontro nella storia e precisamente che un’alleanza, dopo trenta anni, venga denunziata proprio al momento in cui gli antichi alleati devono sostenere una lotta immane contro tanti nemici coalizzati, in questo caso, anche i nuovi nemici, che noi non abbiamo provocati ed il cui odio ci appare assolutamente ingiustificato, ci troverebbero pronti ad affrontarli».

Nella reggia di Roma che avviene? Il nostro re e quei vecchi ministri devono leggere anch’essi queste tremende parole. E chi oserà?

Il momento è terribile e grande. Si ha l’impressione che l’Italia stia disfacendo se stessa. [p. 212 modifica] Sospinta sino dove è il precipizio, e il terrore fa irti i capelli, lentamente si ritrae.

È salvo l’oggi e la vita, è perduto il domani. È una sensazione subcosciente e spaventosa. Anzi nemmeno la vita è assicurata domani. Guai a noi «traditori» se la Germania vince. Anche certi spiriti superiori che dicono che è tutta una montatura del giornalismo, della massoneria, che deridono Mussolini17, non sono tranquilli nè soddisfatti. Il senso per lo meno di una germanizzazione violenta e oltracotante a cui non sarà lecito nemmeno protestare, è sentito da tutti, anche dalla gente del popolo, anche dai gaudenti.

Impressionante il contegno di molti monarchici. Se non dicono abbasso il re, dicono abbasso Vittorio Emanuele terzo.

Momenti supremi. Oggi c’è posto lìbero per un grande, ma cinquanta anni di democrazia, di burocrazia anonima hanno disciolto nel loro acido molto oro umano.

Concorso! Mi vengono a mente i concorsi del Ministero della Pubblica Istruzione. Dei tanti professori di «eloquenza italiana», come si diceva una volta, chi proferisce oggi una parola eloquente? [p. 213 modifica]

***

16 maggio 1915, domenica.

Il re ha respinto le dimissioni di Salandra. Che cosa è successo? L’urto dell’automobile Giolitti deve essere stato maldestro: esso si è rovesciato e l’avversario Salandra è passato avanti. Allora è la guerra.

Animazione grande, commovente, travolgente. Dal lato costituzionale è una situazione curiosa. Trecento deputati erano con Giolitti.

Eppure ha vinto l'imponderabile!

Ora il problema è questo: reggerà l’Italia alla terribile prova?

Gli studenti del Politecnico, lì in piazza Cavour, mi hanno circondato perchè faccia un discorso. Ma io non so parlare in piazza. Io dovrei dire così: «È necessario che una generazione sia sacrificata, perchè...».

Ma il perchè non lo so trovare.

Ma quegli occhi di giovani, stellati di passione, e insolitamente seri, fissi su me, mi dànno una perturbazione profonda. Io le alate parole non le so trovare. Le parole di odio, nemmeno.

E poi mi ricordo che alcuni anni fa, quando facevo fare le conferenze in iscuola, ci fu un piccolo studente di primo corso, una matricola, che osò propormi questo tema di conferenza: La [p. 214 modifica] Guerra. La voce corse e l’aula sì riempì dì studenti fino al soffitto. Erano centinaia di teste nell'anfiteatro. Eravamo allora in pieno pacifismo socialista. Il ragazzo, la matricola cominciò a parlare. Mica a lodare la guerra, ma soltanto a dimostrare che la guerra è un fatto della storia umana. Fu un subisso! Pareva che crollassero i muri; tutti a protestare. Mi sono imposto! — Voi dovete ascoltare! Questo non è un comizio, è la scuola! La scuola italiana anche nei tempi della servitù politica è stata sempre libera...

Si continuò per un po’ e poi convenne smettere.

Ora sono tutti per la guerra contro la Germania.

È un popolo squilibrato la Germania a furia di cercare il perfetto equilibrio. Ma la parola di odio che questi giovani mi domandano non so trovarla.

***

Quello scolarino di primo anno di Istituto, che ha appena diciotto anni, lo incontrai tra via: gracile, palliduccio, tutto servizievole, ma tutto felice quando poteva fare a scuola qualche monelleria di nascosto: ora andava in fretta tra via.

— Dove va? [p. 215 modifica]

— Dal meccanico a fare accomodare la bicicletta.

Volontario ciclista. Parte domani.

— Signor sì!

Povero figliuolo! me lo fucileranno come un passerotto.

Da un ramo, dove canta, per terra! Ma dove l’hanno imparata la Patria, questi ragazzi?

Il grido Fratelli d’Italia sorto dalle tombe scroscia, diventa tempesta.


18 Maggio 1915.

La donna di servizio, al mattino, lùcida i mobili, spolvera la polvere eterna: oggi come ieri. Poi domanda: «Cosa si compra per la spesa; asparagi? uova? carne?» Tutto placidamente, tutto stupidamente. Per lei nulla succede nel mondo. La polvere cade, la pentola bolle.

E dire che si chiama Emma! Il nome di Mimi.

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L’on. Giolitti è partito da Roma. Se però era convinto che non è bene fare la guerra, doveva insistere e restare a Roma. A dire oggi che questo alto, freddo, canuto notaio del parlamento possa tornar buono un’altra volta, c’è da farsi bastonare. Eppure chi sa! [p. 216 modifica]

***

Discorso del d’Annunzio ai Romani. Pare San Paolo. La crosta letteraria è caduta. L’uomo è trasfigurato! È il politico, il deputato d’Italia per conclamazione. Felice te, o Poeta, che hai la forza di non più considerare per una cosa sola considerare!

Allora l’uomo non è finito, — come dicono i letterati — sed resurrexit! Un uomo, vissuto sino oltre i cinquant’anni in compagnia delle debilitanti Muse, e che conserva i nervi a posto, tesi all’azione, è un gran fenomeno!

Ah, sii il navarca, lo stratega, il despota!

Io credo che egli sia sincero come pochi altri; ma egli è tradito da non so che cosa che ha dentro, per cui come a Mida in oro, in lui tutto si trasmuta in sensazione di bellezza!

Questa Italia in armi è bella!

Mi pare che il genio del D’Annunzio sia così grande e proteiforme che egli stesso è dominato dal suo genio.

Dicono i maligni che gli hanno pagato i dèbiti; ma è pur sempre un gran fenomeno! Eppoi? Macchè debiti! Un poeta non ha debiti, e quando dice ai creditori: «non mi seccate», non deve essere seccato. [p. 217 modifica]

Ma, oh ironia, maligna dea! Mi si disegnano in mente, a proposito dei discorsi d’Annunzio, le parole dell’uomo d’affari col quale conversai ieri:

«Volete chiamare molto popolo nel baraccone? Esponete manifesti con teste di leoni, grandi inscì. Denter ghe di gatt! Il popolo paga, ride ed è contento».

***

Mercoledì, 19 Maggio ’15.

Ultimatum? Parte oggi von Bülow? Inaudito! È da un poeta che la nazione ha appreso l’irrevocabile, cioè che già dal 4 maggio fu denunciata la Triplice, furono stretti accordi con Inghilterra, Russia, Francia!

Si respira l’atmosfera intensa che forma la storia. Molti non reggono all’ossigeno.

I socialisti (tumulti ieri a Torino) balzano, si rifiutano di respirare questo ossigeno. Indietreggiano davanti alla ghigliottina sanguinante della storia.

Ammettiamolo: un bel gesto di coraggio ha fatto l’Italia a guardare senza torcer lo sguardo l’elmo a chiodo germanico. Credevano i tedeschi che al solo guatarci col bianco dei cèruli occhi, noi avremmo tremato. [p. 218 modifica]

— Trecento aereoplani, un milione di bavaresi con l’elmo a chiodo — mi sussurra Raffaello Barbiera che sa tutti i segreti — sono pronti a varcare le Alpi. — Si guardava attorno come già li vedesse piovere sopra la Madonnina del duomo.

Un signore autorevole mi dice: — Non si sfugge al dilemma: o sotto l’elmo a chiodo o sotto la demagogia proletaria. Preferibile l’elmo a chiodo!

Ma io a questi dilemmi non credo troppo: quando uno non riesce a capire una data situazione, crea un dilemma, e così è soddisfatto.

Come deve essere contenta l’Inghilterra, contenta la Russia, che hanno fatto tanto per farci entrare in guerra! Quante carezze! A me però è sempre sembrato di sentire un leopardo e un orso coi loro zamponi vicino alle guance.

Adesso facciamo la guerra soltanto contro l’Austria. Per distruggerla? Distruggerla e conservarla, dicono.

L’ingegner X*** mi parla di una invenzione di in grande chimico nostro: getti a pressione — dentro le trincee — di acido solforico, oleoso, di speciale preparazione, che spàppola cuoio, carni, ecc. Non ne provo orrore! Eccomi anch’io che mi rispecchio col muso di bestia feroce!

— Ebbene?

— Il Comitato per le invenzioni ha rifiutato: [p. 219 modifica]l’Italia non può fare la guerra da barbari. Sarebbe il disonore.

***

Gli uccellini sul platano cantano come il sòlito.

Guardo le mie corazze. Ieri mattina, con un bel sole, siamo andati fuori porta Sempione al Bersaglio per provare le corazze. Il fucile da guerra le ha perforate come fossero fatte di burro: e dire che le avevo studiate tanto: sotto il ferro e sopra la lastra di acciaio temprato. E poi il nostro fucile al tempo del pacifismo è stato chiamato fucile umanitario perchè passa tanto veloce che quasi rimargina la ferita. Figurarsi quello tedesco!

Quello tedesco ha pallottole di un calibro più grosso, e poi chi sa che diavolerie ci metteranno dentro!

E le mitragliatrici, nuova arma germanica? Quei militari parlano così, dolcemente, del numero dello pallottole che saranno sparate durante la guerra, da tutte le nazioni. Pare di sentire un fisiologo quando ragiona dei milioni e milioni di microbi che si trovano in un vaso di liquido.

Chi passa davanti al bersaglio? Davanti al bersaglio passano i tram neri che portano i morti al cimitero di Musocco. [p. 220 modifica]

***

19 Maggio ’15.

Il piccone lavora in fretta sull’acciottolato. Che è?

Raccordo tramviario, davanti a casa mia, per l’Ospedale Militare.

Uscendo per le vie, ho l’impressione che tutta la gente parli più sommesso.

Titì parla, gioca, come tutte le mattine. Parla con la pupa. Ne ho un’impressione strana di stupore.

Viene da me il sergente Vagliasindi, l’atletico ragazzo siciliano, senza paura. Conosce la lotta giapponese. L’ho fatto ragionare un’ora. Dice sorridendo: «Ah, lei, professore, sospira il verde, la quiete, l’idillio della campagna, il maggio! Ma sa lei quale campo sterminato di guerra, è la campagna nel maggio? Se non ci fossero i falchi chi ci salverebbe il grano dai passeri?»

Parla con volubilità della guerra eterna fra tutti gli animali, visibili ed invisibili. Pare quasi felice di farmi lui da professore, una buona volta.

Io stavo a fronte bassa: «Già, ma e allora il battesimo?» E pensavo a San Francesco che dava il battesimo tutte le volte che incontrava una bestia. [p. 221 modifica]

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In tram: un contadino giovane, richiamato, con la sua donna: questa pareva la giovane Lucia Mondella! Composti, un po’ discosti, non si sono scambiati una parola: dolore muto che strinava il cuore.

Anche la moglie del mio pasticciere, bianca, grassottella, colore fondant giallino, ha i suoi stupidi occhi di zucchero, cerchiati un poco di rosso. Suo marito è richiamato. Esseri beati, sino allora vissuti nel dolce, e destati nel sangue.

***

20 Maggio 1915.

Mattino. Sveglio mio figlio sottotenente. Deve partire per Verona, alle sette. Sono le quattro e mezzo. Dormiva. «Lo dovevo lasciar dormire sino alle sei!» Ha ripreso il sonno. Beato lui! Già se tutti fossero come me, che non riprendo il sonno, guerre non se ne farebbero!

Alla stazione: all’ultim’ora, arriva in carrozza e balza giù un sergente con la vecchia mamma molto modestamente vestita. Prima scende lui: lei più lenta, porge il facile. Scena muta: ma si vede che è piovuto prima: il volto della povera signora è ancora bagnato. Scena molto commovente! È cosa curiosa! Io in quell’ora, in quel [p. 222 modifica]luogo, sono attore di una scena quasi consimile. Eppure non acquisto bene la conoscenza della mia azione scenica se non vedendola rispecchiata in altrui. Già, è molto commovente.

Il diretto parte per Verona, zeppo di ufficiali. Il giovane tenente del genio X..., studente del Politecnico, mi dice per ultimo saluto: — Vedrà che belle cose faremo!

È ebbro di fede.

— Così bisogna essere! — mi dice il sotto capo stazione Piccioni, agitando prima la mano in alto fuori della manica dello stiffelius e poi battèndomela su la spalla. Io non entro in discussioni con l’amico Piccioni, se no mi si attacca e mi legge i sonetti.

È una malattia che gli è venuta, questa di fare sonetti, che se no sarebbe un capostazione modello: zelante italiano, aristocratico, una memoria da sbalordire: sa tutti i treni che arrivano a Milano in un giorno, e se in prima, seconda, terza linea.

Io gli ho detto che i suoi sonetti sono belli, ma che adesso non usano più. Non ci sente! Quando lo conobbi da ragazzo, in Romagna, non aveva questa malattia.

Ma che strane parole quel giovane, ufficiale del genio: «Vedrà che belle cose faremo!» [p. 223 modifica]

***

Appena tornato a casa, triste notizia: una cartolina da Latisana mi avverte che il tenente Renato Serra per disgrazia d’automobile ha subito la rottura della base del cranio.

Che questa guerra si inizi col sacrificio di una creatura bennata come Ifigenia?

Le lagrime oggi sono vietate, ma è strano: io invano attendo in me il risveglio dei sentimenti bellicosi. Non posso tuttavia dominare un certo risentimento contro i nostri signori socialisti, che hanno diviso l’Italia in due umanità: l’umanità borghese e l’umanità proletaria. La guerra non si deve fare per non spargere sangue proletario. Non si potevano trovare altre più belle ragioni contro la guerra?

***

21 Maggio ’15.

Publicazione del libro verde. Esso ci fa sapere che l’alleanza con la Germania e con l’Austria non era buona. Sarà benissimo. Ma come si è formata la unità d’Italia? Questo il libro verde non ce lo dice.

La Frankfurter Zeitung ci manda a dire che ci tratterà «senza troppi riguardi». [p. 224 modifica]

Questa sarebbe una figura retòrica di litote. Oh, ma l’avvertimento era superfluo!

Si dice anche che il Kaiser ha scritto una lettera al nostro re in cui lo avverte che o vincitore o vinto si ricorderà di lui.

***

— Hai visto? — dico in fretta al Dr. ***, quello che incontrai con la famiglia e il messale quel giorno che stavo a guardare la marmotta in piazza Sant’Ambrogio — Altro che la pace! È la guerra!

— Ebbene — risponde sorridendo — io intanto sono vissuto tranquillo sino a ieri, mentre lei è vissuto nell’ansia. C’è la guerra? Ebbene, io spero che abbia buon fine. Fede e speranza sempre!

Ma è modo di ragionare questo? Questa è roba di sacrestia, non religione!



22 Maggio 1915.

Partenza, Milano Bologna.

Prima di partire, ricevo questo telegramma: «Tutto va bene. Arriverò in tempo anch’io. Renato Serra». [p. 225 modifica]

La Stampa di Torino dava Renato Serra per morto.

Crepi l’astròlogo!

È venuto con gran premura Linati a casa mia. Sa che io sono amico di Serra, ha letto la Stampa, e vuol sapere che c’è. È tutto turbato. Gli mostro il telegramma. Dà un balzo di consolazione. Cioè un balzo no, perchè Linati è lombardamente e anche signorilmente pacato. Ma insomma gli si legge negli occhi un gran piacere. Mi domanda il permesso di copiare il telegramma per darne comunicazione agli amici letterati.

Dìcono, dìcono un gran male dei letterati, ma in fondo sono meno cattivi degli altri.

Cara la mia Cesena, bisognerebbe che tu lo sapessi! In questa grande Milano, poco importa di te. Ma Renato Serra è di Cesena, ed ecco che Cesena diventa importante. Potrebbe anche passare per una città intellettuale. C’è Serra, Trovanelli, un notajo come al tempo di Cino da Pistoia, che faceva da papà spirituale a Serra.

Quando noi nominiamo Chio, Samo, Ceo ci pare di nominare paesi pieni di sapienza. Invece chi sa che roba selvaggia era; ma è Simonide, Pitagora, Omero, che fanno risplendere quei luoghi.

Sono contento per tutto il viaggio, perchè traggo buon presagio da quel telegramma. [p. 226 modifica]

Si viaggia malissimo. Intanto siamo stipati come le acciughe. Per giunta si soffoca perchè i carabinieri fanno chiudere i finestrini. Si viaggia al buio. Comincia un mondo nuovo?

Già prima di partire, il capo stazione Piccioni mi diceva tutto felice: — Così, così va bene! Ah, voialtri borghesi eravate abituati a viaggiare con tutti i vostri comodi, panini col burro, acqua fredda e acqua calda, Vagon restaurant! Prima serie...

— Senti, caro, — gli ho detto, per farlo cessare, — lèggimi uno dei tuoi sonetti. Quanti ne hai fatti oggi?

  1. La figura di questo arciduca a noi ignota, nota soltanto per la sua avversione all’Italia, e alle democrazie, pare fosse degna di impero.
  2. Il giornale del partito socialista, avverso sempre alla guerra.
  3. Settimana rossa. Tumulti nelle Marche e in Romagna.
  4. Questo giudizio del povero Serra è interessante. Chi avrebbe allora pensato che Benito Mussolini sarebbe diventato presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia? E quale presidente!
  5. Circolo di ritrovo e di studi in Milano, via Clerici, dove l’Autore, per più di quindici anni, dava tre volte alla settimana, dalle 8.30 alle 9.30 di sera, lezione di italiano ai soci stranieri (la maggior parte, tedeschi).
  6. Palazzo Caffarelli, sopra il tempio di Giove. Ora abbattuto.
  7. Sì, signor Panzini, io so che lei ha ammirato sempre lo zelo e l’amabilità dei tedeschi e lei non crederà ciò che i nostri nemici dicono di noi.

    È tutto una sola grande menzogna quanto da Parigi, da Londra e da Pietroburgo viene scritto sa di noi.

    Ella non si è mai sbagliato nel giudicare la nazione tedesca.

    I nostri soldati, senza esagerazioni, sono i più valorosi del mondo: ho sempre potuto osservare questo fatto: come tigri colpite, essi si son gittati nella battaglia dopo antecedenti sconfitte e strapazzi, incuranti della loro fame e della loro stanchezza.

    Essi hanno dimenticato e padre e madre e moglie e bambini per proteggere la nobile e sacra Germania.

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    Che bello! Che bello! Ma “Caesar„ vuol dire in questo caso “Imperator„, l’Imperatore Guglielmo II.

    Signor professore, crede lei che noi siamo barbari, come dicono quelli dell’occidente e quelli al di là del canale?

    Se lei va nel nostro paese, trova grandi città che tuttavia sono pulite, troverà uomini amichevoli e di cuore i quali coltivano la coltura, l’arte e la scienza.

    No, signor Panzini, questi non sono barbari: questo è un popolo elevatissimo per coltura, che non si lascia, così senz’altro, distruggere.

    I nostri nemici hanno detto che noi abbiamo la “Croce Rossa„ meglio organizzata e nello stesso tempo ci chiamano barbari.

    Paradosso o sconfitta!

    In Germania c’è una sola potente volontà che guida alla vittoria. Il morale del popolo non vacillò mai un attimo nella sicura fiducia del buon fine di questa terribile guerra.

  8. Corriere della Sera, 9 gennaio 1915.
  9. Nuova Antologia, 1 dicembre 1914.
  10. Il cannone! I famosi bombardamenti, chiamati — chi se ne ricorda più? senza precedenti.
  11. Povero Agnelli! Proprio oggi 2 marzo 1921 ne apprendo la morte, qui In Roma. Pareva felice. Sua mamma era sempre con lui, col suo giovane figlio ministro.
  12. Tortellini in brodo ristretto - Scaloppine di vitello al Madera - Dindi e polli novelli al forno - Insalata primaverile - Bòmbe In sorpresa - Frutta - Caffè - Vino Bardolino.
  13. Morto in Francia nel 1918. Gentil sangue lombardo!
  14. Questo mio amico sostenne poi tutta la guerra; prima come soldato, poi come ufficiale. Ometto gli avverbi, e gli aggettivi di lode, non piacendo nè a me nè a lui. Qui sono riferiti i sentimenti del momento.
  15. Questi e altri giudizi su Gabriele D’Annunzio rispecchiano sentimenti di allora. Ciò che poi d’Annunzio operò durante la guerra forma di lui un uomo che quasi raddoppia e rinnova, per virtù meravigliosa, la sua vita. Questo ossequio non credo debba precludere la via ad esprimere quelle che erano le voci di allora.
  16. Chiaia, vol. IV. Lettere del conte di Cavour.
  17. Benito Mussolini nella seduta del 25 novembre 1914 dell’assemblea socialista fu espulso dal partito. Lasciò la direzione dell’Avanti! che teneva dal 1909 e fondò il Popolo d’Italia, flancheggiato da uomini rivoluzionari In sostegno della guerra contro il pacifismo socialista.