Diario sentimentale della guerra/Dal maggio 1915 al novembre 1918
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DAL MAGGIO 1915
AL NOVEMBRE 1918
A Bologna trovo affissi gli avvisi della mobilitazione. I supplementi portano la dichiarazione del Governo che, dal giorno 24, l’Italia è in istato di guerra con l’Austria.
È passata la mezzanotte.
Al caffè dell’Arena, la gente fa, come il sòlito...., colazione. È Bologna!
***
Bologna, 24 Maggio mattina.
Guerra! La mia preoccupazione non è la guerra. È un’altra cosa strana, cioè che non mai come in quest’ora mi apparve trasparente la animalità dell’uomo. Io, oggi, vedo la perfetta animalità umana: come le formiche, come gli insetti! Sì, grossi insetti parlanti noi siamo. Stupore immenso! Questi tram, questi insetti uomini, donne, queste bimbe e bimbi che vanno a scuola, bianchi, lùcidi, composti! Vanno a scuola gli insetti? Il cielo di maggio è delizioso, è puro. Vedo quel signore contegnoso, con quei baffi in su. Chi è? Un tricheco. Un tricheco munito del colletto. E quella donna che entra in San Petronio? Vanno alla messa gli insetti? E se sono insetti gli altri, io che cosa sono?
Ma chi credevo io di essere? Uno che dopo questo trànsito temporàneo in questo mondo andrà in paradiso, ricevuto dal buon Dio? Ma no! Queste sono fole della pòvera nonna, della pòvera mamma. Io sono un insetto che guarda gli altri insetti. Ah, se tutti gli uòmini sentissero questo terrore dell’animalità, non farebbero la guerra, unicamente per non fare cosa che fanno gli altri insetti.
***
Dicevo? Dicevo che ho paura di qualche spaventosa sorpresa dovuta all’innata nostra tolleranza, al vivi e làscia vìvere, all’incapacità di quell’irrigidimento tenebroso delle ànime tedesche. Poi la paura che io ho del contàgio del pànico, della deficienza di controllo interiore.
Sensazione odierna della Germania: come di quei giganti mostruosi, orrendi, che i cavalieri del Boiardo incontravano per le grandi selve! Più i nòbili cavalieri li battèvano, più quei mostri indurivano.
***
Passano soldati della riserva. Che manca a loro? L’irrigidimento volitivo del passo militare. Questo nostro pòpolo, lieto e senza disciplina, come potrà durare nel furore freddo che è necessàrio per la guerra?
***
Bologna, 25 Maggio 1915.
Notizie, al mattino, del bombardamento di Porto Corsini. Nave austriaca con falsa bandiera.
— Ma si può fare? — mi domanda il conte A...
— Si può fare tutto. Del resto non è male che i primi colpi svèglino la Romagna.
***
In treno. 26 maggio. Linea Bologna-Mantova.
Terza classe. È cosa meravigliosa e nuova! Io sento oggi tutti gli uomini palpitare con un solo cuore. Ferrovieri dìcono: «Noi non volevamo la guerra, la accettiamo come una necessità». Calma!
Raccòntano di un vecchietto arzillo di Mantova che si ricorda ancora delle bastonate col sale, distribuite dall’Austria. Ha sei figli sotto le armi, e vuole andare anche lui a fare le fucilate.
I giornali dell’òrdine, che sempre avèvano consigliato prudenza, tacere, «andiamo, via!, l’Austria è... come dire? un cane un po’ spinoso.È il pelo che è fatto così; ma non è idròfobo, anzi è quasi gentile. La Germania, poi, è un’officina sapientiae!», oggi, invece, (Corriere della Sera del 24) bùttano fuori tutto l’amaro! Dicono: «Accettiamo la guerra con la gioia della suprema liberazione dei soprusi per tanti anni con dolorosa amarezza sopportati».
Però, però, o anima mia che mi accompagni anche in treno, a me pare di vedere Don Abbondio che ad un certo punto non ne può più. Ha sempre scusato Don Rodrigo, ma ad un certo punto scoppia anche lui, ed è obbligato a dire: «Sì, don Rodrigo è un poco di buono!»
— O che i ciapôm, o che i demm! — dice un popolano.
Passiamo per Carpi. È il sole? È il màggio? Sono i papàveri, gran distesa fiammante per il verde? Sei tu, Dioniso italico, che mi hai offerto una bottiglia di vino? Tutta Italia mi pare oggi in gran festa. Stanno bene, qua e là, ai passaggi a livello, questi improvvisati soldati, con l’enorme baionetta, di sentinella nella geòrgica pace! Dietro i cancelli delle stazioni, folla serrata di gente, mani levate verso i partenti. Da costoro erompe un grido che mi riechèggia nel cuore. Agitano le bràccia e il grido è questo: «Addio fratelli, fratelli addio!»
Un mio amico dottore, socialista tesserato, mi confessa così: «In questo momento sono coi nazionalisti, sono col diàvolo a quattro. Che devo dirti? L’anima tradizionale è montata su, e non so come».
***
27 Maggio 1915, Milano.
Devastazione, incendio di Ditte e negozi tedeschi. Pare sia corsa una parola d’ordine. Dicono che è una rappresàglia contro fatti del gènere, forse peggiori, successi a Berlino ed a Vienna. Vanno in giro per Milano certe facce un poco da convenzione di settembre. Da dove mai in certe ore spuntano certe facce?
Ininterrottamente, come una cannonata, in piazza del Duomo rimbalza il terreno: sono i mòbili rovesciati, enormi, giù dal terzo piano. Durò tutta la notte.
Non è bello, d’accordo, ma è la malattia. La Germania ha inoculato la idrofobia al mondo.
***
Sera del 27 Maggio 1915.
Di prima sera. Buio improvviso! La portinaia, tremante come una fòglia, racconta che passò in furia uno, in bicicletta, con un bracciale, ordinando: «Chiudete, spegnete!» «Cosa c’è?» «Arrivano i reoplani!» La donnetta è più bianca del sòlito, trema, ma il bimbo in fasce che ella tiene in braccio è di una olimpicità còmica col suo poppatoio in bocca. Pare un pascià che fumi il narghilè. Tutti col naso in su. C’era una magnifica luna in un azzurro incantèvole. Viene da ridere pensando all’antico canto romàntico:
Luna, romito aèreo,
Tranquillo astro d’argento,
Che come vela càndida,
Nàvighi il firmamento...
Nàvigano gli areoplani con le bombe.
Tutti con gli occhi in su, tutti astrònomi a vedere se il reoplano naviga. Ogni invisibile cirro è un areoplano, un dirigibile, uno Zeppelino con denter i tedesch!
Milano, al buio e col lume di luna, ha effetti fantàstici, insospettati. Si cammina trepidanti come in un quadro vivo. Botteghe chiuse, semichiuse, donne atterrite.
— Ma, mia cara signora — spiego ad una signora bellina, elegante, sola, soli nel tram buio — siamo appena in principio.
Ha il marito richiamato. Volevo dirle: «Morto un papa se ne fa un altro». Ma non è tempo di facèzie.
Si parla di una squadriglia di areoplani avvistata sul lago di Garda; due sono stati abbattuti a Brèscia, uno a Bergamo. E gli altri? Si dirìgono su Milano. Sono attesi di àttimo in àttimo come terrìbili personaggi annunciati dal cameriere. Il grosso lattaio meneghino, che fa i grandi gelati di panna e di fràgola, esclama col suo vocione rauco di antica grappa: «El noster pover Milan, tant pacific! Quella Madonnina inscì bella, inscì dorata, poderian no quatalla con quel tocc de pizz che la ga dree?».
Si dice che metteranno la montura grigia anche alla Madonnina del Duomo.
Per via Fiori Scuri, (scura davvero, chè il gran muro del palazzo di Brera vieta alla luna di entrare), sorprendo il vecchio signor R..., mezzo cieco, che in fretta rincasa: è tremante un po’ più del sòlito. Lo affronto severamente:
— Lei in giro a quest’ora?
— Chi l’è lu? — domanda con voce strozzata.
— Uno della squadra di sorveglianza.
— Go minga una faccia proibida. El capiss no el meneghin? Son minga un tedesch!
Trema.
Mi do a conoscere. È tutto contento. Solo, vècchio, mezzo paralitìtico, ha... «go pagura!»
— Ma di che cosa lei ha paura, signor R...?
— Dei reoplani.
Gli dimostro che una morte vale un’altra, ma è inutile:
— Che el parla minga inscì!
Morte per reoplani, no! non ne vuol sapere. — L’era inscì bel morì in del so lett!!
Già, era così protocollare per il buon cittadino borghese la fine nel proprio letto!
Se lo accompagno al suo quarto piano, mi sturerà una bottiglia di barbera.
— Almeno avessi, — sospira — la camera in ti mezzanitt.
— Ma perchè?
— Perchè prima de mi, devon copà tucc quei che hin sora de mi.
***
Milano, buia come ai vecchi tempi, vecchia via Fiori Oscuri, vecchio palazzo di Brera, piccolo uomo tremante, dove sono andati cento anni?
Rivedo l’ombra di Giovannin Bongèe.
Rifiuto il barbera. Proseguo per la mia strada.
In via Borgonuovo, mi sorprende il palazzo dell’Accadèmia scientifico-letteraria. Ecco una Ditta, quasi tedesca, che hanno dimenticata.
Incontro il magnìfico signore, signor X. Y...
Rincasava. Anche lui sa tante, tante cose che gli altri non sanno.
— Tutto va male, male, male! — Sa il numero strepitoso dei morti, non annunciato nel bollettino di guerra; sa che il Kaiser ha distaccato un milione di bavaresi per piombare su Milano, su Roma. Sa che i tedeschi ci òdiano, ci òdiano... Sa che l’Italia sarà disfatta. L’ha detto il generale Y..., il diplomatico Z..., il barone X... Impossìbile difenderci! — Non capite? Da che mondo venite? Non vedete i richiamati come cammìnano? Manca tutto. L’Italia è sola contro il tremendo, nefario nemico, che ci òdia, ed ha ragione di odiarci come traditori. Francia? Belgio? Russia? — Si mette le mani dove una volta èrano i capelli. — E poi... — dice con un filo tremebondo di voce — Non sappiamo fare la guerra! I nostri annunciano gli assalti con la trombetta!
Lo prego di non arrabbiarsi, di dirmi come si doveva fare perchè, già, come dichiara oggi nettamente la Frankfurter-Zeitung, noi eravamo traditori ed odiati dal primo agosto del 1914, quando non marciammo sùbito con loro.
Non mi ascolta.
— Ma voi — dice — vivete nel mondo della luna. Io non vi posso svelare quello che io so.
E la sua magnifica persona scomparve per l’usciolo del magnifico portone.
***
Per via Manzoni, pare abbia nevicato, tante sono le carte delle devastazioni. Altrove, carbone ed acqua di falò spenti. V’è chi raccatta. È oltre la mezzanotte. Per fortuna è sereno; ma molti nasi sono ancora in su a scoprire la squadriglia dei reoplani.
Giovanni Papini, nell’Acerba (io scrivo Acerba così, ma lui, guai se vede così) ha dettato una lettera atroce di ironia a Cecco Beppe perchè ci venga a picchiare.
Ritorno a casa che è l’alba.
Attrae i miei sguardi, lì nello studio, la donna, ricordo di mamà, col suo puttino in braccio. Soave! C’è una rama, davanti, di vecchio ulivo. Mah! Tempo che fu!
***
31 Maggio 1915. Milano.
Il discorso furente contro l’Italia del Cancelliere germànico Bethmann-Hollweg ci apre gli occhi. Oggi è dichiarato apertamente: noi eravamo degni di punizione «sanguinosa». Noi eravamo Giuda. Mai non saremmo noi stati perdonati! Il principe di Bûlow aveva un bel dire a Roma: «Noi vi abbiamo perdonato il piccolo tradimento. Ecco anzi un piccolo cadeau con dentro Trento e Trieste, che il Kaiser vi fa perchè rimaniate neutrali». Noi saremmo finiti impiccati lo stesso come Giuda, col cadeau in mano, a dilèggio di tutti.
È però un ben tragico conflitto di anime questo nostro!
Noi, per trenta anni di alleanza con la Germania, abbiamo chiuso un poco gli occhi e abbiamo creduto che la stòria dell’antico dramma delle genti germàniche contro le genti latine appartenesse all’erudizione stòrica. I nostri intellettuali stampàvano libri, parlàvano con compiacimento della decadenza delle razze latine: portare all’occhiello il nastrino tedesco era di buon gusto. I nostri eruditi scrivèvano un italiano quasi tedesco, pensàvano come caporali della bassa coltura tedesca. Noi pochi, che rimanemmo italiani, eravamo cani rognosi e reietti.
Quand’ecco fu proferita questa incredìbile parola d’impèrio: «Portare, il nastrino all’occhiello, non è sufficiente. Occorre portare la livrea».
Noi vediamo con immenso stupore l’antica guerra fra latini e germànici defluire sopra il suo letto secolare. Attila, Alboino, Barbarossa, Pontida, Legnano, Fossalta, sono oggi nomi vicini, li tocchiamo, li vediamo: e c’è il telègrafo, e c’è il telèfono!
Il nostro stupore è immenso. Se, dopo morte, mi troverò veramente nella valle di Josafat, non proverò minor stupore. «Ah, tu non credevi nella valle di Josafat!» C’è poi anche qualche altra cosa che mi disorienta: Teodorico, Liutprando, e poi Federico II, Manfredi, (cui togliemmo l’aspro nome germànico e demmo il nome di Soàvia), sono figure luminose, degne di impero. Non per l’alto Arrigo, il nostro Dante prepara il sèggio aurato della etimasia, su, nella rosa celeste?
Signori germànici, voi siete indubbiamente i più grandi organizzatori che il mondo mai abbia veduto, e i vostri sono i più valorosi soldati del mondo: die Tapfersten der Welt. I vostri sottomarini ricòrdano per l’audacia gli antichi navigli normanni, volanti su le creste del mare. Ma il vessillo che svèntola non è l’aquila dell’impero che Dante vedeva: è il nero vessillo del corsaro moderno! Noi che accettammo la guerra soltanto per far salva l’ànima d’Italia, noi oggi siamo i più generosi soldati del mondo.
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2 Giugno 1915.
La passeggiata militare, fulmìnea, bavarese, punitrice su Milano, garantita dal signor X..., non è avvenuta. Milano, anzi, è tranquilla come nei giorni più normali. V’è calma nell’atmosfera. Piove: sèmbrano giorni autunnali, non sembrano i giorni in cui l’anno monta trionfale verso il suo colmo che è il dì del solstìzio. Oh, breve notte di San Giovanni! Occaso e aurora vicini! San Pietro, giorno delle messi! Albicocche, ciliege gònfie di sangue, fichi fioroni, galletti di primo canto in padella con le piadine sfogliate, in Romagna! Romagna addormentata, destata al suono del cannone a Porto Corsini! Ti sei destato nella gran tomba di Ravenna, o re Teodorico? Goto Teodorico, è la guerra tra la tua gente e la nostra che ancora continua! Ma tu, nòbile re, volevi l’una gente con l’altra pacificare.
Quale desidèrio di percorrere le bianche strade di Romagna, fermarmi alle ville, vedere i grandi villanzoni attoniti. Guàrdano il mare, il cielo: dal mare, dal cielo, giù bombe!
«Siam tutti fratelli, eh? L’esercito è un’invenzione borghese per sparare contro il proletariato, eh?»
Milano è tranquilla. L’esèrcito ha occupato posizioni stratègiche oltre la frontiera (si sussùrrano episodi eròici che fanno tremare il cuore).
Il perìcolo di una invasione pare scongiurato. La mobilitazione si è compiuta con perfetto òrdine. Senso del sacrificio, del dovere, della calma. Già, per vincere la Germania, bisogna che diventiamo un po’ germànici. Fino a ieri, nella scuola, quando uno scolaro grosso picchiava uno scolaro pìccolo, io punivo lo scolaro grosso. Adesso punisco lo scolaro pìccolo! «Càspita! Doveva picchiare anche lei».
Picchiare! Ecco il verbo che dobbiamo imparare! Però è stùpido, e non mette il conto di vìvere per picchiare.
Molti, molti volontari! L’amico e collega Arnaldo De Mohr, ànima garibaldina e che ama il bel gesto, è tornato di Francia: oggi è volontario nel règio esèrcito. Digrigna coi denti. Ce n’è voluto per fargli giurare fedeltà al re: voleva giurare fedeltà soltanto per i mesi di guerra.
— Sai che l’è bella, — mi dice sorridendo, al ritorno, stanco, dalle manovre — dovere fare io gli assalti alla baionetta al grido «Evviva Savoia!»
L’Italia è il più nòbile paese del mondo: anche i plebei sono gentiluomini. Peccato che, come a tutti i gentiluomini, capiti di avere fattori ladri e traditori.
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3 Giugno, 1915.
La Signora S..., coi suoi bimbi, è venuta oggi a trovarci. Molto elegante.
— I saccheggi dei negozi tedeschi io non li avrei ordinati — disse — ; ma già che li hanno fatti, bene è. Bene è che i germani sàppiano che anche noi possiamo essere bestiali.
La guardavo: così fine, dotta di latino e di greco, con le cardènie sul petto, accanto ai suoi bimbi.
Pòvera signora: mi ha confessato che questa è stata una settimana di ìncubo: i tedeschi, i bimbi con le mani tagliate...
— Finchè fanno violenza alle donne, si capisce... (altro che capire, signora), ma tagliare le mani ai bimbi... 1
È una cosa da pochi osservata, come il pensiero della probàbile violazione del proprio corpo, da parte sia pure di un guerriero nemico, produca anche sul volto di una signora per bene, — come si dice — un sorriso che chiamerei esotèrico. Deve essere la sopravivènza di un’antica legge di natura: la femmina sa che è suo destino essere violentata dal maschio: ne paventa e ne gode.
Dopo è venuto Siciliani. È disperato! La sua nomina ad ufficiale tarda. Un nazionalista militante, ancora in borghese!
— Io mi vergogno di uscire!
Vuole andare al Distretto: sèmplice soldato.
— Non avere fretta, amico.
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Il discorso del ministro Salandra dall’alto del Campidoglio ha fatto molta impressione. La frase: «Io modesto borghese mi sento di gran lunga più nobile del capo degli Asburgo Lorena» è certamente di buona marca democràtica e può anche piacere; ma dopo ci si sente qualcosa che allappa: quel «di gran lunga» intanto ha sapore di cattedràtico. «Modesto» non direi, perchè questa proposizione dell’onorevole ministro non è modesta. Quel «borghese» poi non mi va giù. Noi siamo cittadini, e non borghesi.
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4 Giugno 1915.
Si è avverato il paradosso: i tedeschi hanno ripreso Przemysl. Ho girato tutt’oggi, solo come un cane, perchè se avvicino qualcheduno, parlo, e se parlo, dico cose che oggi non si devono dire. Mi fanno sorrìdere i giornali! Esàltano l’italianità... di Cortina d’Ampezzo, dove sono entrati i nostri! Evvia! I monti Pelmo, Antelao, le bianche Dolomiti saranno italiane, ma Cortina d’Ampezzo? Cortina rubella!
Insegnate, bravi bersaglieri, alle bionde alte ampezzine, dal cappellino nero e dal seno giunònico, a parlare italiano, che lo sanno e disdegnano.
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6 Giugno 1915.
Leggo che non so quale scrittrice tedesca, chiama l’Italia «la bella infedele»; e può star sicura che l’amante teutònico non la guarderà mai più, anzi, se gli verrà a tiro, le spianerà le cuciture con molto suo onore, diritto e soddisfazione.
Mia non amàbile signora scrittrice, concedete che anch’io prosegua nel paragone eròtico: esso è così: l’amatore di Berlino non voleva le giuste nozze. Era un matrimonio della mano sinistra; ma nemmeno, signora! un concubinàggio poco dignitoso per una dama di alta nobiltà. Perchè se anche Sua Eccellenza Salandra si proclama «modesto borghese», l’Italia è di grandi natali.
Ma che cosa è avvenuto? È avvenuto che l’amante teutònico ha rivelato prave vòglie, che non hanno nemmeno il benefìcio della fecondazione.
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12 Giugno. 1915, Bellaria.
Rivedo il mare, rivedo la gente. È avvilita «La fema!» La fame! Ma no, la fame! C’è il mare coi pesciolini, i campi con le spighe, tanti lumachini, tante erbucce, erbacce da cuòcerne caldai: le piante crescono dì e notte. È che il protocollo borghese, che era pure il vostro, o nemici dei borghesi, è stato infranto dalla guerra! L’affermazione dell’inno socialista «o pugnando si morrà», era del tutto verbale.
Gli odiati signori bagnanti non verranno questa estate, le barchette da pesca non possono pescare la notte. Sono avviliti.
Povera, buona gente! La mattina del 24 maggio sono stati costretti ad una rivoluzione psicològica improvvisa.
Prima del 24 maggio, non era prudente parlare di guerra. Chi ne parlava soltanto era «interventista.»
Si erano recati coi loro capi socialisti e cattòlici, coi loro asinelli, al capoluogo di Rimini; avevano protestato in piazza che non volevano la guerra; avèvano avuto la assicurazione che i loro desideri sarebbero stati trasmessi al Governo. Tornarono alle loro case contenti. Poi venne il colpo Giolitti: la Madonna per i cattòlici; l’Avanti! per i socialisti aveva fatto la gràzia.
Ma il 24 maggio, all’alba, le navi nemiche spuntàrono sul mare idìllico, vènnero le cannonate e le bombe. Fuoco, vampa di fuoco, poi buum! Poi i morti. Bisognò mutare opinione.
— I richiamati — dice con sdegno e dolore un vècchio abbonato dell’Avanti! — adesso vanno via come le pecore.
— Vi sono tanti che vanno volontari! — dico io.
— Avranno i loro interessi — risponde lui.
Il dottor Grigioni, il mèdico condotto di San Mauro, che ha creato il museo del Pàscoli: andiamolo a trovare.
— Non c’è più.
— Dove è?
— È partito, è voluto partire.
— Come mèdico militare? — domando.
— No, no! Come «fantoccio». L’abbiamo visto a Forlì, piccolino, col sacco e il fucile, insieme con gli altri.
Un’ombra eròica balza fra me e la buona gente: la quale parla pacata, e racconta:
— Il dottore ha scritto prima una lettera al sindaco, che spera gli conserveranno il posto, se tornerà, e la paga ai figlioletti e alla moglie, se morirà. Si vede che aveva voglia di fare alle fucilate.
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Cesena, 11 Giugno 1915.
Mi sono fermato fra un treno e l’altro a Cesena per trovare Renato Serra. Cesena dormiva dolcemente nel sole meridiano. Busso per la prima volta alla porta di Renato Serra: una casetta lungo il viale dei pioppi.
Non c’è: è andato a Bologna a farsi visitare l’orecchio, rimasto un po’ sordo dopo la caduta. Sua madre (è tutta lui) mi racconta il fatto.
— Si vede — dice — , che mio figlio ha la testa molto dura.
Sorride.
Una casa serena nel gran sole, stanze in penombra; e, nelle stanze, cose linde, decorose, non sfarzose. Vecchi mòbili del principio del sècolo scorso. Mi viene in mente la casa degli avi. Mi soffermo, guardo. Anche noi avevamo in Romagna una casa così. Melanconia!
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Milano, 14 Giugno 1915.
La conquista del monte Nero è stata terrìbile: «quando direte Monte Nero, dite monte rosso: quando vedrete un bersagliere, baciategli la mano!» Sì, ma andare avanti così a conquistare monte per monte, quanto tempo ci vorrà?
Si va a spasso con Gino... per Milano. Orizzonte chiuso.
Russi senza più armi, ricacciati. L’impresa dei Dardanelli, fermata: bulgari, rumeni, greci domandano ora prezzi da mercanti levantini per muòversi. Il giovane amico parla con volubilità nervosa. Dice che adesso comprende bene quello che tempo fa non comprendeva: — «Voi siete ciechi» dicèvano i mistici cristiani. Ciechi? Io allora leggevo Ardigò, Haekel. Ciechi noi che abbiamo il razionalismo, l’idealismo, i motori elèttrici, la statìstica, la chimica? Sì, voi siete ciechi. E i greci non dissero lo stesso? «Gli uomini hanno preferito la tenebra alla luce». Ed ora si comprende per quale ragione i tedeschi hanno studiato il mondo clàssico unicamente per ischede, per repertori. Patrimònio culturale, e basta! Questa è l’essenza del socialismo! E noi combattiamo per l’idea! Infelici! Fantasie! La guerra finirà. Il castello di carta pesta coi puttini che suònano, che bàllano, con gli agnellini, le ochine; il castello, tutto biacca e cariàtidi alla tedesca, dell’internazionale, risorgerà. Il vitello saltellerà ancora attorno al suo macellaio. L’uomo è cieco, e l’Internazionale risorgerà.
Ma chi sei tu, infelice giovane, che ragioni così sàvio nella terra dei pazzi?
Verrà, verrà il tempo che i libri dei santi e dei poeti saranno letti dopo cena per tenere allegri i nuovi uomini. Leopardi e l’Evangelo sostituiranno Bertoldo.
— Parli piano, caro Gino, — dissi — e non si faccia troppo sentire. Lei corre il rischio che corro io: di perdere ogni crèdito. Per me ormai è indifferente. Io sono una vecchia disonorata meretrice. Ma lei ha il suo pulcellaggio morale, lei ha i suoi buoni genitori, che giustamente domandano che lei si faccia una posizione nel mondo. Una posizione! Capisce? È la frase della scuola. Si va a scuola per farsi la posizione.
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Milano, 15 Giugno 1915.
Ieri sera, verso le undici, da via S. Margherita avanzò una fanfara: Fratelli d’Italia. Erano volontari bersaglieri che partivano per la frontiera; compagni, commilitoni li circondavano. Andavano piano, e mi pareva che corrèssero. Non c’era un àlito di vento, e mi pareva tempesta. Èrano pòveri ragazzi e si ergèvano cavalieri e belli! Sarebbero forse morti, ed èrano circonfusi di immortalità! Senso di letìzia.
Gino ed io ci siamo fermati sul marciapiede. Non mi sono mai levato il cappello con tanta venerazione.
— Fra poco anche lei, Gino! — Volevo dirgli: «chi fu il miserabile che chiamò il soldato materiale umano?». Espressione più vile dell’altra, carne da cannone. Ma nulla dissi. Gino domani andrà alla scuola di Modena.
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Stamane, in piazza S. Ambrogio, squadre di ragazzi, giovinotti, qualche uomo maturo, parecchi pezzenti, qualche civile, impàrano per pìccoli plotoni il passo militare: sono volontari. Chi fu quel santo che lacerò le sue vesti per vestire i poveri? Quando il popolo è eroe, cessano i privilegi e i diritti. Bisogna dare tutto, pane, vesti, denaro.
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17 Giugno 1915.
La lettera del maggiore Negrotto, morto per ferite all’assalto delle maledette trincee di Monte Nero, è tutta italiana.
«A te Enzo, figlio mio, nel momento di lasciare la vita per sempre, questo è il retaggio che tuo papà ti lascia: sii obbediente, rispettoso verso tua madre. Essa, sola ormai nel mondo, fedele per sempre al nome e al ricordo di tuo padre, ha diritto di trovare in te la sua consolazione e il suo appoggio solido e sicuro, in te, figlio nostro carissimo. Sii sempre e ovunque onesto, laborioso e coraggioso, sii orgoglioso del nome di italiano e adoperati in tutti i modi perchè le tue azioni servano ad accrescere la potenza e la gloria della nostra nazione e ad onorare il nome intemerato che io ti lascio in eredità. Tanti grossi bacioni dal tuo paparotto che ti ha sempre voluto tanto bene».
Povero signore, amante dei giovani, delle cose giòvani, belle e forti! Era un volto glabro, caratteristico (lo ricordo al banchetto di Battisti). Morì secondo la sua gran fede.
Bella morte! Bello il primo volto della morte in guerra! Peccato che dopo si muti con quei teschi uguali agli altri teschi.
— Forse fu un colpo invisibile di mitragliatrice — mi diceva un bersagliere ex-studente, ritornato ferito dal Monte Nero, — quello che uccise Negrotto.
Così, così bisogna accettare la guerra germànica. Orlando deve morire asfissiato, affogato, mitragliato: ma non vedrà il nemico! Germania, socialismo!
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21 Giugno 1915 - Milano. Sera.
Domani, solstizio. Ventidue anni fa nacque Emilio! Giorno di San Luigi, coi gigli. Dolci, fràgole, gigli su la mensa. Un anno dopo un anno! Come appassìrono i gìgli e le speranze! Quest’anno tutti soli e lontani. E quale angòscia! Russi rovesciati, un continuo rovèscio.
Francia paralizzata, Inghilterra che fa? E la Serbia? Quella per cui fu la guerra, pare accordata con l’Austria. E allora? Allora ha ragione la Germània. Vedo con terrore appressarsi il giorno in cui, inceneriti i Russi, su le Alpi si incuneerà la testa della Medusa germanica, dalla sordità psichica immensa. Non ode, non sente: dice: «Il mondo mi chiama barbara? Creerò cannoni da mille, duemila! bombarderò l’universo.»
Non esìstono che le ragioni «virtuose» (come dice il Machiavelli) della polìtica: ragioni morali non esistono. Non esiste la luce, esìstono solo le tenebre e la forza. Dio dunque non c’è. Erebo e Terrore soltanto.
Noi ci siamo sforzati di darci un Dio, ma è come questo lucìgnolo intermittente di candela consumata: qualche guizzo, poi tènebre. Si può fare tutto, quando c’è la forza: questa è stata sempre una verità occulta, di quelle verità che gli antichi chiamavano esoteriche: i germani hanno il merito spaventoso di avere tirato su il sipàrio: di averle mutate in verità essoteriche. Non esiste morale, perchè non esiste il Dio.
***
Dalla caserma vicina questi poveri soldati richiamati hanno intonato, con le trombe e con le voci: Fratelli d’Italia!, La bella Gigogìn, Addio, mia bella, addio, con la stessa allegria che l’Inno dei Lavoratori. Che tristezza in me! Quale tenebra! Ma forse così è, perchè oggi fu gran temporale e gran tenebra tutto il dì.
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22 Giugno, 1915.
Esami di licenza all’Istituto Tècnico. Che esami stanchi! Un’imàgine mi si affaccia insistente: da qui a tanti anni, in queste aule di esame, un professore sonnolento, come questi miei colleghi, domanderà ad uno scolaro: «Ora mi dica..., mi dica qualche cosa della guerra del 1915.»
La risposta dovrebbe essere questa: «Nel 1915, esistette un’Italia, concorde, che fece cosa non sospettata: la guerra».
Noi fare la guerra? Mi sta indimenticàbile il ricordo di un artìcolo di Corrado Zoli nel Secolo, mi pare dell’anno 1910, al tempo delle grosse manovre in cui prevalse il generale Cadorna. Lo Zoli è schietto e rude, e pare intendente di cose militari: diceva, osservando la inerzia, la svogliatezza dei richiamati: che tutt’al più «ci si doveva servire di qualche milìzia di professionisti».
L’Austria e la Germania, nostre alleate, dovèvano allora pensare a un di presso così: «L’Italia farà tutto fuorchè la guerra!»
Questo fu un giudizio sbagliato. Sembra però evidente che, se Austria e Germania avèssero creduto l’Italia capace di fare la guerra, non l’avrebbero trattata come il cappellano di Carlo Porta, che quanto al disnà, de solet, el ghe el post con la padronna, salvo non sopravvenga un pranzo di etichetta, che in tal caso, il cappellano va a mangiare con la servitù:
Che in sto cas chi
Mangem tra nun, coni i donzell e mi.
Per onore di verità, conviene pur aggiungere che anche il cappellano aveva poca dignità.
Il Kaiser, io non dico di no, non mancava dei riguardi esteriori verso il nostro re; ma perchè lui è grosso e procelloso e il nostro re è piccolo e modesto, c’era sempre l’idea di una protezione. Dicono che il nostro re non voleva la guerra contro il Kaiser. Non la avrà voluta! E chi può dire che, nel tempo stesso che non la voleva, pur la volesse?
Ad ogni modo questi re con la corona in testa, che si sfìdano fra loro in mezzo all’Europa, rappresèntano un curioso fatto!
***
Piadena, 23 Giugno 1915.
I giornali riportano le parole del papa in una intervista col signor Lataple, francese, redattore della Liberté. Che pena!
Dice Benedetto XV: «Io sono il rappresentante di Dio in terra.» Ciò è verissimo! «Ma io, caro signor Lataple, sono dolentìssimo, ma non posso giudicare!»
Un vice-Dio che non può giudicare! Può darsi che sia così, ma se il papa non può giudicare, chi giudicherà?
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Bologna, 23 Giugno 1915.
Mi coglie un brivido. Vedo la intestazione delle «recentissime» nei giornali di Milano, arrivati ora, edizione del pomeriggio: «Leòpoli ripresa dai Tedeschi». Notizia attesa, eppure sembra fantàstica. Oh, non è niente — avvertono i giornali. — I russi amano conservare il loro esèrcito intatto, e perciò hanno, per ragioni di strategia, lasciato prèndere Leopoli». E adesso?
La Russia era il famoso rullo compressore della Germania: questo rullo non rulla più, o almeno è guasto. Lo sapevamo noi? Abbiamo agenti diplomatici a Pietroburgo?
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Bologna, 24, mattina.
Il pubblico si è alzato dal letto, prende il caffè, i tram còrrono, i giornali non dànno gran peso alla cosa. Penso come sarebbe stamani Bologna se questa notte un aereoplano avesse fatto cadere un’inutile bomba! Grida, strilli, spaventi! Il più tìpico sìntomo è dato dagli Stati Balcanici: come pèndoli che si acquétano! Si ritraggono come tanti Benedetti XIV. E noi? Gli occhi mi si riempiono di làgrime pensando alla nostra gioventù in armi, così bella, così fidente, così cavalleresca!
Già, già, io sono un «piagnucoloso», dicono gli spìriti forti, che tutt’al più sono spiriti gèlidi. Chi rimane ora? La Francia e noi!
— Già, diplomaticamente, le cose non vanno come si desidera — dice X... X... l’archivista — , ma con quattro milioni di uòmini, che abbiamo sotto le armi, mettiamo pure che se ne perda la metà, qualcosa si può fare.
Così dice l’archivista. Sul vecchio suo volto sbarbato, un po’ da frate (frati gaudenti fummo e bolognesi) le labbra rièntrano, gli occhietti lùccicano come dire: «Vedrai cosa faranno quei due milioni che saranno sottratti dai quattro milioni.»
Tutto vero!
I rosignoli che cantàvano al tempo di Giulietta e Romeo sono gli stessi che cantano oggi: i vermi che rodèvano Giobbe sono gli stessi vermi che ròdono i cadàveri di oggi. Distingui tu, uomo, i rospi che fùrono, le ròndini che fùrono, da quelle che sono? E allora? Distinguerai tu i due milioni di morti dai due milioni che germoglieranno dal ventre delle donne? No! E allora? E allora ha ragione l’archivista; ma non parliamo di «progresso!»
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26 Giugno 1915, Milano.
I giornali si affrèttano a neutralizzare l’effetto della ripresa di Leopoli da parte dei tedeschi.
Vedo che i più ci prèstano fede. Meglio così. La signora M... S... giunge sino a vedere avverato il prestabilito stòrico del signor professor Salvèmini: «La Russia è destinata a vincere perdendo, affinchè la vittoria resti alle tre nazioni democratiche: Inghilterra, Italia, Francia».
Non capisco! Ma non è dato a tutti capire i profeti.
Fra poco cadrà Varsavia.
— È possibile? — domando agli ebrei russi del Politècnico.
— Oh no, impossibile! — rispòndono calmi.
Ma nei loro occhi brillano lampeggiamenti di gioia: «Varsavia cadrà. L’Impero dello Czar cadrà!»
La stampa, i giornali per «tenere alto il morale» dìcono che i tedeschi hanno perduto mezzo milione di uòmini per ricacciare i russi. Radoslavoff, ministro bulgaro, dice: «che il valore tedesco certamente è la cosa più ammirevole che si sia mai visto.»
Gli inglesi ci inondano di opuscoli contro la Germania. Riprodùcono un Padre Eterno tedesco con una falcetta in mano e sotto: Schlagt ihn todt! «Percuotete a morte! Il giorno del giudizio, Dio non ve ne domanderà conto».
Quei cari inglesi avrebbero fatto meglio a capire, almeno un anno fa, che era giunto anche per essi il momento del sacrificio, cioè della coscrizione militare!
Dèvono venire i giapponesi in Europa, dove l’Europa non basta?
***
11 Luglio, 1915.
Siamo partiti dal castello di Corniglio. Alpe appenninica. Lago Santo. Salendo io mi domandavo, perchè il montanaro sale sui monti più agevolmente? Perchè è più forte? No! Perchè non pensa. Io penso e perciò fatico moltissimo.
Ma forse vi è qualcosa di più grave del pensiero: cioè la coscienza. Per fortuna il ragionamento dei filosofi moderni è un gioco di scacchi! Guai al mondo se tutti gli uomini possedèssero la coscienza o l’autocoscienza, come la chiamano.
***
Lago Santo, circolare, profondo, cinto da faggi e da rocce. Silentium! Sembra una fantàstica pupilla di smeraldo che invita a morire.
È mezzodì, e pare vèspero. Se vedessi apparire su queste acque cupe la barca della morte, non mi meraviglierei.
Perchè la gente fa gite per vedere questo lago? Perchè nessuno mi disse di questa tristezza? Non ne ebbero la sensazione?
Si mangiò qualche cosa che avevamo con noi, poi si deliberò di ritornare, salendo l’alpe e passando per l’altro versante.
Alta alpe. Non vestìgio umano: macigni come làpidi e tombe. Vegetazione diversa, strana, nana. Si passa fra alte fòglie fruscianti: un non so che di pauroso! Luoghi inabitati! Le nubi corrono basse come una cavalcata di globi bianchi. Io mi fermo. Le guardo venire: dal profondo della terra sèmbrano venire: ecco mi invèstono. Si è fatta tenebra. Il sole dove è? È il 15 luglio? Le nubi danno un senso di notte! L’orologio mi dice, invece, che sono le ore tre dopo mezzodì.
Sento una voce: è Dante:
Ricòrdati, lettor, se mai per l’alpe
Ti colse nebbia per la qual vedesti
Non altramenti che, per pelle, talpe.
Nulla infatti più io vedo. Camminiamo a fatica. Per dove? L’òcchio non giunge che a pochi passi davanti a noi. Ma ecco si leva il vento. Una folata di vento dissipa la nèbbia: ecco vèrtici verdi con sinistri bagliori di sole, abissi, terra che strapiomba. La terra che precìpita? È capovolta la terra? Come un invito al suìcidio! Che aspetto nemico ha la terra colà dove manca l’uomo! Oh, ecco una capanna di carbonai, fatta di piote e frasche. Finalmente l’uomo! No! la capanna è deserta. Dove siete voi, o fratelli carbonai?
Oh, ecco, laggiù sotto di noi, un azzurreggiare tenue, un biancore: la Valle della Magra,
Ma sin laggiù conviene scendere? A che altezza sono io? Io sono in alto come un Dio dell’Olimpo.
La guida ha smarrito la via!
— Se hai smarrito la via per Pontrèmoli, non importa. Scendiamo comunque per trovare uomini. Quanto bisogna rotolare e scèndere ora per questi macigni per trovare uomini? Gli Dei dell’Olimpo sorvolavano.
— Avete visto un campanile? Dove?
Dalla profondità della valle giunge un suono. È il campanile? No.
È un campanaccio di màndrie. Si allarga il cuore: è un suono di umanità. I vèrtici dei monti, color di smeraldo, ferìscono di traverso le nubi fra barbagli di sole. Sono le quattro e mezzo. Pensare che un’ora e mezzo fa eravamo lassù! E mi rivoltavo indietro con paura, mentre la guida fa con la mano visiera agli occhi e cerca in fondo alla valle.
— Avete visto un campanile? una casa?
Ah, finalmente un po’ di prato, ci siamo! Non più questi orribili macigni. Ecco segni di vegetazione, grano, viti: l’uomo! Sento una voce che dice: «l’uomo è compagnevole animale.» È Dante che dice così. Io sono fuggito dagli uomini per vivere in questa solitudine; ma non si può! Bisogna per forza vivere con questi tristi compagnevoli animali!
— Che paese è quello che vediamo laggiù?
— Non so.
***
Lusignano. Vi arrivammo che era l’ora del vèspero.
Era un villaggio tetro, lùrido, trogloditico, fatto di grigie pietre: si chiama Lusignano: ma c’erano uomini, una cena, un letto, anche. Buona gente che ha emigrato. Donne e vecchi fanno ospitale cìrcolo su la terrazza attorno a me. Garòfani, ortensie, basìlico bellissimo su la terrazza. Hanno i figli ed i mariti alla guerra. Ne ragiònano con calma, come di un cataclisma naturale.
Parlano più volentieri delle mandrie, dei pàscoli, delle mucche, che della guerra. Con meraviglia e vergogna contro di me, apprendo che le mucche vanno al mattino da per loro a pascolare in cima a quell’alpe che a me parve sì paurosa, e quando è sera, tranquillamente ne discèndono. Dice un uomo, che pare Sancio Panza:
— Le vacche han più giudizio, salvando l’amina, dei cristiani.
Le sue pàpere sono intelligenti; il suo asino, nella notte, cammina avanti come un delegato.
***
Io prevedo per la notte il mio male: l’insonnia. Domando un libro. Mi offrono «I Promessi Sposi», l’Ariosto, il Tasso. Chi avrebbe pensato di trovare tali libri fra questi monti?
— Non avete un libro stùpido?
Ecco, mi è offerto un libro che ha per tìtolo: Per farsi uòmini - Letture per la terza elementare. Questo va bene, leggiamo:
Lino, cànape, ortica. La pianta del lino conversa in cortese dìsputa dei propri mèriti con la pianta della cànapa. Dicono: «Il contadino ci coltiva con lo stesso amore». Ah, benìssimo; ma dopo ci dirompe con le maciulle. Oh gioia! Felice te, ortica, che non sei maciullata!
Le pecorine! «Le pecorine fanno: «be, be, be!» Anche le pecorine sono trattate con amore: «Le laverò — dice il maestro — nell’acqua chiara corrente e poi le toserò». Alumnus respondet: «Che peccato! senza lana non saranno più così belle».
Magister: «Che importa? La lana crescerà di nuovo, e intanto noi ci vestiremo. Le pecore mi hanno già dati gli agnellini dalla carne tenera e saporita».
Allora mi ritornò alla mente questo racconto di Garibaldi: a bordo della sua nave, fu portato in tavola un agnello arrosto, che diffondeva un odore gratissimo. Ma Garibaldi respinse la vivanda, e interrogato del perchè, rispose: Durante la traversata, quel povero agnello mi veniva sempre da presso. Mangiàndolo mi sembrerebbe di cibarmi di un bambino che io avessi veduto nàscere.
Il maiale. Affettuose parole contiene il libretto idiota anche per lui! Suo mestiere è quello di ingrassare. Ma ingrassa per noi. «Appena viene l’inverno, lo uccidiamo e della sua carne facciamo prosciutti, salami, salsicce. I migliori prosciutti sono quelli di San Daniele, i migliori salami sono quelli di Felino. La salsiccia, chiamata anche lugànega, di Treviso serve a farci òttimi risotti. Il grasso...» Magister! Magister! E infine, co un bravo operaio, il filugello! Esso ci fa il bòzzolo. Riflessioni e propòsiti del filugello, o baco da seta: «spende bene la vita chi la spende nel lavoro».
Oh, meraviglia! Nel bòzzolo si forma la crisàlide che esce in forma di angèlica farfalla. Ma ha il torto di spezzare il filo, «e perciò alla filanda i bòzzoli vengono immersi nell’acqua bollente, e così le crisàlidi muoiono, e il bòzzolo rimane intatto col filo intero», e la divina farfalla è sacrificata.
Ah, magister, magister!
Dìsputa fra il ragno e il filugello. Dice il filugello: «io fornisco all’uomo la seta, ed egli ne tesse drappi bellissimi».
Meglio nascer ragno che filugello!
Tosatura, maciullatura, arrostimenti, acqua bollente: idem per idem. In verità, noi facciamo i tedeschi con gli altri animali. I tedeschi saranno gli uòmini, e noi saremo gli animali domestici: gli italiani suonano il mandolino, gli inglesi sono i clowns, le francesi sono le cocottes, i russi ci danno le pelli di orso. Altro capìtolo del libro: «La rivista». Vi sono figurine di soldati, generali, bandiere.
Il fanciullo estasiato esclama: «Viva l’Italia!»
Adàgio, adàgio! Viva l’Italia, sì, ma adàgio!
Riflessioni del maestro: «Le guerre sono finite: io voglio onorare la pàtria non con le armi, ma con l’ingegno, col lavoro, con l’onestà». Libro per farsi uòmini, stampato a Torino nel 1906.
Questo libro è ben degno della nostra scuola elementare!
Le pulci mi hanno rosicchiato tutta la notte.
***
Una donna, nell’alba ancor di cènere, mi dice che stanotte le hanno detto che hanno ammazzato quarantamila russi, cioè non russi, quegli altri.
— Tedeschi, volete dire — , dissi io.
— Sì, sì, tedeschi.
Russi o tedeschi per lei è lo stesso. Un’altra donna scura, giù nell’orto scuro, fra i vecchi muriccioli di pietra bìgia, ode e segue indifferente non so quale lavoro.
***
12 Luglio, 1915.
Caprio, prime luci del sole. Esce a strali dalla terra. La rugiada brilla, brillano i fiori, le alborelle si scuòtono come fanciulle. Cantano gli augelletti. Risento, come al suono di una vivuola antica, questi versi:
Al novel tempo e gaio del pascore
Che fa le verdi foglie e fior venire...
In una bottega che si apre, trovo un giornale che arriva da per tutto: il Corriere della Sera. Realmente, fra morti, prigionieri, feriti, sono quarantamila. Più grave, pei tedeschi, è la vittoria di Botha nel sud Africa. Colonia tedesca del sud Africa, perduta! I teutoni non dànno ricevuta di questi colpi ai loro polmoni, le colonie; ma deve essere cosa terribile!
Tutte le industrie d’Inghilterra, Francia, Italia, Russia, organizzate per la guerra! Proiettili, proiettili, proiettili! Mostruosa preparazione di grandine metallica per impedire l’avanzarsi della testa di Medusa. Mostruoso!
Chi avrebbe mai detto che il secolo ventesimo avrebbe riabilitato il grottesco verso del Seicento:
«Sudate, o fuochi, a preparar metalli»?
***
12 Luglio 1915, Scorcetoli, linea Parma-Spezia.
Contraddizioni: io dico male del progresso. Però essere discesi dall’alpe per rompicolli spaventosi, e poi trovare le rotaie del treno, correre in treno, è un gran piacere! Scendiamo a Berceto. Da Berceto ritorniamo a Corniglio a piedi; ed ecco che, dopo un’erta salita sul gran mezzodì, troviamo una conca verde cinta dai monti. Mi viene alla memoria la valle di Tempe! Nella solitudine, alcune donne, bimbi, fienavano, rastrellavano una pelurie di erbe. Mucche bianche pasturavano. Lungo il sentiero, roselline silvestri, alte, guardavano. Che arsura! Un contadinello corse ad una fonte. Mai bevvi acqua più pura. È aria! Uno scintillare di sole nell’acqua. Paesaggio aereo, verdolino tenero. Roselline, pace!
Il paesaggio germanico ha selve e paludi. Senza elevazioni, nè viti, nè rose. La terra genera ferro e carbone: è la nostra civiltà nubilosa.
***
Ritorno, sera 12 luglio. Corniglio.
Il mondo è così grande, i monti erano così enormi, la guerra è così rossa; ma quel piccolo punto azzurro, sul poggio, è Titì. La sua voce mi giunge qui in fondo alla strada: «papà!».
***
Filosofi spiritualisti sono nati d’improvviso in Francia e da noi. Essi ci avvertono paurosamente che il popolo tedesco è più ateo di noi, perchè noi, così per ischerzo atei siamo, ma loro sono veri atei, perchè per filosofia.
In tempi meno tristi verrebbe da sorridere di questa accusa ai tedeschi, come se un becero fiorentino in articulo mortis accusasse me, che non bestemmio, di miscredenza.
Il papa, vicario di Dio, è nell’imbarazzo fra questi popoli atei.
Vero è che sino dal 1853, il gran poeta tedesco, Arrigo Heine, aveva in quel memorando suo libro su la Germania, ammonito i francesi di non prendere abbaglio su la natura del pensiero tedesco. Egli diceva, a un di presso, così: «Voi non conoscete affatto, o miei amabili francesi, quello che sono i miei compatrioti. Essi non sono mai stati romantici! Essi sono assai più materialisti del vostro Voltaire. Il loro idealismo trascendentale li rende insensibili allo stesso martirio, perchè il filosofo idealista considera il martirio, per sèmplice apparenza. Ora voi, signori francesi, dovete combinare questa filosofia trascendentale con altra filosofia assai più terribile, che è quella della natura! Per essa, le forze occulte della tradizione germànica saranno evocate, sarà risvegliato il furore degli antichi germani, che combattevano, non per distruggere, non per vincere, ma soltanto per il diletto di battagliare. E l’ora suonerà, e quando voi udrete uno schianto, come mai non si è udito nella storia del mondo, sappiate che come il pensiero fu il lampo, così la guerra sarà la folgore! E i popoli si stringeranno come in un anfiteatro ad assistere al gioco della Germania, rispetto alla quale la vostra rivoluzione sarà stata uno scherzo da fanciulli».
Con quale animo Arrigo Heine scriveva queste apocalittiche profezie? Egli ne era convinto e nel tempo stesso, forse, si divertiva ad impaurire quei francesi, che a lui, tedesco ed ebreo, dovevano apparire come i bei fanciulli ateniesi del tempo di Pericle.
La strana profezia si è oggi, alla distanza quasi di un secolo, avverata; e nell’un modo e nell’altro: la orgogliosa loro filosofia, per cui Dio è il loro pensiero, li fa credere superatori di ogni altra civiltà; l’antico furore li trasporta alla battaglia disperata. Di vittoria in vittoria essi vanno! Ma dove? C’è un baratro in fondo? Essi non si possono fermare! Si vedono questi cerulei germani precipitare in compatte falangi alla morte.
Arrigo Heine li vede e grida: «Ah, voi non siete Philisters, voi non siete materialisti, voi siete veramente romantici!»
***
19 Giugno 1915, Bellaria.
Papini nel Resto del Carlino sotto il titolo: «Si può dire?» dice una cosa, la quale è vera, e anche non vera. Le guerre del Risorgimento costarono poca effusione di sangue (Calatafimi, morti 53; Custoza del 1866, morti 673; San Martino, morti 663; difesa di Venezia, morti 310, di Roma morti 651; battaglia del Volturno, primo ottobre 1860, morti 147, totale, dal ’48 al ’70, morti circa 7000 italiani. Si escludono Magenta e Solferino, le due maggiori battaglie che determinarono lo sgombro della Lombardia da parte dell’Austria, perchè sono due vittorie ottenute con sangue francese. E ciò è vero, come è vero che alla Francia importava pochissimo la formazione di uno Stato italiano, anzi importava la non formazione.
A parte la esattezza di queste cifre, il ragionamento del Papini conclude a questo: primo: che il totale di circa 7000 morti nelle guerre del Risorgimento, oggi avrebbero appena l’onore di un comunicato. Secondo: l’intero Risorgimento è costato una miseria: è stato un terno al lotto. Conclusione: quanto non pagammo allora, dobbiamo pagare oggi.
Caro Papini, tu vuoi dire che i debiti, in un modo o in un altro, bisogna pagarli; e ciò che non pagarono i padri, pagano oggi i figliuoli?
Paghiamo pure! Non sarà male speso tanto sangue e tanto dolore se per esso troveremo quella coscienza nazionale, che così di frequente, leggendo le nostre storie, noi troviamo significata per queste parole: finalmente l’Italia aveva trovato una coscienza nazionale! E poco dopo, con sorpresa, leggiamo ancora: l’Italia aveva trovato una coscienza nazionale! Ma non l’aveva già trovata prima?
Ma che dire quando il più potente e il più giovane fra i partiti politici, dico i socialisti, vàntano come loro maggior titolo per essere accolti nella futura Città del Sole, il non possedere coscienza nazionale?
Aveva forse ragione il principe di Metternich quando giustificava la oppressione austriaca, dicendo a noi: «Voi non siete nazione, voi siete regione; Italia è nome letterario e geografico»?
A me non dispiace questo modo crudele che usa il Papini di compendiare così, a base di statistica, la storia d’Italia nel secolo scorso. Ciò valesse almeno a correggere l’errore in cui quasi tutti gli italiani vivono, che la resurrezione d’Italia sia opera di popolo, mentre è opera di martiri e di eroi, combinata con insperate fortune diplomatiche, come ebbe a significare brutalmente quell’altro principe germanico, Ottone di Bismarck, quando disse che l’Italia si era costituita mercè tre S: Solferino, Sadowa, Sèdan.
Può dunque ben darsi che una forza, quasi nascosta alle nostre stesse coscienze, ci abbia ora portati alla guerra contro i tedeschi, acciocchè per un maggior sacrificio di popolo fosse adempiuto l’antico difetto, e l’Italia acquistasse piena coscienza di sè. Vedremo questo effetto, o, invece, ne vedremo una diverso?
Dice il poeta Orazio: àmphoram coepit institui. Cur urceus exit? Vedremo una bella anfora, oppure un vile orcio?
Vedranno i nostri nepoti.
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20 Luglio 1915, Bellaria.
Il cielo era chiaro, l’orologio segnava le cinque del mattino. E il sole? Eccolo. Il sole alle cinque? Come tardi! Ho l’impressione che l’estate già ne sia ita. Inverno, neve, trincee! Il sole corre di più? Si sposta sensibilmente. Un mese fa, da questa finestra, lo vidi sorgere dal mare in direzione di quella pioppa.
Varsavia, la Polonia russa è perduta! Non ancora, ma si capisce: la stampa prepara gli animi. Sarà per l’anniversario della guerra: primo agosto. Si attacca il secondo anno, poi sarà il terzo.
Il direttore della «Gazzetta del Popolo» mi respinge il manoscritto di un articolo, dove, con tutta dolcezza, dicevo che bisognerà prepararci anche noi alla guerra invernale. Cosa credevano, di spicciare la guerra nel mese di maggio? Disfattismo!
Renato Serra dove sarà? Sarà? È? Molti i nostri morti.
È ammirabile questa istoria dell’uomo, fornito di cinque notevoli sensi, poi di scrittura, di quadri sinottici, statistici, di istrumenti di precisione, e che non riesce ad intendersi! Il mondo considerato come obbietto, il mondo considerato come subbietto (William Mackenzie). Significato bio-filosòfico della guerra, (Genova, Formiggini editore, L. 2). Domine, da mihi nesciri, dice l’Imitazione di Cristo. Possiamo aggiungere: Domine, da mihi nescire! Per mia ventura, nulla io comprendo di questi libri.
***
22 Luglio 1915, Bellaria.
Pomeriggio. Due torpediniere filano presso la riva: pennacchi turbinosi di fumo. Il mare, prima calmo, ora batte onde forti. Quali onde? Le onde delle torpediniere?
Morti, morti! Rigùrgita alla riva la guerra, ad ondate, dove passa col suo turbine nero.
***
24 Luglio 1915, Bellaria.
È morto Renato Serra sul Podgora, il colle che sbarra Gorizia. Una palla in fronte: la fronte infranta! Era una nobile e bianca fronte. Dunque può un proiettile distruggere la più pura coscienza che si annida dietro una fronte? Dunque tutto ora in umbra?
L’anno scorso egli era qui, su questa terrazza, a questa mensa, quasi riguardoso, e beveva acqua. All’annunzio della sua morte, io sono fuggito lungo la riva del mare. Ma egli era pure qui! su la riva di questo mare posava i suoi piedi scalzi.
Io non passerò più per la stazione di Cesena senza che io lo riveda come lo vidi quattro anni fa, con quel profilo imberbe, signorile. Era d’inverno, quella volta, ed egli era ravvolto in quella capparella chiara.
L’ultima cartolina che ricevetti da lui è datata dal giorno 13, il maledetto numero.
La ritrovo: mi tremano le mani a toccarla.
L’agosto dello scorso anno, noi andavamo come fraticelli lungo la riva di questo mare, e recitammo insieme, quasi con devozione, il sonetto del Petrarca:
- Sennuccio mio, benchè doglioso e solo
- M’abbi lasciato, io pur mi riconforto.
- Perchè del corpo ove eri preso o morto
- Alteramente sei levato a volo.
Ora le onde del mare buttano davanti a me, su la spiaggia, il tuo corpo bianco, naufrago di un immenso naufragio.
- Or vedi insieme l’uno e l’altro polo,
- Le stelle vaghe e lor viaggio torto.
- E vedi il veder nostro quanto è corto.
Questa è la poesia dell’uomo! La poesia della natura è diversa: ptomaine, mieline, muscarine! Putrefazione, e null’altro! Queste cose non bene sapeva il Petrarca. Noi bene sappiamo! E la scienza germanica più di ogni altra scienza ci è stata maestra. Tutti noi siamo materialisti.
Scienza che ci hai dato il male, dacci il bene, quel bene che puoi! Noi vogliamo essere felici: noi vogliamo profumarci, vestire bene, mangiare cose squisite, godere.
Ragioniamone, Renato Serra!
Io ho avuto tutta la notte l’imagine di lui accanto, con l’enigmatico sorriso, quasi infantile, all’angolo delle labbra sbarbate, mentre le stelle dell’orsa nella notte precipitano sul mare.
***
30 Luglio.
Come onoreremo Renato Serra? Monumenti? Carta stampata? Oh, ieri un giornale proponeva di stamparne gli scritti, affidando a Benedetto Croce la revisione; oh, ieri, alcuni universitari di Bologna si condolevano e ricordavano che Renato Serra fu loro scolaro, che la giovane pianta, se fosse vissuta, avrebbe dato ottimi frutti. Eran cenni e saggi, che aveva dati, a cui dovevan seguire cose mature e piene.
Ma no, ma no, buona gente. Questo è lavorare per la terra, non per il cielo! Non ci importa degli «ottimi frutti»!
E v’è chi si chiede dubitativamente come avrebbe potuto Renato Serra conciliare il suo razionalismo con le esigenze platoniche del suo spirito.
Non sapete?
Noi sappiamo che questo è un raziocinare alla maniera germanica.
La forza del pensiero avanzava in lui la età: quella era in piena maturanza, mentre gli anni volgevano nell’aprile. E questa freschezza giovanile, recingendo quella saviezza, formava il suggello della sua originalità, ed era un po’ la sua pena. Egli, giovane, era critico e insieme artista e poeta. Questa è una disgrazia, perchè fra le due cose c’è incompatibilità. Quando gli anni sono maturi e i capelli vanno verso il grìgio, allora sì la critica e l’arte possono vìvere insieme, anzi è una bella cosa.
Ma nel fervore della giovanezza la convivenza della poesia con la critica diventa presso che impossibile.
«Cosa vali tu?» domanda la critica alla poesia. «E tu — dice la poesia — cosa vali?»
«Va alla Malatestiana, o Renato, a studiare sui libri», dice la critica. «Va per la campagna, per le colline della tua Cesena», dice la poesia.
Ed egli andava, e sentiva l’anima e la religione delle cose create; e cercava, non le parole, ma la parola, la quale tanto più è gloriosa quanto più è umile, perchè la parola non deve glorificare lo scrittore, ma deve glorificare la cosa.
Oh, staccare una pervinca di primavera e conservarla così per tutto l’anno; oh, prendere un fico di giugno, il più dolce dei frutti, e conservarlo fragrante così (non secco) per l’inverno!
E le pàgine di Renato sono piene di queste parole di ammirabili delicatezze, e tremanti di pavore e di amore; ma la critica doveva dirgli:
«Oh, Renato, sì, bello è ciò che tu hai scritto, ma tu ci hai pensato! Se tu ci hai pensato, non hai la grazia di Dio! La poesia invece è alata e pensa senza pensiero».
***
Ed è singolare che tutta la critica di Renato Serra su gli autori moderni è penetrata da un senso di fastidio e di indolenza pur quando loda ed ammira. Comincia un accordo, ma non giunge alla fine.
Fantasmi lo distràggono lontano da noi.
Renato Serra mi sembra uno che sia vissuto in altre età: ha visto Mosè, Ulisse, Pallade Atena, Elena, Pentesilea, e ora vede i garbati uomini stiti all’anglosassone, le donnine serpentine vestite alla francese. Sì, carine, carini! ma che umanità minorata!
E mi ricordo con quanta schietta ammirazione io lo ascoltassi. Io coi capelli molto grigi, io da tanti anni — per mia sventura — professore!
E credo che Renato Serra mi stimasse e mi volesse bene anche per questa mia umiltà nell’ascoltarlo, perchè, ben si sa, che nelle discussioni l’uomo quasi mai ascolta con piacere o ammirazione quello che altro uomo dice.
E io gli dicevo: «Ma lei, Serra, dovrebbe almeno essere professore di università».
A lui non importava proprio niente. Io ne incolpavo le democrazie, il socialismo, e lui benevolmente, con un suo lento: «Ma no, caro professore», mi faceva capire che io ero come un bambino che incolpa la gamba del tavolino perchè si è fatto male.
Credo che se ambizione era in lui, era di creare cose vive: creare!
— Le cose vive — gli dissi una volta — che l’età nostra crea, si chiamano macchine.
E ben ricordo come, recitando egli antichi versi immortali, le pupille gli si chiudevano, la voce si deformava in modo che un estraneo che avesse udito, si sarebbe messo a ridere. E non so come, io pur sorridevo, che a me veniva in mente un orbino delle vie di Bologna, (al dolce tempo che Mimì era giovanetta), al quale tanta passione si destava nel suonare il violino, che ne sveniva...
A queste forze in lui contrastanti, conviene aggiungere una terza sventura: la sua rettitudine e dignità, che in tanto era maggiore in quanto egli si conteneva da ogni ostentazione esteriore.
Se alcuna persona o azione o scrittura non gli piaceva, non inveiva; socchiudeva un po’ gli occhi e sorrideva un po’ enigmatico senza più dire. Nei casi più seri usava questa parola: «una persona bennata».... cioè, una persona bennata opera, deve operare così.
Egli era legato per simpatia e per età a quei letterati così detti di avanguardia che facevano capo alla «Voce» di Firenze; ma ne parlava così in un certo modo: «quei cari ragazzi...» come dire: «un po’ di baldoria è ben naturale!»
E mi faceva venire in niente un Platone giovane, che vedesse danzare una schiera di coribanti con qualche pretensiosa mènade frammezzo. Io credo anche che egli avesse bevuto con avidità alla filosofia del nostro tempo, che è l’unica e vera, perchè la filosofia di ogni tempo è l’unica e vera; ma che poi egli ne fosse rimasto soddisfatto, non saprei. Egli aveva capito che io di filosofia non mi intendeva, e usava la delicatezza di non parlarne.
Ho conosciuto molti giovani così bene soddisfatti della filosofia del nostro tempo, che io penso che essi con eguale letìzia a qualunque altra filosofia dominante si sarebbero abbeverati; mentre ho letto di un giovane ebreo, di nome Michaelstädter, che per insoddisfazione di filosofia si uccise. Renato Serra, mi pare accostarsi più a questo che a quelli.
Come è morto veramente Renato Serra? Una pallottola in fronte. Ma ai dì passati ebbi opportunità di parlare con alcuni romagnoli, che erano nella sua compagnia. «Si abbassi, signor tenente!» gli avevano detto. Ed egli si levò invece alto con tutta la persona fuor dei ripari.
Io non voglio credere che egli abbia cercato la morte. Figlio di padre e di madre cattòlici, egli sapeva che il segreto profondo della filosofia cattòlica è sopportare il male; non credere alla felicità terrena!
Ma che egli fosse partito per la guerra, l’ultima volta, con una profonda insoddisfazione, me lo diceva anche Mario Missiroli.
Missiroli aveva conosciuto di persona Renato Serra soltanto in quella occasione che egli era sostato a Bologna per andare al fronte. Gli era parso sofferente e stanco. Aveva passato tutta la notte con lui. Confessava Missiroli di essere rimasto come sorpreso e soggiogato di quella sua fede razionalista, benchè la parola di lui fosse come timida.
Pregai Missiroli di ripètermi di che cosa avesse parlato quella notte con Serra; ma rispose che gli sarebbe stato difficile riferire, e conveniva pensarci. Però mi disse che Serra aveva dissentito da un ultimo scritto di Benedetto Croce, anzi gli era spiaciuto, per quanto fosse ammiratore ed amico del Croce. E lo scritto era intitolato: Dire la verità.
E allora ricercai quello scritto. Esso è nel numero del 20 marzo 1915 della «Critica». Vi trovai queste parole: «l’inganno è inganno nell’atto soltanto che tu lo senti come tale, prima non era inganno e neppure verità... La vita ha bisogno, a volta a volta di verità (verità storica) e di immagini vitali (stimoli oratori) e di queste prime ancora che di quella».
Questa distinzione è vera per chi prende il treno verso la vita, ma per Renato che prendeva, a Bologna, il treno verso la morte, non era più vera.
Se Renato Serra fosse vissuto, non so quali avanzi avrebbe fatto nel currìculum vitae. Ma questa non è cosa che mi interessi. In governo di demagogia non c’è gran posto per Renato Serra. E se egli fosse arrivato, non sarebbe più stato Renato.
Nel tempo che io lo conobbi, non l’ho inteso mai fare propositi di gloria per il suo avvenire. E ricordo che avendo egli preso impegno presso un editore di scrivere un volume di profili letterari, se ne rammaricava e incolpava non so quale indolenza nello scrivere. Certo più che per una lode letteraria, insuperbiva per saper bene giocare al pallone, o per freddezza nel maneggiare un’arma.
Una sua passione, ma di questo non mi parlò mai, era la donna. Anzi io vedendo che mai egli cadeva in quei discorsi in cui di solito cadono i giovani, mi pensai che egli fosse alieno dalle donne. Poi pensai che così facesse per riguardo verso di me. Provai ad incoraggiarlo, ma rispondeva male, ed a pena. Con le signore poi era così riguardoso ed ossequiente che pareva un altro uomo.
— Oh, che villano quel suo amico Serra — mi disse un giorno una signora bellina, di Ravenna, che ci tiene tanto ad essere bella. — Pensi: eravamo ad un veglione, gli domando: Si divèrte, Serra? E mi risponde: mi annoio. Era con me!
Bene io ricordo che un giorno, prima della guerra, parlando con un cittadino notabile di Cesena, mi congratulavo con lui che la sua città avesse un sì degno figliuolo. Mi ascoltava e faceva: — Sì, così e così! Un ragazzo d’ingegno, ma va dietro alle belle bordelle (le ragazze del popolo).
***
Oh, non si pensi male, povero Renato! Egli ripeteva l’antico dramma dell’uomo di ingegno, che si imbatte nella visione della donna; e vede il sole quando appare il dolce viso; e dietro quella giovanezza di belle bimbe forse egli modulava, come un rosignolo, versi e strane parole d’amore. Che abbia mai detto con Guido Guinizelli: «Passa per via sì adorna e sì gentile, che basa orgoglio cui dona salute»?
Certamente deve averlo pensato!
Povero Renato! Al vedere quell’alta figura bianca, con un suo strano andare dinoccolato, con il volto sbarbato, all’udire sì inusitate parole, esse si saranno voltate e avranno detto: «Ghignous, antipatic! Vada bene per la sua strada!» O si saranno messe a ridere.
Ora un segreto martirio si venne formando nell’animo di lui: che la cosa più da lui bramata gli sarebbe stata negata: la sua giovinezza mai sarebbe stata consolata dall’amore, mai egli sarebbe piaciuto alle donne! La qual cosa ben può sorprèndere, essendo egli piacente di aspetto e virile.
Ma forse non può sorprèndere, considerando che egli era bensì giovane ma anche non più giovane, per effetto di quella sua precoce saviezza, che prima ho detto; non era dunque folle, non era frivolo! Perciò non poteva piacere alle donne.
***
Già da quando conobbi Renato, mi parve che egli fosse avvolto in una atmosfera di tragedia. Il padre gli era morto l’anno prima, nello scendere dal treno, alla stazione di Cesena, di ritorno da una visita. Era medico; uomo di gran cuore e di subitanee passioni. Qualche volta Renato mi parlava del padre, ma in uno strano modo, come se l’affetto potesse venire profanato dalle parole; più sovente parlava della madre e dei nipotini, ma con una tenerezza accorata e dolorosa come in un presentimento di abbandono. La madre è lombarda, donna austera e di grande riserbo. Anche in questa lettera di lei, del 22 agosto 1915, appena un mese dopo la morte di Renato, appare una contenutezza che si pensa: «Renato scriveva così come sua madre!» Appena questo sfogo di angoscia: Quei dolci occhi chiari, così limpidi, così trasparenti e profondi, vaganti in un mondo diverso e più alto. E questi cari occhi sono chiusi per sempre. Gli austriaci?... E voleva dire: «Non del tutto gli austriaci hanno colpa!»
Il 2 luglio, Renato Serra si era recato a Ravenna per essere visitato e ottenere la pròroga della licenza. Era sordo, perchè malato ancora di otite. Si rifiutarono di visitarlo. Renato Serra non obbiettò menomamente, e partì come gli fu comandato.
***
Missiroli ha poi scritto di Renato Serra nel numero del 26 luglio del Carlino, con quella disperata freddezza che è propria del suo temperamento. Ma preferisco questa freddezza ai colori artificiali di altri. Ne ha scritto con molta penetrazione ed obbiettività, per modo che fra me e Missiroli, pur così diversi essendo noi due di temperamento, l’imàgine del povero Renato Serra quasi collima.
Queste che qui trascrivo sono le cose più notevoli.
«Quanto lavoro ci sarà dopo la guerra. Ed a quanti mutamenti assisteremo! Quante cose scriveremo! Se pure avremo la fortuna di sopravvivere...».
Con queste parole ci salutò Renato Serra, quindici giorni or sono, prima di partire per il fronte, quando l’accompagnammo verso la stazione, dopo avere passato lunghe ore, con lui, nella redazione del giornale, sotto i portici, nelle prime luci mattutine.
Partiva sereno e fiducioso nella vittoria, entusiasta dei nostri soldati e del generale Cadorna; tranquillo come era sempre, con quel suo aspetto distinto e aristocratico che faceva di lui un bellissimo soldato.
Eppure egli pareva quasi attendersi la sorte che doveva travolgerlo nel furore di una mischia; un vago presentimento attraversava di tanto in tanto il suo spirito senza turbarne, peraltro, la calma abituale.
Aveva desiderato ardentemente la guerra; l’aveva voluta per ragioni diametralmente opposte a quelle che suscitarono l’intenso movimento popolare degli ultimi giorni, che posero fine alla neutralità; l’aveva voluta sperando in una rinascita dello spirito nazionale, in una ripresa di quelle idealità, che gli ultimi anni parevano avere assopite in tutte le classi sociali. Sperava che dalla guerra sarebbe sortita una classe dirigente, consapevole dei suoi doveri, capace di rimorchiare il magnifico ed originale movimento democratico degli ultimi anni, troppo intento al benessere materiale.
Conoscitore profondo della filosofia moderna, di tendenze hegeliane, negli ultimi tempi era ritornato a Kant, che gli pareva ancora la posizione più forte della speculazione moderna, fino a ritenerla insuperata. E lo stùdio di Kant perfezionava con quello di Platone, nel quale trovava quella armonia che si addiceva al suo spirito sereno, la risposta persuasiva a quel bisogno ideale, che la metafisica tedesca aveva risolto in un crudo realismo. Era persuaso che gli eterni problemi della immortalità dell’anima, di Dio, della esistenza del male e della resurrezione dovessero ritrovare il loro diritto di cittadinanza nella filosofia, dalla quale erano stati banditi dopo il trionfo del razionalismo germanico. Come egli riuscisse, però, a conciliare il razionalismo soggettivista con le tendenze e le esigenze platoniche del suo spirito, non so. Egli si proponeva appunto, di riprendere, dopo la guerra, lo studio di questi eterni problemi e di portarvi il contributo della sua mente.
Profondamente cristiano, mi parlò, l’ultima sera, della perenne vitalità del cristianesimo con una profondità così commossa e appassionata, che mi sorprese in lui, parlatore così parco, che amava quasi nascondere il suo pensiero in una timidezza pudibonda.
Vi sono leggi della vita abbastanza misteriose tuttavia: esse tèndono a far scomparire dalla vita coloro che, per gentilezza di animo, sono tagliati fuori della vita.
E perchè allora costoro sono ricordati, e talvolta rimpianti dagli uomini?
Ecco:
Dopo pranzo, molta gente mangia frutta. Ho conosciuto un signore che vuota una fruttiera di mandarini, di nèspole del Giappone: cose acidule e lievi. Quante! Ma prima quell’uomo ha mangiato trippa, gran carne, gran sangue, forti droghe! Le ànime gentili pure piacciono molto: sono i mandarini, gli alchechengi, per gli uòmini carnìvori. Sèrvono a ben digerire. Ecco perchè la memòria di coloro che sono forniti di alta gentilezza, permane e se ne scrivono anche i libri per l’infanzia.
***
2 Agosto 1915, Bellaria.
Anniversario della guerra. Varsàvia evacuata. Russi scacciati come orde (gli ebrei russi lampeggeranno di gioia), Germania fresca come il primo giorno. C’è un avvilimento nei giornali!
L’Inghilterra! Sembra una dama arcigna che disfà la sua toilette, prima di coricarsi: si scàrica di denti finti, mammelle finte, parrucca finta. Fors’anche digrignava contro la bàrbara Germania coi denti finti.
***
I giornali chiamano «parrocchiale» e fatto per i «pòveri di spirito» il messàggio del papa dei passati giorni, ai Potenti del mondo, anzi ai Prepotenti del mondo. Ma miei cari signori, ragionate un po’, se potete: il Santo Padre è vicario di Dio, Dio non può sillogizzare come un filòsofo, vi pare? Il Santo Padre parla per dogmi e sentenze, Caro papa Benedetto, col suo mantelletto càndido e le sue pantòfole, che cosa Volete che fàccia?
Che tuoni come papa Ildebrando super aspidem et basiliscum? Papa Ildebrando aveva le scarpe ferrate. E poi e poi...! Papa Ildebrando aveva Iddio d’accanto! Noi non abbiamo più Iddio, e perciò tutti siamo perduti. E tutti voi che avete studiato la storia, avete pure imparato le ultime parole di Ildebrando: dilexi iustitiam, odivi iniquitatem, propterea morior in exilio. Voi non ricordate niente!
È quello che ripete Gino... tristamente: «Abbiamo noi un tipo diverso di civiltà?» Siamo tutti razionalisti, atei hegeliani. Serra andò a morire per non voler èssere tale, pure essendo.
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3 Agosto, 1915, Bellaria.
Il calzolaio di Bellaria legge il tìtolo del giornale: «Ritratti di soldati morti. I morti per la santa guerra d’Italia.»
Commenta: — Santa! E intanto vanno tutti nei ritagli!
Attorno al suo deschetto è tutto un cimitero di ritagli di suole di scarpe.
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La Frankfurter Zeitung scrive così:
Noi vogliamo essere un popolo nuovo, non nel senso di dominare e sfruttare come hanno fatto i nostri nemici e come fanno ancora, ma nel senso di esser loro guide e condottieri, di che nessun popolo ha più del nostro il diritto, giacchè sente in realtà l'amore della pace, della giustizia e della libertà, ma nello stesso tempo per la disposizione metodica del suo spirito, per la sua facoltà di sviluppare organicamente l’opera comune umana verso le direttive dell'ordine necessario all'assoggettamento del singolo alla generalità, esso sarà guida salutare contro la svogliatezza e la degenerazione.
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De Robertis mi scrive pregàndomi di mandare uno scritto per la «Voce» del settembre, in onore tutta di Renato Serra. Io scrivo su Renato Serra cose vere come fossero finte, e cose finte come fossero vere. L’assorbimento attutisce il dolore. Me ne accorgo al risveglio, rileggendo: una trafittura al cuore!
Il ritratto della povera mamma alla parete, mi ammonisce: «Non si scrive per i morti, si prega per i morti!»
***
11 Agosto, 1915.
Delle operazioni contro i Dardanelli non si sente più parlare. Essa è come un’ernia strozzata che il medico opera quando già è in cancrena. Le nazioni alleate solo oggi cominciano a capire la loro inettitudine: la insufficienza dei mezzi al fine. Il genio militare è in difetto al pari della preparazione tècnica e diplomàtica. Quel Lloyd George tiene alto il morale con bellìssimi discorsi. Noi siamo fermati contro i monti. La Francia attende che si scateni l’uragano. Questo inverno, quando noi dicevamo: «la Germania è finita, il colosso crolla, cade in collasso; è assediata, è affamata, fa bancarotta,» essa lasciò dire, e preparò il secondo miràbile inganno: il vulcano semovente che costrinse la Rùssia a cèdere. Certo v’è del genio prometeo.
Oggi nessuno più avanza le parole: «assedio e schiacciamento» della Germania. Il fallimento economico è una fola: la forza fa l’oro.
L’affermazione incrollàbile della vittoria che viene da Roma, da Londra, da Parigi, da Pietroburgo appare oggi del tutto verbale.
Oggi è tutto paurosamente oscuro. Non v’è di certo che il sole che apre ora il suo occhio su la superfìcie delle acque marine, nel punto stesso dove lo apriva lo scorso anno.
Chiamata della classe 1906.
***
13 Agosto, 1915, Bologna.
«Salvacondotto?» dove ho letto questa parola? Nel Cinquecento. Ritorna in uso questa vecchia parola. Per viaggiare occorre il salvacondotto, munito di ritratto. Affollamento enorme.
I fotografi esosi ribùttano i clienti. Mi faccio la fotografia presso gli uffici del giornale Il Resto del Carlino. Incontro Caroncini, ufficiale. Giovane dal freddo entusiasmo: un po’ alla germànica, questo irredentista! Ma est necesse! È bene così! Caroncini mi accompagna per via Saragozza, ove è l’ufficio dei salvacondotti.
Mi dà questa notizia: che ora ci occorrono sessantamila ufficiali per tre milioni di soldati.
— Ma come?
— Si fanno!
— Si fanno? Non capisco niente.
Il divino palazzo Albergati, in fondo della via: come una villa suburbana! Dal portale si vede lo sfondo del gran verde, e i colli bolognesi sereni. Sull’architrave di una delle finestre leggo il verso: Deus nobis haec ocia fecit. Oh, tu, dolce tempo del Settecento, quando in questo palazzo si recitàvano festevoli commedie! Che sensazione strana! Dopo la rivoluzione di Francia, è cominciata la tragèdia per il mondo.
— Che ne dice lei, Caroncini?
***
Con Caroncini posso avere sùbito il salvacondotto.
Folla di gente che viene a ritirare i salvacondotti!
Tre scalini: una grande aula, scrivani, boy scouts ufficiali che fùmano sigarette, territoriali allegri. Ad un tratto succede un gran tramestio.
Che è successo?
Una scena pietosa. Una signorina vestita con un pòvero abitino chiaro, una povera cappellina in testa, sale i tre gradini. D’improvviso si abbatte: un grido, uno scròscio di pianto. La vedo giù nel cortile con la testa contro il vecchio muro. I soldati si accostano a lei, così buoni, così premurosi! Poi li vedo dare indietro muti. Un grosso territoriale è quasi goffo. Che cosa è successo? Sento mormorare come in chiesa: «Gli è morto un fratello in guerra! Adesso non può più vedere un soldato.» Sento la fanciulla che dice ai soldati: «Cerco di farmi forza, ma non posso vedere, non posso vedere.»
Non può più vedere i soldati.
***
14 Agosto 1915, Bologna.
Discorsi notturni al... Siamo in tre. Piazza del buon Nettuno, blindato. Birra stùpida, mortadella pèssima: lampade rare, velate. Velarium mortis.
È l’ora fra la mezzanotte e il mattino.
Silentium!
Uno disse: — Passeremo il nuovo anno in pace.
Chi di noi disse allora tristamente: — Temo che la Germania stia per vincere la partita?
— È già vinta fin d’ora — , disse allora X...
— E noi?
— Avremo qualcosa di meno del «parècchio». Ho la persuasione che ce la farà avere il papa.
— ?
— Ma sì. È un bel gesto.
Silenzio.
— Vittoria germànica?
— Completamente.
— Lei ne gode?
— No, ma è una delle ultime mie gioie...
— ?
— Non bevo, non giuoco, non fumo, màngio, ora, una sola volta al giorno, e mi pare di abusare di cibo: sono casto, non ho gioie di odii e di ambizioni: mi diverto a fare il braccio di ferro col ragionamento. È triste! Vinco sempre...
Silenzio.
— Lei è di uno spaventoso realismo.
— Ma sì, la vita è una realtà.
— Non è preferibile giocare a scacchi?
— Ma no!
— Lei è sàturo di pensiero tedesco.
— Sì, è vero; pochi hanno studiato come me la filosofia tedesca. Però non ho difficoltà a rifiutare ciò di cui non sono persuaso.
Riprese: — Non vorrei che ella mi confondesse con uno dei tanti caporali italiani della coltura tedesca.
Gli strinsi affettuosamente la mano gèlida.
— Però lei è un insensibile.
— No.
Non ha replicato. Appena un bàttere di palpebre convulse. Poi disse:
— Quel buon papà di Hindemburg, che muove i milioni di uomini come molossi alla càccia disperata; Mackensen che si prepara ad andare ad insegnare l’esperanto a Pietrogrado.
— La prego, non parli così.
— Del resto, come Lucullo in Asia, come Silla in Grecia! Il valore della vita è nella perpetuità delle sue leggi. Se le formiche fòssero più grandi di noi, ubbidiremmo alle formiche.
Silèntium, e poi riprese:
— Forse è legge di cose fatali. La Germania deve fare il suo terrìbile experimentum; la parabola deve èssere svolta tutta! Robespierre, Hebert! Voi eravate dei sentimentali, come la vostra Dea Ragione era una lavandaia parigina! Il razionalismo? Come le automòbili, come gli areoplani: invenzione francese, perfezionamento germanico! Abbiamo fatto il patto con Mefistòfele, abbiamo giurato in lui, ed ora non osiamo seguirlo? Mefistofele è l’impeccàbile lòico e voi siete paurosi Fausti.
— Noi siamo umani!
— Ebbene, correggètevi in una Kurhaus, diabolizzàtevi! Il germànico è il grande àrio, il vero prometeo, ottimista a prova di bomba: ha il parafùlmine a chiodo sul cranio, digerisce come un pitone, prolifica come un topo; non muore! Vive nell’enorme prolificazione, nella volontà della razza irradiatrice, invaditrice. Ha un Dio, ed è lui! Noi abbiamo i nostri immòbili Iddìi: la patria, l’eroismo, le nazioni che non muoiono, il sacrificio, il digesto, il diritto, le pandette, il vangelo ed altre fròttole. Lui ha lui, il solo immutabile nel perpetuamente mutàbile. Stùdia con uguale indifferenza nel suo gabinetto un processo terapeùtico per vincere i microbi e salvare l’uomo, e il fosforo nei suoi proiettili per far cancrenose le piaghe inflitte all’uomo. Agli effetti culturali. Dante ed il Pataffio hanno uguale valore. Elabora gli enormi sistemi filosofici, Kant, Hegel, Marx: li esporta, poi li digerisce versàndovi sopra molta birra: dorme, ha digerito, ricrea altro sistema. Noi invece diventiamo pàllidi, subiamo fenomeni tòssici, perdiamo il sonno, abbiamo lo stòmaco guasto, pigliamo sul serio la nostra filosofia, moriamo giovani di male filosòfico. Il tedesco è veramente l’uomo, il Mann, l’essere pensante, l’essere raziocinante, il sillogizzatore all’infinito: il gran cieco della mente: Mefisto! Ma l’uomo è così! Noi che ci attristiamo perchè una nube vela il sole, perchè un fiore china il capo, perchè un amico muore, noi abbiamo residui atàvici, tare di sifìlide psìchica.
Io dissi: — Oggi è così. E domani cosa sarà?
Non pose mente alle mia domanda, e continuò:
— Gli inglesi hanno il genio del bluff, conviene riconoscerlo, dell’idealismo che ammanta il più gretto egoismo, la sola loro forza! Sono generosi perchè òffrono sempre un uovo tutte le volte che vogliono una gallina. Non potendo avere neo-zelandesi bastevoli, hanno assoldato l’Italia. Se l’Italia si manteneva fedele all’alleanza, a quest’ora la guerra era finita con una strepitosa vittoria.
— Fare i tirapiedi al boia del Belgio?
— Ingenuità! Un popolo non può èssere ingenuo! Rispetto a noi, noi siamo perfettamente giustificati dalle ragioni sentimentali. Rispetto all’èstero, non potendo essere ingenui, saremo traditori-traditi, e auto-traditi, come l’astuto villano giocato dal più astuto avvocato.
Oggi passiamo per generosi, domani saremo dei traditori anche agli occhi degli inglesi e francesi. Finita la guerra, la Francia sostituirà l’Italia nell’alleanza con la Germania. Fra dieci anni, il Kronprinz entrerà fra un delirio di entusiasmo a Parigi. Le belle donne àmano appoggiarsi ai forti! La Francia allora sarà felice di scagliarci tante ingiurie quante non ne scagliò al tempo di Crispi. Lei vuol dire «crepi l’astròlogo», — concluse, rivolto a me specialmente.
— No lei, ma l’astrologia! — risposi. — Così che per lei la vittòria della Germania è cosa assoluta, non soltanto con le armi, ma con la filosofia.
— Certamente! Un popolo che ha affermato che il diritto, per sè, non è che pàllido pensiero, che ogni altezza raggiunta nel pensiero, nella morale, nell’arte, è vana, se manca la forza per difendere queste conquiste ideali, è un popolo che colloca la stòria del mondo su nuove fondamenta. È una enorme rivoluzione! È l’individualità di una grande stirpe che si sostituisce alle piccole irrequiete nazioni.
— Non crede lei che la quadruplice Intesa si manterrà intatta contro il germanesimo? Non è questa l’alleanza delle nazioni contro il germanesimo?
— Cosa puerile! Il giuramento di Pontida! La guerra avrà per risultato di scancellare le nazioni. Che illusione quella dei patrioti italiani di aver voluta la guerra contro la Germania per rèndere la patria forte! L’Italia di sua natura è dèbole, e dovrà sempre appoggiarsi ad un forte!
— E i morti lassù?
— Molècole che hanno compiuto la loro funzione.
— Anche Renato Serra?
— Anche. L’individuo è nulla.
— Ed io?
— Uno tagliato fuori dalla concezione realistica della vita.
***
21 Agosto, 1915.
Bellaria.
Le mura di Gèrico delle fortezze russe, Kowno, Nowo-Georgiewsk, oggi; domani Brest-Litowsk, cadute al suono delle trombe teutoniche da 420 mm., suonate dal Lohengrin argenteo.
Bethman-Hollweg al Reichstag forse largirà all’Europa, responsabile della guerra, un qualche campo di concentramento nel sud-africa. Quei generali ai sott’ordini del buon papà Hindemburg hanno nomi di impassibili deità indiane: Bellow, Eichorn, Mackensen.
Il mito del vecchio dio Jehova, che va amichevolmente deambulando la terra con Satana, è ancora il giovanissimo mito. Ma Giobbe, piagato, sta al di sopra di Satana e di Jehova.
***
Ricevo questa lettera dalla piccola signorina Giuseppina F... Io non ho mai visto quanto sia pìccola, ma poche volte una donna mi inspirò tanto senso di grazia. «È bella? è brutta?» chiesi quel giorno alla donna di servìzio. Venne tre volte da me, a Milano, quest’inverno, e non mi trovò.
«È tutta piena di bèstie (certo le pelliccerie), è pallida, piccolina ed ha lasciato un profumo... Sente?» rispose la donna, ed altre indicazioni non mi seppe dare.
In quella sua lettera dice:
Certo, io sono latina, io sono italiana, appassionatamente; la màrcia teutònica su Parigi fu per me, l’agosto scorso, un incubo pauroso, ma mi arresto perplessa dinanzi all’anima tedesca, che non si può pensare tutta in mala fede quando s’erge con gigantesca superbia a proclamare di battersi per i più alti ideali... Ahimè! che guazzabuglio di illusione e d’ipocrisia, di verità e d’errore, è l’uomo!
Cara signorina! Ella fa bene a separare la sua ànima dall’uomo, ad accusare l’uomo: l’uomo è una bestia. Proviamo il reggimento delle donne!
***
22 Agosto, domenica del 1915. Bellaria.
Stamane, alle quattro, tuoni e scariche elèttriche molto vicine. Credevo fosse il cannone. L’Italia dichiara guerra alla Turchia. Domani avremo la dichiarazione di guerra della Germania! E poi? Proprio oggi che è confermata la notizia di 85 mila prigionieri russi e 700 cannoni a Nowo-Georgiewsk! Inesplicàbile disastro. Ci deve essere ben altro in Russia che la superiorità militare tedesca! Il transatlàntico inglese «Arabic» affondato, ed alcuni cives nord-americani mandati ai pesci. I giornali ci imbandiscono ancora il piatto riscaldato della «situazione enormemente tesa». La decisione di Wilson!
***
Marino Moretti vestito da soldato! La sua buona mamma, suor Filomena, la sua dolce sorella, piangenti, ieri, a Cesenàtico!
***
1 Settembre, 1915, Bellaria.
Il Kaiser scrive al Senusso, e comìncia così: Lode all’altissimo Iddio, Guglielmo imperatore, figlio di Carlomagno, inviato da Allah a protettore dell’Islam, all’illustrissimo capo dei Senussi.
Leggo l’editto di Ròtari, re longobardo. Pare ricalcato su la lettera del Kaiser. I socialisti, per far fiorire le loro ideologie, non tèngono conto della disuguaglianza delle razze umane. Forza invincìbile!
***
Nella cucina rùstica, la vècchia massaia grinzuta come una strega, stritola sul tagliere alcunchè di nero. È fava bruciata.
— Per che fare?
— Per la scrofa.
— Per la scrofa?
— La ’n vo andè.
— Non vuole andare? È un purgante la fava?
La malizia sorride dalle vive vecchie pupille: — Non capisce?
— Ah, ho capito. La scrofa non vuole, e voi la eccitate con codesto ad andare in calore.
— Bravo!
Guarda un po’! Pòrtano via la virtù anche alle scrofe, e poi le chiamano troie!
Noi siamo terribili tedeschi contro i pòveri animali!
***
A Forlì, sul muro della caserma, i soldati hanno disegnato una fortezza con certe merlature: Gorizia. Sui merli, un mùcchio di fieno; sopra il fieno, un cavallo di legno. Di fronte, le trincee italiane, e sul tricolore hanno scritto: «Quando questo cavallo il fieno mangerà, la fortezza si prenderà».
Gli ufficiali hanno fatto scancellare.
***
3 Settembre 1915.
Benito Mussolini, soldato, anzi bersagliere! Me ne parlava con tanta finezza Renato nel giugno del ’14, quando Benito era tyrannos di Milano! Accomiatàndosi dal suo «Popolo d’Italia», scrive:
Forse spunterà all’orizzonte, dopo questo sanguinoso e necessario urto di popoli, l’«uomo europeo».... e sarà tìtolo di legìttimo orgòglio l’aver partecipato a questa fecondazione. Questione di fede: v’è chi si domanda piuttosto: «quale società verrà fuori dopo questa fecondazione della guerra?».
Non conosco Mussolini, non so, non giùdico; ma il caso «Benito Mussolini» è l’ùltimo ed il più interessante della serie dei socialisti su cui è caduta la scomunica, se si vuole usare un linguaggio sacerdotale, ovvero a cui furono strappate le stellette, se si vuole usare un linguaggio militare.
Il prof. Benito Mussolini ha senza dubbio, al suo attivo, molte benemerenze verso il partito. Ma egli, oggi, dice Guerra, mentre il partito dice Pace, mentre le masse dicono, o ripetono, Neutralità assoluta, cioè Pace.
Il Mussolini per quasi tre mesi fu ossequiente alla disciplina del partito, cioè: Neutralità assoluta! La guerra borghese per i grandi interessi economici del mondo; la guerra per il predominio di una nazione o di una civiltà storica non deve toccare il proletariato che aspira alla sua civiltà nuova e lotta per la sua guerra nuova. Il proletariato non ha patria! L’Italia poi, supremo rifugio dell’Internazionale, deve rimanersi neutrale.
Per quale ragioni il prof. Benito Mussolini è diventato apostata? Probabilmente perchè era rivoluzionario, e anche italiano2: aristocrazia di plebe, forza antica di plebe itàlica, che è altra cosa che la parola massa.
Esiste in Italia un’anima rivoluzionaria? Ma effettivamente c’era un rivoluzionario ben temprato, ben audace, ben equilibrato, direi severamente composto. Si chiamava, Benito Mussolini, ed aveva per centro di diffusione della sua voce, Milano.
La borghesia dei benpensanti e del quieto vivere credeva generalmente, sino a quel giugno, (1914), che il socialismo fosse una di quelle malattie sociali a così lungo decorso che praticamente sfuggono ai calcoli. Non so, una tubercolosi addomesticata, incapsulata.
Si conservavano ancora certi vecchi tèrmini di programma màssimo; ma più per onore di firma che per profondo convincimento.
Benito Mussolini venne e passò alla tisi galoppante. Benito Mussolini emanò dall’Avanti! notevoli parole, in vecchio stile da rivoluzione francese, assai in uso tuttavia in Romagna; ma essendo dette sul serio, fècero una certa impressione: Questa, signori borghesi, è lotta di classe, la quale è spiacevole, ma la guerra non si fa coi guanti. La teppa non è spregevole, io non la ripudio, come la rivoluzione di Francia non ripudiò i Sanculotti. Possono avvenire fatti spiacevoli. Ma la storia li sancisce poi con ampi «bill» di indennità. Socialismo è guerra; non pacifismo.
***
A Milano Benito Mussolini venne denominato Federico Barbarossa.
Si diceva:
«E chi l’ha chiamato questo meteco, che viene a portare lo scombùglio a Milano, città di commercio e di lavoro?». Probabilmente i compagni gli avranno chiesto: «Sei rivoluzionario sul serio? In tale caso sei ingènuo.»
L’uomo doveva èssere sincero. Dopo essere stato scomunicato ieraticamente, ha detto:
«Io soffocavo entro la camicia di Nesso. Per vivere ho dovuto strappàrmela.»
Egli, contro i suoi già compagni, ha adoperato quest’argomento: «Ma che rivoluzione volete voi fare, voi che vi rifiutate di camminar con la storia, che vi ostinate a vedere nel conflitto del mondo solo un conflitto econòmico, non il conflitto fra l’idea liberale, che coalizza il mondo, ed un prestabilito stòrico di immane tirànnide, illuminata da tutte le lampade della scienza, ma medioevale, che è la Germania? Quale rivoluzione volete voi fare? La «settimana rossa?»
Per gli operai, infatti, la settimana rossa è una glòria, come per i greci di Pericle la battaglia di Maratona.
Chi sono questi neutri rossi? Io credo che essi siano gli eredi stòrici dei sanfedisti del Trentuno e del Quarantotto.
La loro gretta ed ostinata neutralità forse ebbe una funzione: esasperare il sentimento di onore nazionale sino alla guerra. Un partito socialista italiano avrebbe forse dato altro corso agli avvenimenti.
Mussolini sente che l’Italia non può essere ritemprata che rivoluzionariamente. «Questa guerra è una rivoluzione». E poi?
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5 Settembre, 1915.
Noi ci troviamo di fronte ad un fenòmeno che ha il tetro aspetto dell’inesoràbile. Questo orrendo stermìnio di guerra è un assurdo, come ogni guerra è un assurdo; e Clio, la meretrice, ha un bel dare il belletto alla storia! La verità è questa: noi, individui, della nostra perfezione raggiunta con continuo sforzo, non tramandiamo niente ai figli. Inesoràbile natura! Un minimo neo, la forma di un’unghia, la piega di un dito tramandiamo: moralmente nulla! Così se io trapianto il getto di un frutto gentile, non rinasce quel frutto gentile, rinasce un frutto selvàtico. Se lo vorrò gentile, dovrò ancora innestarlo e curarlo. Inesoràbile natura!
Scrive il giornalista Pettinato (Carlino, 4 IX-15):
Quando i popoli d’Europa si troveranno riuniti, cravatta rossa e cravatta nera, intorno al tappeto colore speranza del primo sinedrio internazionale socialista, invece di perdersi di nuovo in logomachie politiche, faranno bene a dichiarare arditamente in faccia al mondo la necessità del malthusianismo per tutti.
Sembra una pazzia! Eppure! Questo signore scrive quello che io ho sempre pensato: siamo in troppi nel mondo! Ci ammaliamo di nuove misteriose malattie, come avviene delle piante quando sono troppo fitte.
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Bellaria - domenica, 5 Settembre, 1915.
Abbiamo esposto nel negòzio, dalla merciaia, in bella mostra, le calze e le maglie pei soldati. Le donne bellariesi san ben filare e fare ancora la calza! Ho pregato le signore che ornàvano la vetrina, di togliere il nastrino tricolore con cui avevano legato quegli indumenti. Il vècchio colonnello Caletti, sottile e trèmulo ormai come un pioppo, ma che spera sempre, ha dipinto una rocca con la pergamena e il pennèchio, e questi versi ha scritto:
Vecchie, giovani, filate.
Della lana preparate.
Per quei cari che sul fronte
Tra le nevi, in aspro monte,
Stan lottando con coraggio
Fin dal ventiquattro maggio!
Or dovran passar l’inverno
Ove regna il ghiaccio eterno.
Vecchie e giovani filate.
Del filar non vi stancate.
È un lavor che scalda e veste
Chi combatte per Trieste.
Egli ignora la esistenza di Marinetti, l’Attila della tradizione! Ho pregato di sopprimere i due ultimi versi. Quasi lacrimava il vecchio colonnello... Si oppone. Ma io conosco i miei polli! Se vedono il tricolore borghese e sèntono parlare di Trieste, queste donne non filano più. L’importante è filare! Ora stan zitte, ma so quale è il loro umore. Anche ieri sera, con voce cupa mi dissero: «Sono stati i signori ed i preti a volere la guerra. Anche lei...» «Io?» «Sì, anche lei!» Che rispòndere? Sono cinquanta anni che queste popolazioni, non curate dalla borghesia, fanno la polìtica come la serva fa all’amore. La serva pensa col cervello dell’amante, secondo che è il garzone bifolco, il poliziotto, il soldato, il teppista. E poi quanta terrìbile verità in quella convinzione mostruosa che le classi superiori vogliono la guerra per diradare il pòpolo!
— Sunta, — dissi alla fruttivendola — va a vedere l’esposizione delle calze. Ce n’è anche per tuo marito. Il concino ha conciato la lana, la filerai tu.
— Non voglio filare niente, mi màndino a casa e mi Ernest.
Glielo hanno «portato via» una settimana fa; e racconta alle donne, che stamane lui è tornato per un dì, chè non se lo aspettava, vestito da soldato. La povera Sunta che era così bella tanti anni fa quando filava lungo la riva del mare, o danzava sotto la luna! Pareva allora una statua ellènica! E la notte, la notte dove ella si nascondeva? Invano i suoi la cercavano, quella matta!
Dunque ella racconta:
— È tornato stanotte, il mio Ernesto, per quella pioggia. Tutta stanotte non ho chiuso occhio, non potevo dormire. Ma cosa ho, mi dicevo, che stanotte non posso dormire? Eppure non ho le pulci! E accendo il lume e guardo nel letto, e non ci sono le pulci. E non posso dormire! Mi sono cambiata la camicia per vedere se c’erano le pulci, e non c’erano! Ma cosa è? E anche il bambino era con gli occhi aperti. Ma cosa ha ste’ babein purein, che non può dormire neanche lui? E volta di qua e volta di là, quando sento bussare. Dico: sono i volontari che si dànno il càmbio e vengono a domandare la frutta. Se anche ne ho, dico che non l’ho. E sento: — Sunta, vieni ad aprire — Ti se te, Ernest — Son me! — Era venuto a piedi da Gambèttola; l’era bagnato come un pulcino.
Le dico piano, ricordando cose pretèrite: — Se ti avesse trovato in compagnia?
Mi assicura solennemente che adesso il «mondo è morto!».
Le ricordo, allora, la età pretèrita, quando il mondo era per lei vivo.
Confessa! — Ma sempre per simpatia!
In fondo, fra i due mètodi femminili, concedersi prima o dopo il matrimonio, mi pare preferìbile quello della Sunta. Ma allora i romanzi per adultèrio come si potrebbero scrivere?
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Forlì, 7 settembre 1915.
Vado a trovare il dottor Grigioni, soldato a Brisighella. È una questione stùpida quella che gli faccio a cena: — Dunque, ad un ferito alla testa, quando il mèdico tolse il pezzo della scàtola cranica, ecco che il cervello per l’apertura fece èrnia! Bene, ma non è assurdo che il cervello, che è lui il giudizio, compia lui un’azione senza giudizio? Dove àbita allora il giudizio? cioè la coscienza, la autocoscienza di filosofi, lo spirito, insomma!
Il dottor Grigioni ha studiato molto, ma non sa rispondere.
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18 settembre, 1915.
Si legge nei giornali una dichiarazione del Cancelliere Germanico.
Tutti i tedeschi la ripètono, e la annùnziano al mondo: «Noi — dìcono — abbiamo disimparato il sentimento». Dove ho letto che i tedeschi hanno incredibili ingenuità?
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Bologna, 30 settembre 1915.
Questa città, forse più di ogni altra, presenta animazione di ufficiali. Qui si concèntrano, di qui pàrtono. L’hôtel è pieno. Oggi, ufficiali nuovi, usciti dalla scuola di Modena; ragazzi! Ufficiali e soldati grigi. Spesso, osservando l’ufficiale giòvane che dà la destra all’ufficiale anziano, si scòrgono, certe somiglianze: padre e figlio. Spesso gli ufficiali sono con una signora, ma una signora che non è l’amante. Si assomigliano troppo. È la sorella, o la mamma. Eppure quanta serenità! Si rimane stupiti che ciò avvenga in Italia! E non sono poeti; eppure in tutti è la vertigine verso il supremo olocausto! E non sono poeti! Ah, incomprensìbile uomo!
La Germània, forse anche l’Austria, non ci credèvano capaci di fare la guerra. Quale errore commìsero!
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Il Papa propone una trègua pel 2 novembre.
Questo Papa Benedetto deve essere un burocràtico della religione.
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9 Ottobre, 1915, Milano.
Le cose vòlgono verso l’epìlogo. L’esperanto di Hindemburg sta per avere ragione. La partita su la scacchiera europea mi pare perduta: i pìccoli successi di Francia e di Rùssia sono un nulla. Si è avverato quanto è già qui scritto: le due braccia (Inghilterra, Frància, Italia l’una, Rùssia l’altra) non possono strìngere. Il nervo che opera è troncato, cioè la congiunzione: i Dardanelli, Costantinopoli. Troppo tardi! Viceversa la Germania si è congiunta laggiù nella Balcania. Che cosa misteriosa succede in Italia? Ha patti occulti con la Germania? Il nostro prèside sèguita, col suo sòlito sorriso, a fare gli scrutini degli esami di riparazione. Che felice uomo questo prèside di regio istituto tècnico!
Le nostre democrazie non hanno dato nè un sommo guerriero, nè un grande polìtico. Lì, in Germania, invece, una aristocrazia che sa, che vuole, che comanda; un popolo che ubbidisce. Il Dio ignoto delle guerre ha fatto il resto. Ha suscitato dalla solitudine un uomo privato: Hindemburg. E questo vecchio, ignoto sino a quel dì, che passa ad abbattere la Russia con sillana energia, passerà nelle leggende.
La Russia ha dichiarato guerra alla Bulgaria: lo Czar, il padre liberatore della Bulgaria, ha scritto una bella lettera al figlio ingrato. Il figlio bùlgaro risponde: «Il tradimento è il primo atto di indipendenza!» D’altronde lo Czar non si può muòvere, si limita a scrìvere: ha la spina dorsale ammalata. È molto ammalato! Guarirà? Chi lo sa?
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29 Ottobre, 1915, Milano.
È morto sul Carso, soldato d’Italia, il giòvane sindacalista rivoluzionàrio, Filippo Corridoni. Soldato d’Italia o della rivoluzione?
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È cosa mortificante andare a letto, la sera, con le coperte di lana, i lenzuoli di bucato, il cuscino, il letto anche. Svegliarsi nel letto! I nostri soldati, lassù! E v’è chi spècula su la lana e su la bavella della seta!
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«Consumo di munizioni e di uòmini»: questa frase ricorre nei giornali: uòmini e munizioni, munizioni uguale a uòmini!
Noi viviamo come in una malattia in corso. Quando tutti saremo morti, Federico Nietzsche con tìmpani e trombette danzerà sui morti, e il commesso viaggiatore tedesco verrà ad offrire la sua merce ai morti.
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2 Novembre, 1915.
Giorno dei morti.
La futura mossa tedesca sarà l’Egitto. Quando l’Inghilterra si troverà strozzata, allora decreterà la coscrizione. L’Inghilterra mi pare una testolina aguzza che gode al fresco del nord; e con un collo, termosifone, lungo lungo, comunica con la sua pància, che sta al sud, sotto le palme. Se la bùcano e le tàgliano il collo, la testolina è morta. È l’operazione che la Germania sta preparando.
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Il Papa consiglia di pregare. Preghiere! Così nei mali inguaribili, i mèdici mettèvano nelle ricette: mica panis. Preghiamo! Preghiera uguale a mica panis.
La guerra non ha che un tìtolo di benemerenza: Quidquid latet adparebit. Purtroppo il nihil inultum remanebit non avverrà.
Santità, ci crede lei al Giudice che giudicherà vivi e morti sul trono, lassù?
È freddo. Ma ho vergogna di stare dove è caldo. Voi, signora, volete il riscaldamento col carbone. Ad ogni prezzo!
Miss Edith Cawell uccisa.
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14 Novembre, 1915.
La presa di Col di Lana, si sussurra che sia costata 20.000 vite.
— Chi va sul Carso — mi diceva il capitano G... — ha la sentenza di morte in tasca.
È questa la guerra folle?
Nell’economia della guerra europea, quanti tedeschi noi immobilizziamo? Pochi. Per pigliare un monte, quali sacrifici occorrono? Tutta la ufficialità falciata. Chi difenderà domani le porte d’Italia? Non capisco più nulla. Avrei capito all’inizio della guerra il sacrificio del Veneto. Ma dovèvano pur scendere qui! Lassù, poche migliaia di soldati, a loro bastano. È inconcepìbile! Esiste un piano di guerra?
Piroscafo italiano «Ancona» silurato più barbaricamente del «Lusitania». Si assicura che Wilson protesterà. Mi risulta che il nostro Stato maggiore rifiuta di adottare i mezzi barbàrici, contrari alla convenzione di Ginevra o dell’Aia che sia. Si parla intanto di otto milioni di russi, pronti per la primavera.
Salandra è venuto, sabato, 6 novembre, a Milano ad inaugurare la posa della prima pietra della futura città universitària.
L’editore L..., ha spedito carri di libri di testo per le scuole elementari dei paesi... redenti. Ottimi affari!
Treves ha ristampato l’«Esame di coscienza» del povero Renato. Che spaventoso esame di incoscienza, l’Europa!
Titì, di là, canta: «Gira gira tondo, gira gira il mondo.»
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È ritornata la prima domènica della fiera di S. Ambrogio. L’anno è una giostra. Esco: trovo su la porta di casa Alfredo Comandini, presso un banchetto di libri vecchi. Pìccolo, sbarbato, raso, lindo, sempre senza pastrano, àbito chiaro, chiuso con un bottone al collo. Ancora la cappellina romagnola. Parlatore meraviglioso, a quattr’occhi! Tutta la stòria gli formìcola, viva, nella testa; gli sibila nella parola. Sta raccogliendo sui banchetti, opùscoli, pamphlets, con la giòia di un bimbo ghiotto. È un pacco di qualche chilo. Inutile disturbarlo. Dopo parleremo.
Gli domando se sa che cosa è; che cosa vuol dire, l’attacco frontale del Cadorna.
Non giudica. Ma ha una delle sue atroci espressioni: «Noi crediamo di aver afferrato il meccanismo della difesa austrìaca, e invece è l’ingranàggio che ha preso la nostra mano. Un monte dopo l’altro!» Dice anche: «Per l’Italia occorreva un re con gli arnioni saldi di Vittorio Emanuele II, un ministro del gènio come Cavour, una tenàcia come quella di Mazzini, e niente sentimento di Garibaldi! Il sentimento, invece, ha preso la mano al Governo. Noi vogliamo essere spiritualisti, positivisti, pacifisti, imperialisti, costituzionali, guerrieri, socialisti. Troppa roba!». Però è tranquillo perchè l’Italia non perirà.
— Ma i morti, Comandini?
— Nomenclatura!
S’avvia col grosso pacco dei libri.
Il mito di Cristo redentore sta per tramontare, come tramontò il mito degli antichi Iddii?
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Oggi c’è sole.
Le sartine, che àbitano qui giù, mi assicurano che lavorano molto per le signore: tutte le sottane da rifare: larghe usano ora, e di velluto.
Il «Popolo d’Italia» domanda ogni mattina «guerra alla Germania».
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} 16 Novembre 1915.
I giornali di moda portano cartelli così: «Cappelli da lutto». Vergogna!
Il «Corriere» insiste ancora nella morfina: «Esaurimento delle riserve austriache. 30000 materiale-uomini al giorno!»
Il «Corriere» ci ammannisce anche il sòlito corroborante: «La Romania freme!» Ieri ci ammanniva la linea a doppio binario fra Pietroburgo e un porto approdàbile del mare glaciale, tanto per sopperire allo scacco dei Dardanelli.
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Milano, 20 Novembre 1915.
Presa Monastir. Peccato non poter mandare un dispaccio alla regina Draga!
Fornitori, a Ferrara, hanno mescolato centinaia di quintali di spazzature alle farine pei soldati. Difesa del fornitore. Suo stupore! «Ma scusate, chi mangia farina senza polvere? senza marmo? farina di frumento? Dove usa? Appena fra i villani. E i venditori di specìfici digestivi non hanno diritto di vivere?»
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28 Novembre, 1915.
Giornate terse, cristalline, freddìssime. Si pensa a lassù: le Alpi. Venerdì sera il bidello mi ha presentato il biglietto da visita, coll’angolo piegato: «Dottor X...»
Impòssibile il Dottor X... a Milano! L’ultima sua cartolina, del ’22, è dal Podgora. No, il dottor X.... non era a Milano. Il biglietto da vìsita lo aveva portato al bidello l’amica del dottor X...
Costei è venuta da me ieri: è una russa piccina, intelligente, patita, bellina così così, vestita così così. È andata fin là per vederlo. Mi fa lèggere una lettera di lui a lei. Straziante! «Al Podgora è immerso nel fango russo e nella merda. Non è capace di uccidere. Sente il macello. Vuole vivere. Ama la vita».
Ella, la piccola russa, vuol salvare la sua creatura. Se lo potrà salvare, ha fatto voto alla Madonna di lasciarlo.
Io stavo pensando come deve essere cosa piacèvole essere amato da una donna russa.
— Ma non le pare — mi dice — che il dottor X... sia un grande? Ha grandi cose da dire! Una palla pazza non lo deve uccidere!
La signora parla quasi sorridendo, convulsamente: ogni tanto il volto le si inzuppa di pianto, come fosse fatto di spugna. Torna a domandarmi se credo alla grandezza del dottor X... Lei ha tradotto le sue poesie in russo. Curiose sono le donne tanto in Russia quanto da noi. Quando amano, tutti i loro amanti sono grandi, immortali. Povera signora russa! Insomma ella è venuta da me perchè io le dia una commendatizia per qualche potente personaggio che stia presso il Comando, affinchè il suo amico sia salvo. In Russia, ella mi assicura, tutti gli uòmini di grande cuore e di ingegno sono preservati dal pericolo della guerra. La guerra è fatta dai mugic!
— Bel paese la Russia! Da noi avviene il contrario, signora! Sono gli italiani di cuore e di ingegno che vanno a farsi ammazzare per l’Italia. Mi dispiace: non conosco potenti personaggi presse il Comando; nè a Roma, nè altrove.
È stupita!
Càmbio discorso.
— Ma cosa fate voialtri russi?
Mi risponde: — Noi siamo tolstoiani. Che cosa è la guerra rispetto a un cielo stellato?
— Allora seguitiamo pure a prènderle!
Mi offre un biglietto pel concerto al Cova. Ella è pianista.
— Gràzie.
— Non le piace la mùsica?
— No!
— Ma non è italiano lei?
— Certamente, ma non amo la mùsica
***
Edelweis. Dal pasticciere.
— Vuol un dolce buono, squisito, ma ch’el parla no, chel se fida de mi.
Una torta, cospersa di cioccolatta, color pàllido, su carta ricamata, con un fiorellino bianco nel mezzo; e, in cioccolatta più scura, scritto Edelweis.
I miei occhi vanno dal fiore candido alle grosse mani un po’ sùdicie del pasticciere. Vorrei protestare, ma temo che mi dica: «Mani di onesto lavoratore».
Però una pìccola protesta me la permetto: — Come? Edelweis in tedesco? Stella alpina, si dice!
— Già! Ma l’è minga facil accontentaj tucc!
E pareva dire: «oltre alla diminuzione del commercio, ’sto ciall tira fuori anche la lingua toscana».
Edelweis! mi vèngono in mente i versi in vernàcolo di un màcero poeta, giovane, barbuto, biondo, repubblicano, morto:
- Edelweis!
Quand’l’è fresch, l’è come se ’l fudess pass,
Quand’ l’è pass l’è ammò brutt come s’vess fresch’
L’è stada ona trovada
De dagh on nomm todesch.
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Strano, come muoiono i poeti!
Povero Giulio Silva, come sarà ora la tua gran barba bionda!
***
Alla sera, a pranzo, come il sòlito la domenica, è venuta, quella buona figliuola di Lia, telefonista. Da un anno che è a Milano, la cosa che ella ha più ammirato sono le: «shoes».
Ella si mantiene sempre provinciale; ma potere andare sul Corso dal signor... Shoe a comperare per i suoi piedi un paio di scarpe coturnate da quaranta lire, è l’ideale. Ne ha sessanta di paga.
Sento dalla stanza vicina che racconta con entusiasmo la visita di gran parata, fatta dalla duchessa Y... alle ragazze dei telèfoni, che lavorano per la croce rossa.
«Quassù in testa aveva quattro o cinque uccelli: un nido! Una borsa d’oro, che si sentiva tac-tac! Un notes, tutto d’oro, con la corona tempestata di brillanti! C’era pronto, dalle due, l’ascensore; ma ha sbagliato. Ha fatto le scale a piedi. Aveva le scarpe alte con le ghette di color cènere: le sottane corte. Pareva una ballerina. Grande come il cavaliere nostro direttore, che è un gigante! Urlava che sembrava in piazza. Si meriterebbe di farle il rapporto, mòdulo 300. Intanto io ho visto la duchessa!»
***
Ho chiamato allora di qua quella stupìdella.
— Era bella la duchessa?
— Era tutta dipinta, e non si poteva capire, con la veletta, se era bella. Aveva due occhioni azzurri, con due calamari, capelli biondi. Però si sente la nobiltà.
— Da che cosa capisci?
È confusa. — Sarà perchè ha quel nome... E poi per il modo di fare, la padronanza.
— Che cosa vi ha detto?
— Ha detto al direttore: «Dica a nome nostro a queste signorine che sono tutte benemerite.»
— E voi, fra voi, che cosa avete detto?
— Che a vederla per le strade, sembrerebbe una cocotte. Però anche noi abbiamo vestiti fatti così.
***
2 Dicembre, 1915.
Sonnino annuncia al Parlamento l’adesione al patto di Londra. Sera. Viàggio a Bologna con Piero: treno pieno di soldati feriti. Ammiràbili, veramente! E quanto buon senso! «Se fosse una guerra leale — dicono — noi vinceremmo. Non si deve dar quartiere, non crèdere, non fidarsi, non pietà a chi alza la mano per la resa.» «Guerra è guerra», dice un soldato sannita, stupendo, tutto fasciato, spedito tre volte con l’olio santo (una palla anche nello stomaco). Ride sereno coi denti bianchi nel treno scuro. Furbo e buono. Io vedo in lui gli antichi legionari italici, quelli che vinsero Annibale.
***
A S. Orsola. Dove è morto il povero papà. Il sole ride pei lunghi corridoi della clinica, come trent’anni fa. Trent’anni fa accompagnai il babbo: oggi il figlio. Che roba è la vita? Incontro, che si alza dal letto, l’ing. Y... Grigio, per Dio! Ora sta bene: fu colpito da crisi nervosa dopo un assalto sul Carso. Non ferito. Dice anzi di aver acquistato la convinzione di essere invulneràbile. Debilitazione nervosa: occhi smarriti, ma, quanto all’aspetto, bene.
— Lassù, o si muore o si ingrassa; — dice.
Sintetizza la terribile anàlisi che già udii da altri. Valore e resistenza del soldato italiano tali, che noi non sospettiamo nemmeno. Manchevolezza, anche di presenza, negli alti comandi (per quello che lui sa). Reggimenti mandati alla morte contro posizioni imprendibili; trincee, anche prese, ma che non si possono conservare. Crìtica l’attacco frontale di Cadorna. «Ma non lo dica. Non si può dire. Bellissime le sue circolari, cioè teoria: la perfetta guerra, il perfetto soldato, la perfetta azione è così e così. Ma la res, il fatto che modifica e abbatte tutte le teorie?»
Ripete spesso sorridendo una frase macabra: «Immersi sino alla cintola in una crema umana!» Con amarezza tragica dice: «Al fronte! L’on. A... l’on. B... Sono al fronte!» Sorride. «Voi leggete i giornali. Sono al fronte! Sono...» Pare impazzito. Si domanda se è venuto dall’altro mondo. Ha avuto quindici giorni di letargo. Stupisce guardando le rose che la mamma gli ha portato. Non può vedere, non può leggere i giornali.
***
Povero ing. X....! È preso dalla fissazione di non essere più che un nùmero. Non può più vedere il N. 44, appeso al suo letto dell’ospedale. La sua buona mamma gli scrive una lunga lettera dove lo persuade che lui non è un numero.
Mi guarda: «Che ne dice lei?»
Io volevo dire: «Sua mamma ha ragione».
Ma poi, non so come, dico: — Sì, noi non siamo che numeri.
Con lui sono altri soldati catalettici, ammutoliti, istupiditi dal terrore!
Nell’attesa del professor Silvagni, leggo una rivista mèdica: la carta stampata porta queste scientifiche parole: «Opoterapia: cura assai antica, ecc. ecc. Nei tempi primi l’uomo non si accontentava di soggiogare il nemico vinto, lo uccideva e lo divorava. Il sangue umano era considerato come alimento di primo òrdine, e altresì come agente dotato di misteriosa possanza. Il cuore, il fègato, ancora caldo, godèvano sopratutto la fama di dare forza e coraggio, e trasfòndere al vincitore le qualità del vinto...»
La rivista porta una data anteriore alla guerra.
«Dottor Silvagni, io ho la persuasione che noi siamo assai peggiori dei pòveri selvaggi!» Ma non posso parlare così al dottor Silvagni. Egli mi guarderebbe come caso clinico.
***
Nos loquimur, noi parliamo. Parla Sir Grey, parla Barzilai, parla Gallieni, Dicono: la sconfitta dei tedeschi è certa! Conferenza militare a Calais. Ci va anche il nostro generale Porro. Essi, i tedeschi, non parlano: taciturni! Dove andranno? Nessuno lo sa. Andranno. Noi corriamo dietro. Probabilmente andranno in Egitto. Taciturni! Ogni tanto un blocco sgrètola, precipita, stritola.
***
Milano. Sera.
Rincasando, in piazza San Fedele, sento alcuni fiaccherai che parlano sommessamente fra loro. Colgo questa frase: Semm in tropp! Pàrlano della guerra: «siamo in troppi nel mondo».
L’Europa è un ventre gònfio di generazioni.
La nebbia pare strìdere sopra la statua di Alessandro Manzoni. Sorride e mèdita don Alessandro! Manca l’amore nei Promessi Sposi. «Di amore ce n’è anche troppo nel mondo per la conservazione della nostra riverita specie». Forse, quando egli disse così, pensava ai suoi molti e sciagurati figli. «
***
11 Dicembre.
Il mio caro amico Wilson prende moglie. La luna di miele avverrà il dieci del corrente mese. Oh, caro Wilson! O Hymen, Hymenaeus!
***
22 Dicembre.
Alla trattoria. Un giovanotto milanese — pare persona rotta alla vita ed alle faccende — è arrivato ora di Germania. V’era al principio della guerra, ed ha viva l’impressione del treno blindato e le rivoltelle puntate alla prima stazione del Lussemburgo: «Noi dobbiamo passare».
Ora racconta cose orrende. È stanco dal viaggio; ma ogni tanto si leva dal suo tavolo, viene a noi e parla. Parla molto male, ma calmo.
Dei soldati tedeschi del primo periodo, nessuno c’è più. Tre milioni di scomparsi! Es macht nichts. Guai a chi parla. Di otto suoi compagni tedeschi, compagni di foot ball a Carlsruhe, uno solo rimane, gravemente ferito.
La sua padrona di casa ha perduto il marito: Es macht nichts. Una madre ha perduto cinque figli: Es macht nichts.
Un mio collega, uomo cinquantenne, devoto a Dio, a sè, alla pace, agli ossi buchi, ode: sospende la ricerca del midollo nell’osso buco, inarca le ciglie.
Il giovane continua:
... gli hôtels immensi di Baden-Baden, trasformati in ospedali: umanità recisa, mutilata, accorciata, bendata da per tutto: Es macht nichts! Gran pòpolo! Si può lasciare su la strada la propria bicicletta e se ve la rubano, state certi che non è un tedesco.
Il mio collega ride piacevolmente.
Gran pòpolo! Ma se vince non si salva più nessuno! Le atrocità commesse, nessuno le racconterà. Malines così (un gesto, rasa al suolo) come Messina; peggio! Le fucilazioni, le vendette contro gli italiani nel Belgio, smentite nei giornali, vere!
I ticinesi cantano:
Talian han ciulà! So ist. «Così è» dicono i tedeschi. «Appena potremo, lascieremo tutto, Russia, Francia, Inghilterra, per venire contro di voi. Guai, guai agli italiani che sono in Germania!».
Il mio collega rimane con l’osso buco sospeso.
***
29 Gennaio, 1916.
Penco, soldato in Savoia cavalleria, figlio di un colonnello, veniva qui, a casa mia, come compagno, un po’ melenso in verità, di quell’altro povero figliuolo di Meloni, quello che voleva essere ùssero della morte.
Ambedue con gran spadone, cappottone, speroni, elmo dorato a drago. Pareva quel Penco una signorina, sì biondo, sì delicato egli era. L’han fatto ufficiale, li hanno fatti ufficiali. Come? Perchè?
Mi pare sia una settimana fa che Penco bussò alla nostra porta. Era ora di pranzo: lui era avvilito dell’audàcia di venire in casa a quell’ora; ma partiva domani per il fronte. L’ho fatto entrare. Lo Vedo ancora lì, tìmido, accanto alla tavola.
Stasera Meloni è venuto. Dice che Penco è già morto.
Ma se è venuto qui ieri!
— No, ieri, professore, una settimana fa.
— Ebbene sia pure una settimana fa. Ma come, appena arrivato è già morto?
«È orribile; è la morte certa sul Sabotino! Chi c’è stato una volta non torna più all’assalto».
Così volevo dire ma mi trattenni. Meloni mi guardava con due occhi stùpidi come i conigli.
Anche Meloni, infermiccio, ignorantello, come è, l’hanno promosso ufficiale, lo hanno fatto partire per Aquileja, senza nemmeno rivedere la madre. La povera signora diceva che sarebbe stata felice di lavorare dall’alba alla sera: lavorare come una negra, ma andare a letto all’ave-maria senza quella spada del suo figliuolo nel cuore.
Su questa mia tavola questi ragazzi hanno mangiato minestra, risotto, dolci. Sono partiti nel buio come fantasmi, quelli morti, quelli vivi.
***
12 Gennaio, 1916.
Davanti alla caserma di Sant’Ambrogio. Parlo col tenente di picchetto. Ecco, pàssano, nuovo-vestite, le reclute del ’96.
— Saranno mandate al fronte per la fine di marzo?
— Ah, no, — risponde — è tutta «roba» che deve essere pronta per la fine di febbraio.
Burro: 0,40 all’ettogramma. Pane: 0,65 al chilogramma. Prezzi rincarati.
***
15 Gennaio, 1916 - Milano.
Ieri sera ero già a letto, e quella stùpida della donna di servizio mi dice: — Oggi è venuto quel giovane che veniva sempre.
— Chi?
— Il signor Gino. Gli ho detto che torni domattina.
Gino era venuto alle cinque del pomeriggio, e lei me lo diceva ora alle nove, che ero a letto! Sarei andato io da lui. Quest’estate, da quando ci lasciammo, gli ho scritto più volte a Modena, a Milano, pel tràmite di suo padre: nulla! Suo padre, questo dicembre, è venuto apposta da me. Un uomo di tanta autorità nella legge venire da me! Io sento di avergli fatto l’impressione di persona dappoco, e mi dispiace. Ma non potevo mica dirgli: «Scusi, signore, la presenza di un alto rappresentante della legge mi produce uno sconvolgimento. Appunto perchè sono un galantuomo, ho paura della legge!» Venne apposta per assicurarmi che suo figliuolo si ricordava sempre con affetto di me ecc. Ma alla mia domanda: «Perchè non si è fatto mai vivo», non rispose che evasivamente: «Così! Sa, è un ragazzo fatto così. Non scrive.»
Io non ho insistito. Bene, bene per un giòvane non scrìvere! Ma almeno una cartolina illustrata.
Supposi tuttavia che vi dovesse essere qualcosa che il babbo non sapeva.
Stamane, alle dieci, è venuto Gino. L’ho visto in piedi, nel sole, in mezzo alla stanza da pranzo, in quel sole cristallino e senza calore, che c’è spesso a Milano in gennaio, ed è più melancònico della nèbbia.
Stette un po’ come lagrimosamente a guardarmi. Ma aveva una cera assai flòrida, più dello scorso maggio quando ritornò di Spagna. Pareva uno che viene dalla bagnatura, l’estate.
Veniva in breve licenza dal fronte, dal «vero fronte» sottolinea, dove è rimasto per mesi: ha tagliato reticolati, posato tubi di gelatina, vissuto nelle prime trincee, preso parte a fazioni, con molti morti.
— Sì, caro professore, — diceva con tutta tranquillità — con molti morti.
— Dove si trova lei?
— Oh, in una zona relativamente tranquilla, ideale rispetto all’Isonzo: sopra Cortina d’Ampezzo, nel Cadore.
— Ma non era lei alla scuola di Modena?
— Infatti ero alla scuola di Modena: ma non mi sentivo di comandare, di far l’ufficiale. Dopo la morte di Serra — dice con voce piana e strana come se avesse aperto a me il sipàrio della sua coscienza — ho chiesto di essere mandato al fronte come soldato. Ora sono caporale.
Sono andato di là nello studio: gli ho fatto vedere una lettera della madre di Serra, ricevuta ieri l’altro, dove ella riporta queste parole sottolineate, scritte a lei da un giovane ammiratore di Serra:... mi scrive che andrà al fronte a vendicare Renato.
Gino legge; crollò la testa, e disse semplicemente:
— Era un predestinato!
— E la sua famiglia? suo babbo? sua mamma?...
Questa parola religiosa «predestinato» egli ripetè poi con insistenza molte volte.
— In questa guerra — mi rispose — i miei non hanno sofferto niente, e questa è la mia gioia maggiore. È un romanzo che mantengo vivo col babbo e con la mamma, e lo condurrò sino alla fine. Vivo un romanzo! Essi sanno che io sono soldato; ma crèdono fermamente che io sia al sicuro da ogni perìcolo in una città di rifornimento del Veneto. Con mia madre mantengo l’illusione domandàndole, nelle lettere, quali sono le nuove pubblicazioni, e interessandomi della moda. Ier l’altro, quando ritornai in Italia, con l’ànsia che avevo di andare a casa, mi sono prima fermato ad un albergo a ripulirmi un po’, a liberarmi dai pidocchi; una delle maggiori sofferenze. Altrimenti mia madre se ne sarebbe accorta.
Povera mamma!
E questa fu la sua unica espressione commossa. Aggiunse anche:
— Mio padre è così tranquillo anche lui! A casa, fàccio il bambino da due giorni. Mi stupisco, a volte, che non sospettino di niente. Non credo a Dio, ma mi pare di scorgere la mano di Dio davanti agli occhi di mio padre affinchè non veda.
— Perchè porta quel campione di barbetta, e corti i capelli?
— Il campione di barbetta — mi spiega sorridendo (pochi peli sul mento) — sono il segno di autorità come caporale, altrimenti sembrerei un adolescente. I capelli sono anche troppo lunghi, perchè lassù portavo la testa rasa per i pidocchi.
Mentre egli parlava, io pensavo alle tante agiatezze e mondanità a cui egli era abituato, e domandai:
— Come ha fatto a resistere?
— Con la volontà del sacrifìcio. O si muore o si diventa inaccessìbili ai mali: guardi il mio petto! L’anno scorso ero appena di misura. Quando si fanno ore e ore di marcia con lo zaino affardellato sino a tremila metri, per forza bisogna divenir forti.
— Dunque, molti i pidocchi? Anche a tremila metri dal livello degli uomini, molti i pidocchi?
Gino diceva che il suo sogno lassù, tra i pidocchi, era il negozio Rimmel in via S. Margherita e che un tubetto di profumo, al solo guardarlo, gli dava una sensazione di cose pulite: violetta, lavanda: un’ebbrezza!
Mi ha chiesto il permesso di fumare mezzo toscano.
— Quello che il Governo dà di buono, sono i toscani; poi zucchero, cognac, e fichi secchi in quantità.
***
Abbiamo così conversato sino a mezzodì, finchè tornò Titì dalla scuola. Allargò le pupille, riconobbe Gino; ma, vedèndolo in àbito civile, non volle crèdere che fosse uno dei soldati per cui la sera, andando a letto, dice: «Signore, proteggete i nostri soldati», e per cui la notte si svèglia nel lettuccio tièpido, e piange pensando che essi sono quelli che ha visto al cinematografo fra la neve. Arrossiva ora di questo pianto.
— Non credi che egli sia uno di quei soldati che stanno nella neve? Guarda le sue guancie: sono bruciate dalla neve.
***
Alle quattro pomeridiane, Gino è venuto a prendermi a scuola. Siamo stati assieme sino alle sette. Poi andammo al Cìrcolo Filològico.
C’era Balsamo.
Balsamo, tutto felice, mi mostra nel Sècolo la diceria del Kaiser morto. Fa il conto su le dita:
— Kaiser morto, Cecco Beppe morto, Costantino tubercolòtico, re Nasone ammazzato. L’ecatombe dei re.
Questi ragazzi pàrlano con volubilità di tutti i re morti o morituri. Ragazzi! Voi dimenticate la fàvola di Fedro: ranae regem petentes, dove Giove dice alle rane: «Voi che non avete voluto sopportare il re mediocre, sopportate la bìscia che vi màngia tutte».
***
Alcune fra le cose dette da Gino in quel giorno e nei successivi che stemmo assieme, sono memorande e quasi da poeta. Gino non è poeta, ma è vissuto per mesi fra la vita e la morte, perciò poteva sentire come un poeta. Diceva:
— Io so alcune cose che i vivi non sanno, perchè le sanno soltanto i morti; e noi siamo i morti tornati per pochi giorni alla vita.
Ogni tanto intercalava accenni al Cadore; «Luce, selve odorose, neve, monti, orizzonti divini!» E poi il suo cuore! «Sentivo la gioia del cuore che batte. Se si muore, si muore bene!».
I giornali al combattente non interèssano: piuttosto disgustano. Chi legge i comunicati del Cadorna? Guerra sopportata specialmente dall’esercito improvvisato: pìccola borghesia. La mamma disse a Gino: «Adesso, poi, farai i tuoi esami. La laurea, una posizione...» Sì, cara mamma, ma ne riparleremo dopo la guerra! Mi sembrano parole dell’altro mondo quelle di questo mondo. Mi sento di potere vivere con una lira al giorno. Vorrei avere la gamba, il piede mozzo, per èssere lìbero dagli obblighi sociali. La donna che fa impazzire tanti, non è più un problema per me. Ho fatto l’occhio mèdico. Denudo completamente la donna! Elena stessa è pura fisiologia. La necessità della donna? Una necessità fisiologica, che la natura rinnova ogni ventiquattro ore. Gioia è soddisfare questa necessità, più grande gioia dominarla. La donna è natura, ma è fuori dalla virtù!
Di notte attendevo il sole; quando c’era il sole, attendevo le stelle. Non ho mai avuta la sensazione piena dell’immensità e della meraviglia del giorno come lassù.
Fisicamente io ero immondo. Ma nell’anima sentivo certe leggerezze, un senso così vasto della vita! La voluttà dei mistici! Dante mi bagnava l’anima. Ho avuto vere èstasi ripetendo il verso: «l’ora del tempo e la dolce stagione». Sempre questo verso!
Ero meravigliosamente lùcido e sano. Sa che parlavo di Socrate ai soldati, nelle trincee? Dicevo loro: «Non state bene quando dormite?» Oppure: «Là staremo meglio che di qua, perchè non ci saranno pidocchi, non dovremo dar da mangiare ai figli, non pagare l’affitto. Non ci saranno pallòttole. Dunque, o dormiamo o ci sarà qualcosa di mèglio». Come si rasserenavano! In fondo, noi non siamo cristiani. Occorre però non sentire ammirazione per l’umano sapere: essere convinti che non si costruisce niente, nè col libro, nè con la meccànica.
Un equilibrio così perfetto di fronte alla morte era cosa divina. La non soddisfazione eròtica mi dava un senso immenso di forza. E tutto questo perchè abbiamo letto Platone. Io sento una continuazione di me nella morte: lo sento con ottimismo. Eppure non credo nell’anima mia!
No! noi non siamo cristiani! Per quanto io sia certo che vi sia il nulla, morendo non perdo nulla della vita, perchè nella vita non c’è che il nulla. Potrei possedere milioni, che non perdo nulla. Nella vita, qui, è così: l’uomo ha bisogno di sentire una realtà: l’oro, i diamanti, le case, i poderi, gli àbiti. Se no, non vive.
Ma lassù, avendo davanti la morte, è un’altra vita! I morti in campo? Non fanno pietà. Non si sente più la pietà. Si patisce, ma non si soffre, perchè di più non si potrebbe soffrire. Quando, scendendo dalle trincee, ho visto un cuscino bianco, mi ha abbagliato come le poppe di una donna giovane. L’ideale delle trincee: avere una stanza chiusa, anche senza niente. In un àngolo accendo un po’ di stecchi, e scaldo una minestra di lardo. Nella trincea, il soldato (ve ne sono di anziani) pensa al grande letto, e alla moglie che deve aggirarsi nel grande letto. Racconta e ride. Il soldato dice una sola parola: «Disgrazia!». La guerra, disgrazia! Uno è ferito, disgrazia! Uno muore, disgrazia. Basta! I soldati sono mendicanti che vanno elemosinando un po’ di calore. Nelle case campestri presso Cortina d’Ampezzo, sono andato ad assistere al rosario che dicevano per un morto di là, dei loro, sul Col di Lana. Essi, gli ampezzini, dicono i nostri, cioè i soldati dell’Austria, che combàttono contro di noi. Tutti austrìaci, a Cortina: vecchi, donne, bambini! Vecchi usi, vecchie preghiere: anche il pane dei morti. V’è fra quei montanari di Cortina un’armonia antica, che non si può non rispettare. Noi gridiamo: «morte a Cecco Beppo». Lassù vi è un culto quasi religioso per l’imperatore. Il prete è l’assertore di questo culto. Non lo nascòndono. Eppure ci accòlgono bene quando noi andiamo alle loro case. Scaldano il tè, la minestra: un po’ di fuoco. Dicono i vecchi: «Chi sa non facciano così per i nostri di là!»
I franc-tireurs, i cecchin, nelle retrovie, sono quasi tutti ampezzini.
Il treno di soldati per le brevi licenze di questo Natale (le così dette tradotte) si mosse senza un canto di giòia! Chi torna dal fronte, non ha più gli stessi occhi. Non canta più. I soldati che tòrnano ancora lassù dalle licenze, pròvano ribrezzo del paese. Quanta indifferenza! Teatri pieni, caffè, e gli orrìbili cinematografi. Tutti quelli che restano qui (in Italia) non sono degni di venire lassù. Il paese non ha l’ambizione della vittòria! Per molti la guerra frutta enormemente. Così è: gli uomini si divìdono in due schiere: per gli uni, avere venti mila lire di rendita, e per costoro patria, umanità, gloria, sono ombre: per gli altri, divenir santi. Ora chi diventa santo, si interessa ben poco dell’èsito della guerra. Questo può stare a cuore ai professori di storia che dovranno vivere, non a noi che dobbiamo morire. I giornali rappresentano il soldato italiano àvido di glòria e di battaglia. Inesatto! Alcuni sì, come gli alpini. Inesoràbili, abbarbicati coi piedi sulla roccia. Sentono la terra e la guerra. Ma cosa ne è rimasto di questi alpini? Ma il povero soldato, il contadino... Noi facciamo la guerra anche con furore, ma nel tempo stesso aboliamo la guerra. Il nostro soldato non è stato ubriacato dalla guerra. Conserva il senso delle cose sacre ed eterne.
I cecchin colpiscono dietro le spalle. Distùrbano dall’alba: tac-pum-gnau. Come il cadere dell’acqua da un rubinetto mal chiuso. Dove sono? Nelle retrovie, in luoghi inaccessibili. Gli alpini ne hanno abbattuti parecchi senza pietà. Terribile su la neve, di notte, essere di sentinella avanzata! Gli austriaci, su gli sci, piòmbano scivolando, vestiti di bianco (i pagliacci) e uccìdono. Spesso a tradimento, ingannando, simulando di essere soldati italiani. Parlano italiano.
I proiettili dell’artiglieria, nulla! Se ne conosce il suono. I trentacinque si sèntono come stantuffi. C’è tempo da nascondersi. Le mitragliatrici, ecco! La terribile arma: è la Germania. Sembrano motociclette. È la guerra meccànica. Con la paletta, in fùria e calma insieme, il nostro soldato scava, si nasconde la testa. Dopo mezza ora sono tutti nascosti: come topi.
Vinca o perda la Germania, noi non salveremo i nostri Dei.
A un chilometro dalle trincee, la vita riprende: donne fanno il burro, curano le cune, scòpano anche i calcinacci delle granate.
Nelle retrovie tumulto enorme, sul vero fronte si parla piano. Ogni notte si versa (da dove?) su la terra un lavacro d’oblio.
Quale è il piano di guerra? Il trenta per cento di morti! L’ho inteso dire da un generale: occorre per ritirarsi il trenta per cento di pèrdite! Mi è venuto in mente Caligola, che nòmina senatore il suo cavallo. Che cosa ci vuole a fare di un cavallo un grande uomo? Mettètegli dei pennacchi, portàtelo in giro bardato, e il popolo finisce col persuadersi. Di fronte al generale mi sono sentito tìmido e mi sono messo sull’attenti. È così! Uòmini col pennàcchio, uòmini senza! Però quante nòbili figure! Il capitano d’artiglieria Scarampa: «el Scarampa», come dice il pòpolo dei soldati. Magro, lungo, enorme naso come Cirano de Bergerac: è sempre lì assorto all’osservatorio. Lì si apparta, stùdia per individuare il «pezzo» nemico. Ordina le scàriche con un processo nervoso, caratteristico. Il pòpolo dei soldati sorrìde con commozione: «l’è el Scarampa!» e si fanno cuore. Il pezzo nemico è ridotto al silènzio. Dice il popolo dei soldati che se tutti fòssero come lui, si spianerèbbero i monti. Di notte balza dal sacco a pelo, e lo si vede per ore e ore a scrutare. Porta la batteria sino in trincea. I suoi uòmini sono mattòidi. Il suo caporalmaggiore rifiutò di andare in licenza. Corrono di lui risposte leggendarie. Ad un generale che lo rimproverava di troppo spreco di proièttili, rispose: «La famiglia Scarampa li può ricomprare». Ad un altro generale disse: «Io faccio l’ufficiale per màffia, non per interesse». Tira su gli austrìaci come tirerebbe sui francesi. Lui fa la guerra perchè l’ha ordinata il re. Del resto se ne frega. Deve essere uno degli ultimi campioni della nobiltà piemontese. Tiene una riserva di duecento proièttili. Dice: «Cento sono per Cortina, cento per Misurina in caso di ritirata (dove sono ufficiali azzimati, serviti a tàvola negli hôtels)». Ciò piace molto ai nostri soldati. Così è! Il nostro pòpolo adora sempre gli eroi della canzone di gesta, ma sta fra i suoi pidocchi.
Generale Montanari, alto, dritto, nòbile, drappeggiato nel grande mantello, chiama a raccolta i graduati, ributta il mantello, chiede: «Perchè stando sull’attenti dovete seguire con l’occhio il superiore?» Non sanno rispòndere. I più azzàrdano la risposta: «Per rispetto». «No! per franchezza, perchè voi siete uomini come lui. Che dovete fare verso un soldato che si appiatta in una avanzata?» Varie risposte. Dolcemente: «No, ucciderlo!» Generale Montanari, morto!
Capitano Milesi, adorato dai soldati. Pagava i vaglia appena arrivati. Prima dell’avanzata ordina all’attendente, in caso di disgrazia, di distrùggere due ordini di punizione. Muore nell’avanzata. Colonnello Pistoni con gran periglio ne ricupera il cadàvere. (Era una faccia pallente con barba aggrumata di sangue come Cristo). Colonnello Pistoni, pìccolo, nervoso, con le mani nelle tasche del cappotto, ordina il quadrato attorno al cadàvere. Dice ai soldati: «Soldati della 17.ª compagnia, io vi ringràzio anche perchè vedo nei vostri occhi che non vi dimenticherete dei vostri morti. Io bàcio un eroe».
Cade, ciò detto, improvvisamente in ginocchio.
Una fucilazione. Gino vede il quadrato aperto da un lato, i due sciagurati inebetiti. Non vede che le scarpe di loro due, slacciate. Uno dei due sta in silènzio. L’altro urlava di continuo: «Madre, madre, perchè mi hai fatto nascere?» Una scàrica. Dietro-front.
***
Andiamo, nei dì seguenti, in giro per la città. Caffè, teatri, cinematografi, Gambrinus, Trianon, gremiti sino oltre mezzanotte. Gino ha una nostalgia dei tremila metri! Giornali illustrati altèrnano quadri macabri della guerra e quadri delle fini intime toilettes delle signore che si rispèttano.
Una signora mi dice in proposito: «Non faccia il puritano!»
«La signora — mi osserva Gino — ha pienamente ragione». Terribile! Ma la signora mai capirà. Eppure è intelligentissima.
Ci siamo fermati davanti ad un negozio di pasticceria all’angolo della Galleria. Porta la scritta: «tea-room al piano superiore». Su mènsole cristalline pòsano torte gelatinose, sciroppose, rare, strani gâteaux, friandises su pizzi delicati. Dietro i merletti delle vetrine si vede una sala con gli stipiti bianchi delle porte, rincorse da scorniciature dorate.
— Dicono che un caffè costi una lira.
— Non so.
Un’espressione di uomini ciechi, di umanità inguaribilmente cieca!
La nèbbia, venendo ad ondata dalla piazza faceva scenario alle vetrine dei gâteaux.
Gli occhi mi corsero alle enormi scarpe ferrate di due o tre alpini che di lì passàvano. Uomini assorti, patinati dalla tetra guerra! Mi soffermai come nell’attesa che quelle scarpe ferrate descrivessero una paràbola contro la vetrina, i pizzi, le gelatine. Quelle figurine di biscuit su le lastre di cristallo, quella umanità di biscuit dentro la sala dorata mi aspettavo di vederla cadere in frantumi!
Nulla oggi, ma domani chi sa? Gino è sorpreso, sgomento, dell’apparire da ogni parte di donnette, donnone eleganti, col capo incapsulato, sempre più piccolo, più piccolo, più piccolo! Gonne a gìglio, alla zuava, con guarniture di pellicce: poi coturni sguaiati, protervi. Le donne spùntano, come le cìmici, nei luoghi immondi.
Corrono verso tutte le cose che lùccicano: una vetrina, una poesia, una stoffa, il cadàvere di Narciso: «Narcis — dice l’antica novella — fu molto idiota, ma molto bellìssimo. Donne vìdero il bel Narcis affogato, e sì lo adoràrono...».
***
19 Gennaio 1916.
Montenegro: resa a discrezione.
I giornali tedeschi scrìvono esultando: «La caduta del più piccolo!» Avvèrtono: «L’ultimo a cedere, lo mangeranno i cani!»
Quale sorte è riservata alle nostre truppe in Albania?
***
19 Gennaio 1916, Milano.
Ier sera, 18, rècita, di versi patriòttici alla Scala. D’Annunzio! Serata di gala con flora tropicale, ma gèlida. Posti a L. 70.
D’Annunzio lascia Milano in automòbile; lascia in dono i suoi manoscritti in memoria di una «serata d’ardore».
Cettigne, Belgrado, Varsavia, Bruxelles occupati!
Il giornale inglese «Daily News» diffonde queste notìzie:
«Recentemente il pastore Zobel, predicando nella grande chiesa luterana a Lipsia, ha detto: «È con profonda coscienza della nostra missione che ci felicitiamo quando i nostri cannoni schiacciano i figli di Satana; quando i nostri sottomarini inviano in fondo ai mari migliaia di non eletti. Le loro sofferenze ci devono far piacere; le loro grida di disperazione non devono commuovere i cuori dei tedeschi. Non bisogna avere alcuna pietà per gli inglesi, I francesi ed i russi che si sono venduti al diavolo».
Seeby, professore di teologia a Berlino, predicando nella cattedrale ha detto: «Noi non odiamo i nostri nemici; ma riteniamo che è giusto ucciderli e farli soffrire. In tal modo compiamo opera di carità. La Germania ama le altre nazioni e le punisce per il loro bene».
Il pastore Fritz Philippi, di Berlino, ha detto: «La missione divina della Germania è di crocifiggere l’umanità. Il dovere dei soldati tedeschi è dunque di colpite senza mercè; essi devono uccidere, bruciare, distruggere. Ogni mezza misura sarebbe iniqua più di una guerra senza pietà».
È verosimile?
È verosimile! Gli spropositi di valutazione che da quel pòpolo sono perpetrati raggiùngono un così alto grado che Edgardo Poe potrebbe scrìvere un’altra serie di Novelle Straordinàrie. Ovidio potrebbe aggiùngere un capìtolo alle sue Metamorfosi, imaginando il Dio Momo, il quale trasforma l’homo germànicus, professore di psicologia e di ragion pura, in un fanciullo gigantesco, cieco e demente come Sansone. E Torquemada non pensava lo stesso? Straziava i corpi per salvare le ànime. Però francesi e inglesi smettano di innondarci coi loro quintali di carta stampata, illustrata, documentata, su la barbàrie germànica!
Mi pare che fàcciano iniezione di cànfora per tenerci alto il morale.
***
25 Gennaio 1916.
Nebbie gèlide! Si appròssimano i tre giorni della merla. I ministri Barzilai e Barthou hanno parlato al teatro Dal Verme, hanno detto: «L’unità latina è necessària per oggi e per l’avvenire!»
Da Parigi si annùnzia che «una squadra giapponese è in rotta verso Suez per cooperare alla difesa del Canale».
Se i tedeschi riescono sull’istmo di Suez, è per l’Inghilterra come mèttere un làccio al lungo collo di un grosso tacchino.
Dunque arrivano gli uomini gialli!
Noi siamo disposti a concèdere l’Europa agli uomini gialli, pur di uccìdere la Germania!
Dice Esopo che c’era un cavallo che odiava a morte un cervo e, non riuscendo a raggiùngerlo, domandò aiuto ad un’altra bestia che sapeva con le mani lanciare le freccie. Fu così che l’uomo saltò in groppa al cavallo, il quale ebbe la soddisfazione di vedere il cervo morto, ma non potè più scuòtere l’uomo dalla sua groppa.
***
29 Gennaio 1916.
Ieri, verso le due pomeridiane, è venuto Gino al «Filològico», vestito da soldato. Parte stanotte con la tradotta. Siamo rimasti tutto il pomeriggio e la sera insieme.
Siamo andati a sentire come sta Emilio Treves.
Questa notte Emilio Treves non si desterà, come soleva da anni, a mezzo della notte, a leggere i manoscritti dei suoi autori, a corrèggere bozze per vincere la tristezza insonne dell’asma.
Il grande editore sta agonizzando. Questi giovani che pàrtono con la tradotta, prepàrano il nuovo libro, Emilio Treves! Pòvero, caro vècchio!
***
14 Febbraio 1916.
Stamane, ore nove, scolari ai finestroni dell’istituto mi chiàmano: nel cielo terso, invisìbili, quasi libèllule, si vèdono areoplani: ogni tanto pennacchietti bianchi nell’azzurro. Scoppiettii. Miràbile! Lassù sono uòmini che certamente non sòffrono di vertìgine.
Si parla di morti e feriti. M. Harden ha minacciato esterminio all’Europa se non accetta la pax germànica. Dunque i messi di Harden stamane volano sopra Milano?
Se noi fossimo liberi dalla preoccupazione per la nostra pelle, potremmo guardare la guerra come uno spettàcolo di comicità. Le nazioni di Europa sono come comari alla finestra che si baràttano insolenze:
— Guarda che panni sporchi hai tu!
— Più lèrcia di così non si può essere!
— Dio che sbrindoli!
L’Inghilterra però è sempre molto vereconda; mai alza le sottane.
Leggo in un giornale inglese così: «Il tedesco crede che la mancanza di dubbi signìfichi compostezza, magnificenza, calma colossale, razza superiore. Ma poichè ho avuto occasione di notare una calma uniforme e anche più perfetta, non pure nei negri e nei cani, ma nei vermi, negli scarafaggi, nelle barbabiètole, nel mùschio, nel fango e nei pezzi di sasso, sono scèttico circa la opportunità di codesto critèrio per la classificazione graduale di tutte le creature del Signore».
Certo gli inglesi hanno insegnato anche a noi che è una bella cosa fare il bagno ogni mattina, insaponarsi bene, uscire di casa sbarbati e con le scarpe lucide. Gli inglesi sono gli eredi degli antichi romani! Veramente popolo liberale! Cioè chi più liberale della Francia che ha regalato al mondo gli immortali principi della Ragione dell’Ottantanove? E l’Italia, scusate, che è stata madre di civiltà parecchie volte?
***
Non si ha sempre volontà di ridere, ma il giornale più tragico per notizie di guerra contiene sempre certi angoli di rara comicità. Per esempio:
Veglione alla Scala, Messidoro (19 febbraio 1916) e poi un avviso: «Tutti a San Remo!» A San Remo si recano giornalmente, incalzati dalla inesorabilità della guerra, i ricchi forestieri in cerca di pace e vi tròvano le stesse attrazioni che caratterizzano il litorale francese.
***
L’inverno a Monte Carlo. A Monte Carlo la stagione anche quest’anno è meravigliosa e nulla impedisce che gli italiani ci accòrrano come sempre numerosi, per passare qualche giorno fuori delle noiose nebbie cittadine in una atmosfera di luce e di sole, in un clima primaverile e ristoratore. Il Principato di Monaco è uno Stato assolutamente neutrale, e oltre i benefìci del suo meraviglioso clima e del suo «comfort», vi regna la tranquillità più assoluta e vi si trascorre la vita ideale.
E poi? Ah, la descrizione del ballo alla Società del Giardino. Cinquecento toilettes di dame, con una dama dentro ogni toilette, e cinquecento cavalieri! Ballavano, ballavano! Le sale sono magnìfiche e le cene sontuose èrano servite al Trianon.
Prima che le nazioni diventassero tanto liberali da elargire al popolo la istruzione elementare, i gran signori probabilmente facevano vita gaudente come ora, ma avevano il buon gusto di non fame la pubblicità sui giornali.
Guerra e libertà di stampa sarèbbero incompatibili. Per fortuna, i più degli uòmini lèggono e non stanno lì tanto a pensare.
***
18 Febbraio, 1916.
Un deputato tedesco assicura che noi non abbiamo ancora provato il furor teutònicus. Hanno un vago modo di esprimersi questi tedeschi: non riescono mai ad incùtere terrore intero senza un po’ di ridìcolo. Pare dicano: «Del convivio che noi vi prepariamo, non avete ancora gustato il piatto forte!»
Guai se non si accetterà la pace che essi offrono; guai se dovrà avvenire un princìpio di affamamento dalla Germania! Allora assaporeremo il furor teutònicus.
Chi sarà allora salvo in Italia? In Italia non si salveranno che il direttore dell’Avanti! il filosofo Croce, e il Papa.
***
Uno studente del Politècnico aspira ad essere uomo-aquila (aviatore). Mi descrive la sua vita di futuro bombardatore
Dopo aver bombardato, ecco tàvola bianca, champagne, qualche bella donnina che ammira gli uomini-aquila. Tartufi! — Come è andata? Pas mal! Cento feriti. Venti morti. E concludeva: — Non è simpàtico tutto ciò?
***
23 Febbraio, 1916.
Oggi d’improvviso è apparso Pierino. Sta bene: aitante, forte nel cappotto da artigliere. Titì, a vederlo, non ha parlato. Che stupore, che grazia! Pareva una pìccola signorina. Però che impressione ho provato io, quando Piero fece ricucire sotto la giubba grigia il piastrino di riconoscimento... Sua madre non sa a che serve.
***
29 Febbraio, 1916.
Da tre giorni si vive in istato di trepidazione per l’assalto che i tedeschi dànno a Verdun. Uragano di fuoco e di belve umane. Resisteranno gli uomini?
Campolonghi manda al Secolo d’oggi una corrispondenza dalla Francia in cui sono queste savie osservazioni:
Una volta i soldati venivano sul campo di battaglia a squadre. Bandiere. Tamburi. Trombe. Ordini del giorno. Evoluzioni. Marcie forzate. Spari. Poi, quando la battaglia volgeva alla fine, fra una ebbrezza di fumi e di rombi, di grida e di canzoni, la carica alla baionetta.
Oggi le bandiere rimangono nelle retrovie. I tamburi sono buoni per le parate. Le trombe per i concerti del giovedì. I soldati, destinati all’assalto, arrivano sui camions, come i condannati a morte; scendono nelle trincee, senza vedere il campo su cui cadranno, come i condannati vanno incontro alla ghigliottina senza vederla se non quando debbono ficcare la testa nella lunetta; bevono un bicchierino, come i condannati a morte e, a un cenno, balzano fuori e vanno a morire...
Una volta l’assalto chiudeva una battaglia, oggi la inizia; una volta compendiava una battaglia, oggi l’annuncia. Allora, nell’assalto, il soldato portava tutto l’impeto esasperato da ore ed ore di combattimento: adesso deve portarvi tutta la coscienza di un alto dovere e tutta la rassegnazione della bestia che va al macello.
È questo il caso dei tedeschi e quello dei francesi.
E che dire allora dei tempi di Omero, quando prima di scagliare la lància, gli eroi facèvano un lungo discorso, e gli Dei dell’Olimpo stàvano ad ascoltare?
Le condizioni moderne della guerra sembrerèbbero dovere uccìdere la guerra. Ma è che la guerra è fatta dall’uomo, il quale òpera sotto l’azione di leggi di cui egli crede possedere gli istrumenti di manovra, ma nulla possiede fuorchè il suo orgoglio.
La guerra futura non sarà più affidata ai cannoni ed alle mitragliatrici; ma alla chìmica, e sarà essenzialmente silenziosa. Un vero superamento, come dice il mio amico, filosofo hegeliano.
Ma perchè voi — mi dice il mio amico filosofo hegeliano — vi occupate di questi fatti contingenti? Occupàtevi d’arte sub specie aeternitatis.
Caro filòsofo, se in casa ho un ammalato, non posso occuparmi d’arte! Sub spècie aeternitatis? Le cose sotto specie di eternità sono tutte morte!
Vero tuttavia è questo: che questa guerra — la quale a noi pare nuova — non è che un atto del millenario dramma fra germani e franchi.
***
12 Marzo, 1916.
Fino ad oggi la Frància resiste, a Verdun. I Francesi sono pàllidi d’un superbo sorriso.
Dicono che si vede Giovanna D’Arco, cavalcante fantasma: dicono 10.000 morti tedeschi al giorno.
Dicono che i tedeschi vanno all’assalto, in massa, sotto l’azione dell’ètere?
Non siamo tutti noi sotto l’azione dell’ètere?
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12 Marzo 1916, Milano.
Ho rivisto quel sottotenente B***, che, due mesi fa, i facchini caricàrono in uno scompartimento di seconda classe da Bologna a Milano. La mamma e i parenti erano venuti a prènderlo, ma la gente era tanta, che non gli voleva far posto. Era tutto massacrato e la testa fasciata di nero come i condannati a morte. Ma ci doveva essere uno spiràglio in quelle bende, perchè mi riconobbe e scherzò con me, su la scuola, i compiti, Giulio Cesare. Dopo Modena si abbattè, e non parlò più.
Lo rividi e mi disse:
— La bocca è rimasta storta, l’occhio è perduto, non sarò più bello.
Avrà la medaglia al valore. Appena uscito dall’ospedale, vestirà in borghese. Disposto ancora a dare la vita, ma profondamente disilluso. Mi raccontò che, l’altra sera, al Cova, andò a salutare con la sua benda nera, a mezza testa, un suo collega ufficiale di cavalleria, giubba a due petti. Ne ebbe questo saluto irònico:
— Ah, tu sei di quelli che han fatto la guerra?
Già: distinzione tra «fissi» e «fessi». I «fissi», imboscati, gli altri al fronte (fessi).
Aggiunse: — Gli occhi erano due; ora è uno soltanto, e se anche questo non va via, mi accontento. Ma l’illusione della vita è una sola, e io l’ho perduta!
Racconta che il suo soldato gli è morto dissanguato. Le sue ultime parole furono:
«Tenente vigliacco, ho sete.» — Ma che dovevo dargli da bere? Sul Carso non c’è acqua. — Racconta che vi sono figli di milionari, che, per non fare il soldato combattente, mèttono, sotto, la padella, negli ospedali. Vigliacchi!
Ma no, caro ragazzo! È che la guerra è una reazione chimica e disvela gli uomini per quello che naturalmente essi sono.
***
Fine Marzo, 1916.
I tedeschi sgrètolano attorno a Verdun. Cadorna è andato a Londra e Parigi, Briand è venuto a Roma, Asquith è venuto a Roma. Congresso di guerra a Parigi: coordinazione, fronte ùnico. Jusqu’au but! L’«Avanti!» li chiama juscobutisti.
Benedetto Croce consiglia di fare lavori seri di archeologia su i Messapi.
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Milano, 16 Aprile 1916.
È inutile, non si può studiare. Questo rombo dei motori pare sopra i tetti. L’orològio segna le cinque e tre quarti del mattino. Oramai è giorno: possiamo spègnere il lume.
Stanotte alle ore tre la donna di casa mi ha destato:
— Sente?
— Che cosa?
— Cannonate.
— Cioè?
— L’avviso per gli areoplani.
Poco dopo, infatti, rimbombàrono due colpi nella notte. Accesi il lume. Svegliammo la piccola Titì. Per le scale del casamento lo spettàcolo era grottesco. Lumini di candele, processione di vicini, avviati in cantina. Vedo frettolosa discèndere la signorina Maria: passa come uno spettro bianco. Oh, molto spettro! Lei così elegante, slanciata!
Accompagnate le donne in cantina, sono ritornato nello studio, prima perchè sono abituato a fare così ogni mattina, poi perchè non è consentito ad uno che spiega l’Iliade di Omero in iscuola, d’andare in cantina. Ed ecco, dopo un po’, si ripete quel rombo. Disturba veramente. Apro la finestra. Schiarisce. Mattino puro, cilestrino! È aprile. Nel giardino, i tulipani rossèggiano: su le piante è tutto un trillo, tutto un canto d’uccelli: i neri felici merli! Dopo un mese e mezzo di piòggia, ecco la primavera. Ma voi, uccellini che cantate, non sapete proprio niente, niente? Grossi merli dal becco giallo, non avete percezione, filosofia, niente?
Ieri sera mi sono addormentato leggendo «Intention» di Oscar Wilde. Anche lui, l’esteta, non ne sa niente. Sì, era bello, ieri sera Oscar Wilde! Bello come la signorina Maria, quando esce di casa tutta adorna nel paradosso delle sue toilettes di sartina di gusto. Ma stamane Oscar Wilde è come la signorina: un povero magro fantasma bianco.
***
Apriamo i vetri. Ecco un ràggio di sole! Ha superato il tetto di fronte, ferisce la tappezzeria dello stùdio, si dilata.
Dunque voi, uccellini, non sapete niente! In alto, rombano i motori della morte; voi fra le foglie tènere salutate l’aprile che si affaccia dal balcone del cielo.
Ecco il sole. Appare la fisonomia del sole. Fresco, pulito, senza nebbia, sbarbato, beato.
Ecco là, là, un uccello librato, cinèreo, ad una altezza a cui voi non salirete mai, uccellini!
È l’uomo: l’areoplano dell’uomo, cioè la ragione armata. In fondo è ridìcola, anche se scàglia bombe!
Questa divina impassibilità delle cose create quale ammaestramento è essa mai!
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Maggio, 1916.
Ferdinando Melloni, morto d’infezione tetànica in un ospedale per caduta di cavallo. Probabilmente il ferro chirùrgico, che lo operò, era corrotto.
Povero ragazzo! Il suo sogno era morire in una càrica fantàstica di cavalleria, sulla strada di Vienna.
L’ultima volta che fu a colazione da noi, pareva preso come da un presentimento: c’erano molti dolci, ma non ne assaggiò. Povero ragazzo! Nulla mai capì della vita. Un piccolo sogno. E la morte lo portò via.
Dal Cova escono donne dal rictus meretrìcio. Vestimenta patològiche: donne mìnime e donne giunòniche! Strano èssere che ferisce questo idiota che è l’uomo, col brivido sessuale.
Quel giornale di Sicilia, fatto dai preti, che scrive; «la corruzione della donna è la cagione della guerra» ha fatto rìdere molta gente. Che c’è da ridere?
Penso alla madre del giovane morto, Meloni. Egli non amava molto sua madre.
«Che cosa pensa, professore? — ella mi domandava. — Già a me non lo può dire quello che pensa. Chi sa quali cose...»
Ma io pensavo a lei, e anche alla sua salsa di pomidoro. Ella aveva comperato i pomidori, e ne aveva fatto venti fiaschi di salsa fresca.
«Sempre fresca! — diceva — par di mangiare i pomidori freschi. Una bontà!»
I fiaschi tutti puliti su le assi; fuori il bucato, fatto da lei, steso sui fili di ferro che circòndano il giardino, il giardino coi tamarischi, le petùnie, gli astri, i gerani, su cui passàvano brividi di frescura marina, alla sera.
«A letto, a letto, galline!» ella diceva alle sue galline.
Oh, sèdula, o meravigliosa, o tutta linda!
«La cena è pronta. E non viene, quel figliuolo! E io mi metto a frìggere.»
Friggeva la crema e i bignè con le mele.
«E non viene!»
E guardava là verso il mare.
Ah, ecco! L’àbito bianco di lui s’intravvedeva nelle tenebre.
«Quel ragazzo!»
Ora non tornerà più, più. Forse sono ancora intatti i fiaschi con la salsa di pomidoro.
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Mattina, 20 Maggio 1916, Milano.
Si delinea l’avanzata austriaca su di noi. Il Corriere di ieri parlava di bombe su Asiago. Asiago, care memorie! Oggi il Bollettino Cadorna annuncia: «Sgombrammo la posizione di Zugna Torta che tre giorni di intenso e di interrotto bombardamento hanno sconvolta. Nella zona tra Valle Terragnolo e l’alto Astico l’avversario continuò con numerose batterie di ogni calibro il lento bombardamento della nostra linea di resistenza da Monte Maggio a Soglio d’Aspio. Allo scopo di evitare inutili perdite, tale linea fu sgombrata. Le nostre truppe ripiegarono ordinatamente sulle retrostanti posizioni e su di esse si afforzarono.
Nella zona di Asiago nessun importante avvenimento.
Cioè? Dunque ad oriente e ad occidente di Asiago gli austrìaci si assicùrano la via per discèndere! Si vocìfera di duemila prigionieri italiani. Una mossa austrìaca su Vicenza paralizzerebbe tutte le nostre forze nel Veneto.
Si sussurra qualche cosa fra noi, paurosamente. Il Signor X*** mi dice che gli ufficiali austriaci hanno pronti i guanti di pelle bianca per entrare galantemente in Vicenza. Del resto, cinematògrafi pieni, gente ai caffè, ai teatri, come nulla fosse.
Sento ancora mormorare: «Speriamo nello stellone».
Ad ogni modo è cosa melancònica, dopo tanto sacrifìcio, lèggere nei giornali stranieri che si va formando all’estero l’opinione di un’«Italia militarmente assente.»
«Mancanza di pubblicità», dicono.
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21 Maggio, 1916, Milano.
Bollettino odierno non chiarisce nulla: «offensiva austrìaca contenuta.» Il consiglio dei ministri, dopo essere stato assicurato che «la situazione militare làscia completamente tranquille le autorità del Supremo Comando», si è occupato della questione del «passaggio senza esame col sei».
Che ministero è mai sempre quello della Istruzione Pubblica!
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22 Maggio, 1916.
Brutte voci di panico còrrono tra i così detti informati: si combatte a Vallona: bombàrdano Vicenza; a Monfalcone reggimenti di cavalleria appiedata fùrono decimati. Austrìaci travestiti da donne distribuivano, — dicono, — ai bimbi confetti avvelenati. Milano tuttavia, e così il resto d’Italia, vive ancora nella sua indolente fidùcia.
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25 Maggio, 1916.
Il bollettino di oggi è grigio: «distruzione artiglierie nostre che non fu possibile ritirare». Gli austriaci scèndono al piano? Concentramento di un esercito a Schio. Si darà battaglia al piano?
Il comunicato della Stefani vuole essere esplicativo ed escusativo. Dice:
«All’inizio della nostra guerra con l’Austria, il Comando Supremo italiano, tenuto conto degli obbiettivi militari che noi ci proponevamo e sopra tutto della necessità che si imponeva di cooperare nel modo più efficace possibile alle operazioni degli Alleati, in un momento in cui le sorti della guerra in Russia volgevano favorevoli agli Imperi centrali, decise di agire offensivamente lungo la frontiera dell’Isonzo, limitando le operazioni nel Trentino all’obbiettivo di rettificare nel modo migliore possibile quella minacciosa frontiera.
Il poeta X*** tenne al teatro Dal Verme un discorso magniloquente di astratti. Egli avrebbe dovuto dire che noi entrammo in guerra quando credevamo che i russi, stessero per arrivare a Vienna. Proprio il contrario di quello che dice la Stefani! Seguitando con questa retorica patriottica, l’Avanti! finisce con l’aver la sua ragione.
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Incontro per via S. Margherita l’avv. M***, padre. Elegantemente vestito di nero (lutto stretto), baffi erti, bianchi, sigaro virginia lungo dritto.
Ha gli occhi rossi. Parla. Io non oso interrogare.
— Sua madre — dice — lo vede da pertutto.
Morto? Suo figlio è morto?
Mi abbracciò la scorsa estate per via: felice, splendente! Portava l’assisa nera e rossa da ufficiale dei bersaglieri. Sento ancora le sue ultime parole:
«Addio, mio buon professore.»
Pareva andasse ad una festa.
Morto? Non oso interrogare.
Il padre parla tranquillo con la sua voce vèneta, il sigaro diritto e gli occhi rossi. Ha una fede assoluta nella vittoria.
— Chi vincerà? la Germania?
— Mai più.
— Noi?
— Sì e no.
— Allora chi?
Sta un po’ come guardasse l’avvenire, poi dice:
— La Russia.
— Il rullo compressore? Ma se non agiva più nemmeno l’anno scorso quando noi entrammo in guerra!
— Vedrà, vedrà che rullo compressore! E come agirà! Ciao!
Che intende dire quell’uomo? Sembra pazzo!
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27 Giugno, 1916. Milano.
Il miràcolo inatteso: il Bollettino Cadorna di ieri dice: «Gli austriaci incalzati si ritìrano: Gallio, Monte Cèngio, riconquistati.» Pare un sogno!
Gli austriaci sono stati ributtati.
Chi li ha ributtati? La sublime Italia che non ai vede. Chi scriverà la stòria dell’Italia che non si vede?
Ahi, quello che si vede e si ode non è bello! Le dame della Croce Rossa òffrono troppo graziosamente bìbite, dolci ai prigionieri austriaci. Contrabbando di uova, frutta ecc., si esèrcita liberamente attraverso la Svizzera in favore della Germania.
Le nostre fàbbriche d’armi sono piene di tècnici svizzeri, di italiani che si sono adattati a portare, dicono loro, l’obbrobrio del tricolore (il bracciale), perchè non potèvano più disertare.
I sottomarini austrìaci sono riforniti di benzina e vìveri da ignoti, ben noti.
I nostri socialisti prègano i rumeni di non muoversi, di non intervenire. Dicono: Guardarsi dall’illusione democratica degli Stati uniti d’Europa. Vi sarà una pace quando un Oberstaat dominerà sui Volkenstaaten.
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30 Giugno, 1916,
Gli austriaci trabòccano dalle Alpi? E i socialisti in Parlamento sono scattati in gruppo gridando: «Viva la pace e abbasso la guerra!»
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20 Luglio, 1916.
Cesare Battisti, preso, impiccato dall’Austria! Socialisti nel loro giornale commèntano: «Morire sentendo attorno a sè le voci del rimpianto apologètico e intravedendo un raggio di gloria, è un lusso!» Puntini! La censura ha fermato qui. Non importa. Bàstano queste parole! La mia ragione dà ragione a queste parole dell’Avanti! Morire per la patria, per l’onore, per il dovere, è un lusso. È vero! Ma appunto perchè ciò è vero, l’Italia combatte questa guerra assurda e necessaria, per salvare il suo avvenire; forse anche il vostro, signori socialisti.
Quale Italia? Quella rappresentata dal nuovo ministro di quasi ottanta anni, chiamato il ministro della concordia?
No, non questa! Giovanna d’Arco combatte con lìbere le braccia a levare la sua spada. L’Italia combatte, come l’antico cavaliere, col braccio nudo e legato.
Però, pure essendo òspite a mensa della signora M***, mi sono comportato come se non fossi òspite.
— Quale magnìfico esempio dà l’Italia al mondo! — disse la signora.
— Quale, signora?
— Noi facciamo la guerra, e conserviamo tutte le nostre libertà statutarie! Siamo umani e pietosi verso i prigionieri. Non abbiamo odio verso il nemico.
E il marito della signora aggiunse, rivolto a me.
— Questa è la nostra gloria!
E la signora posò il gelato, si levò, e ha baciato con entusiasmo suo marito.
— Ma in tale caso, signora, — dissi — era inutile fare questo gran gelato di crema rossa!
La poetessa X***, ròrida sempre della sua pietà per tutto il genere maschile, femminile, senile, infantile, ha esclamato verso di me facendo nìffolo delle labbra:
— Chi la crederebbe così cattivo?
***
È morto Guido Gozzano, il poeta giovane dell’ultimo romanticismo estetico. Era ètico: e la sua poesia fu dolcemente, amaramente ètica.
Donne dal bel pallore lascivo, coi fondi, àridi, immobili occhi, in adornamenti di suprema eleganza, lo circondano in vita ed in morte.
Le belle donne sono come gli Dei, àmano di preferenza coloro, i quali non vedranno compiuta la loro giovinezza.
Umile, e pur cara signorina Felìcita, che piange in silenzio!
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25 Agosto, 1916.
Monete austrìache e ungàriche, ieri, a Viserba, presso Rimini, gettavano i prigionieri austriaci dai finestrini del treno, alla folla indigena (e non tutti ragazzi) che urlava: «Viva l’Austria! Abbasso l’Italia.»
Una signora forestiera che disse «vergogna!» fu accompagnata a casa a suon di fischi. Dicevano; «L’elmo di Scipio! e Guglielmone li butta a fondo!» (le navi affondate dai sottomarini).
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28 Agosto, 1916.
Dichiarazione di guerra dell’Italia alla Germania. Era attesa. Ma il cuore ne trema. Balilla sfida Golia?
È una dichiarazione lunga, motivata, burocràtica, e conclude così: Il Governo italiano dichiara, in nome di S. M. il Re, che l’Italia si considera, a partire dal 28 agosto corrente, in istato di guerra con la Germania, e prega il governo federale svizzero di voler portare quanto precede a conoscenza del Governo imperiale germanico.
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La Rumenia ci dice in latino: «Attendi, fratre!»
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A Cesenàtico — durante una dimostrazione per la presa di Gorizia — hanno bruciato il tricolore.
Fu arrestato un tale; ebbe lieve condanna.
Ne chiedo ad uno di Cesenàtico. «Una cosa da niente. Certi ragazzi, durante quella dimostrazione, hanno fatto una contro-dimostrazione. Sono sovversivi, e si capisce! Sono andati in cima al porto, dove non vedeva nessuno, e lì hanno bruciato una bandiera di carta. È stata una signorina forestiera che ha fatto la spia.»
Mi sfuggì l’espressione: «Io direi: ha fatto il suo dovere».
Mi guardò in un certo modo! Ma quale linguaggio era il mio?
***
Agosto, 1916.
Pàssano, ogni giorno, treni di prigionieri austriaci. Nella sosta del treno, vedo a gara, donne, uomini, fanciulli, andare a prendere e riportare le gamelle turchine col fondo tondo, di quei prigionieri. Dicono: «Sono uomini come noi. L’acqua non si nega a nessuno!»
Quei torvi volti croati e màgiari bevono in silènzio.
Rivedo la stòria del martìrio dei nostri padri in quei volti.
Ieri, 28 sera, alla posta, verso le 4, notizie della dichiarazione di guerra della Romania all’Austria.
Pare di vedere uno spiraglio di luce in fondo ad un tunnel senza fine.
La guerra finirà.
***
In un settore del fronte francese, ove fu comunicata ai tedeschi la notizia dell’intervento romeno, i tedeschi alla loro volta hanno voluto rispondere con un manifesto affisso, a lettere lapidarie su alti pali dinanzi alle trincee. Il manifesto diceva:
«Attenzione. Più sarete formiche venute a mangiare il leone, più proverete la vostra debolezza e la vostra malafede. Il vostro fronte unico non è che un fronte punico. Avete la malafede dei cartaginesi e noi saremo, malgrado tutti voi, i romani».
Le varie Zeitung ci avvèrtono che la Rumenia ha portato via all’Italia il primato: noi eravamo il popolo più mascalzone del mondo.
***
1 Settembre, 1916.
Il capitano X... mi legge questi passi di un diario, trovato indosso a un ufficiale austriaco putrefatto (uno sloveno). Vi sono passi orrendi e macabri. Quell’ufficiale forse era nato poeta.
Dice:
Se Dio vedesse dall’alto questi solchi puzzolenti e chiazzati di sangue (le trincee), potrebbe crèdere che madre natura abbia il mèstruo.
***
Le contadine non guardano neppure il «Draken» (ha forma di phallos): se fossero signorine di buona famiglia, verrebbero meno dal desiderio.
***
La trincea: chi ha fatto la danza della morte nelle trincee, e non vi è stato travolto, non ha che una sola via aperta davanti a sè: la via del manicomio.
***
Ore infernali: eppure la stanchezza mi aveva conciliato il sonno. Mi destai che era giorno, ma non fui destato dal rombo del cannone. Sentivo nelle guance qualcosa di caldo discendere verso la bocca e vi entrava dentro. Dio del cielo! Erano brani di cervello di un caporale che giaceva vicino a me col cranio scoperchiato. Dio! Dio! Mai mi libererò da questa orribile impressione.
Tutto ha sapore di cervello umano. Schifoso! Non riesco ancora a mangiare.
Se qualcuno mi presentasse un piatto di cervello fritto all’uovo, offrendomi — se ne mangiassi — la più bella donna di tutti i tempi, fosse anche Elena, o madame Récamier, io volgerei la testa dal piatto.
È triste: ho sempre in bocca il gusto di cervello umano.
***
I cipressi, nel cortile accanto, sono tutti di porpora e oro. Sono triste. Qualcosa di duro ha urtato contro il mio animo e lo ha ridotto in frantumi. Vedo nell’aria la villana vecchia e magra. Scende ad attingere acqua e la versa nella vasca di pietra affinchè i buoi bèvano. Essa è come la guerra, che toglie gli uomini dalle loro case e li versa nelle trincee perchè la morte li beva.
***
Tutto ha sapore di cervello umano. Io vorrei portare qui dentro una madre che abbia un figlio in guerra: io credo che in capo a una settimana non esisterebbero più nè imperatori, nè re, nè generali. E le poverette, a casa, credono che i feriti vengano curati, ed i morti sepolti con la croce e il nome: cose che si vedono nelle illustrazioni della «Leipsiger», disegnate in redazione!
***
Un nostro grande poeta tenta con arte questa istessa materia macabra.
Descrive così:
Avevo già veduto un soldato riverso ne la mota gialla della trincea, col rancio nel gozzo, col resto della gamella sparso nel sangue fumante. Un filaccio di lesso gli esciva dall’angolo delle labbra livide. La morte gli pigliava a un tempo il corpo e il cibo. La morte gli toglieva ogni bellezza, all’atto bestiale della nutrizione aggiungendo più di bestialità, fissando al limitare dell’eterno quel che è ignobile. Il compagno che gli chiuse le palpebre, gli nettò anche da quei rimasugli la bocca e il mento. La misericordia vinse la ripugnanza. Sempre vedrò quel gesto pietoso e atroce, quelle due dita ficcate tra i denti lordi del cadavere.
***
4 Settembre, 1916.
La signora avverte la cuoca che bisogna variare il pranzo. Le curialitates ad mensam della signora sono troppe, anche in campagna. Fiori, e l’ineffàbile profumo delle gaggìe. Ci siamo bisticciati. «Ma via quel giornale!» io dico. Ella vuole lèggere ad mensam le notizie della guerra.
Ah, io sono molto nevrastènico! Ho in mente questo passo del diario di quell’austrìaco morto: «È impossìbile dire quanto pùzzino i cadaveri. Non si può resistere. Si apre la bocca per mangiare un boccone e si inghiottisce puzzo di cadavere concentrato».
Ah, sì, signora, bisogna variare la tavola!
***
10 Settembre, 1916.
Treni, treni di soldati al fronte, carri bestiame, con banchi. Sono territoriali: grossi baffi. Salùtano lentamente. Non frasche o bandiere. I càrichi di bestiame e questi càrichi umani mi si confòndono nella testa. Oggi è grigio, freddo, piove. Ci addentriamo nell’inverno. Il bàratro della umanità non ha fine.
***
15 Settembre, 1916.
Cosa ho ingoiato oggi che mi riprendono i terrìbili crampi allo stomaco? Effetti del dolce fico, o segni premonitori? Arrivo in bicicletta in farmacia. Piove: è freddo. «Caro farmacopòla, permetti che mi stenda». Mi stendo sul sofà della retrobottega. «Sì, quella ricetta: morfina, cocaina e acqua fontis».
— In passa? (non passano i dolori), — mi chiede indifferente la moglie del farmacista.
— Non pàssano, crèscono.
La moglie del farmacista sgrètola pane, pizzica uva. E fra poco va a cena. Ha mandato ora al forno la teglia coi polli.
— Beata lei, signora!
— A magn semper!
Ecco entra in farmacia il signore che mi accomoderà la rivoltella: — Se ne intende lei?
— È la mia partita.
È un armaiolo. Smonta la rivoltella. È un giovane magro, denti macabri, elegante; ètico. Sorride smontando l’arma. Misteri della vita! Nelle sue condizioni disperate dovrebbe puntarsi l’arma contro di sè. Invece sorride.
Viene il capitano X... Questi è terribile come il male di stòmaco. Povero, buon signore! Egli è più malato di me. Cerca una legge. Ha sinora salvato la pelle stando al fronte: ma il derma psicològico è tutto ulcerato.
Fa la cura della teosofia! Mi confonde la testa con l’elettrone, la cèllula, l’uomo, il pensiero, il corpo astrale, la trasmigrazione, la formazione dell’uomo superiore che creerà la vera unica legge. Mi ha lasciato, perchè lo legga, un libro che non leggerò, L’ego e i suoi veìcoli.
— Caro capitano, Cristo ha detto:
Le cose che procedono dall’uomo, quelle sono che rèndono l’uomo immondo, perocchè dalla mente dell’uomo procèdono i cattivi pensieri, gli omicidi, la superbia, la stoltezza.
— Non bisogna mangiare più carne — mi risponde il capitano — . Io non ne mangio da due anni, e sarei incapace di uccidere una mosca.
Fra un crampo e l’altro, mi porto con la bicicletta a casa. Titì è sola; gioca con la pìccola contadina. Piove, cala la gran sera grigia. Accendo la lampada.
— Perchè stai male, papà?
Quale strana domanda! I figli crèdono che i padri e le madri non dèbbano mai stare male, mai morire.
***
28 Settembre, 1916, Bellaria.
Chi è stato il pittore che ha dipinta quest’alba settembrina?
È così bella, è così in pace, è tutta un tènero palpitar di luce!
Se su per il cielo rosato, fuor delle mirabili trasparenze che radon la terra, sorgesse, invece del sole, una figura ridente di donna, io non me ne meraviglierei.
«Siete voi, signora, che avete pulito, mentre noi dormivamo, questa sudicia terra?»
Si ode il mare. Esso ha un sussurro di conca marina.
Sopra le foglie, ancor verdi, distese, la rugiada ha distribuito le finissime scintillanti perle. I tamarischi hanno infiorescenze di brina.
A lungo io premo tra il pòllice e l’indice una foglia brinata, a lungo guardo la mia mano. No, essa non è insanguinata!
Io non mi sarei nullamente meravigliato se le foglie delle piante fòssero insanguinate.
Aurora che sorgi nel cielo; piante che date a noi sostentamento, sapete che questa è la rugiada, questo è l’uomo che fa la guerra?
***
Povero Arturo Colautti!
Quando è morto? — Al principio di questa guerra che era la sua guerra. — Egli era dàlmata; e morto che fu, gli fu resa onoranza per tener su in vita la sua memoria, perchè noi abbiamo la illusione di conservare la memoria di noi con questi pezzi di carta stampata! Draghi di carta velina contro il tempo!
Arturo Colautti era una generosa natura; ora io ho osservato che in quella che è detta la primavera della vita, cioè sui venti anni, appaiono agli uomini di generosa natura le due dame, la fata Morgana della Illusione e la inesorabile Realtà.
Per suprema delicatezza, qualcuno fra questi nòbili giovani abbracciò, invece, Atropo, la sconsolata, e così troncò la sua vita.
Arturo Colautti aveva superato questo punto morto; e si era — come dire? — suicidato in altro modo: era diventato rètore di magnifiche parole; e grande epicureo.
Ma ogni tanto si rinserrava in certi sacri silenzi, e sembrava ricordarsi. Strano uomo! Pure avendo accettata la vita per ciò che essa è, conservò il gusto dei superbi dispregi, e la gioia amara di urtare con il quadrato petto contro la folla. Lo chiamavano bohémien. Non era cavaliere, nè accademico, nè professore; non aveva benefici ecclesiastici dalla democrazia, perchè era un aristocratico; non ne aveva dalla aristocrazia, perchè era democratico. Era un uomo da parecchi anni in istato di naufragio. Ogni tanto mandava questo grido: «Patria!» Ma era un uomo di sessant’anni che emetteva questo grido, ritenuto allora da fanciullo o da fantasma del Quarantotto, e nessuno gli dava più retta. La borghesia meno che meno!
***
I letterati risposero all’appello nell’esprimere il loro pensiero o giudizio su Colautti: ma vi spira entro come un vento di fretta, un brivido di novembre.
Un commediografo dice così: «Mi è impossibile scrivere! Quando piango, non so scrivere». Vi è anche il giudizio di una serpentina, acre, sterile poetessa, dalle carni flagellate dalla lussùria. Ma cara, cara poetessa! Cara, perchè? Perchè vieni fra noi; ci accosti magari al naso la punta delle tue scarpette impudiche; ma ami stare con i tuoi tristi fratelli del pensiero. Così ella racconta come, essendo vivo Colautti, era stata a Roma, ed aveva trascorso la serata d’aprile con lui e lui, il dì seguente, le aveva mandato «una fialetta di squisitissima essenza parigina», come ella dice. Dono e sìmbolo dell’arte della donna! Ci sono anche alcune righe strazianti e sèmplici di una Ofelia Borowska, la figlioccia adottiva del Colautti (una figlia del suo sangue, bellissima, era demente). «Ti sei ti, piccola, piccola? — disse egli guardando fiso la figlioccia pochi momenti prima di morire — Piccola, non vedi? Laggiù...... Laggiù!»
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Molti anni fa, conobbi Colautti alla direzione dell’«Alba», un giornale, obliato totalmente, di battaglie anti-democratiche, che meritava forse di vivere e fu invece soffocato. Colautti era l’hombre dell’«Alba»: vi scriveva articoli spaventosi, sì che io temevo sempre un duello all’ultimo sangue con la democrazia, o un assalto dei socialisti a quelle povere stanze della redazione.
Piccolo, torvo, torace potente, bocca sigillata di poche parole, signore nei tratti e nel vestire. Portava breve barba intera. Appariva e scompariva dalla redazione del giornale. Mi venne a mente il Carducci: un Carducci elegante. Seppi, poi, che era invece un causeur inesauribile, piacevolissimo per i suoi paradossi. Tanti anni fummo insieme a Milano, ma non ci siamo veduti che per caso. Impossibile trovarci: lui abbandonava il caffè Savini o altri ritrovi nell’ora in cui io mi levavo. Lo interrogai perchè vivesse di notte, chè a me pareva strana cosa, non essendo egli nè bevitore, nè fumatore, nè giocatore. «Abitudini giornalistiche — mi rispose, — E poi sudicio, deforme, tedesco, mercantile, vìscido! Odore di risotto e guttaperca! (accennava a Milano). La luce del giorno fa sentire tutto questo. Ma la notte nasconde le cose in visioni fantàstiche».
Tale anche il suo spirito: amava vedere le cose in visioni fantastiche.
Venne, un’estate, a trovarmi a Rimini, la città che io abitavo allora. Era accompagnato dal fedele Moschino: questi, biondo, alto, un po’ freddo, cortesissimo, elegantissimo. Non so perchè mi corse in mente il duca Cesare Borgia ed il fido Moschino del romanzo «Ettore Fieramosca». Andammo al porto. Io stentavo a tener su il discorso! Ma quando fummo al porto, egli stette lì, immoto a lungo, a guardare davanti: Pola, Fiume, Zara! Indicava come vedesse. Parlava coi marinai in dialetto veneto; ed i marinai di Romagna gli rispondevano con meraviglia di trovare un signore di questa sponda che conosceva così bene l’altra sponda.
Seppi poi, ma non da lui, che egli era bandito dall’Austria.
E fu così che, l’anno seguente, mi prese vaghezza di veder Zara.
Fu quel viaggio come un sogno. Vissi un giorno di stupore a Zara. Stupore nel trovare l’Italia, dopo una notte di mare; come un’Italia orientale.
E al ritorno, navigando col piroscafo per Venezia, alcuni signori imbarcati a Zara, poichè io mi congratulavo con loro del loro puro e fiero dialetto veneto, mi dicevano: «Per qualche anno ancora e poi non più!» E mi pareva che essi e le loro donne lagrimassero. Ora comprendo le parole di Colautti morente: «laggiù! Zara! La Patria!»
La sera, dopo la gita al porto, si era seduti al caffè: lui in smoking coat, con una camicia da marchese. Era una processione, davanti a noi, di popolane, signorine, signore, che ritornavano dopo essere state a sentire la musica al mare. Avevo io un bel parlare, cambiare discorso; nessun discorso attaccava. Fissava, fissava, e chiedeva; — «Quella chi è? cosa fa?» ma nessuna espressione plebea, tutto altamente cavalleresco. «Che ne so io? Plebee, sartine, borghesi». «Belle, belle, belle! Bel sangue! Varda che linea!».
«Le piacciono ancora tanto le donne?» domandai.
«Ma non sai (mi dava del tu, del lei, del voi) che la donna è la sola cosa rispettabile e seria nel mondo?»
«Sì, ma consuma tutto!».
Mi guardò col monòcolo con disprezzo, povero filisteo che io ero! Disse gravemente; «I denari spesi per adornare una donna, son i meglio spesi. Io non ho rimorsi».
Una sera, a Milano, lo invitammo a pranzo. Ma erano le sette e mezzo e non veniva. Presi una vettura e, per la nebbia, giunsi al suo albergo: uno dei signorili alberghi del Corso. Non aveva casa, Colautti. Lo trovo in una stanza, densa di tappeti, accecante di luce elettrica, in pijama. Si levava allora. «Ah sì, scusa sai». Fece toilette. Venne. Ma mi persuasi, per l’ultima volta, che noi eravamo divergenti. Egli era inebriato d’amore della poesia del d’Annunzio, l’«Otre», apparsa in quei giorni. «Tutto — diceva — è, e deve essere artificiale in arte: lo stesso linguaggio italiano non è artificiale? la donna non è artificiale? Tutto ciò che è bello non è artificiale?».
Il suo poema, in terza rima dantesca Il Terzo Peccato è, in verità, ben artificiale! Eppure meriterebbe di essere riletto; specialmente le note sono preziose. Ricordo la disperazione del tremendissimo editore Hoepli per le audacie verbali di questo poema e il terrore dello stampatore, che si vedeva buttar giù la composizione ogni volta che Colautti gli rimandava le bozze corrette.
Il Terzo Peccato fu l’ultimo suo sogno di gloria, ed ebbe il merito di tenerlo in vita per qualche tempo.
Ma ormai nei suoi scritti si veniva avvertendo una certa cristallizzazione. Il coperchio dell’intelligenza si rinserrava. Non è così di tutti? E ogni letterato gode quando vede l’altro letterato che si cristallizza.
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È un peccato non fermare questa bellissima contraddizione:
L’avvenire d’Italia, giornale cattòlico, reca ampie notizie su un’imponente adunanza a Napoli per la buona stampa.
Infatti, fra l’àmpio scollo delle donne al nord, e le sottane corte al sud, rimane appena quel tanto di verecondo che anche i selvaggi ùsano far ricoprire alle loro donne. L’adunanza cattòlica di Napoli è giustificata; eppure in questo accorciamento delle vesti si potrebbe vedere un ritorno all’innocente moda dell’età dell’oro. Comunque sia, ecco sùbito dopo, il detto giornale porta un articolo intitolato:
Dove si prepara la guerra.
Chi giunge ad Essen — la capitale del regno dei Krupp — durante la notte, non può sottrarsi ad una sensazione di sorpresa. Il genio dantesco, allorchè descrive la città di Dite, o la matita audace di Gustavo Dorè, sole, possono per analogia ricordare il superbo spettacolo. La città rosseggia e fiammeggia nel buio: il cielo è tutto un incendio di fuochi violacei, aranciati, azzurrini, verdognoli, e sullo sfondo fulgoreggiante di vapori e di fumo, si profilano gigantesche e buie le ciminiere a perdita d’occhio: fucine, acciaierie, fonderie, lavorano instancabilmente: e se è cessato col cader della notte il fragor dei magli colossali, l’urlo delle sirene e il sibilo lacerante delle locomotive, non soffre interruzione il lavoro dei forni, dove l’acciaio si tempra e si ammolla per ritemprarsi in forme nuove e sempre più aspre e dure. Meraviglie dell’industria, che può solo spiacere di veder predotta al solo scopo di seminar stragi e rovine. Ma finchè durerà il mondo, durerà forse la calamità della guerra, e l’uomo rivolgerà ogni studio alla ricerca di mezzi di distruzione sempre più potenti.
Quale è la stampa malvagia, contro cui si mette in guàrdia la gioventù cattolica? Soltanto quella che mostra le gambe delle donne?
I rapporti fra lussùria e guerra sono strettissimi.
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Roma, 14 aprile 1918.
L’ultima nota di questo Diario è del 28 settembre 1916, cioè v’è un’interruzione di un anno e mezzo.
La rivoluzione russa ha esercitato una specie di paràlisi in me. I molteplici aspetti assunti da questa rivoluzione e le sue ripercussioni in Italia mi fanno intravedere troppo paurosi fantasmi che giustamente sono stati derisi; e i miei amici avèvano ragione dicendo: «Sopratutto non occupàtevi di politica».
Ma comunque la civiltà europea rimàrgini le sue ferite, la rivoluzione russa mi persiste nella mente come il fatto più saliente nato dalla guerra.
Certamente i cavalli e gli àsini non possèggono istrumenti sismici; però avvèrtono il terremoto molte ore prima degli scienziati.
Così accadde a me.
Nell’inverno del 1917, quando tutti, a Milano, andàvano pazzi per le danze mimo-plàstiche dei russi e delle russe, io dicevo: «Ecco, appare la danza dei morti».
Quando scoppiò la prima rivoluzione russa, nel marzo del 1917, fu tra la borghesia e la democrazia uno scoppio di esultanza. Dicevano: «Continuate ora, cari russi, a fare la guerra con più entusiasmo di prima! Siete, ora, sotto il vessillo della Libertà».
Essi continuàrono per un po’ e poi si fermàrono. Che cosa era successo? Quello che dice Orazio del vasaio. L’Intesa si pensò di fare un’anfora, aiutando la rivoluzione russa. Invece fu un òrcio.
Amphora coepit institui, cur urceus exit?
Ciò non sarà mai ripetuto abbastanza.
Era apparso Lenin! E questo fu il gioco della Germania. A Brest Litowski, quando i grandi generali germànici imposero la pace ai bolsceviki, parve raggiunto il colmo della potenza germànica, e la vittòria certa. Ma i magnifici generali del Kaiser, quando impòsero ai bolsceviki quella pace umiliante, non si accòrsero, come si accorse Dante nell’Inferno al vedere la schiera delli demoni di Babariccia:
Se tu se’ sì accorto come suoli,
Non vedi tu ch’e’ digrignan li denti,
E con le ciglia ne minaccian duoli?
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E anche della Germania si può dire:
- Amphora coepit institui, cur urceus exit?
Ma già su la fine del 1916, sempre per quell’istinto che hanno le bestie, quando si cominciò a vociferare che l’Austria cercava pace separata, che il Kaiser tornava a proporre trattative di pace, io avevo detto ad un deputato:
«Finchè è ancora sfruttabile la nostra situazione, non è meglio fare la pace?»
In quel decembre, Lloyd George, Cadorna, Briand erano convenuti a Roma.
«La democrazia europea — mi rispose quel deputato — vuol fare la guerra per finire le guerre, per distruggere il militarismo prussiano, per dare la libertà ai pòpoli».
Ma sopraggiunse Lenin, e prometteva ai popoli qualcosa di meglio che la libertà! E allora in Italia scoppiò un tale entusiasmo per Lenin, che questo entusiasmo fu persino chiamato tradimento.
Non è esatto dire tradimento. L’Italia è sentimentale, inguaribilmente ideològica.
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L’onorevole Arturo Labriola parla dell’anima slava, «ebbra di pace, ossessionata di pace, fanatica di pace».
La Russia, cedendo a Brest-Litowski, ha subito grave onta.
«E per questo? — dice un nostro autorevole socialista. — Se la Russia sta male, i russi stanno bene».
Lenin distribuisce le terre ai contadini. Doveva uscirne il comunismo, ma non ne uscirà, sempre per quella ragione: amphora coepit institui, cur urceus exit?
Ma Lenin che divide le terre ai mugic, è per molti il più grande fatto storico dopo Cristo.
Lenin accoglie in Russia l’arte futurista, la grande giustiziera del passato!
Molti cuori estetici frèmono di gioia: «Lenin è un grande!»
«Lenin è un santo che prepara la rivoluzione in tutto il mondo. Vive con due uova alla coque!»
L’Avanti! scrive:
Marx ha inspirato l’azione dei nostri compagni di Russia. Marx non è stato mai così vivo come oggi, mentre la Comune da lui rivendicata è risorta in Oriente più grande e più forte pur attraverso accresciuti ostacoli; e sta più tenace, più feroce. La verità marxista non è mai stata così limpida come in questi tempi.
Un grande filosofo, in un giornale del Governo, esalta Marx perchè ha smascherato le due megere — in parvenza di belle fate — Giustizia e Umanità.
Dopo di ciò si finisce con l’avere la testa confusa, tanto più essendo avvenuto quel fatto di Caporetto, dove più meravigliati di tutti, per la incredibile vittoria, èrano gli austriaci.
Di tutte queste cose, e di altre mie personali, sono molto afflitto. Ne parlo a una bella signora, dotta anche di polìtica:
Mi risponde: «Lei è molto giovane!». Confido le mie sofferenze a Papini. Egli mi sorride da quel suo inimitàbile volto fiorentino, e mi dice:
«Lei è artista, e deve essere superiore a tutte queste cose».
«Artista» oggi suona in certi casi a un di presso come suonava una volta la parola «poeta».
Papini è un uomo per cui il mondo è un fenomeno di curiosità.
Al poligono di Vincennes, in Frància, era stato, intanto, fucilato Bolo pascià, come traditore.
Alla mattinata, alle 5, quando doveva essere condotto al supplizio, questo signore dormiva profondamente. Socrate e il delinquente nato hanno punti di contatto?
Ha fatto toilette; abito nero, guanti bianchi, brillantina ai baffi finissimi.
Faccio lèggere questa notizia a Goffredo Bellonci, con riferimento al modo che usa la Frància verso i traditori.
Bellonci, elegantissimo, mi dice: «È naturale. È di prammàtica».
Egli allude alla toilette di Bolo pascià.
Ma io non alludevo alla toilette di Bolo pascià!
Infine mi rivolgo a un dolce amico filosofo.
«Che vuoi che la stella Sirio si occupi di ciò che avviene in terra?» mi dice Felice Momigliano.
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Dio mi perdoni. Si finisce col crèdere seriamente quando i tedeschi dicono: «Noi abbiamo una morale!».
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Tutte queste cose mi sono successe nell’anno 1917 quando andai a Roma.
Roma è una città interessante: impassìbile e gaia.
«Vedi quante rose e lauri! — mi diceva Giovanni Cena — La terra è di una fecondità portentosa».
«Non avviene ciò — dicevo io alla mia volta — perchè Roma, sotto, è una stratificazione di morti?»
Cena diceva anche: «La classica impassibilità romana proviene da secolare esperienza, in forma sub-cosciente, della natura immutabile dei fatti umani».
«O non piuttosto perchè qui ha principio Ponente? Vedi il colore del cielo in questo tardo autunno».
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Ricordi di Caporetto.
Il sole sorge su Roma. Le donne strillano il Messaggero. Il monumento a Vittorio Emanuele è un’immensa cosa bianca, una pagina bianca. Cosa vi scrive la storia? La gente passa e non vede. Ier sera, festa: un’angòscia atroce mi ha fatto uscire dalla trattoria: la gente mangiava fettuccine, zuppa di lenti, allòdole. Mi sono spinto sino a S. Pietro. Buio! La àbita colui che è signore spirituale del mondo; l’ultima grande autorità rimasta. Ma lui ci crede, o non ci crede?
Domenica, 3 novembre, giorno dalle notizie tragiche da Caporetto. Alle ore cinque, non c’era più un posto libero al teatro Valle per sentire Dina Galli recitare il Pollaio. Nei giornali, accanto alle strazianti notizie della guerra, colonne e colonne di réclame dedicate alla super-diva Lyda Borelli: alle film sensazionali, Ivan il Terribile, alla Maschera dai denti bianchi (ma se tutto il Carso è un biancheggiare di teschi dai denti bianchi?) Cartelloni e cartelloni immensi, più che a Milano, per gli istrioni in frac, per le mime in posa, estàtiche o eròtiche.
La lirica oratòria ed asiàtica dei manifesti murari e degli «ordini del giorno» contràstano con quelle gioiose mondanità. Poi ne viene un senso di nausea, di imbarazzo spirituale.
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Ieri, a mezzodì, dal senatore Ferraris, con l’amico Cena. Il senatore Ferraris ci ricordava con contenuta soddisfazione il suo programma, già stampato nella Nuova Antologia sino dal 1915: «Concorso giapponese, previsione di guerra lunga, occupazione immediata di Costantinopoli, razionamento a tempo, entrata dell’Italia in campagna quando la Russia fosse giunta a Vienna».
Cena disse: — Il nostro popolo, invece, quasi credeva che noi facèssimo la guerra all’Austria col permesso della Germania.
Io non dissi parola, ma il programma del senatore Ferraris era troppo bello. Mi ricordava il duello del Sior Pànera del grande Ferravilla: «Se lei si muove, come la posso infilzare con la spada?»
L’on. Ferraris e Cena erano afflitti, ma, da buoni piemontesi, erano tranquilli.
— Per salvare l’Italia... — cominciò Cena.
— Bisogna abolire tutti gli aggettivi — dissi allora io.
Mi guardàrono un po’ meravigliati, ma io avevo in mente i manifesti, letti per le vie, al mattino. Quando è sopraggiunta Gemma Ferruggia. Viene da Udine: freme, piange, racconta: «Non nominare Cadorna! Barzini ecc.! Non nominare! Cadorna nel ’16, quando avvenne la invasione del Trentino, era a messa; ora era a compieta. I soldati, gettate le armi, cinici, dicevano: «Vedete non avere risposto al papa? Il terzo inverno non più in trincee!» C’est Sédan, dicevano i francesi.
— Esagerati! — disse l’onorevole Ferraris — Si calmi, si calmi, signora. — E calmò la signora Ferruggia, un po’ esagerata anche lei.
— Come è avvenuto il fatto?
— Loro sono entrati, gli altri sono fuggiti!
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La notte non ho potuto dormire. La gente mangiava, fuori, fettuccine, allodole, fra le caraffe di vino luccicante.
Finalmente è sorto il sole: aliusque et idem. Mi fisso sui cartelloni, Cines, Cinèma, Lyda Borelli, super-diva Francesca Bertini, Castagna, Ivan il terribile, Sciosciamocca, dramma sensazionale. È spaventoso: questo popolo sente il dramma falso delle film e non sente quello vivo.
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Sul fatto di Caporetto non c’è da stupire! Inglesi e francesi hanno avuto molti Caporetto. Ma gli inglesi sono umoristi. Un inglese ha detto: «L’Intesa ha commesso tanti spropòsiti che deve vincere per forza». Ai francesi gli Iddii dièdero, come ai greci, ingenium et loqui ore rotondo, praeter laudem, nullius avari. Ma sono sentimentali soltanto nel taglio dei vestiti! Non si espandono come noi!
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Intorno a Caporetto, un giovane ufficiale mi scrive queste cose dalle trincee:
Caporetto era inevitabile. L’esercito aveva fatto tutto il suo dovere, ma nessuno gli guardava le spalle. E un bel giorno si trovò con cento, con mille pugnali alla schiena.
Mi capita sempre così ad andare in Italia. Prendo la licenza quando proprio sono stanco da non poterne più. E invece mi tocca sostenere più battaglie che quassù. Fare il sangue acido! Ingoiare veleno, veleno, veleno, perchè sento che l’Italia è irriducibile — o che potremmo ridurla soltanto noi — , e noi siamo qui.
Oh la mia teoria di mettere un pazzo al governo ne’ tempi d’eccezione!
Certamente al Governo sono uomini savi fra cui il presidente Boselli che afferma sentenziosamente, come suole; «Se la mano trema (ha quasi ottanta anni) il cuore non trema»; poi c’è il ministro Orlando che parla assai bene; poi Sonnino che non parla mai.
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1918.
E con tutto questo avvenne il miracolo!
Fu gettato un ponte di giovani vite come non mai e la storia passò.
E un giorno in una villa del Veneto — sventolava il tricolore, squillavano le trombe, splendevano in grande uniforme i carabinieri — un giovane generale italiano impetuosamente annunciava ai generali dell’Austria in nome dell’Italia le condizioni dell’armistizio. Ciò fu nel novembre 1918.
L’Impero d’Austria non era più. Vienna muore di fame! È finito l’Impero!
Uno dei tre generali dell’Austria, di sangue imperiale, fissava, muto, esterrefatto, il generale italiano che annunciava che l’Impero era morto.
Molte altre cose erano morte, e molte nascevano che noi non vedremo.
LO STOMACO DEL SIGNOR MAGGIORE
Quando il signor maggiore era di guarnigione a Napoli, lo chiamavano capa i legnamm che vale testa di legno; e ciò non in relazione alla testa del signor maggiore, che veramente pareva squadrata da uno zocco di legno, e posava sopra un corpo piccoletto; ma in relazione ad una cotale rigidezza di carattere di vecchio piemontese, la quale abitava dentro quella testa.
Nel 1915 gli avevano detto di tenersi pronto per la guerra o verso est o verso ovest, ed egli si era tenuto pronto. Poi gli avevano detto di fare la guerra contro est, e lui l’aveva fatta. Gli avevano detto di avvertire i suoi soldati che per i disertori c’era la fucilazione nella schiena, ed egli aveva avvertito i suoi soldati: «Guardate, fieui, che, se non filate dritto, c’è la fucilazione nella schiena».
Ma poi, dopo la guerra, aveva veduto l’amnistia ai disertori, ed era rimasto sorpreso. Una seconda volta, mentre leggeva il suo «Corriere della Sera», avea imparato che i disertori erano stati proclamati, da un autorevole personaggio, «eroici ribelli della guerra», e allora le sue ferite gli fecero molto male.
Una terza volta andando a spasso per la sua Torino, con le sue decorazioni su la tunica, era stato ingiuriato, circondato...
Basta, lasciàmola là...!
Tuttavia propose alle superiori autorità il dilemma: «Se reagisco sono punito, se non reagisco sono un vile. Come devo comportarmi?»
Le superiori autorità non sapevano che cosa rispondere, quando da Roma venne la risposta: «Evitare di farsi vedere in pubblico in montura e decorazioni».
Ed ecco perchè il signor maggiore domandò la pensione invece di diventar generale. Depose spalline e spada entro una cassettina. Una lagrima! «Guerra contro l’Austria!» mormorò, crollando la sua grossa testa.
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Avrebbe potato stabilirsi a Turin, ma il ricordo di quel giorno in cui era stato oltraggiato, gli faceva dolere la sua ferita. A Napoli no, perchè laggiù i piemontesi li chiamano, «capa i legnamm», e allora scelse Firenze, non perchè culla d’arte, ma per certi vaghi ricordi di gentile Toscana, di certe monete chiamate crazie, con due delle quali si faceva colazione.
Se il signor maggiore aveva una testa imperfetta, viceversa aveva uno stomaco perfettissimo, che domandava l’accordo di tre pasti giornalieri. Questo accordo era difficile anche a Firenze. Aveva bensì conosciuto alla pensione di via del Girasole un giovane esteta, una brava e compita persona neh!, che gli aveva svelato come si può vivere con poco.
— Lei, signor maggiore, ha i denti buoni?
— Altrochè!
— Ebbene allora faccia come faccio io, mastichi molto! Quello che più importa, è masticare.
— Sì, ma sotto i denti cosa metto?
— Una castagna secca, un fico secco; ma masticare! È questione di allenamento, Vedrà, dopo, come si troverà bene.
E aveva esemplificato come lui, con la tasca piena di castagne secche, girava tutta Firenze e si godeva tutti i monumenti artistici.
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Anche il signor maggiore girava tutta Firenze, ma non per i monumenti artistici bensì per vedere dove potesse mangiare.
Passava in rassegna tutti i cartellini dei prezzi esposti su le vetrine delle trattorie. — «Sformato di maccheroni alla siciliana»: mi piacerebbe tanto, ma lire tre. Tiriamo avanti! Là!
E nell’altra vetrina in via Calzaioli: «Caciucco alla livornese L. 6». — Il caciucco che mi piace tanto! ma costa troppo.
E in piazza Vittorio Emanuele, un gatò, di quei gatò con incrostazioni di gelatine, di variopinti rosoli, di pistacchi, che hanno l’aspetto di un pezzo archeologico, lire tre. Oh, ma lire tre all’etto! E il signor maggiore che stava per fare un’avanzata contro la pasticceria, ordinò la ritirata.
Allora quel zampone di Modena, così bello in quella pizzicheria, dove è esposto il menù...
Le pizzicherie a Firenze sono economiche... Ma, «zampone di Modena con crauti, lire quattro».
«Lo mangerò domani».
Ma domani c’era ancora il menù con zampone di Modena, ma lire cinque!
«Mangiamolo, se no domani sarà lire sei».
Delusione! Lo zampone era buono. Che cosa non è buono per lo stomaco del signor maggiore? Ma era una fettina. Almeno dieci fettine, con mezzo fiasco di Pomino! Invece, un quartuccio... Ah, che malinconia! Diceva spesso tra sè: «Se invece che alla spalla fossi stato ferito allo stomaco, sarebbe stato un vantaggio». Avrebbe potuto farsi la barba da sè, la qual cosa col braccio infermo non gli era possibile.
Che se il signor maggiore poteva sopprimere uno dei tre pasti, mai sarebbe uscito per le vie, se non sbarbificato; e il più modesto barbiere ricercato nei vicoli remoti, dopo aver detto: «mi dia quel che la vuole», pretende due lire, almeno. E non è lui che la pretende, ma la tariffa che è lì, la quale fu stabilita dalla Camera del Lavoro, la quale fu stabilita dalla Confederazione Generale del Lavoro, la quale fu approvata dal Ministro e dal re, perchè c’è ancora il re: insomma da una di quelle autorità imperscrutabili come gli antichi tiranni. È meglio non discutere: si ubbidisce, e si paga! Là!
E anche del caffè al mattino non poteva fare a meno.
Questo glielo portava la padrona di casa, una donnetta fiorentina, tutta silenziosa.
Ma sapea fare a scrivere, ed ogni sabato sera il signor maggiore trovava sul comodino una lista di spese inverosimili, una somma sempre più grossa.
Caffè, stiratura, lucido per le scarpe, attaccature dei bottoni, smacchiatura, rammendo. Persino spazzolatura.
Il signor maggiore aveva letto il De Amicis.
«Le padrone di casa del tempo del De Amicis devono essere morte tutte! — mormorò tristamente il signor maggiore — , e se non sono morte, i letterati sono grandi impostori».
Poteva il signor maggiore sopprimere la stiratura?...
No, non poteva! Se il signor maggiore non vedeva il colletto bianco e duro, e due ben inamidati polsini fuori delle maniche della giacchetta nera con due gemelli d’oro, non vedeva più nemmeno la sua personalità.
Un giorno il sarto che gli portò la fattura di un abito nero, aveva scritto: lire mille!
«Qui — disse il signor maggiore — conviene lanciare all’assalto le riserve. Là».
E andò alla banca per fare un riporto con alcune cartelle.
Ma allo sportello gli fu risposto così:
— Ci dispiace, ma proprio ieri è giunto l’ordine di non fare più riporti.
— Ma sono cartelle dello Stato!
— Lo Stato? Scusi, abbia pazienza — aveva detto quel signore della Banca d’Italia — , ho altro a che fare.
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In queste condizioni di borsa e di stomaco, il signor maggiore girava sul far della sera per le vie di Firenze, con un mezzo toscano in bocca, e il «Corriere della Sera» in mano.
Il toscano gli teneva a bada lo stomaco, il «Corriere della Sera» gli teneva a bada il portafogli, in quanto assicurava che l’ondata del ribasso stava per arrivare.
E guarda e vede in un vicoletto, una vetrina che diceva: ottima cucina, paste pronte a tutte le ore.
Il locale era... era un poco infetto. «Ma chi mi conosce qui?»
Veramente il locale era anche un po’ buio, e un po’ deserto. Gli parve impossibile che ci fossero, lì, paste pronte a tutte le ore.
Però non si sa mai. Entrò e domandò se c’erano paste pronte a tutte le ore.
Una voce sgarbata rispose: — C’erano a mezzodì!
— Allora niente?
— Se vuole, c’è del baccalà alla livornese.
Ecco un surrogato del caciucco!
— Allora mi posso accomodare?
— Si accomodi dove la vuole.
Era una voce di donna.
La donna aprì la corrente della luce e la stanzetta si illuminò.
Era una donna di mezza età, ma un bel fusto di femmina, con gran capelli corvini...
— Io posso essere servito?... — disse alla donna che badava ai fatti suoi...
— Sì, ma finchè non la si siede...
Il signor maggiore veramente cercava dove potesse essere la cucina col baccalà alla livornese; poi alla intimazione della donna, cercò dove la tovaglia fosse meno maculata, e si sedette e stette con pazienza, facendo girare un pollice attorno all’altro pollice così che i due polsini rotavano anche loro come due cilindri. E intanto guardava.
C’era un bancone con una fila di salami, pendenti, una compagnia di fiaschi in buon ordine: ma la cucina dove è?
Quando alla donna parve, portò un tovagliolo, un pane, una forchetta di ferro e gridò verso un sotterraneo:
— Baccalà alla livornese per uno.
— Adesso ho capito — , meditò il signor maggiore — , la cucina è laggiù.
E gli sarebbe piaciuto intanto parlare con quella donna e tentò così qualche delicata domanda, ma ne ebbe quelle gelide risposte che le donne rèndono all’uomo, quando questi non rappresenti più per esse una potenza o di amore o di denaro.
E intanto era entrata una compagnia di quattro uomini un po’ cialtroneschi all’aspetto, ai quali la donna, come per consuetudine, porse una lavagnetta e le carte da gioco, ed essi si misero a giocare e ogni tanto guardavano lui, perchè, nel modo istesso che un birbante produce meraviglia e repulsione fra gente per bene, così un uomo per bene produce meraviglia e repulsione fra birbanti.
Bestemmiavano anche Iddio, i santi, la Madonna, l’Italia, la patria; ma che ricchezza di lingua! Tutte le parole terminavano in italiano.
Finalmente un passo risonò su per la scaletta di legno del sotterraneo.
— Oh, ecco il baccalà alla livornese!
E apparve una testa chiomata alla maniera teppista e poi tutta l’alta figura di uno spavaldo giovane, in maniche di camicia, con un piattello in mano.
— A quello là, — disse la donna, accennando.
Ma appena il giovane si fu voltato verso quello là, quasi gli cascò il piatto.
— Uh, chi si vede! Il signor maggiore! E come siete qui lei?
— Io veramente non ho il piacere... — rispose confusetto il signor maggiore.
— Mi guardi bene in faccia e si ricorderà. Settimo reggimento, quarta compagnia.
Il signor maggiore allibì un poco. Quella brutta faccia, anzi quella bella faccia, sì, gli pareva di riconoscerla: uno dei più riottosi soldati del reggimento, a cui più volte aveva detto: «sta attento neh, camorrista, se no finisci con quattro pallòttole nella schiena.
— Lei fa il cuoco, adesso?
— Mo’ vi racconto tutta la storia, signor maggiore.
Depone lì il piatto, si siede accanto, e strizzando l’occhio:
— Quella è moglièrama.
Il signor maggiore guardò di nuovo la donna, con diversa sì, ma non minore ammirazione con cui guardava il gatò, gli zamponi nelle vetrine dei negozi. Disse:
— Capisco: lei si è messo a posto.
— M’aggio acconciato buono! Cosa volete? Essa si è innamorata delle bellezze mie sin da quando io portavo la montura del Pulcinella che voi sapete; e l’aggio sposata.
La donna recava, intanto, un quartuccio di vino...
— Che vino hai dato al signor maggiore? Porta porta quell’altro, e taglia di quell’affettato. Sbrìgati!
E parlava alla donna per imperio, non altrimenti che il signor maggiore parlava a lui quando rombava il cannone, lassù.
Chè se il baccalà era buono, più buono era il vino, ma più buono era l’affettato, con grande sorpresa del signor maggiore che vi sentì sotto il vero maiale.
Il giovane concluse la sua storia dicendo:
— Teniamo una nostra masseria, e facciamo il vino, e ammazziamo i nostri maiali! Morte alla borghesia! Evviva noi! Evviva il comunismo!
***
Ma i piatti erano già esauriti, come diceva il signor maggiore.
Il giovane che questo vide, disse:
— Volete un pezzetto di lesso?
— E perchè no?
— Porta quel pezzo di lesso... — dice l’uomo alla donna.
La donna nicchia un po’. Dice che quel pezzo di lesso era destinato ad altri.
— Porta quel pezzo di lesso! E ci mettiamo quattro fagioletti in istufa?
E portati che ebbe i fagioli, lo lasciò in pace.
— Veniteci ad onorare, signor maggiore — gli disse il giovane quando, il signor maggiore, poi che ebbe finito il suo pasto, si accomiatò.
***
E il signor maggiore tornò, ed ebbe anche un tovagliolo di bucato, tanto che per non confonderlo, ci mise un anellino. E mentre prima se ne andava via appena finito l’ultimo boccone, ora accendeva il suo mezzo toscano e beveva un altro quartuccio.
Ma una sera che alla compagnia dei giocatori mancava il quarto, il giovane chiomato domandò:
— Signor maggiore, facite u’ quarto?
— E perchè no?
E giuocava con quei bestemmiatori, ma con tanta buona grazia chè non si moveva se prima non diceva «compermesso!»
E udiva non solo le bestemmie in perfetto stile fiorentino, ma anche certi discorsi che tre anni addietro sarebbero costati la fucilazione...
Ma che volete? Erano così mutati i tempi!
***
Ma ritornando poi a casa, solo solo, come gli faceva male la sua ferita, riportata sul campo dell’onore!
Note
- ↑ Leggenda di barbarie germànica abilmente diffusa fra noi dalla stampa anglo-francese. Si arrivò sino al grasso ottenuto dai cadàveri. La grande chìmica dei tedeschi fu punita con ben atroce modo!
- ↑ Queste pagine quali trovo nel Diario, tali immutate lascio. Quali siano le vicende future, Benito Mussolini è l’uomo che con il nome di Duce, che qui vale eroe — come intendevano gli antichi — riconsacrò con la «marcia su Roma» il tempio d’Italia profanato.