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ti i pacifici. Ma non riesco a mettere in concordanza queste parole di Cristo nel sermone della montagna, con la esaltazione delle forze belluine nella Laus vitae del d’Annunzio1.

Alcuni placidi borghesi lombardi, nel treno, leggono, commentano a modo loro, l’omelìa del d’Annunzio.

Dicono:

«Le parole le va a trovare sotto terra» «L’è el so mestèe!» «Questo d’Annunzio l’ha faa diventà beati tucc» «Questa qui l’è robba che mi leggerò quater o cinq volt, come el Manzoni.» «L’è un inno alla guerra» «Mi vo no!».

Quei buoni uomini lombardi ripongono con cura il Corriere, e poi estraggono dalla busta nera le loro carte legali. Parlano dei loro affari.

Ecco: mi si affaccia, mi balla davanti, fuori del finestrino, l’immagine del sig. X... professore di ginnasio, col quale spesso mi trovo a contatto alla trattoria. Penso e mi càdono le braccia.

Eccolo! È di media statura, media età, mezzo pelato, baffi grigi e sporchi, camicia di flanella con cravattina nera, un po’ unta. Vive solo. Ha l’aspetto, la voce, la placidezza canonicale. Oh, anche

  1. Questi e altri giudizi su Gabriele D’Annunzio rispecchiano sentimenti di allora. Ciò che poi d’Annunzio operò durante la guerra forma di lui un uomo che quasi raddoppia e rinnova, per virtù meravigliosa, la sua vita. Questo ossequio non credo debba precludere la via ad esprimere quelle che erano le voci di allora.