Il Raverta
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I
IL RAVERTA
dialogo
di messer GIUSEPPE BETUSSI
nel quale si ragiona d’Amore e degli effetti suoi
Interlocutori :
Baffa, Raverta e Domeniche
Baffa. Non confesserò già io che sia di vostro debito il venire a visitarmi; perché, oltre il conoscermi, meno mi reputo tale che siate tenuto a simile obligo: ma ciò che fate voi più tosto oprate per vostra cortesia e gentilezza e per alcuna scintilla di vero e perfetto amore che mi portate, il quale così spesso vi muove a venire ad onorarmi, che per merito o virtù che in me si ritrovi.
Raverta. Anzi perch’io vi sono più che molto tenuto, essendo voi specchio delle rare e virtuose donne. E quando non ci fosse altro debito, non vi pare egli grandissimo l’odor delle virtù vostre, le quali debbono movere ogniuno, che non solo vi conosca, ma pure abbia una minima notizia del valor vostro, ad amarvi e riverirvi?
Baffa. Ben dico io: l’affezzione che mi portate vi fa uscire del dritto sentiero; nondimeno io m’allegro che tale opinione di me sia in voi, sì come poi mi doglio che l’opre non siano conformi alla credenza ed impressione che di me avete.
Raverta. Non dubito punto in ciò d’ingannarmi. E, come già furono descritte le donne di Lacedemonia per dottrina egregie, cosi si potrebbono celebrare le viniziane per famosissime, se molte ce ne fussero simili a voi. Ma duoimi d’avere turbato la quiete vostra, ché, per quanto io veggio, voi ragionavate con qualche bello ed utile libro.
Baffa. Turbato voi non m’avete, perché m’è più caro il vedere e ragionare con esso voi, che quanti libri io potessi e leggere ed udire; conciosiaché da voi sempre io posso imparare alcuna cosa, il che d’ogni tempo nei libri non m’incontra: i quali, come ch’io legga ed intenda (ché, s’altramente fosse, sarebbe uno sprezzargli), nondimeno molte volte mi restano dei dubbi e degli argomenti ch’io soglio fare irresoluti, la qual cosa, ragionando co’ pari vostri, non mi può intra venire. E pure ora a questo termine io mi ritrovava, mentre io era tutta rivolta con l’animo a considerare la diffinizione data ad Amore da Leone ebreo, la quale molto mi piace per quel poco che con l’ingegno mio io posso discorrere. Ma, rivolgendo di molti libri, non m’è per anco venuto fatto di ritrovare una diffinizione d’Amore che serva in generale; onde a miglior tempo non potevate giungere, poiché da voi son certa di rimanere intieramente sodisfatta.
Raverta. Se dall’opre di quello ebreo che si divinamente n’ ha scritto, dai bellissimi dialoghi dello eccellentissimo Sperone e da quelle del dottissimo Piccoluomini, libri a voi famigliarissimi, voi non rimanete contenta, molto meno di me v’appagherete voi. Onde, signora Francesca, molto m’incresce non potervi servire.
Baffa. Egli è vero ch’io mi chiamo più che sodisfatta di quanto eglino ed altri n’hanno scritto; ma, perché aspetto oggi il Campesano, il quale, se tutte le promesse sono debiti, è mio debitore di raguagliarmi di molte cose d’intorno d’Amore ed in generale di diffinirmelo, desidero intendere alcuna cosa di momento in questa materia per potermi opporre alle sue ragioni, accioché di liggiero e senza contesa avere non passino le sue dimostrazioni.
Raverta. Ben potete fidarvi di lui, perch’egli non è per dirvi cosa, la quale non abbia da stare ad ogni paragone.
Baffa. È vero. Nondimeno, recando sempre alcuna cosa in contrario, talora si viene più facilmente a ritrovare la verità. E però, di grazia, non vi sia grave dirmi che diffinizione si potesse dare ad Amore che servisse in generale.
Raverta. Cosi dunque sproveduto m’assaltate, senza pur darmi un minimo termine? Ma, se cercate cosa per arguire ad alcuna delle sue ragioni e volendo apprendere da questo mio improviso ragionamento ciò che sarò per dirvi io, tutto passerà per buono senza contrasto. E però fia meglio o aspettare messer Alessandro, ch’io m’ingegnerò, benché voi siate sofficientissima a repugnare a qualunque dottissimo discorso ed a sostentarne la parte vostra, di non lasciar passare tutte le sue ragioni così senza contrasto; o che indugiamo tanto che alcuno altro nostro amico sovragiunga, il quale m’aiuti a dirvene.
Baffa. Sarà buono incominciare. Ma eccovi quanto la sorte ci si mostra favorevole. Vedete come più a tempo non poteva venire il nostro messer Lodovico; onde egli, benché non abbiate bisogno d’aiuto, potrà, dandovi agio di riposare talora, dirne la parte sua, confermando ed impugnando le vostre ragioni.
Domenichi. Che nuova allegrezza è questa della mia venuta?
Baffa. Sedete, ché lo saprete tosto.
Domenichi. Eccomivi obedientissimo, senza molto farmi pregare, ché, per mia fé, son lasso.
Baffa. Onde venite, che cosi séte affannato? Domenichi. Vengo da casa l’Aretino; nella quale concorre,
a rallegrarsi seco delle smisurate carezze che gli ha fatto l’imperadore, tutta la città.
Baffa. Ho inteso che Sua Maestà, oltra i doni, l’ha fatto cavalcar seco a man ritta di molte miglia, raccomandandolo alla signoria di Vinegia come la sua propria persona.
Domenichi. Così è.
Baffa. Che dicono i pedagoghi?
Domenichi. Confessano che non ne sarà mai più un altro.
Baffa. E non è ciancia. Ma, come che io vi veggia sempre volentieri, ora gratissimo m’è stato il giunger vostro; perché, avendomi ora il signor Ottaviano da raguagliarmi d’alcune cose, desiderava che alcuno suo amico sovragiungesse, non già per aiutarlo, ma per contender seco, accioché meglio mi rendesse instrutta di quanto egli è per dirmi.
Raverta. Non le credete così ogni cosa, perché io vo cercando persona che m’aiti; né miglior né più fedel compagno mi si poteva offerir di voi.
Domenichi. Se pure io son buono, senza cerimonie, spendetemi per quello ch’io vaglio. Ma lodato Iddio, ch’io sarò giunto a tempo per participar di sì grato ragionamento.
Raverta. La signora Francesca, per non perdere molto tempo in rivolgere i libri, ora voleva ch’io le diffinissi in generale ciò che sia Amore, secondo il parer mio. Non è così?
Baffa. Così è veramente. Ma so che non mi negarete anco alcuna cosa appresso, perché sarà necessario passare più innanzi.
Raverta. Ben m’aveggio che la cosa non si fermerà qui; pure vedrem che sarà. Ora io vi dirò: Amore, come diceste dianzi, diversamente da molti è stato diffinito, né per anco vi è stata alcuna diffinizione in generale, la quale a pieno abbia potuto a giudiciosi orecchi sodisfare. Né meno mi persuado io saperlavi mostrare, perché mi conosco non poco inferiore a tanti che così bene e dottamente ne hanno scritto. Nondimeno vedrò di avicinarmi più alla sua propria che sarà per me possibile. E perché ricercate, e bisogna che questa nostra diffinizione serva a tutte le spezie d’Amore, le quali per ora divideremo in due parti (cioè nelle cose superiori verso le inferiori, quale è l’amore di Dio verso noi; e nelle cose inferiori verso le superiori, quale è il nostro verso Iddio); non mi accosterò in tutto, né mi dilungherò da quelle che da’ più saggi gli sono assignate. Alcuni vogliono che Amore in generale sia desiderio: se questo affermaremo, non vi si contenerà lo amore che noi portiamo alle cose che possediamo, percioché desiderio è solamente delle cose che non si posseggono. Onde, se l’amore fosse sempre desiderio, restarebbe che fosse amore, prima che si avesse la cosa desiderata; e, avendola, se amore fosse desiderio, non sarebbe più amore. E però meglio parmi che, in luogo di questo «desiderio», v’abbiamo da porre «affetto volontario».
Domenichi. Con licenza, signora. Che differenza fate da « desiderio » a « volontario affetto »? Conciosiaché ogni nostro desiderio nasce dalla volontà ed ogni desiderio è affetto; di maniera che a me pare che siano una cosa istessa.
Raverta. Or ora dirovelo; per questo: perché, volendo definire Amore in generale (essendo quello così delle cose che si posseggono, come di quelle che non si hanno), «affetto» è voce la quale non solo, come sua propria spezie, il desiderio abbraccia, ma ogni altra passione comprende che nell’animo nostro possa cadere; onde il desiderio, essendo solo di quello che non si ha, e l’amore, delle cose ancora che si hanno, fu di necessitá trovare vocabolo piú generale che «desiderio» non era, che l’uno e l’altro propriamente contenesse, si di quello che si possiede come di quello che non si possiede. E però m’è paruta piú acconcia questa voce. Ne segue dalle parole vostre ancora che, nascendo desiderio dalla volontá, sia però il medesimo.
Domenichi. A ciò m’acqueto.
Raverta. Se vorremo per differenza aggiungergli: «di fruire con unione la cosa stimata bella», questo non potrá cadere in generale; perché «fruire con unione» non si conviene allo amor di Dio verso noi e le cose create, ché Iddio è sommo bello e ciò ch’è di bello da lui procede; onde in lui non può cadere desiderio di fruire alcuna cosa bella. Anzi si dee dire che in lui sia affetto volontario non di fruire, ma di partecipare della sua bellezza le cose da lui create. Perché, dicendo «fruire», quasi vi fa credere questa cosa stimata bella lontana da lui. Nondimeno tutta la bellezza delle cose create, come v’ho detto, procede ed è da lui causata, non altramente che i raggi e lo splendore proceda dal sole, il cui splendore alluma le cose create e scende sopra noi, nè punto si parte da esso sole; onde, senza punto privarsi di bellezza, egli ne partecipa di quella e noi siamo i partecipati. E però, se diremo, invece di «fruire con unione», «partecipare o esser fatti partecipi», questa differenza servirá piú in generale.
Domenichi. Io v’intendo. Ma, poiché meglio vi consona questo «partecipare o esser fatti partecipi» (l’uno dei quali riferisce a Dio, l’altro a noi), lasciandovi in fine «della cosa stimata bella» questo non servirebbe alla precedente diffinizione, perché ciò che si stima bello può essere e non può. Standovi questo dubbio ed avendo questa diffinizione da servire in generale, non sarebbe propria, perché restarebbe che Iddio non avesse perfetta cognizione e potesse stimar bello quel che non è bello.
Raverta. Buona ragione è la vostra. Onde eccovi che non la lasciaremo a questo modo. Ed accioché serva piú salda ed intiera conclusione, porremo inanzi quella voce «stimata», «conosciuta», la quale si riferirá a Dio, conoscitor di tutte le cose delle quali non si ha certa cognizione, ch’amando, benché non siano, stimiamo belle.
Baffa. Voi avete fatto una disputa e gli avete dato non so che diffinizione in generale, e ciò che vi concludiate per me anco non lo so.
Raverta. Troppo correte in fretta. L’abbiamo partita, ed ora l’uniremo e diremo in questo modo: Amore è uno affetto volontario di partecipare o di essere fatto partecipe della cosa conosciuta, stimata bella.
Baffa. Replicatemi brevemente le ragioni.
Raverta. Voi di soverchio m’affaticate, volendo ch’io vi ritorni a dire una cosa piú volte.
Baffa. Per cortesia vostra, ditela ancora una volta e non piú.
Raverta. Perché «affetto volontario» è generale, per essere così di quello che si possiede quanto che non si possiede. Di «partecipare o essere fatti partecipi», l’uno serve all’amor di Dio verso noi e l’altro all’amor nostro verso Iddio. «Della cosa conosciuta, stimata bella» serve medesimamente a Dio che conosce, ed a noi che stimiamo. Perché, dicendo solamente «conosciuta», resterebbe che in noi fosse anco quello conoscimento ch’è in Dio. Però, lasciandovi quella voce «stimata», meglio al nostro si conviene, perché n’è tolta la cognizione di molte cose, che, se ben non sono, amandole presumiamo e stimiamo che siano; il qual difetto non può cadere in Dio che perfettamente conosce se stesso bello, ancora accompagnato con le cose create mentre ne fa partecipi. Onde anco con questa sola voce «conosciuta» si renderebbe l’uomo quasi cosí perfetto come Iddio; e con quella sola «stimata» si leverebbe molto di perfezzione alla cognizion di lui.
Baffa. Ora si ch’io ho compreso il tutto, e con questa diffinizione assai m’avete sodisfatto.
Domenichi. Quell’altra diffinizione che vi si dá: che «Amore sia un circolo buono, dal buono nel buono perpetuamente rivolto», non vi piace ella?
Raverta. Piacemi, e tutte l’altre insieme; ma questa non è diffinizione, e piú tosto si dirá «descrizzione». E di questa tale descrizzione, parlando della beatitudine, se avremo agio di accennarne, alquanto ne ragioneremo.
Baffa. Poi che l’abbiamo diffinito o, per meglio dire, lo avete; seguite, di grazia, dimostrandomi le sue spezie e facendone le sue divisioni.
Raverta. Ben dissi io che la cosa non si fermarebbe qui; onde, a sodisfare alle vostre accorte dimande, converrá ch’io mi faccia piú che io; ma, poich’io ho incominciato, son disposto farmi riputar piú tosto ignorante che discortese verso voi, che meritate che non vi si nieghi cosa la quale a voi piaccia, conciosiaché non vi possono piacere cose se non utili, oneste e buone. Ora avete ciò che sia Amore; onde s’intende ch’egli è cosí delle cose che si posseggono come di quelle che non si hanno. E però lo divideremo dal piú al meno: cioè dalle cose superiori verso l’inferiori, e poi dalle inferiori alle superiori; e, cosí distinguendolo, troverem tutte le sorti d’Amore. Prima vi è quello dalle cose superiori verso l’inferiori, che contiene partecipazione: cioè quello di Dio verso noi, il quale s’infonde alle cose animate ed inanimate; lasciaremo le inanimate da parte. L’amor di Dio verso le animate si estende verso i razionali e gli irrazionali: razionali, cioè verso gli angeli, gli uomini e le donne; verso gli irrazionali, come sono gli animali brutti, del quale non diremo se non ne fará mistiero. Di quello verso i razionali, parlando del nostro verso Iddio, ne toccheremo qualche cosa. Queste sono le divisioni dello amore dalle cose superiori alle inferiori. Ècci l’altro amore, il quale è dalle cose inferiori verso le superiori, che contiene in sè affetto volontario di essere fatto partecipe: ed è il nostro. Il quale medesimamente si estende verso le cose animate ed inanimate, intendendosi de’ razionali ed irrazionali. Le razionali, corruttibili ed incorruttibili: incorruttibili, cioè Dio, angeli e tutte le altre cose celesti; corruttibili, verso gli uomini, sí di maschi verso i maschi come verso le femine, e sí delle donne verso le donne come verso gli uomini.
Baffa. Come «cosí di uomini verso uomini, e di donne verso le donne»?
Raverta. Che? Forse ve ne maravigliate? Può essere vero e perfettissimo, mentre abbia risguardo alle bellezze dell’animo, ed è lecito; sicome diventa illicito quando tende ad altro fine.
Baffa. Ora sí ch’arei caro che mi dimostraste quando è lecito e quando si fa illecito, ed a qual partito si debbono amare le perfette bellezze.
Domenichi. Lasciate, poich’egli ha fatto la distinzione, che prima ragioni dell’amor di Dio verso noi e del nostro verso le cose celesti; e poi vi dichiarerá questo verso le terrene e piú basse.
Baffa. Questo non lodo, perché, quando egli sará infiammato di quelle cose divine ed immortali, non degnerá poi di mirare a queste umane e mortali; di maniera che questo sarebbe uno edificio senza fondamenti.
Raverta. Non vi curate, signor Lodovico, ché, tutto ch’io potessi seguire l’ordine che voi dite, io voglio però contentarla, e che di queste divisioni facciamo una scala, per la quale, di grado in grado, pervegniamo da queste cose basse e terrene a quelle alte e celesti.
Domenichi. Come meglio vi pare, ché ben veggio io che avete in animo di mostrarci che per mezzo di questa contemplazion mortale si giunge a quella sempiterna.
Raverta. Sí, spero. Avete ben compreso questa divisione?
Baffa. Non so che piú chiara; io, per me, finora v’ho benissimo inteso.
Raverta. E ciò molto m’aggrada. Lasciaremo da canto le cose inanimate, nè di quelle parleremo se non quanto ne occorrerá in qualche parte a toccarne: cosí anco le irrazionali; e parleremo delle animate razionali. Ed ora vi dirò esserci l’amor dell’uomo verso l’uomo, e medesimamente quello della donna verso la donna, il quale è desiderio di unirsi con la cosa stimata buona, e questo sarebbe l’animo dell’amata. E però, l’uomo essendo umano nè potendo congiungere perfettamente l’animo suo con quello dell’amato, da questa impossibilitá nascono i sospiri, le lagrime e ’l languir degli amanti; ed avendo ad essere lecito, deve contenere in sè onestá; e quello dell’uomo verso la donna e cosí anco della donna verso l’uomo medesimamente può esser buono e cattivo, e questo è diffinito: «desiderio di fruir la bellezza.» A conoscere quando sia lecito o illecito, è necessario sapere qual sia la vera bellezza, perché, di quella maniera che la bellezza è amata, tale è lo amore.
Baffa. Dichiaratemi che cosa sia «bellezza» e quale sia la perfetta, acciò, avendone cognizione, io sappia perfettamente amare.
Raverta. La bellezza è un dono dato da Dio, ed uno splendor del sommo bene; cioè una certa grazia, la quale, per la ragion conoscitiva che ne ha la mente o per la persuasione che ne prendono i due sensi spirituali, l’occhio e l’orecchia, diletta e trae a sè l’anima.
Baffa. Di quante sorti vi è bellezza?
Raverta. Vogliono che sia di tre.
Baffa. E quali sono?
Raverta. La bellezza degli animi, che con la mente si conosce; quella dei corpi, ch’è proporzione de’ lineamenti e con gli occhi si comprende, la quale, per esser vana ed ombra piú tosto di bellezza, poco o nulla da me sará ricordata...
Baffa. Anzi vi prego a dirmene alcuna cosa, ed arei caro che, per esser la men buona e la piú dal vulgo apprezzata, che fosse la prima.
Raverta. Non mi date questa impresa, perché male vi saprei dimostrare che si convenga a formare un bel corpo. Altri di questa ne hanno scritto abastanza: leggete i ritratti del Dressino [Trissino], che vedrete quali proporzioni vi si richiedono. Chè io non voglio starvi a diffinire la cagione perché quegli uomini, e cosí donne, di picciola statura, quantunque siano ben formati, si chiamino piú tosto «formosi» che «belli»; e in che consista la corporale bellezza, essendo questo ufficio di pittore. Io vi dirò solo di quante sorti vi sia bellezza.
Baffa. Dite ciò che vi piace.
Raverta. M’avete fatto scordare quello che io avea incominciato.
Domenichi. Dicevate di quante sorti sia: quella degli animi, quella dei corpi, e volevate dir l’altra.
Raverta. E quella delle voci: cioè l’armonia di suoni, di versi e di prose, delle quali le orecchie godono.
Baffa. Dunque, consistendo la bellezza in queste tre parti, la mente, gli occhi e l’orecchie, sarebbono quelle per mezzo delle quali si goderebbe di quella, e gli altri membri non sarebbono necessari in Amore.
Raverta. Sì, ché con questi si gode la perfetta bellezza; onde gli altri atti, che si estendono piú oltra, appartengono piú tosto ad una spezie di rabbia e di furore che di altro. Perché molto contrario è il perfetto amore alla libidine. E colui che in amore non si contenta di queste due perfezzioni per goder la bellezza, non appetisce il vero, anzi di rabbia è piú tosto infiammato. Né il perfetto amore si estende alla congiunzione di membri, perché allora la bellezza resta macchiata. E di qui viene che i piú savi additano una bella vergine per il proprio bello.
Baffa. Qual è la propria bellezza?
Raverta. La propria bellezza è quella per la quale tutte le cose sono decorate e per la quale tutte le cose sono o appaiono belle, e tutte le cose utili saranno belle.
Domenichi. Se cosí fosse, il cibo è pur necessario ed utile: nondimeno non si dirá mai «bello». E molte altre cose.
Raverta. Noi parliamo ora dei sensi delle cose animate, e diremo gli occhi esser «begli» non solamente per quella forma o proporzione che mostrano di fuori, ma per la potenzia che hanno di farne vedere; e chiamaremo tutto il corpo «bello», non per altro che per gli atti i quali, mediante quello, essercitiamo.
Domenichi. Dunque, contemplando la proporzione di essi membri in quanto all’essere ben formati, ed a quei lineamenti che ad altro non servono che ad allettar gli animi nostri a quella bella figura, non si potrá dir «bellezza».
Raverta. Egli è vero; ma diversamente si può contemplare. E figurando un bel corpo e ben formato in quanto a quelle proporzioni estrinseche, nè cogli occhi dell’intelletto passando piú oltre, amando quella parte apparente, non si dirá mai che desideriamo veramente godere la perfetta bellezza, anzi accecati ameremo un’ombra di bellezza, che cosí può dirsi al corpo. E che sia il vero: sicome la vera bellezza si dice splendore del divin volto, la quale descende chiara nel mondo, piú chiara nell’animo e chiarissima nella mente dell’angelo, essendo piú perfetto l’angelo, si vede che piú ne partecipa egli, meno l’anima e molto meno questo corpo, il quale è indumento di detta anima, e cosí questa proporzione di membri esteriori viene ad essere quella bellezza minore e meno apprezzata.
Baffa. Quali s’intendono le maggiori?
Raverta. Le maggiori bellezze consistono nelle parti dell’anima che vengono ad essere piú elevate dal corpo, le quali sono: imaginazione, ragione ed intelletto. Dalla imaginazione nascono gli alti pensieri, le imaginazioni diverse e le invenzioni. Dalla ragione separata dalla materia s’apprendono i begli studi, gli abiti virtuosi, le scienze e tutte queste altre simili cose. Ma nell’intelletto sono le veritá delle dette cose, ma piú astratte dalle loro materie, ed è a sembianza dell’intelletto divino.
Domenichi. Queste verrebbono ad essere bellezze semplici ed incorporee: onde il vulgo non chiamerá mai una cosa, che sia incomposita, bella. E però di qui viene che dicono «belli corpi» per essere misti. Sí che bisognerebbe che questa bellezza servisse ad ogniuno.
Raverta. Chiamano pur troppo «bellezza» anco le cose incorporee, ma non le conoscono, e questo nasce dalla inconsiderazione. Perché diranno «grande animo», «buon discorso», «bello ingegno», sí come farebbono «bel corpo», e nondimeno sono incorporei ed incompositi. Ma tutto procede dal poco vedere, imperoché questi tali non contemplano le bellezze con altro che con gli occhi corporei. Ma chi vuol conoscere la perfezzione, bisogna che con gli occhi incorporei figuri le cose, e cosí verrá alla perfetta cognizione.
Domenichi. A questo modo la bellezza corporea è ombra della contemplativa e spirituale.
Raverta. Sí veramente.
Baffa. Dunque questi occhi esteriori e l’orecchie poco giovano. Perché, se cosí è, che le bellezze interiori ed incorporee siano le vere, nè questi potendole apprendere, vi sono per niente; e meglio fòra se non ci fossero, perché vanamente non si mirarebbe.
Raverta. Anzi sono necessarissimi, imperoché per mezzo di questi si perviene alla contemplazione, onde intrinsecamente poi si considera alla perfezzione; e l’anima, come giudice, viene a conoscere la vera bellezza. E molti sono che hanno acuto vedere e buono udire; nondimeno vedranno delle bellezze, che non conosceranno, e cosí udiranno delle cose utili, nè perciò punto pasceranno l’orecchie di quella soave dilettazione, se l’anima non sará quella che apprenda la vera cognizione. E l’anima alle volte e bene spesso piglierá piú facilmente in sè una cosa che l’altra, secondo che sará piú appropriata ed a quelle piú inclinata.
Baffa. In conclusione, a quel ch’io veggio, la vera beltá voi chiamate la interiore, punto non apprezzando il corpo. Ma, se cosí fosse, ardirei dire che Iddio avesse fatto delle cose che non sono necessarie e che son vane, essendo di nessuno momento.
Raverta. Oh, in quanto grande error sète a imaginarvi non che a dir ciò! Ma, sí come vi ho detto che gli occhi corporali sono necessari accioché veggiamo le cose composite e corporali, cosí è necessario il corpo. Percioché da questa bellezza frale, che si dice «ombra», si passa alla vera e perfetta luce, come piú a pieno a miglior luogo vi dirò. Ma non bisogna fermarsi in questa apparenza e stimare essere quello che in vero non è, perché l’uomo in ciò chiaramente s’inganna. E Dio non ha fatto cosa che non sia necessaria e buona. Leggete, se ben mi ricorda, il Petrarca in quella canzone. «Lasso me, ch’io non so in qual parte pieghi», lá dove dice:
Tutte le cose, di che ’l mondo è adorno,
uscir buone di man del Mastro eterno:
ma me, che cosí adentro non discerno,
abbaglia il bel che mi si mostra intorno;
e s’al vero splendor giamai ritorno
l’occhio non può star fermo;
cosí l’ha fatto infermo
pur la sua propria colpa
Sí che vedete che Iddio ha fatto il tutto necessario e buono. Ma infin egli medesimo confessa che si era perduto in questa beltá terrena. Né in altro mai biasimarci il suo amore, che nell’aversi tanto fermato in questa bassa, che non levasse mai gli occhi dell’intelletto a quella celeste. Perché nel vero il suo amore fu onesto, ch’egli si contentò di vedere, di ragionare e di pascere la mente del corpo, dell’armonia e delle bellezze dell’animo di madonna Laura.
Baffa. Ditemi: quale è la beltá, la quale, tosto che noi cominciamo a porre amore ad una cosa, sí come mortali, amiamo; onde poi da quella, di grado in grado, pervegniamo alla celeste?
Domenichi. Lasciate, di grazia, ch’egli segua.
Raverta. Iddio è il sommo bello ed il tutto; onde conviene ch’egli, come creatore di niente di tutte le cose, sia quello che, avendoci dato l’essere, ne dia anco il dono della bellezza. E perch’egli è l’istesso buono o, vogliamo dir, bello, è di necessitá che, spirando tutta la bellezza, le cose che gli sono piú vicine piú ne partecipino. Come sarebbe la natura angelica, i corpi celesti, secondo i gradi loro maggiori o minori, e poi le parti delle anime nostre, ed appresso i corpi. E però l’angelo è quello ch’è il piú bello e riceve in sè la maggior bellezza; piú inferiore all’angelo sta l’anima, la quale medesimamente riceve bellezza; e dietro quella viene nel corpo.
Baffa. Tanto che il corpo è l’ultimo, e deve esser quello che meno viene a partecipar d’essa.
Raverta. Cosí è. Però, volendo conoscere la vera bellezza, è necessario di mano in mano considerarla. Prima vi s’appresenta il corpo, poi l’anima perfetta, e poi l’angelo piú perfetto; indi Iddio, causa, origine e fonte del tutto, perfettissimo. I primi che siano causa di mettere considerazione a questa bellezza sono gli occhi, ai quali, per l’acuta visione ch’è in loro, prima si rappresenta la forma delle cose corporee; ed incontanente l’orecchie sono le seconde, che incominciano a porvi speranza, tosto che odono l’armonia, la quale subito passa piú entro. Imperoché l’udito è vie piú spirituale, di maniera che gli occhi e l’orecchie vengono a goder mirabilmente. A queste due parti la mente s’aggiunge, la quale incomincia meglio a por considerazione alle bellezze dell’anima; e, per fare un fermo vincolo, sí come gli occhi e l’orecchie si sono infiammati di cognizione, così, avendo l’uomo la mente unita con questi, incomincia a considerar l’anima; e, trovandosi in parte sodisfatto nel cominciare a desiderar con gli occhi, con l’orecchie e con la mente propria, forma altri occhi ed altre orecchie nella istessa mente.
Baffa. Come volete che in noi siano altri occhi ed altre orecchie che queste visibili?
Raverta. E perché no? Subito gli occhi e le orecchie divengono invisibili, e si fanno a guisa della mente, allontanandosi in tutto dal corpo, congiungendosi all’anima intellettuale; e cosí incominciano ad amar le bellezze dell’anima, e da quella vanno ascendendo con l’anima, la quale diventa spirituale, a quella degli angeli, come piú perfetta bellezza; tanto che con la mente, la quale è congiunta con l’anima spirituale ed in sè contiene vedere ed udire incomprensibile, considera e desidera di unirsi al datore di tutte queste bellezze.
Baffa. Volendo noi conoscere la perfetta beltá, mentre siamo in questo mondo, e di quella godere, quale abbiamo da tenere che sia?
Raverta. Quella che con gli occhi, con l’orecchie e con la mente si riceve.
Domenichi. Tutte le vere bellezze si godono in questo modo?
Raverta. Ben dite «le vere bellezze»; ma avertite che diversamente si gode, e bisogna aver la vera cognizione: perché l’uomo che non l’ha, vedendo un bel corpo fatto con quei lineamenti vaghi ed a proporzione, subito giudica quella cosa bellissima, nè piú oltre trascorrendo con l’intelletto, se l’anima sia parimente bella, subito s’infiamma di possederlo; e questa non può essere cognizione di vera bellezza.
Domenichi. Per Dio, rade volte falla questo ordine: che un bel corpo e ben formato, per lo piú, non abbia anco bella anima.
Raverta. Anzi bene spesso. Ma lasciamo andare. La vera bellezza è rinchiusa in noi, e quello ch’ad ogniuno proprio di fuori appare, è ombra di prigione di bello. Percioché l’anima è la cosa bellissima ed è rinchiusa in noi, né si può vedere, eccetto che invisibilmente e con l’intelletto. Laonde è necessario, affisando gli occhi corporei in questa ombra, ché cosí diremo al corpo, o, per meglio essere intesi, prigione di bellezza (la quale non deve da per sé essere apprezzata, ma solamente stimata come imagine della divina), tosto piú entro con l’udito, ch’è piú spirituale, penetrare, ed incontanente alzar la mente, che a pieno meglio per entro discorre, ed a questo modo formare una armonia, la quale non è altro che concordanza; e cosí per mezzo dello esteriore considerare l’interiore.
Baffa. Non sarebbe dunque meglio, nel primo impeto, senza altramente curare il corpo, considerare le bellezze dell’anima?
Raverta. Signora no. Perché come volete amare una cosa che non abbia essere e non sappiate ciò ch’ella si sia? Ch’è di necessitá che in sé contenga qualche forma. Né ciò potrebbe essere altramente, essendo necessario che prima dalle cose visibili e corporee si faccia imaginazione delle invisibili ed incorporee. E perché meglio m’intendiate, vi dirò uno essempio. Il pittore, se naturalmente vuol formare una imagine a sembianza d’un’altra, se non ha la vera e viva forma dinanzi che gli rappresenti quella ch’egli vuole, potrebbe farla cosí simile? Certo no. Ma da quella visiva forma quella che ha in mente. Ma che piú? Gli astanti, che contemplaranno quella imagine, nel primo incontro non la raffigureranno per una pittura? Certo sí. Nondimeno con gli occhi dell’intelletto, invisibilmente, subito, formeranno nell’anime loro la vera e perfetta idea, a simiglianza della quale quella è stata formata. Sí che da quello oggetto visibile passano al contemplativo, e da quella colorita imagine considereranno quale si sia la viva. Onde, stando in tale imaginazione, Trattati d’Amore del Cinquecento. ameranno piú la vera, la quale tosto che vedranno, se sará simile a quella formata a sua similitudine, molto loderanno quel ritratto, ma piú il vero. Se anco troveranno quella imagine non esser conforme alla sua idea, ma che la viva sia piú difforme, poco uno e meno l’altro cureranno.
Domenichi. E chi è che piú non ami la luce che l’ombra sua?
Baffa. E che volete dir per questo?
Raverta. Voglio inferire che, se l’occhio visibile figurerá un bel corpo, passando con quello dell’intelletto alla sua idea, che è l’anima, non la ritrovando o conforme o piú bella del corpo, che poco la deve prezzare, per essere quella, che dovria trovarsi perfettissima, piú imperfetta dell’imperfetto.
Baffa. Vorrei sapere a qual modo volete che si faccia per avere la vera cognizione?
Raverta. Giá ve l’ho detto e tuttavia ve lo dimostro; ma io temo non vi sia forse in piacere farmi ragionare piú d’una volta d’una cosa. Prima per gli occhi corporei e visibili, poi per l’orecchie, che sono piú vicine all’intelletto, e poi per la mente, la quale in sé contiene la contemplazion dell’anima con la memoria, si forma un’armonia e una concordanza, per la quale si conosce che cosí dentro è perfetta come di fuori s’è rappresentata. Ed in tale considerazione perfettamente si fermano gli occhi, le orecchie e la mente.
Baffa. A quel ch’io veggio, nel principio di tal contemplazione s’incomincia anco accendersi d’amore. Perché di ragione incominciando investigare e conoscer questa tal bellezza e cibando gli occhi di simile prospettiva, le orecchie d’una perfetta armonia e la mente del piú intrinseco, tutti insieme congiunti debbono essere le prime guide in amore.
Raverta. Rettamente avete giudicato. Né solamente ora s’incomincia di amare, ma si ama. Perché, conoscendo ogniuno una cosa buona e bella, l’ama. E però, poich’io veggio che assai avete a grado godere di tale cognizione d’amore, d’intorno a questo vi dirò alcuna cosa, della quale, non passando oltra il vedere, l’udire e il considerare, si fruisce di perfetta specie di dilettazione, perché lo amore nasce dalle cose che sono amabili. Ed essendo in noi tre qualitá d’amore, cioè amore bestiale, umano e divino, il bestiale si deve intendere: quello affetto eccessivo delle cose corporee disgiunte dalla onestá e rette senza ragione. E si può intendere ed applicare a tutte quelle che mancano di modestia e temperamento dell’intelletto dell’uomo. Umano s’intende quello ch’è circa le virtú morali, il quale partecipa di vera cognizione con alcun diletto ed in sé contiene la materia corporea e la forma dell’intelletto con onestá. Chiamasi «umano», per essere l’uomo composto di materia e ragione; ed è proprio quello che s’apprende con gli occhi, con l’orecchie e con la mente: il quale veramente si può chiamare lecito, e col mezzo di lui nasce poi in noi lo amor divino, ch’è la contemplazione della sapienza di Dio e delle eterne cognizioni. Il quale in tutto si parte da ogni materia corporea, e resta anch’egli piú lecito, piú onesto e tutto santo. Perché l’anima è fatta allora tutta spiritale, onde, dimorando in simile contemplazione, si fa partecipe della divina bellezza.
Baffa. A questo partito, bisogna pure fermarsi prima in questo amore che chiamate bestiale, volendo poi giungere a quello divino.
Domenichi. Non è cosi: udite che punto non è bisogno fermarvisi, e poco ancora in quello umano; perché, come dice il signor Ottaviano, quello è tutto disonesto e tende solamente all’amor ferino, il quale è libidinoso e in sé contiene tutti quegli affetti carnali che sono noti anco agli animali senza ragione, e quegli sensi, che spiritali non sono, in noi partoriscono. Ma nella prima contemplazione, che in noi nasce dalla cosa amabile, gli occhi sono le prime guide; i quali, se solamente si fermano in quel corpo, senza cercare per mezzo delle orecchie e della mente di passare piú inanzi, subito infettano gli altri sentimenti di sensualitá carnale: e questo tende all’amor bestiale. Perché, quando l’anima s’inchina e si ferma oltra misura nelle cose materiali e s’involge in quelle, perde in tutto la ragione e la luce intellettuale. Imperoché, non solo perde la copulazion divina e la contemplazion dell’intelletto, ma ancora la vita sua attiva diventa senza ragione. E però, fermandosi nella contemplazion corporale, lascia la vera strada, per la qual può salire alle cose celesti; e di piú, amando il corpo solamente, meno ama l’uomo, perché l’anima è l’uomo, ed in quella consiste la vera bellezza. Ed il corpo è la sua prigione ed il suo sepolcro, onde chi ama quello ama un’ombra. E questi tali si ponno assomigliare, come diceva Eraclito (come che la parola sia poco onesta), all’asino, ch’ama piú lo strame che l’oro. E però nell’intrinseco consiste la vera nostra bellezza, come dimostra Socrate nella sua orazione ridotta dal nostro Betussi in questi versi:
O Pan amico con ogni altro dio,
che in questo loco bel fate soggiorno,
datemi tanto don, vi prego, ch’io
tutto sia fatto bel dentro e d’intorno;
in guisa tal, che l’estrinseco mio
da l’interno di me non prenda scorno;
ch’io stimi ricco il savio, e abbia tanto oro,
quanto sia d’uom modesto ampio tesoro.
Così pregava il saggio filosofo. E chi sará quello che piú non lodi il prudente Ulisse che ’l formoso Nireo? Certo nessuno che voglia con gli occhi dell’intelletto discorrere quali siano le vere bellezze da essere apprezzate.
Baffa. Di tale maniera quasi, anco in una sua canzone, cosí dalle bellezze dell’animo come da quelle del corpo meritamente comenda il signor Vicino Orsino.
Domenichi. Lo so; e, benché altramente io non abbia per vista contezza di Sua Signoria, credo che molto piú sia il vero di ciò ch’egli ha scritto.
Raverta. Com’esser può ch’io non l’abbia mai veduta né udita? Però, di grazia, chi di voi n’ha copia o me la lasci vedere o degnisi recitarla.
Baffa. Ditela voi, Domenichi.
Domenichi. Purché io l’abbia a memoria.
Raverta. Oh, pensateci, ché ben vi tornerá a mente.
Domenichi.
Vorrei, signor, col piú degno pensiero,
col piú nobil desio, ch’abbia uman core,
chiuso ne la mia mente inferma e vile,
a queste carte dar gloria ed onore,
scrivendo i pregi onde voi sète altiero,
tutto ch’a par di voi sia lo mio stile
basso, rozzo ed umile.
Ma non so incominciar, non sono ardito
con cosí debil legno entrar ne l’onde,
troppo larghe e profonde,
dei vostri onori, abbandonando il lito:
scorgimi, Febo, e voi, sante sorelle,
mostratemi a cantar cose sì belle.
Ben può il gran Tebro a le sue lodi antiche,
a le vittorie, a le palme, ai trofei,
ond’egli è degno d’immortal memoria,
benché sia padre a molti semidei
ed abbia al nome suo le stelle amiche,
propor novella ed onorata gloria,
materia ad ogni istoria,
che nato sia d’intorno le sue rive
il piú bel germe e la piú nobil pianta,
di cui ogni lingua canta,
ogni intelletto pensa, ogni man scrive.
Quel, di ch’io parlo, è ’l caro signor mio,
vero amico degli uomini e di Dio.
Roma, s’avesti mai figlio onorato
fra tanti di cui vive il grido ancora
e vivrá mentre il ciel girerá intorno,
questo uno è ’l mio Vicin, quel che t’onora,
che ti promette il tuo primiero stato;
questo anco ti torrá vergogna e scorno,
e ogni tuo colle adorno
fará, come mai fu, di verdi allori;
per costui gli occhi tuoi dai gravi lutti
tosto saranno asciutti,
veggendol cinto il crin di mille onori;
e fia la tua ben lieta e dolce sorte,
giovin tornando, omai vicina a morte.
Deh, perché quanto è in voi, signor invitto,
raccolto da larghissimo pianeta,
per gradir gl’infiniti merti vostri
e far Italia in buona parte lieta,
non è a lo stuol dei vostri pari ascritto?
Voi patria e sangue avete, onde si mostri
dai piú lodati inchiostri,
che séte per entrambi a pruova chiaro.
Del vostro ingegno e del bel vostro volto
giá fu l’essempio tolto
dal cielo, a voi non giá, ma a molti avaro.
Perché si può di voi dir con effetto,
che dentro e fuori il bello ha in voi ricetto.
Del vostro ingegno angelico e celeste,
de la bell’alma e del pensiero ardente
di purissimo foco ed immortale
fa chiarissima fede ad ogni gente
la bellezza che in don dal cielo aveste,
non, come in molti, in voi poca e mortale,
ma immensa e fatale.
Questa, negli occhi e in tutto il viso vostro
fatto avendosi seggio eterno e solo,
tempra ogni affanno e duolo
che potesse ingombrar l’animo vostro,
e voi rende sí caro a tutto il mondo,
ch’altro piú bel non ha né piú giocondo.
Canzon lieta e gioiosa,
non men ch’ardita e temeraria in vista,
poiché ti vedi in abito mendico,
meco ti resta, dico;
ché troppo ardir poca mercede acquista.
E, s’al nostro signor tu pure arrivi,
di’ che di sua beltá né d’altro vivi.
Raverta. Bellissima è stata veramente e degna d’esser lodata da ogni gentilissimo spirito, se non per altro, almeno per cosí degno ed onorato subietto, a cui furono scarse le lode.
Baffa. Purché le bellezze del signor Vicino non ci abbiano fatto scordare l’amor nostro o, per meglio dire, il modo che mi mostravate d’amare.
Raverta. Non sará giá; ché ben mi ricordo di che dianzi, ripigliando il mio parlare, diceva egli.
Domenichi. Poiché sono uscito di camino, ritornatemi voi, ch’avete buona memoria, sulla strada, ch’io sono oggimai lasso di tanto ragionare.
Raverta. Così sia. Dicevate pur dianzi, se ben mi ricorda, che, cercandosi d’amare perfettamente ed essendo gli occhi, l’orecchie e la mente ministri d’Amore, che non bisogna fermar quegli nella contemplazion corporale, perché si viene a perdere la vera strada di salire al cielo.
Baffa. Non passate piú inanzi, ché ora mi torna il tutto a memoria.
Raverta. E però, ritornando al primo ragionamento, vi dico: che per niente in alcuno di questi amori non bisogna far dimora, ché di leggiero la ragione può cedere all’appetito, ma di mano in mano salire, finché si giunga a quel principio e fine delle cose piú eterne.
Baffa. Ora sí che ho incominciato a capire ciò che giá diceva messer Lodovico per le vostre parole. E sarebbe come dire: che, se l’uomo, giunto in mezzo un torrente, non cerca di passare all’altra riva, fermandosi molto in quel fondo cupo e pericoloso, facilmente potrebbe essere menato all’ingiú dall’impeto dell’acqua, ma, di lungo via senza fermarsi passando, entra securo all’asciutto, di maniera che in tal modo passa dall’una all’altra desiata riva. Ma nondimeno, volendo da un termine giungere all’altro, non può fare che non passi per lo mezzo.
Raverta. Cotesta è ottima comparazione.
Baffa. A che fine s’accende l’uomo d’amore?
Raverta. Giudico che non per altro, eccetto che per farsi piú perfetto nell’unione dell’anima dell’amato. Percioché nel vero amore l’uomo si muove per cagion di bellezza, la quale se conoscesse tale in sé quale conosce o stima in altri, non si porrebbe a ciò. Ma, perché con la mente sceme una beltá piú perfetta in altri che non fa in sé, desidera di essere fatto partecipe di quella; onde subito s’inclina.
Domenichi. Se poi l’amante fosse piú perfetto che non è quello a cui pone amore, o nell’amato non fossero quelle parti perfette ch’egli giudica, non restarebbe questi ingannato?
Raverta. L’amante sempre presume che vi sia quello di che ricerca esser fatto partecipe, ancora che non vi fosse. Perché giá s’ha formato nella mente quella idea perfetta. E però abbiamo diffinito Amore in generale essere desiderio di partecipare o d’esser fatti partecipi della cosa conosciuta o stimata bella, e però giustamente quella voce «stimata» si deve applicare a noi.
Baffa. In questo modo l’amante sarebbe sempre imperfetto, e l’amato sempre perfettissimo.
Raverta. In che modo?
Baffa. Se l’amante desidera di godere della bellezza dell’amato per farsi perfetto, l’amante conviene essere con mancamento, e lo amato perfetto.
Raverta. Non dite che sia, perché può essere e non può; ma sempre l’amante presuppone la cosa amata perfettissima, benché non sia.
Baffa. È il medesimo.
Raverta. Ma dirovvi: le piú volte, e sempre quando l’amore è corrispondente, perché cosí convien che sia per essere perfetto, ogniuno dei due, dal suo lato, sono amanti e dall’altro amati; tanto che vengono ad essere amanti ed amati. Perché, se io sono amante, per altro non sono eccetto ch’io reputo lo amato perfetto; onde, congiungendomi seco, desidero esser fatto partecipe di quel buono e di quel bello che io stimo e giudico che sia in lui; ed allora io sono amante dal mio lato ed egli lo amato. Dal suo lato medesimamente egli, ch’è mio corrispondente, è di me amante ed io vengo ad esser lo amato. Onde, pascendo gli occhi, l’orecchie e la mente di quel buono e di quel bello che, se bene non è in me, giudica egli che sia, mi tiene per perfetto; ed è allora amante ed io l’amato, sí come, dal mio lato, egli è amato ed io amante.
Baffa. Ora io v’intendo. Ma ditemi: può essere solo uno amante in amore senza che sia amato?
Raverta. Facilmente, perché quella cognizion di bellezza che mi si rappresenta in altri la reputo in me imperfetta, onde subito mi nasce quello affetto volontario che nell’amata persona di liggieri non può essere. E questo in parte è amore sterile, perché nell’amante è quella voglia che all’amato non è nota; né potrebbe per aventura piacergli, se ben gli fosse manifesta, benché rare volte Amore a nullo amato amar perdona.
Baffa. Ho compreso quanto di ciò m’avete detto circa il dimostrarmi che cosa sia Amore e di quante sorti ve ne sia. Ma desidero sapere la sua origine ed intendere che misterio sotto di sé, brevemente però, comprende quel Poro e quella Penia che a lui si dá per padre e madre.
Raverta. Amore, signora mia, non ebbe mai origine, né convenevolmente se gli può applicar tal nome, peroché egli è eterno ed una istessa cosa con Iddio, diviso solo in potenza. E, volendo scoprire questo misterio, bisognerebbe darvi ad intendere ciò che fosse il Padre, il Figliuolo e lo Spirito santo. Peroché il Padre è l’eterno produttore di tutte le cose; il Figliuolo è quella sapienza e bellezza eterna, onde quanto è di bello, per cosí dire, è bellificato; e lo Spirito santo è quello amore che ambidue gli sudetti tien legati in eterna unione; dal parto de’ quali è nata ogni bellezza ed ogni amore qua giú. Misterio veramente altissimo e scoperto da Salomone nel Cantico de’ cantici tra l’amato sposo e l’amata sposa, del quale noi non faremo molte parole. Ma, venendo a Poro e Penia, vogliono che Poro significhi «influenza», o vogliono dire «abondanza», e Penia «povertá» o «mancamento», che cosí diremo. E però dicono questi due esser parenti e genitori d’Amore. Onde sempre l’amante desidera esser fatto partecipe di quello che gli manca, e conosce o crede abondare nell’amato. Onde, se l’amore è scambievole, essendo l’uno e l’altro, dal suo canto, amanti, ambidue desiderano essere partecipati.
Baffa. A che tende la vera partecipazione?
Raverta. Conviene tendere al buono, all’utile ed al dilettevole.
Domenichi. Per l’amante o per l’amato?
Raverta. Per l’uno e per l’altro, e, avendo ad essere perfetto, che contenga in sé tutte queste tre qualitá.
Domenichi. Se contenesse solamente l’utilitá per sé e per l’amato, sarebbe da biasimare o pure tenuto perfetto?
Raverta. Non sarebbe giá in tutto biasimevole, ma neanco perfetto; imperocliè bisogna che abbia in sé tutti questi tre fini che risguardano all’utile, al buono ed al dilettevole, communemente per l’uno e per l’altro.
Domenichi. Contenendo in sé l’utile solo, a qual partito è biasimevole ed a quale piú lodevole?
Raverta. Io vi dirò: contenendo in sé l’utilitá, s’è per sé solo, non risguardando molto al danno e manco al bene dell’amato, è biasimevole e non contiene in sé alcuna perfezzione, né può a pena chiamarsi Amore. Se riguarda anco all’utile dell’amico, ha pure alquanto in sé di buono e di onesto; e questo perché l’amore viene ad essere con un poco piú di riguardo, tanto ch’è migliore: ma, se a quello di ambidue piú resta unito, è anco piú lodevole.
Domenichi. Alla bontá.
Raverta. Se al buono medesimamente anco per sé solo risguarda, non essendo anco per lo amato, non può tenere in sé perfetta bontá o, vogliamo dire, onestá. Se al dilettevole, ch’è quello al quale tutti gli amori tendono, vera e falsa può essere questa dilettazione. Perché, se questo amore tende solamente a godere di questa bellezza per diletto, non risguardando né alla utilitá né alla onestá per sé né per lo amato, questo diletto è vano e può dirsi sterile, conciosiaché non partorisce frutto alcuno che contenga utilitá né bontá. E però la vera dilettazione che s’ha da trare in amore ed alla quale si deve bramare di giungere, prima conviene aver risguardo che sia utile per sé e per lo amato, e cosí onesta; ché poi si perviene al perfetto fine con infinito diletto. Altramente, non essendo locato Amore in questi tre termini, viene ad esser o dannoso o cattivo o noioso per l’uno o per l’altro. Perché, se io conosco questa cosa utile o buona per me e non per l’amico, come può tenere in sé perfetto diletto?
Baffa. Perché fate cosí comparazione dagli amanti agli amici?
Domenichi. Io vi prego, signora Francesca, per grazia, che lasciate rispondermi a quello che ora m’è sovenuto.
Baffa. Come vi piace.
Domenichi. Non dite che l’amore, ad esser perfetto, deve tendere al buono, all’utile ed al dilettevole?
Raverta. Così dico.
Domenichi. Ma perché, se ogni cosa buona contiene in sé utile e diletto, non basta dire: che abbia d’aver riguardo solamente al buono? Chè, essendo buono, converrebbe essere utile e dilettevole.
Raverta. Io vi dirò la cagione. È vero che il buono è utile e dilettevole, ma il dilettevole e l’utile non è sempre buono. E però, perché talora tende all’uno, talora all’altro ed alcuna volta all’altro, per questa diversitá se gli danno questi tre termini, denotando le differenze per le quali diversamente s’ama. Ma a voi che mi dimandaste, se ben mi ricorda, perché feci comparazione dagli amanti agli amici, dico: perché l’amicizia è uno amore invecchiato, il quale sempre ha risguardo all’utile, al buono ed al dilettevole dell’uno e dell’altro, né si può divenir amici eccetto che per mezzo d’Amore, essendone quella specie di vero e di perfetto, tanto ch’Amore viene ad essere principio, mezzo e fine di tutte le buone opere; e da quello la cognizione ch’abbiamo delle cose celesti si comprende, tutto che sia incomprensibile. Imperoché per mezzo delle considerazioni intellettuali vi si mette amore.
Domenichi. È verissimo, ché ben troppo di buono apporta seco lo amore quando è perfetto. E piglio esperienza alle volte da quello che in tutto non ha risguardo né all’utile né al buono né al vero diletto, come spessissime volte è cagione d’infiniti beni. Perché, quantunque l’amore del Petrarca, come egli medesimo in piú luoghi confessa, non contenesse in sé quella utilitá né bontá né diletto che se gli conveniva, né egli alzasse l’anima intellettuale e spirituale a quella vera bellezza alla quale, per mezzo di quelle di madonna Laura, poteva, ma per lo piú avesse risguardo non solamente a quelle dell’animo suo ma anco alle corporee e caduche; se in altro conto non portò seco né utilitá né bontá né diletto; almeno fu cagione d’alzare l’intelletto suo, lá dove per sé non fora alzato mai: di maniera che vivono piú celebrati e piú chiari che mai. Perché
Questa fe’ dolce ragionar Catullo
di Lesbia, e di Corinna il sulmonese,
dice il divinissimo Bembo. Onde Amore è quello che tien desti i sonnacchiosi animi nostri, e leva le menti a cose degne. Cosí non si fermassero mai le menti nostre piú del convenevole in queste cose terrene. Ma seguite pure il vostro ragionamento.
Raverta. Dicovi che, se l’uomo conosce utile per sé e non per l’amico, come può contenere in sé perfetta bontá, né diletto comune? Onde è necessario che in sé lo amore s’estenda a queste tre cose.
Domenichi. Voi dite che Amore può tendere non solamente all’utile per sé, ma per altri.
Raverta. Sí dico, e deve.
Domenichi. Dunque Amore non sarebbe affetto volontario, in quanto a noi, di essere fatti partecipi, ma converrebbe anco essere di partecipare. Perché, tenendo all’utile suo, vengo a partecipare lui, e, tenendo al mio, allora desidero essere partecipato. Onde la partecipazion sola avete attribuito a Dio che partecipa noi.
Raverta. Ben dite e sofficientemente arguite. Ma io vi dico che in noi può essere che facciamo altri partecipi, e che anco noi siamo fatti partecipi. Perché, ad essere Amor perfetto, bisogna che sia corrispondente, e cosí essendo, come parmi avervi detto, si è amato ed amante, onde si partecipa e si viene ad essere fatto partecipe; ch’è una ragione. E poi, come che il proprio ed ultimo fine d’ogni agente sia per sua perfezzione, per sua utilitá e per suo diletto, nondimeno tutto il bene, che vuole lo amante per il suo amico o per lo amato, non è per il piacere ch’egli in quello riceve solamente, ma ancora perché viene a godere di quello medesimo di che partecipa lo amante e lo amico, conciosiaché sia amante ed amato ed un altro istesso. Onde tutte le felicitá sono cosí proprie dell’uno come dell’altro. E ben sapete che l’amante nell’amato si trasforma. Onde dirovvi che il bene dell’amato è piú proprio suo che il suo, sì che, desiderando l’utile, il buono e ’l diletto dell’amico, il suo proprio appetisce, ché il tutto è comune, essendo, come si presuppone che sia ad esser vero, l’amore reciproco, onde due che s’amano non sono piú due.
Baffa. Quanti dunque sono? Chè pure ho amato anch’io, e son pure stata quella medesima, e quello ch’io amava non era giá congiunto meco, anzi sempre siamo stati due, ed amava persuadendomi anch’io d’essere amata e so che cosí era.
Raverta. Anzi eravate uno istesso, o quattro.
Baffa. Tanto meglio, ché pure vorrei intendere come io sia stato due, ed egli due.
Raverta. So che fate per tentarmi, e non perché meglio di me non sappiate quel che vi voglio dire.
Baffa. Non lo so giá io.
Raverta. Se avete amato, essendo quella rara donna che séte e di cosí maturo e perfetto gíudicio, punto non dubito che non abbiate perfettamente amato, onde ogniuno, che sia pur un poco intendente, sa molto bene come si diventa uno e quattro.
Baffa. Di uno comprendo quasi quello che vi volete dire, e considero ciò che contiene in sé quel detto; ma non passiamo piú oltra. Voi credo che vogliate inferire Ch’Amore unisce tutti due gli amanti e gli fa uno, perché, essendo lo amore vicendevole, sono di un volere istesso; ma come quattro?
Domenichi. Accioché a questa differenza piú tosto si dia fine, e d’alcuna altra particolaritá si ragioni che ad amor si convenga, ve lo dirò io. Se ogniun di loro si trasforma nell’altro, ciascuno diventa due, cioè amato ed amante; ed essendo ognuno amante ed amato, sono quattro, cioè ciascuno amante ed amato.
Baffa. Ora sí che ho compreso l’intenzion vostra.
Raverta. Ma dirò anco che in amore l’uomo diventa continente, temperato, incontinente ed intemperato, secondo che l’anima meglio o peggio s’è fermata nel perfetto amore.
Baffa. A qual partito?
Raverta. A questo: che se l’anima declina allo amore intellettuale, se la declinazione è poca, ma non però si poca che non si regga coll’intelletto, benché in lei sia qualche particella di sensualitá, l’uomo può chiamarsi continente. Se poi declina piú all’intellettuale amore, e non vi resta lo stimolo del sensuale, l’uomo diventa temperato. Ma se piú s’inclina del dovere all’amor corporale, ancora che nell’uomo rimanga qualche scintilla dell’intellettuale, declinando però piú al sensuale, si chiama incontinente. E poi, accostandosi molto piú alla sensualitá, di modo che l’intelletto non vi abbia loco né gli possa resistere, diviene intemperato. E questo è per le ragioni delle mutazioni dell’animo, cioè nella contemplazione della bellezza intellettuale e della corporea. Però nell’uomo si trovano due diversi amori, sí come si trovano due diverse bellezze intellettuali e corporali. Onde considerate: quanto è piú eccellente e degna la bellezza intellettuale della corporale, tanto piú degno è lo amore spirituale del corporale. E però vengono ad essere due amori, due bellezze e due Veneri.
Baffa. Quali sono queste Veneri?
Raverta. Una celeste e l’altra volgare: la celeste s’intende nata nel cielo, senza altra madre; l’altra è quella favolosa di Giove. Per la celeste s’intende quel desiderio e quello amore intellettuale e perfetto, che può rendere l’anima astratta da tutte le altre cose alla contemplazione spirituale. Per l’altra s’intende quel libidinoso e biasimevole appetito, che ad altro non tende, eccetto che a godere quella ombra di bellezza vana; e ben si dice Venere e Amor volgare, percioché è quello che segue il vulgo, il quale, sí come meno intendente e piú rozzo investigatore delle perfette bellezze, piú difficilmente le apprende e meno le conosce. E però i piú savi son quelli ch’amano meglio e piú drittamente.
Baffa. Se cosí fosse, a’ piú volgari sarebbe tolto di potere perfettamente amare.
Raverta. Certo che in gran parte essi ne sono privi, perché non hanno quella perfetta cognizione, la quale è propria dei savi, i quali, investigatori del buono, conoscono quello ch’è da abbracciare e quello che si dee lasciare. E però si chiamano, i savi, «filosofi», cioè amatori ed investigatori della sapienza; onde uno elevato ingegno, il quale prima abbia fatto discorso nella bellezza, meglio degli altri conosce la sua perfezzione. E di qui nasce che, avendo miglior cognizione della bellezza, amerá piú perfettamente dell’altro, perché meglio conoscerá quel che gli manca. Imperoché, contenendo in sè la bellezza uno ampio spazio, chi meglio discorre per quello può capacemente conoscere la sua grandezza e, di quella acceso, desia non poco esserne fatto partecipe, la qual cosa non fará uno involto nelle terrene e fragili concupiscenze.
Domenichi. Veramente che questa cosa generalmente ha in sè del naturale, ché impossibile è uno, che non abbia cognizion delle cose, conosca quello che gli manca. Sí come fará chi, con l’intellettuale memoria discorrendo dalla imperfezzione sua, conoscerá l’altrui perfezzione. Onde incontinente, mosso da quello affetto, ama d’esser fatto tale che resti unito di simile bontá.
Raverta. Non è dubbio alcuno che lo amore non sia maggiore quanto piú la cagione è grande, perché, conoscendo la vera bellezza e godendo di quella, conosce che diventa perfetto; e da quella cognizione e godimento, per cosí dire, si fa tale che si fa quello istesso amato. Ma i piú idioti, sí come senza ragione si reggono, cosí anco nella prima forma della terrena materia si fermano ed ivi si perdono, perché in loro non è quello intellettuale vedere, ed il suo non è vero amore, ma folle e vano appetito. Ed a questi tali si può descrivere Amor cieco. Imperoché da minor lume abbagliati, se stessi privano di quella vera bellezza, alla quale, se uscissero fuori di quella ombra, cioè di questa corporea, ponno pervenire, e per mezzo poi di questa giungere alla contemplativa e spirituale. E per questi gradi di bellezza, Amore anco ne conduce all’unione del superiore amato.
Baffa. Di grazia, mostratemi la via.
Raverta. Io ve la mostrerò, la quale è facile e piana ogni volta che da cieco amore non siamo offuscati in questa terrena bassezza, peroché i primi oggetti amabili, che Amore ci appresenta, sono queste inferiori bellezze, nelle quali, se ben disposti ne trova, punto non ci lascia fermare, ma, di grado in grado alle superiori bellezze la mente sollevando, finalmente ne conduce a unirci con quel primo amore, legame eterno della somma bellezza, col sommo bello e con tutto l’universo.
Baffa. Ma prima che piú oltra passiate, perché veggio tutto questo vostro amore quasi spirituale, desidero piú chiaramente intendere per voler pervenirvi a che ne serve questo nostro corpo, il quale mi pare, tutto che per inanzi m’abbiate mostrato esser necessario, ora quasi soverchio.
Raverta. Questo non v’affermo io, perché, sí come vi devete ricordare ed io v’ho detto, essendo il corpo prigione dell’animo, quegli visibile e questa invisibile, quasi stanza che tien rinchiusa la parte piú perfetta a noi s’offerisce; e per mezzo prima degli occhi si amano le forme corporali; per l’orecchie e per la mente entriamo poi per quelle vie a congiungersi e ad esser fatti partecipi dell’intellettuale amore. Onde vedete che questi instrumenti corporali ci servono alla partecipazione che desideriamo fare dell’amore spirituale per la cognizione che da quelli ci è sporta.
Domenichi. Dunque questo desiderio è necessario che abbia ad essere nella mente, e, se è nella mente, bisogna che sia anco apparente di fuori realmente, se non in atto, almeno in potenza nelle sue cause, altramente la cognizione sarebbe vana e falsa.
Raverta. Ad ogni modo è necessario che il principio sia trasparente, perché, volendo aver cognizione ed amare una cosa incorporea la quale non abbia sostanza nè qualitá alcuna, non si può discorrere con la mente ciò che in sè contenga, perché non è composto di materia nè ha in sè forma alcuna. Se amerete un’ombra, considerarete pur prima quella esser causata da qualche cosa; laonde, se anco vorrete in voi formar bellezza alcuna intellettuale, invano faticarete, perché sarebbono tutte chimere. Sí che è necessario il corpo a noi come prospettiva del vero, che infiamma la mente nostra a farsi amanti, per desiderio d’esser piú perfetti.
Domenichi. Chi giudicate che a questa perfezzione sia superiore, l’amato o l’amante?
Baffa. L’amante, il quale di ragione è lo agente.
Raverta. Anzi no, ch’è il contrario, perché dall’amato si genera l’amore nell’animo dell’amante, il quale riceve lo amore dallo amato, di maniera che, essendo lo amante il recipiente, è inferiore all’amato. Né in altro si dice esser superiore, eccetto che nella servitú, percioché lo amante è agente di quella, e l’amato quello che la riceve. E però nell’amore l’amato è padre, e nella servitú lo amante.
Domenichi. Se cosí fosse, restarebbe che Iddio, quando ama noi che siamo sue fatture, per zelo di parteciparne della sua bellezza e della sua sapienza, fosse in tale amore a noi inferiore.
Raverta. Vedete che nella diffinizzion d’amore abbiamo assignata altra differenza all’amor suo ed al nostro. E però differente è anco l’amor nostro verso le cose celesti da quello che avemo verso le inferiori; perché il nostro verso le cose inferiori può tendere a partecipare e ad esser fatti partecipi, sí come diventiamo amanti ed amati, mentre che lo amore è corrispondente, onde ora siamo agenti ed ora inferiori. Ma di quello d’iddio verso noi e del nostro verso quello vi è una altra differenza, perch’egli è sempre prima origine e causa dell’amore, ed il suo amore è sempre per farne partecipi, tanto ch’è sempre lo agente, sí come nel suo luogo piú a pieno forse vi dimostrerò.
Baffa. Viene egli mai a fine questo nostro amore?
Raverta. Giudico che no, perché sempre, s’è corrispondente, si vive amante ed amato. Ed essendo le voglie dell’uno e dell’altro conformi, s’invecchia e legasi con indissolubil nodo, di maniera che neanco per morte si discioglie. Percioché ancora di lá s’ama, ed è opinione che l’anime, uscite de’ corpi, sieno accompagnate da quei medesimi affetti e da quelle cure istesse ch’avere in essi rinchiuse soleano, ma ad un certo modo piú perfetto.
Baffa. Si può amar piú d’uno?
Raverta. Piú d’uno si può avere nel vincolo dell’amicizia, ma non però molti, imperoché quella è una voglia corrispondente di due o di pochi piú, la cui virtú rende ciascuno desideroso del bene dell’altro e doglioso del male. Né è vero amico quello che comunemente non vien partecipato né partecipa delle prosperitá ed aversitá dell’altro, conciosiaché in diversi corpi vi convenga abitare una sola anima. ...
Baffa. Come dite «sola»?
Raverta. Lasciatemi seguire. Dico «una sola anima», e bene; imperoché tutte s’uniscono insieme e divengono miste ed incorporee, ché altrimenti non potrebbono partorire la conformitá ed uno istesso dolore delle cose adverse e generale allegrezza delle prospere. E quanto piú amore è invecchiato negli amici, tanto è piú fermo. E quanto piú è stato corrispondente ne’ piú teneri anni, tanto piú viene ad essere stabile, santo e vero ne’ piú maturi.
Domenichi. Se cosí è, non dubito che lo amore portato giá tanto tempo al Betussi, e quello ch’egli ha mostrato in me, non sia di maniera cresciuto con gli anni, che l’amicizia nostra sia divenuta ed abbia ad esser tale che né prosperitá né aversitá potrá mai cangiar gli animi nostri.
Raverta. Voi vel sapete. So ben io questo: che ogni difficile impresa per voi gli sarebbe facilissima ed ogni pericolo sicurtá, né temerebbe esporre la vita sua ad ogni manifesta morte, per salvare l’onore e la vostra, piú che facessero Damone ed Entidico, Antifilo e Demetrio greci, e tanti altri, come fu Dandamis ed Amizocco sciti; il quale Amizocco, essendo rimaso in un fatto d’arme l’amico prigione, per liberarlo, non avendo robba, consentí di lasciarsi cavar gli occhi, onde poi Dandamis medesimamente, per non essere superiore a lui, volontariamente si orbò.
Domenichi. Non è da dubitare che egli non abbia il contracambio, ed agli effetti si vedrá, se non è noto quanto finora ho fatto per lui, quello che sarò per fare tutta volta che bisogni.
Raverta. Violareste il santo nome dell’amicizia, facendo altrimenti; ché di quanta potenza sia e quanto saldo un tal legame, si può comprendere dall’amicizia di Pilade ed Oreste, da quella di Teseo e Piritoo, di Niso ed Eurialo, di Damone e Pizia, di Agatocle verso Clinia, di Eudamide, il quale poverissimo, venendo a morte, testò e lasciò che due suoi amici gli maritassero l’uno una sua unica figliuola e l’altro facesse le spese alla sua madre vecchia;...
Baffa. Per mia fè, che gli lasciò una bella ereditá!
Raverta. ... e che, morendo l’uno inanzi l’altro prima che la figliuola gli fosse maritata, il sopravivente succedesse a mantenere la sua madre e maritar la figlia. ...
Baffa. Utile successione!
Raverta. ... Onde, cinque giorni poi, Carisseno, uno degli eredi, anch’egli se ne morí, senza avere agio di potere esseguire il testamento dell’amico. Ma Areteo, il terzo di loro, mentre visse la madre di Eudamide le fece le spese, e maritò la figliuola; e delle cinque parti della sua facultá due le ne diede, ed altre due ne diede ad una sua figliuola, egualmente trattandole, e la quinta parte per sostentarsi ritenne.
Baffa. Anco al tempo nostro si troverebbero amici tali!
Raverta. E quale piú vera amicizia fu quella d’Achille, il quale sprezzò la vita per vendicar la morte di Patroclo, ucciso da Ettore, come che Teti gli predicesse il suo fine?
Baffa. Sapete che voglio dire? Voi adducete di molti essempi e sète troppo parco in dichiarargli.
Raverta. S’io volessi raccontarvi tutti i successi dell’istorie, non bisognerebbe spendere il ragionamento nostro d’oggi in altro. E poi tanti altri n’hanno scritto cosí a pieno che, desiderando udirgli meglio e piú comodamente, si ponno leggere. Ma, accioché non paia ch’io mi sia levato di strada senza sapervi ritornare, vi dico che in amore non si può amare piú d’uno, percioché non si ha piú che una anima ed una mente, la quale non si estende ad altro che ad un solo oggetto, e, fermandosi in quello, discorre di grado in grado alle perfette contemplazioni. Perché, sí come vi ho detto, gli occhi non si ponno affissare che ad un solo principio, come sarebbe a figurare un sol corpo, il quale vi si rappresenta bello in quanto alla sua forma, che in sè non contiene altro che grazia della sua propria sostanziale, o sia accidentale o artificiale. E questa prima imagine che s’offerisce non si comprende con altro che con gli occhi corporei. Indi, pervenendo all’udito, molto piú aggrada, per essere l’orecchie piú penetrevoli e ricevendo in sè maggior cognizione. Poi passano alla mente, onde questi sentimenti divengono incorporei ed invisibili e con l’anima si congiungono, la quale, svegliata, cominciando a gustare di quella perfetta bellezza, tosto rimove i sensi interiori dalla bellezza esteriore. Ed accioché non s’affoghino in quella vanitá, non ve gli lascia fermare. Imperoch’ella, sí come piú capace, meglio desidera unirsi in spirito con quella per diventar piú perfetta, né ritrovando impedimento alcuno, passa piú in su e drizza la mente alle cose immortali e celesti.
Baffa. Perché sono piú capaci gli occhi dell’anima e l’intelletto delle bellezze intrinseche?
Raverta. L’anima nostra razionale, per essere imagine dell’anima del mondo, è figurata celatamente in tutte le qualitá della mondana, onde con ragionevole discorso, come simile, piú perfettamente conosce le vere bellezze. Perché ogni simile meglio conosce il suo simile. Gli occhi corporali non sono sufficienti a figurare le bellezze spirituali, e gli intellettuali non degnano le mondane e le corporali, le quali, come vane, non riguarda pure, non che le apprezze. Ma, perché piú saldamente si estende alle bellezze perfette, non declina; anzi s’inalza a quella piú perfetta, per giungere ed unirsi piú perfettamente con quella felicitá perpetua, lá dove piú non si brama, né bramar piú lice.
Baffa. Non si potrebbe giungervi senza passare per tanti mezzi?
Domenichi. Considerate di no; perché in qual guisa, per modo di dire, volete passare nel giardino movendovi di qui, se ordinariamente prima di porta in porta e d’uno adito nell’altro non passate, e cosí di mano in mano giungere lá dove desiate? Potreste ben fare senza passarvi, se faceste ruinare quelle cose che vi sono, ma la fabrica non starebbe in questi termini. Così, a volere schifare queste strade che bisognano adoprarsi per passare e giungere alla perfezzione, necessario sarebbe formare di novo la creatura.
Baffa. Io cercava intendere se vi è piú breve modo.
Raverta. Non vi può essere, essendo la beltá divina di gran lunga superiore all’anima nostra. E però, se prima a poco a poco non s’avezza a sopportare quella divina luce, nel primo impeto restarebbe abbagliata. E perché meglio m’intendiate, non so se a voi sia mai intravenuto, che credo spesse volte a voi ed a tutti sia occorso. Provate a tenere alquanto chiusi gli occhi e poi apritegli, riguardando inverso il sole; vedrete che in quel momento non potrete sostenere quella repentina luce, se prima pian piano non gli andate avezzando. E soviemmi ora ch’io ho la mia camera, nella quale dormo, esposta al nascer del sole. Onde la mattina, quando io mi sveglio e mi s’aprono le fenestre, i raggi di quello penetrano in me con sì vivo lume, che gli occhi miei per modo alcuno non ponno tolerare quello splendore, se lentamente non apprendo la luce; per essere io stato infino allora sepolto nelle tenebre della notte. Così voglio inferire che l’anima nostra, avezza a queste cose mondane, non potrebbe al primo tratto levarsi all’alta cagion prima, e farebbe vero di quello che favolosamente si legge di Fetonte.
Baffa. Poiché abbiamo inteso i gradi per i quali s’ascende alle vere bellezze, mi resta sapere la contentezza delle anime beate, ed onde avviene che quelle non desiderano piú oltra.
Raverta. Ora che cosí leggiermente avete fin qui compreso quale sia la vera bellezza nostra e quella d’iddio e la differenza tra l’uno amore e l’altro, avete da considerare...
Baffa. Perdonatemi, s’io non vi lascio seguire piú oltra. Vero è che me ne avete detto, ed io ne ho anco assai compreso; nondimeno mi sarete cortese di questo di piú. Né vi sará noia, così, brevemente, per salir dove desidero, ripigliare di novo il ragionamento ch’a questo appartiene, e dirmene, se non in tutto, in parte, alcuna cosa di piú. Perché, oltra che forse meglio ne comprenderò qualche cosa che cosí a pieno non mi è passata alla memoria, so che non potrá essere che non gli aggiungiate alcun passo di piú.
Raverta. Io vi prego che non mi diate questo carico, che certo non sarebbe proposito dir piú quello, di che poco dianzi, brevemente però, ma sofficientemente s’è parlato. Oltra che, le cose replicate sogliono recar noia. E sapete di che sareste ragione?
Baffa. E di che?
Raverta. Di farmi alle volte da per me contradire, perché la memoria, di soverchio travagliata, talora non potendo reggersi, esce dei termini.
Baffa. Di questo non dubito giá io.
Domenichi. Contentatela, signore, poiché non si ha da compiacere altri che lei sola: riditele il tutto, se non basta questa parte, non solo una volta, ma due e tre e quanto vuole.
Raverta. Poiché mi consigliate voi ed a lei cosí piace, sia fatto. E però vi ritorno a dire: che avete da sapere assai differente essere l’amor nostro verso Dio, da quello ch’è il suo verso noi, perché, se Iddio è amante, non si presuppone che in esso sia difetto alcuno, né che ne ami per esser fatto partecipe d’alcuna cosa che sia in noi; anzi si fa di noi amante, per farne parte di quello che a noi manca. Perché non solo egli è perfettissimo, ma l’istesso perfetto, e di nulla ha bisogno. E però in lui non è desiderio, né può essere, essendo desiderio di cosa che non si possiede. Di qui anco nasce che l’amor suo non è simile al nostro, percioché noi siamo mortali, e, sí come uomini che siamo, ci conviene amare tutto che possiamo diventar sapienti. Ma l’origine non solo de’ savi, ma della sapienza è Dio, ed è in lui di maniera che l’amor di Dio verso le creature non può essere simile al nostro, e meno è desiderio. Conciosiaché in noi l’amor nasca di esser fatti partecipi d’alcuna cosa buona che ci manca, e quello d’iddio di parteciparne, essendo in lui tutta la perfezzione.
Domenichi. Credo ben io che cosí sia come dite, ma che ama dunque egli, s’è piú di noi amante?
Raverta. Quello che a noi manca, e non ciò che manca a lui, non avendo egli di cosa alcuna mistiero. E però ama il nostro bene e cerca di veder noi, che siamo sue fatture, ornati di quel buono che in creatura perfetta si può comprendere.
Domenichi. Se questo affetto lo movesse ed avesse caro di vedere in noi ciò che dite, essendo egli creatore di tutte le cose, come è, non potrebbe senz’altro farci tutti perfetti?
Baffa. Senza dubbio.
Domenichi. Perché adunque non ci fa?
Raverta. Perché vuole che noi ci affatichiamo, operando quegli atti intellettuali ch’egli, accioché pervegniamo alla perfezzione, ci ha concessi, di conseguire quello che potemo aver col mezzo delle nostre opere virtuose, ed adoprando quella virtú che n’ha donato. E però quello affetto suo volontario non è suggetto a passione, come il nostro, non essendo in lui difetto d’alcuna cosa. Anzi, per sua immensa bontá, ama noi e desidera che arriviamo al maggior grado di perfezzione che ci manca; e, quando l’abbiamo conseguita, che di quella eternamente godiamo.
Domenichi. Ora si ch’io comprendo molto bene la cagione per la quale Iddio si muove ad amar noi; prima perché siamo sue fatture; e poi perché lo affetto lo muove di vederci perfetti. Ma l’amor nostro verso lui quale è, e di che sorte?
Raverta. Mi sforzerò, come potrò il meglio, di dirlovi; benché sia impossibile potere a parole esplicare questi divini misteri. Ma, dove cosí a pieno io non potrò supplire, con la mente vostra comprenderete quel che meglio si potrebbe dire. In noi è difetto; cosa che non è in Dio, il quale è supplimento e cagione di farne perfetti. Diversa ancora è la sua divina bellezza dalla nostra, come vi ho dimostrato.
Baffa. Diteci anco qualche cosa di piú della bellezza divina, ché troppo parcamente, a mio giudicio, n’avete ragionato.
Raverta. Imperoché dubbio non è, come giá v’ho detto, che Iddio non sia il sommo bello, e sí come è creatore di tutte le cose, che sia anco prima origine della sua vera bellezza, ed essendo egli il tutto e contenendo in sè tutto il buono ed il bello, che da sè non proceda la vera bellezza, la quale è però sua, né mai da lui si parte, se ben in noi s’infonde; ed è ciò la sua somma sapienza, o intelletto e mente ideale. Sí che, se ben questa da lui deriva e depende, è nondimeno da chiamare la prima e vera bellezza divina. Imperoché Iddio non è bellezza prima, ma piú tosto origine e creatore, senza alcuna dependenzia, della vera sua propria bellezza, ch’è la sua somma sapienza. E non si dirá solamente Iddio sapiente, perché in lui sia la prima sapienza, ma chiamerassi fontana ed origine di quella e del tutto, senza avere precedenzia alcuna, né origine o principio sopra principio. Perché mai non incominciò né mai avrá fine. Onde la sua sapienza, da sè derivante, rende il tutto bello. E ci sono tre gradi di bellezza: l’autore, quella e il partecipante; e chiamasi «bello bellificante», «bellezza» e «bello bellificato». Bello bellificante è il Padre, cioè il sommo Iddio, autore e produttore di quella ed esso tutto, dal quale ella deriva. Èvvi la bellezza, la quale sua bellezza è la sua somma sapienza, constituita e figurata per il Figliuolo, e pure in sè, ché sono due in uno. Bello bellificato è tutto il mondo applicato allo spirito; le quali tre cose sono tre ed una sola. E questo bello bellificato è Amore, cioè pur lo Spirito santo. E figurate questa dichiarazione nel sole, vicario di Dio; nel quale si comprendono tre cose: prima essa forma sola, secondo lo splendore, terzo il calore. Al primo s’attribuisce la potenzia del Padre, al secondo la sapienza del Figliuolo, i quali due, fatti uno, partoriscono lo Amore, cioè lo Spirito santo; il quale misterio è impossibile dichiararsi da lingua umana, e meglio si comprende nell’anima e nella mente spiritualmente, perché questi sono tre in uno, sí come di ciò parla Dante dicendo:
Nel su’ profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaterna:
sostanza, ed accidente, e lor costume,
tutti conflati insieme per tal modo,
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
E poco da poi:
Ne la profonda e chiara subsistenza
de l’alto lume, parvemi tre giri
di tre colori ed una continenza.
E quello che di ciò ne segue.
Baffa. Non passate neanco piú inanzi, perché a sofficienza comprendo il dir vostro meglio con la mente che per le formate parole. E, nel vero, è impossibile per parole comprenderlo, se l’anima, incomprensibilmente accesa, non rimane astratta in tanta divinitá. Seguite pur dichiarandomi qual sia quello che (passata quella trinitá, la quale in sè contenendo queste tre cose, cioè potenza, sapienza ed amore, che sono in uno istesso, e tripartite nel bello bellificante, bellezza e bello bellificato) che, come piú vicino, abbia maggior parte di bellezza e di sapienza dal sommo Fattore.
Raverta. Io lo ridirò, perché giá parmi averlovi detto. Imaginatevi tre gradi inferiori a Dio; perch’egli non solo è nel piú sublime grado, ma piú su, e nel mezzo, del tutto circondato dagli angeli. Onde, derivando da lui la sua somma sapienza, ch’è la sua istessa bellezza ed amore, come fa proprio a noi il sole, di quella rende risplendentissimo il piú vicino grado, o vogliamo dir cerchio, a lui, nel quale sono gli angeli, che, come piú propinqui, sono fatti piú partecipi della sua sapienza e bellezza, la quale, sí come la fonte, senza avere altro principio nasce, onde in sè ricevono la maggior parte di quella deitá.
Baffa. Tanto che gli angeli sono i primi c’hanno in loro bellezza.
Raverta. Cosí è.
Baffa. Dunque da loro deve anco derivare l’amore, il quale, Iddio essendo somma sapienza ed amore, in loro deve prima, sí come a Dio piú vicini, cadere.
Raverta. Egli è vero, perché quel grado, o vogliam dir cerchio, a lui piú vicino, si figura per il mondo angelico. Onde Iddio, ch’è somma sapienza e dator di quella e di tutte l’altre cose (però si chiama «somma sapienza» e «sommo amore»), avendo gli angeli il grado piú vicino a quello, è acceso di volontario affetto di farne partecipi della sapienza, della bellezza e dell’amore, che da lui deriva. E però, sí come piú propinqui a Dio, tutta la sapienza, la bontá, l’amore e la bellezza, di ch’egli è il tutto e che da quello depende, ricevono; e cosí si fanno belli e savi, essendo il mondo loro pieno di bellezza e di sapienza. E, sí come in Dio per questo non s’intende privazione di sapienza né di bellezza, tutto che nel mondo angelico, sí come abitacolo piú vicino a lui, la distribuisca; cosí non resta che gli angeli non siano amanti di Dio, e che non conoscano esser fatti partecipi da lui di quella sapienza e bellezza. Onde, benché siano perfetti, non è però che non tengano Iddio per perfettissimo, e non lo amino e lo adorino, ed a lui solo non servano. Onde ben dice l’Alighieri:
Quelli che vedi qui furon modesti
a riconoscer sè da la bontate
che gli avea fatti a tanto intender presti,
perché le viste lor furo essaltate
con grazia illuminante, con lor merto,
sí ch’hanno piena e ferma voluntate.
Ma, seguendo il parlar vostro, dico che, diffusa nel mondo angelico la sua sapienza, gli angeli, risguardando in giú partecipati da Iddio, vengono poi a partecipare le cose create.
Domenichi. Restarebbe a questo modo che gli angeli soli ne fussero superiori, se da loro ricevemo la bellezza.
Raverta. Non volete sanamente intendere quel ch’io vi dico o, per meglio dire, per travagliarmi, fingete. Imperoché, tutto che gli angeli ne partecipino, non resta che la bellezza non abbia la prima origine e dependenzia dal Creatore dell’universo. E fate conto di discendere di grado in grado d’una scala, e ch’egli sia in cima. Perché Iddio dá cosí la bellezza agli angeli quanto a noi; ma, sí come piú vicini a lui, piú la ricevono, perché vengono ad esser piú propinqui a quello e ne’ superiori gradi (intendendosi però ora e sempre delle cose animate); e poi scende nell’anima nostra, indi nel corpo: ed è a guisa del sole, il quale ad ogni cosa dá luce, ma le parti a lui piú vicine e meno impedite piú da quello sono scaldate ed allumate.
Domenichi. Ora io comprendo ciò che volete dire.
Raverta. E però, perché Iddio è il tutto e dator del tutto, avendo gli spiriti angelici piú vicini, manda e sparge diffusamente la bellezza per tutto il suo cerchio, sí come a lui piú propinquo, e viene a girarsi nel mondo angelico; i quali angeli, come v’ho detto, conoscendo il vero sommo bello esser sopra loro, che è Iddio, lo amano, sí come quegli che solo per lui sono, e ponno essere, perfetti e beati. E però di qui si può chiaramente comprendere quale sia l’amor d’iddio verso noi, che non è per altro, eccetto che per farne parte di quello che ne manca. Cosí noi, amando Iddio, noi medesimi amiamo. E chi veramente ama le cose celesti ed a quelle si drizza, ama la sua salute e cerca di esser fatto partecipe del vero bello. Tale viene ad essere lo amor nostro verso Iddio.
Baffa. Per ascendere dunque a quella contemplazion divina e per aver cognizione di questa beltá celeste, qual via dobbiamo noi tenere?
Raverta. Credo ch’abbiate inteso quale sia il vero nostro amore tra noi, cioè dell’uno verso l’altro, e che, volendo ascendere a piú sublime altezza, è necessario ch’avendo noi cognizione del vero nostro amore, non ci fermiamo solamente in queste bellezze. Ma, avendo formati gli occhi, l’orecchie e la mente nell’anima intellettuale, che dal pensar le bellezze dell’anima dell’amato piú oltra passiamo, e, rivolgendo quelle in noi, piú solleviamo la mente, e, in tale considerazione stando, pensare onde abbiano principio e quale sia la loro origine. E, mentre che in ciò si dimora, di mano in mano vi s’appresenta Iddio, somma sapienza e datore di quella. Onde l’uomo, mosso da quello affetto d’averne cognizione e di esser fatto partecipe di quella, con riverenza ama Iddio, veggendo lui esser la fontana ed origine di tutte le vere bellezze. E, sí come gli occhi intellettuali nel contemplare le vere bellezze dell’anima sono invisibili, così, contemplando e desiderando godere la bellezza celeste, vi s’aggiungono ali e fannosi spirituali. Ed in questa contemplazione l’anima resta astratta, e cosí va errando, fin tanto che l’è concesso uscir fuora di questa prigione. E si come amante del sommo bene e della vera bellezza, in contemplazione avendo sempre conosciuto Iddio vera cagione della perfetta bellezza, e sempre avendo desiderato d’esserne fatta partecipe, volentieri questo misero corpo abbandona, attendendo l’ora e ’l punto che possa unirsi a quel sommo bello e di quella vera contentezza fruire. Onde la contentezza che desiderano l’anime beate non è altro che cercare di vedersi tornate la onde hanno avuto origine. E però la descrizione, che giá buona pezza fa diceste, signor Lodovico, ch’Amore sia un circolo buono, dal buono nel buono perpetuamente rivolto, è questa. Percioché l’anima va rivolgendosi prima nella contemplazione dell’anima intellettuale, figurando le bellezze di quella; poi si ricongiunge con la spirituale; finché s’unisce al primo principio onde è stata levata. Perché ben dice Dante come si resta e si diventa, quando si giunge dinanzi a quel vero principio, mezzo e fine di tutte le cose, nell’ultima cantica:
A quella luce cotal si diventa,
che volgerse da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta.
Però che ’l ben, ch’è del voler obietto,
tutto s’accoglie in lei; e fuor di quella
è defettivo ciò che li è perfetto.
Ed anco la contentezza dell’anime beate può somigliarsi all’acque, le quali disperse vanno vagando, tanto che si congiungono col mare, sí come loro capo. Cosí l’anima, non veggendosi altro appoggio fido, per trovar vero riposo, che tornare al suo primo principio, tutta s’infiamma di Dio e niente piú apprezza le miserie umane.
Baffa. A che piú proprio si può somigliare la contentezza delle anime beate? Chè questo vostro paragone non mi sodisfa a pieno.
Raverta. Non saprei che piú propria similitudine darvi; perché l’anima, fatta beata, non può avere contentezza maggiore ch’essere unita a quella beatitudine che deriva da Dio. E prima che a quella felicitá s’avicini, è simile ad una gocciola d’acqua tolta dal mare, la quale, cosí stando, è niente; ma di nuovo votata in quello, s’estende con quell’altra abondanza d’acque, né piú si vede partita, ma con tutto il mare esser divenuta quello istesso, godendo della medesima ampiezza, né piú è gocciola d’acqua, ma è fatta mare. Tale è una anima beata, la quale in sè è niente, ma, pervenuta a quella felicitá, si diffonde e viene a partecipare di quella eccelsa beatitudine ed è divenuta congiunta a Dio, sua prima origine, e da cui era stata levata. Sí che il perfetto amore non consiste in queste bellezze terrene, ma bisogna che, levata da un capo del cerchio, vada girando senza punto fermarsi, fin ch’aggiunga onde era stata tolta.
Baffa. Tutta mi sento infiammata di divino zelo.
Raverta. Perché molto piú alto bisogna penetrare che lasciarsi superare da queste vane delizie, con gli occhi dell’intelletto contemplando sí rara e sola beatitudine; alla quale quando si sale, si conosce la imperfezzion degli altri. Perché allora l’anima fatta d’intelligibile, spirituale e capace della beltá divina, dalla perfezzione sua conosce l’altrui perfezzione ed imperfezzione, e gode di quel sommo bene da lei tanto desiato.
Baffa. Dunque da noi abbiamo da levarci a tanta perfezzione?
Raverta. Anzi no, se Iddio non ci fa grazia, illuminandoci l’intelletto di questo splendor divino, che dall’amor suo procede. È ben vero che in noi può essere la cognizione, ma da sè non è atta ad estendersi tanto oltra. Fu ben questa negli antichi padri nostri, ma piú vi fu la grazia, quando meritarono piú volte, a faccia a faccia, di essere fatti partecipi di quel vero lume e di quella somma bellezza d’Iddio, onde poi parlavano per celeste inspirazione. Perché, di lui solo infiammati, conobbero piú in su collo spirito, mentre erano in questo velo, non poter penetrare. Onde, in Dio fermati, desideravano esser seco assunti a tanta beatitudine. Perché, essendo in noi l’anima spirituale ed intellettiva, la intellettiva s’estende a questo mondo inferiore corrottibile, il quale Iddio in tutto non ha voluto privare d’ogni vera perfezzione. Perché di qui si può contemplare con l’anima spirituale la celeste bellezza. E, sí come in noi sono gli occhi corporali, i quali men veggono assai che quei dell’anima intellettuale, cosí anco vi è l’anima spirituale, la quale meglio può estendersi alla contemplazion divina. Perché, sí come gli occhi visibili solamente figurano le bellezze fragili corporali, cosí gli occhi della mente meglio veggono le bellezze dell’anima intellettuale. Onde quella poi può diventare spirituale e precedere la felicitá e bellezza celeste, e di quella in parte partecipare invisibilmente, dilungandosi da tutte le vanitá. E cosí in tutto questo mondo non si può restare senza qualche contentezza, la quale intieramente non si può fruire, finché, dopo la separazion del corpo, quella non viene a unirsi col sommo Iddio. Onde rettamente gode poi dell’amor divino. E questa è la sua ultima contentezza e felicitá, e l’amor nostro verso Iddio.
Baffa. Se la creatura rettamente con l’intellettuale anima solamente ama, ma non però si rettamente che con la spirituale si faccia consideratrice dell’eterna, può ella, poi che lascia questo corpo, giungere subito a quella prima bellezza e fruire di quella eternitá?
Raverta. Non; perché, s’era in questo velo in tale amministrazione, né leva l’anima spirituale al principio del sommo bene, di quello, poi la sua separazione, non può intieramente esser fatta partecipe. E però manca di questo amore e di questa union divina, laonde patisce grave e dura pena. E la doglia si fa maggiore, perché allora considera come malamente si sia fermata in questo modo, né mai abbia cercato di levarsi all’alta cagion prima del primo vero amore. Onde ora si vede priva di quello che la può rendere beata, e che in questo modo la potrá far felice; essendole mostrata la via di potere, col suo dritto governo nel corpo, salire, dapoi la separazione, col mezzo però della grazia di Dio, nell’altissimo paradiso. Onde, per il poco veder suo, resta nell’inferno in eterno, priva di quella somma bellezza, per essersi per troppo in queste miserie umane fermata. Perché la pena infernale non è altro che vedersi privo della vera ed eterna luce: onde tale e tanto è il dolore, che supplicio maggiore a quella non si può agguagliare. Però dice Dante nel Purgatorio , parlando dell’inferno:
Loco è lá giú non tristo da martiri,
ma di tenebre solo; ove i lamenti
non sonan come guai, ma son sospiri.
Benché la misericordia d’iddio può moversi e renderla felice e beata. Ma perciò sempre si deve oprare di sorte che Iddio abbia d’amarci.
Baffa. Assai ho compreso fin qui: pur mi restano ancora molte cose non bene da me conosciute. Nondimeno io vorrei...
Raverta. Non passate piú oltra, perché pur ora in me ritorno; ché m’aveggo come, senza avedermi, sono stato ardito, e la mia lingua ha usato ragionare di cosí sublimi cose, ch’a pena la mente nostra è atta a considerarle. Onde ne chieggio perdono, non del non avervi, come so, a pieno, ma pur in minima parte sodisfatto; ma dell’ardire avuto di entrare in sì alti misteri.
Baffa. Voi mi lasciate a pena incominciare quel ch’io voleva finire; perché la mia opinione è conforme alla vostra. Imperoché di tal maniera per le parole ed i misteri compresi mi sento l’anima infiammata, che quasi, ascesa a quella sublimitá senza avervi avuto i primi principi, dubito di non mi vi poter fermare. E però voglio che non vi sia noia lo scendere piú basso: e fatemi dono di spendere tutto il restante del dì d’oggi meco, ch’io ve ne resterò per sempre tenuta; tanto maggiormente ch’io verrò ad essere raguagliata di quanto, come io v’ho detto, mi fu promesso dal Campesano. E giá della migliore e piú nobile parte siamo spediti.
Raverta. Questo non dirò io; ché di quanto v’ho detto poco o nulla vi è stato di buono: non perché le cose delle quali abbiamo ragionato non siano utili, buone e sante; ma perché male io mi conosco avervene saputo render ragione, imperoché d’intorno ciò meglio si poteva discorrere. Mi recherò dunque a pazienzia, veggendo sí come troppo arditamente ho cercato, con piume cerate e frali, giungere e scorrere per lo cielo.
Baffa. Quanto a me, mi chiamo per ora paga e contenta: un altro giorno forse, a migliore agio, potrete intieramente di ciò ragionare. Ma quello ch’io voglio dir è, poich’avete fatto il piú, facciate anco il meno. E cosí pian piano, circa alcuni dubbi d’amore proposti pure da messer Alessandro in un nostro ragionamento, mi darete assoluzione, la qual cosa, in questo estremo caldo, a noi sará di piacevole diporto onorata cagione. E so che il Domenichi non rifiutará di farvi compagnia in dire anch’egli il parer suo: non ho detto d’«aiutarvi», perché poco d’altrui soccorso nelle vostre azzioni a voi fa mistiero.
Domenichi. Voi potete disporre di me, quale io mi sia, secondo il voler vostro.
Raverta. Questa sí difficile impresa non piglierò io, per essere stata promessa dal virtuoso messer Alessandro. Parmi ch’abbiate d’aspettare di esserne raguagliata da lui, ché tuttavia temo e mi s’appresenta il folle ardire d’Icaro, il quale volse volare piú alto che non se gli conveniva con piume cerate e frali, onde gliene seguí morte. Ben so che il medesimo interverrebbe a me, conciosiaché impossibil sarebbe ch’io potessi giungerne a fine. Ma, sia come si voglia, per niente non ardirò por bocca né ragionare di quello ch’è impresa del Campesano, perché troppo differenti siamo; e però senza dubbio so che punto non rimarreste da me sodisfatta, come sareste da lui. E duoimi ora di avere detto quanto fin qui ne ho, per essere stato ciò prima di suo assunto. Togliasi pure questo onore il Domenichi, il quale, oltra ch’è seco in amore quasi uno istesso spirito in due corpi, è anco di sí elevato e chiaro ingegno, che a pieno saprá e potrá, se ben finge il contrario, rispondere a quanto gli saprete domandare.
Domenichi. Questo potrebbe essere ch’io facessi, ma giá non lo credo; perché, s’a voi s’appresenta il vano ardire di Fetonte, o, per meglio dire, del figliuolo di Dedalo, a me occorre nella mente l’essempio di Marsia, che si persuase essere bastante a concorrere con Apollo. Onde vedete che bello onore ed utile gliene segui! Perché io non ardirò giá contender seco, né a voi aguagliarmi, ché di gran lunga mi sète superiore.
Baffa. Né l’uno né l’altro di voi debbe iscusarsi, perché ingiuria non si fa al Campesano, ripigliando i suoi tralasciati ragionamenti; ch’egli, per essere forse a maggiori imprese intento, avrá caro quando risaprá che duo sí cari amici suoi si saranno volontariamente degnati pagare un suo debito. Ad ogni modo, come v’ho detto, avete fatto il piú.
Domenichi. Anzi se lo avrá a male, ché parrá quasi non egli sia sofficiente di sodisfare quanto promette; ed avrá voi per persona di poca fede, non avendo tanto voluto sopportare che sia venuto.
Baffa. Abbiami come vuole; che io creda ch’egli non sia atto a mantenermi quanto m’ha promesso, questo non dirò giá, perché so che il suo divino ingegno riuscirebbe in maggiori imprese. Ma che io mi dia a credere ch’egli venga piú oggi, secondo che pure avea promesso, questo meno ho in animo. Onde, avendo voi due, cosí rari e virtuosi spiriti, quasi tutti infiammati d’amore, per averne quasi tutto oggi favellato; non resterò di pregarvi che vogliate, brevemente però, a cosí piacevoli domande rispondere secondo il giudicio vostro. In ogni modo questo ragionamento rimarrá fra noi, ed io apparerò di molte cose.
Domenichi. Indugiate, ché domani io vi prometto guidarvi alla presenza messer Alessandro, che sará sforzato uscir d’obligo.
Baffa. A questo non m’acqueterò giá, ché anco egli mi promise, e non è venuto. Poi sapete che mai non si deve lasciare il presente per quel c’ha da venire né il certo per l’incerto. Sí che non vi fate piú pregare, perché molto meno cara è la cosa che si riceve quando la voglia cessa.
Raverta. Non vi si può contradire, e però è il dovere a contentarvi.
Baffa. Cominciate, di grazia, voi, signor Ottaviano, ché ben so che il signor Domenichi seguirá poi arditamente.
Raverta. Lo farò; ma con patto, sí come avete detto dianzi, che questo nostro ragionamento non sia divulgato. Perché so che, se il Betussi lo sapesse, lo scriverebbe. Onde, per essere una ciancia, egli e noi, senza speranza di lode alcuna, inciamperemmo in infinito biasimo.
Baffa. Perché cosí in infinito biasimo? Non sète ancora voi atti a dire delle cose utili e non piú dette d’altri?
Raverta. Ci sforzaremo, benché cosa dir non si possa, che detta non sia prima. Ma, non se ne parlando piú oltra, e stando questo nostro ragionamento tra noi, arditamente entrerò in campo.
Baffa. Or cominciate, ché, se ben fosse udito d’altri, non n’avete da curare, e dirovvi perché. Se saranno dotti e virtuosi spiriti quegli che tasseranno mai questo nostro ragionamento, piú tosto ne gioverá che sia per nuocerne. Chè, conoscendo i nostri errori, un’altra volta gli schiveremo ed apprenderemo le cose utili, lasciando le dannose; di maniera che, se bene si scrivessero e publicassero questi discorsi, avremo da ringraziar loro che s’abbiano degnato leggerli e dirne il loro parere. Se anco saranno ignoranti, poca stima si dee fare del loro dire, né s’hanno da curare i loro abbaiamenti, perché con altro modo non sanno palesare la loro ignoranzia se non con tassare questo e quello.
Domenichi. Voi dite il vero, ma si vorrebbe potere conoscergli l’un dall’altro.
Baffa. Che volete meglior conoscimento? Perché i goffi, se dicon male, se ne stanno al buio per non essere conosciuti né veduti. Ma, se comparissero alle frontiere, vi so dire che ragionarebbono meno. E ben so che il Betussi ha in animo di fare immortali alcuni di questi invidiosi ed ignoranti, che per mostrarsi da qualche cosa, essendo da niente, hanno avuto ardire di mordere alcune sue composizioni, fatte da lui per giuoco e per compiacere agli amici. Ma ciò gli è intravenuto per il poco giudicio c’hanno avuto. Il male è che non possono essere stati uomini di qualitá; ché per un zero ch’egli stimava i suoi componimenti, gli arebbono fatto credere che fossero di gran momento, trovando chi ne dicesse male. Ma con tutto ciò faccino essi tanto che sia di suo, e poi favellino, ché, benché abbiano dell’opere alla stampa, le hanno rubate dai loro padroni. Intendami chi può, ché m’intendo io. Almeno io, se dico di loro, ogniun m’ode, ché punto non me n’ascondo.
Domenichi. Lasciategli tanto dire che si secchino, perché talora danno reputazione alle cose che i propri autori non stimano.
Baffa. Quetatevi pure, ch’egli in una sua lettera, la quale scrive al gentilissimo Doni, mostra di lodare uno di questi tali, onde ha grandissimo sospetto; nondimeno tanto coperto gli dice parte dell’esser suo, che meglio sarebbe che non l’avesse nominato, benché rari di ciò s’avederebbono, con sì bel modo lo fa conoscere.
Domenichi. Faccino tanto essi e poi favellino.
Baffa. A che pensate voi? Volete ora incominciare o, per meglio dire, continuare il nostro ragionamento?
Raverta. Certo ch’io voglio; ma pensava ora a questa lettera che avete detto: non è ella quella nella quale lo consiglia a non andarsene a Roma e lo conforta a venirsene a Vinegia per alcun giorno a piacere? Onde poi gli nomina molti uomini virtuosí che ci sono, da lui tenuti in somma riverenza e molto apprezzati.
Baffa. Ella è dessa.
Domenichi. Maravigliomi che dall’uno o dall’altro di loro non l’abbia veduto.
Baffa. Egli la fece appunto in quel tempo che voi eravate in viaggio per venire a Vinegia, tanto che voi per alcun modo non ne avete potuto aver notizia.
Domenichi. M’avete posto un desiderio incredibile di vederla.
Baffa. Mostrerovela ben io quando vorrete, perché io n’ho copia.
Domenichi. Vorrei ora.
Baffa. Ora non voglio io, ché pure troppo tempo abbiamo perduto, e tanto ch’io temo non potere a pieno essere raguagliata di quanto desidero sapere d’intorno Amore.
Domenichi. Poiché tanto siamo riposati, per grazia, non vi sia noia lo aspettare fin che io la vegga e subito la legga.
Raverta. Compiacetelo, signora, in cosa di sí poco momento.
Baffa. Eccola, poiché pur cosí volete.
Raverta. Leggete, signor Lodovico, che anch’io v’oda.
Domenichi. «Al riverito messer Antonfrancesco Doni». «Chi vi consiglia, fratello onorando, a lasciar Piacenza, per andare in corte e poi a Roma, dove la virtú non è stimata, i buoni costumi sono cacciati ed il ben vivere è odiato, non credo che vi sia punto amico. Né penso che voi siate di sí corrotto giudicio; perché sapete ben che, oltra il farvi di libero servo, vi bisognerebbe anco di sincero diventar simulatore, di buon tristo, di dotto ignorante e di gentil villano. E, volendovi mantenere in grazia del clero, vi sarebbe di mistiero far tutto il contrario di ciò che si conviene a un virtuoso vostro pari. Imperoché da loro non sono amati né avuti cari altri che gli apportatori dei propri diletti, non s’apprezzano se non gli adulatori, non si stimano se non buffoni, né ad altre persone si dona. I poveri virtuosi vi muoion di fame e, in capo delle fini, logorano la pelle sullo spedale». Raverta. Cosi non fosse vero ciò ch’egli scrive com’è il Vangelo. Domeniche «Vedete pure quanto n’è stato detto di male da ogniuno. Leggete il Petrarca in quei tre sonetti:
Fiamma dal ciel su le tue trecce piova;
ed in quell’altro;
L’avara Babilonia ha colmo il sacco;
e nel terzo ch’incomincia:
Fontana di dolore, albergo d’ira;
ed in mille altri luoghi; e medesimamente nell’opre sue latine. Onde è maraviglia come la bontà d’Iddio tanto sopporti. Ed a quest’una si conosce quanto sia vera la nostra santa fede e la pietà d’iddio; come dimostra anco il Boccaccio nella novella d’Abraam giudeo, nella quale in poche parole assai ben vi mostra la malvagità della corte. E perché mi potreste dire: — Io t’ho pure udito, e di continuo odo, che in voce ed in iscritti molto commendi la cortesia, la bontà e la magnanimità del signor Vicino Orsino; — vi dico che meritamente, non da simulata affezzion costretto, ma per non tôrre il suo privilegio al vero, lo faccio, e farollo fin che mai mi sarà concesso di poter fare. E mi duole che il picciolo mio potere non sia conforme alla gran voglia mia ed agli eccelsi meriti suoi, per potere far gir di pari i mortali scritti miei con gli immortali onori suoi. Del quale è tale e sì fatta la bellezza, che ancora non è difinita la tenzone nata tra l’anima e ’l corpo per lui: se siano maggiori o le sue virtù e bellezze interiori, giunte a tal grado di perfezzione che più crescer non ponno; o le proporzioni, colori e linee esteriori, delle quali l’invidia ancor ne gode, né può dargli menda. Onde egli né gli altri pari suoi non s’intendono in questo numero, perch’è vero e non mendicato signore. E, quando che trovaste uno di questi tali, sì, che sareste ben consigliato, non solo a disporvi di servirlo un tempo, ma di consumar seco tutto il viver vostro. Sì come fa l’onorato messer Pompeo Zazzo, il quale molto ben conosce quanto vaglia l’illustrissimo signor Vicino, e però gode nell’assidua servitú, che gli fa molto piú, che non farebbe alcuno a comandare altrui. Ma siate certo che son rari. Sapete in qual modo vi consiglierei a provar la corte? Quando vi trovaste in termine di poter fare senza le mercedi loro, e, mantenendovi di vostro, corteggiare chi piú vi paresse degno dell’amicizia vostra. Allora sì, che potreste sperare qualche cosa, perché, qualora i reverendissimi non spendono di suo, amano e, comeché suo malgrado, s’obligano a chi si degna onorargli. Chè bene hanno a caro le servitú, ma non a spese loro. E cosí potreste aver commodo ed agio di conversare a piacer vostro con molti virtuosi ch’ivi sono; come sarebbe un pari del reverendissimo monsignor Leone Orsino, prelato dignissimo e signor senza difetto; il signor Maerbale Orsino, carissimo fratello del mio signor Vicino, veramente degno d’imperio. Potreste allora godere della dolcissima conversazione del divin Molza, del magnifico Capello, del dottissimo Claudio Tolomei e del mirabile Annibal Caro, e d’altri infiniti. Altrimenti è da fuggirla chi può. Perché, come dice l’Aretino, la corte ebbe prima il nome di ‛morte’ ma, perché il vocabolo era troppo orrido, cangiarono, per farla meno spaventevole, la prima lettera in un ‛c’. Ed è purtroppo vera la invenzione, ché con la speranza che vi si va, per lo piú si ritorna, o vi si muore».
Raverta. Sì, per Dio.
Domenichi. «Ma chi ben considera ciò che vi si contiene a dir ‛corte’ conoscerá che il meglio ch’abbia in sè è il rendere corta la felicitá dell’uomo e lunga la miseria. Onde io vi do quel consiglio che per me toglio, ed osserverollo piú che mai potrò. Lasciatela provare ad altri; perché si può assomigliare al giuoco: che se uno vince, quattro perdono; e se uno per mezzo di quello si vede esser fatto ricco, mille ne sono ruinati ed impoveriti. Mi potreste dire: — Che posso perdere io? Quello, che nemica fortuna m’ha tolto, non giá. — Assai, e non poco, avete da perdere; ché, essendo ora dotato di rare qualitá, usando con uomini malvagi, vi converrá farvi altr’uom da quel che sète. Considerate la perdita certissima e ’l guadagno dubbio. Statevi a Piacenza, dove io odo dire che meritamente sète intrattenuto, accarezzato e ben visto, come si conviene a un raro e virtuoso spirito. Che, per Dio, mille volte ho avuto da invidiarvi sí felice e lieta conversazione. Che piú alti soggetti volete per inalzare l’ingegno e stil vostro, che celebrare le infinite virtú della signora Isabella Sforza, donna religiosa e divina? della signora Ippolita Borromea, albergo di bellezza e d’onestá? della signora Camilla Valente, donna non meno dotta che onesta e bellissima? e di tante altre onorate gentildonne? Che piú volete, che godere la grata amorevolezza e nobil generositá dei molti illustri signori conte Giulio e conte Agostino Landi? la reale splendidezza del vostro e mio affezzionatissimo signor conte Girolamo Angosciuola? la nobilissima pratica del magnanimo signor conte Teodosio Angosciuola? Come potreste allontanarvi mai dalla dolce e virtuosa compagnia del magnifico cavalier signor Luigi Cassola? Della casa del quale fanno i poeti, come d’una chiesa i falliti...»
Raverta. Perché vi sète restato?
Domenichi. lo voglio trapassare una gran bugia, nella quale, per l’afTezzione che mi porta, egli è incorso.
Raverta. Qual è?
Domenichi. Non vo’ che la veggiate.
Raverta. So ben che ragiona di voi; e dunque dice il falso?
Domenichi. Certo che s’inganna.
Raverta. Può ben essere che dica poco, lodandovi parcamente; ma dice egli però il vero.
Domenichi. Anch’io passerò per buono in compagnia e sotto l’ombra di persone ottime, benché io sia dinaro di bassa lega. — «Vi potrete dunque partire dal virtuoso ed onesto consorzio del signor Lodovico Domenichi, del signor Ottavio Landi, del signor Antonmaria Braccioforte, di messer Bartolomeo Gottifredi, di messer Girolamo Mentovato, giovane singolarissimo e degno di quelle lode che la eloquente e sincera lingua del signor Domenichi gli dá cosí spesso; di messer Gian Battista Bosello, persona tanto piena di bontá e fede quanto ornata di lettere e di gran giudicio? Vivete, carissimo amico, quanto piú potete, lontano dalle loro corti. Lasciate che l’ignoranzia e l’invidia ivi ministri e serva, e voi godetevi lieta e tranquilla pace d’animo».
Baffa. Buoni e santi consigli.
Domenichi. «Piú vi direi, se non fosse che in breve vi aspetto, secondo mi scrivete. E, perché avete caro di sapere come questa inclita cittá, regina della libertá e madre della giustizia, governata da cosí savi signori, sia ornata di pellegrini ingegni e di splendidi signori, non resterò di nominarvi alcuni, dei quali parte ho domestichezza ed amicizia o, per meglio dire, servitú, e parte riverisco, per meritare d’essere onorati da qualunque desidera onore. Molti onorati personaggi vi sono: vi è tra gli altri il signor Gian Iacopo Lionardi, conte di Monte Abbate ed ambasciatore dell’eccellentissimo signor duca d’Urbino appresso questa illustrissima republica, del quale facilmente, per mezzo del divinissimo Aretino, potrete avere cognizione; amatore di virtuosi non meno che giá fosse la felice memoria del duca Alessandro de’ Medici, vostro singolarissimo padrone e benefattore. Vi è il mio onoratissimo conte Lodovico Rangone, chiara lampa di liberalitá, del quale s’io volessi pure un poco scoprirvi il grande e generoso animo, non converrebbe ch’io m’estendessi piú oltra che a ragionare degli eccelsi meriti suoi. Medesimamente, quasi di continuo, potrete godere la dolce conversazione del cortese e veramente gentile ed onorato conte Guido di Porzia, il quale, con la gentilezza e cortesia sua, lega di tal maniera ogni virtuoso ingegno ch’è sforzato ad amarlo e riverirlo, sí come simulacro ed essempio di bontá. Non passerò con silenzio il nobilissimo conte Collaltino da Collalto, il quale non è meno dotato di perfettissime bellezze interiori di quello che sia d’esteriori. E ben si può dir di lui che, sí come è ben formato di viso e di corpo, che men bella ancora non sia la sua anima, percioché effettualmente l’uno e l’altro si conosce».
Raverta. Tutto il mondo è di questo parere.
Domenichi. «Ma dove lascio il mio valoroso capitan Camillo Caula, le cui vive virtú e reale animo rende ogni cuore ad onorarlo astretto? Ben dirò io esser non poco dell’alto suo valore acceso e di quelle rare e perfette qualitá ch’oggidi sí vedono in pochi, ed in lui talmente abondano, che chi brama specchiarsi in un vero folgore di battaglia, si specchi nel coraggioso ed ardito animo suo. Né mai tempo o destino potrá fare che il mio volere dal suo si disgiunga. E di ciò non dubito che l’affezzion m’inganni, ma voglio che mi scorga il commuti giudicio».
Raverta. Per mia fè, che questa è una lunga lettera.
Domenichi. Per certo sí; ed abbiamo ora poco di piú passato il mezzo.
Baffa. Lasciatela ora, ch’un’altra volta la fornirete.
Domenichi. Per Dio, ch’io non farò; poich’io veggo pure ora, ch’ella incomincia a nominare i virtuosi.
Baffa. Dico ciò, perché non v’incresca; poiché le cose lunghe sogliono recar noia.
Domenichi. A me non reca noia alcuna il leggerla, perché non meno sono io scioperato ora di quello ch’egli era forse quando la scrisse.
Baffa. Mi par che abbiate ragione, e però seguite.
Domenichi. Dov’era? Ho trovato. «Vi sono anco degli altri assai, i quali lascerò adietro per non fastidirvi. Infiniti, rari, belli e pellegrini ingegni ci sono, de’ quali in parte ho non poca domestichezza e molti riverisco per i meriti loro, tra i quali voglio dare il principato a una gentildonna, la quale non solo è virtuosissima e dottissima, ma è scuola ed albergo di dotti e virtuosi, da me a voi tante volte sentita ricordare: madonna Giulia Ferretta. Vi è il rarissimo ed unico messer Trifon Gabriele, tanto degnamente da tutto il mondo e celebrato ed avuto in pregio. Il mio divinissimo signor Pietro Aretino, del quale è tanto noto il valore, che soverchio sarebbe il parlarne con esso voi, il quale molto ben sapete come egli è riverito da tutti i virtuosi e temuto da ogni principe. L’eccellentissimo filosofo ed oratore messer Speron Sperone assai dimora in questa cittá, l’opere del quale fanno fede quale egli si sia. Se vorrete conoscere un lume di tutte le scienze, avrete messer Fortunio Spira, da ogni bello intelletto amato molto e da me senza fine riverito. Ècci il clarissimo messer Daniel Barbaro, l’unico messer Federico Badoaro, il perfetto messer Domenico Veniero, rarissimi ingegni e singolarissimi intelletti. Medesimamente qui dimora di continuo messer Bernardino Daniello da Lucca, di cui, se volete sapere la dottrina, leggete le dottissime opere sue. Che dirò del gentile e veramente dolce messer Lodovico Dolce? che dell’ingegnosissimo messer Francesco Coccio, non mai abbastanza lodati? che del gentil signor Alessandro Sansedonio, cosí raro intelletto? che del mio magnifico Ottavian Raverta, veramente in ogni scienza consumatissimo?».
Raverta. Se io avessi mai biasimato alcuna cosa del Betussi, direi, senza dubbio, ch’io fossi quel desso, il quale egli vuole che sia conosciuto il contrario di quello che dice, lodandolo con false lode.
Baffa. Anzi egli ha detto poco, ragionando di voi, perché da molto piú sète di quello ch’egli dimostra. Ma, per amor di Dio, finite oggimai di leggere cotesta lettera sì lunga: accioché il nostro amoroso ragionamento possa avere fine.
Domenichi. «So che non accade dirvi quale si sia il nostro eccellente messer Francesco Sansovino, di molte rare virtú dotato. R meglio di me conoscete se vale o no, perché i frutti, che di lui si colgono e si gustano, chiaramente mostrano la sua perfezzione. Non lascerò di ricordarvi messer Alessandro Citolini, le cui rare fatiche contengono in sè quella medesima eccellenza, c’hanno l’opre immortali del grandissimo Giulio Camillo, perché difficilmente si conosce differenza tra loro; di maniera che paiono ristesse, onde dimostrano la conformitá della conversazione lungo tempo insieme avuta. Di messer Gottardo Morello e di messer Baldassare Stampa poco son per parlarvi, perché i componimenti suoi, piú volte da me mandati al signor Domenielli ed a voi, fanno chiarissimo testimonio quanto essi siano virtuosi. Ma dove lascio il signor Cosimo Pallavicino, genovese, in tutte le scienze ed azzioni del mondo universale? Taccio le onorate qualitá del nobilissimo messer Rinaldo Ghinucci, il quale non minor gloria riporta in seguitar Febo, dell’onore ch’egli have essercitandosi con Marte. Perché, se molto non mi estendo in dirvi le rare condizioni di tanti elevati e sublimi ingegni, il signor Domenichi, che in buona parte ha praticato molti di loro, vi dica per me quali si siano».
Baffa. So che glielo direte, se voi sete a Vinegia ed egli a Piacenza.
Domenichi. «Perché aspetto che con gli occhi del corpo v’abbiate a render certo di piú, che nella mente vostra per mie parole dovete imaginarvi, e vi deve con l’animo parer di vedere e contemplare. E, per non ispender piú parole, avendo fatto oltra il dovere lunga diceria, farò fine; aspettandovi, con infinito desiderio, lutto di diverso parere di quello che per l’ultima vostra m’avete mostrato, dico di lasciar provare la corte ad altri. E, per mio consiglio, seguirete i pochi e non la volgar gente; dandovi tutto agli studi, non per vendere poi la vostra scienza a minuto, come molti fanno, ma per sapere la ragione delle cose e la cagione d’esse».
Raverta. M’avrei maravigliato che si potesse fare una lettera o un sonetto senza rubare il Boccaccio e ’l Petrarca.
Baffa. Se non gridano, il danno sia loro.
Domenichi. Lasciatemi finire. — «Chè queste son le fatiche per le quali si giunge a quei gradi, alla sublimitá dei quali i bassi e volgari intelletti non ponno pervenire. Ma sovratutto, perché so il vostro viaggio avere ad essere da Bologna, quando voi sarete giunto in Modana, madre de’ virtuosi cosí in lettere come in armi, non vi si scordi, vi priego, far riverenza, in mio nome, all’onorata madonna Pellegrina, dignissima moglie del mio capitan Camillo Caula. Chè io so che mi confessarete mai non esservi stato imposto carico che maggior diletto v’abbia recato di questo. Perché conoscerete una gentildonna tra le rare rarissima, alla quale di tutte le virtú si deve il principato e la corona. Resta che vi conserviate sano e mi raccomandiate agli amici. Di Vinegia».
Raverta. So che avete avuto che fare per un poco.
Domenichi. Ma ciò che importa? Chi non vuol leggere le cose, nessuno lo sforza.
Raverta. È ben vero, e chi ha faccende deve attendere agli affari e non a leggere simili cose.
Baffa. Se questa lettera fosse traposta insieme con alcune altre o in qualche ragionamento, come si farebbe a non leggerla?
Domenichi. Lasciarla stare, trapassando due o tre carte, perché, ad ogni modo, questa non interromperebbe niente, essendo fatta da per sè. Ma perché mi dimandate ciò?
Baffa. Dirovvi: conosco ch’è una cosa lunga, onde vorrei sapere, quando ciò occorresse, che poter rispondere a que’ tali che la biasimassero.
Domenichi. Ditegli che, quando ch’ei la fece, era scioperato e che non avea da scrivere lettera alcuna per suo padrone, e che voi, prima di loro, vi sète accorta ch’era lunghissima; nondimeno avete voluto che sia lasciata così, perché, se quei tali saranno affaccendati, si troveranno degli spensierati ancora. Così non potranno dire né accorgersi di cosa che noi abbiamo detto né ci siamo accorti prima di loro; e vadano ad apparare; ch’egli ha saputo far buona scelta di molti uomini virtuosi.
Baffa. Così farò. Ma ditemi: vi sète accorto come tra gli uomini virtuosi ha dato certe lode ad uno, onde copertamente non poco lo biasima?
Domenichi. Sì, sono.
Raverta. Anch’io me ne sono aveduto.
Baffa. Basta, non ne diciamo altro, perché gran fatto non sará che molti se n’aveggano. Ma quel che importa è che questi tali, come è staio detto dianzi, sono della buccia di Cencio Dini, contadino del luogo di Santa Croce, diocese di Lucca, indegnamente cancelliere del reverendissimo Cardinal Gambara, legato di Lombardia; il quale gaglioffo, offra l’essere infame da nativitá, villano e furbo, è il piú arrogante, ignorante e furfante che calchi terra.
Raverta. Conoscete voi, signora, questo vituperio degli uomini e vergogna del mondo? 6o
Baffa. La fama delle sue ribalderie m’ha riempiuto gli orecchi da Piacenza fin qua; oltra ch’io n’ho vera notizia per le scritture famose e degne di fede, nelle quali il virtuoso Doni ha fatto immortale sì vile e disonorata persona.
Raverta. A fè, signora, che sofficientemente ne dite male.
Domenichi. Sarebbe peccato a tacere il vero.
Baffa. Resta che, avendo contentati voi in mostrarvi questa lettera, che debbiate anche contentar me, ritornando all’incominciato nostro ragionamento.
Raverta. È bene onesto.
Baffa. Incominciate dunque voi, signor Ottaviano, perché il signor Lodovico deve essere presso che stanco, avendo tanto letto.
Domenichi. Si, per Dio.
Raverta. Così sia. Ma a voi sta il dar principio. E state di buon animo, ch’io son disposto di spendere tutto il rimanente del di d’oggi in servizio vostro, ché meglio non posso fare.
Baffa. Parecchi sono i dubbi e molti i quesiti dei quali ricerco essere rissoluta. E, perché a ciascuno da per sè si può dar fine, non mi curerò piú dall’uno che dall’altro dar principio. Ed ora che questo mi occorre nella mente, voglio ch’egli sia il primo; e però vi piacerá risolvermi e con alcuna ragione mostrarmi: Qual sia maggior difficultá: fingere amore non amando, o amando dissimulare di non amare?
Raverta. Dirovvi, rispondendo, in questa ed altre simili cose, naturalmente, non però senza ragione. L’uno e l’altro ho per difficilissimo: perché, a volere mostrare quello che non è in noi, bisogna grandissimo artificio usare. E prima: se si vorrá fingere amante non essendo, se sará uomo, potrá ben col passeggiare; se donna, col far copia di sè, nel lasciarsi spesso vedere; e l’uno e l’altro col mandar lettere, ambasciate, col mover sospiri, se gli sará concesso d’essere alla presenza della donna, non rimanersi dallo spendere, continuare l’impresa, per giungere non al desiato, ma all’ostinato fine. Ma sará impossibile, impossibile dico (percioché ciò non è di nostro volere, anzi viene dai movimenti dell’animo) che al conspetto dell’amata, se non è vero amante, si possa a voglia sua arrossare, impallidire, restare attoniti, fisar gli occhi nella cosa amata, con quella pietá ch’amore imprime in noi.
Baffa. Non dite cosi, perché, a’ miei giorni, ho conosciuto di quei che fingevano, onde si ha poi conosciuto la loro simulazione far cose sopra l’uso naturale: piangere, sospirare, impallidire ed arrossare di maniera che non ogni semplice, ma ciascuna donna, per accorta che fosse, sarebbe rimasta ingannata.
Raverta. Appunto il vedere uno estremo da un altro estremo è quello che, a chi ha punto di considerazione, scuopre il vero dal falso ed il falso dal vero. Il pianto ed i sospiri son meglio in nostro potere che non è l’arrossare ed impallidire, il quale non è sempre presto alle nostre voglie. E, se arrossavano ed impallidivano, dovea procedere piú tosto da vergogna o da téma di non inciampar poi nell’insidie, che da altro. Ma troppo ben si conosce quando gli effetti sono veri o falsi.
Baffa. Seguite dunque.
Raverta. Perché mi pare difficilissimo. Nondimeno, come avete detto, si ha trovato alcuno c’ha saputo fingere o, per meglio dire, ingannare l’amante, il quale, amando, crede di piú assai che non opra l’amato. Perché, se lo vede movere un sospiro, benché sia finto, quello gli passa per gli occhi e gli scende al core; onde, mosso a pietá, non può patire di lasciarlo piangere e languire, benché di nascoso poi sen rida e goda. E di qui i miserelli amanti restano poi ingannati. Onde, conoscendo alla fine, come che tardi, gli occulti inganni, muoiono bene spesso disperati.
Baffa. Infiniti veramente ingannati son giunti a mal termine.
Raverta. Ma però non resta che difficilissimo non sia il poter fingere d’amare; perché, non essendo amore, non so come si possa perseverare, cercando d’ottenere l’intento di cosa che non gli sia grata e che non ami. Ma che diremo di quelli che sono innamorati e vogliono fingere di non esserci? Questo dico io non solamente esser difficile, ma impossibile: perché, essendo amanti, non siamo in nostro potere. E, se bene abbiamo in animo di non andare a vedere la cosa amata, Amore, a cui soggetti siamo, ne ci guida. Amore ne incita a cangiare stile e ne muove da tutti i nostri atti primieri. E, se saremo in compagnia d’altrui, ragionandosi d’una cosa, entreremo in un’altra. Alle volte le nostre parole s’arrestano nel mezzo; e ciò procede che l’amato obietto sempre dinanzi agli occhi invisibile e nel cuore ne dimora, talché, dormendo, vegghiando e in tutte le nostre operazioni, commove tutti gli spiriti. Ma come sará possibile che, se avremo comoditá di vedere la cosa amata, che non impallidiamo ed arrossiamo, e che, malgrado nostro, non sospiriamo e restiamo attoniti ed insensati?
Baffa. E perché non si può restare? Quando altro non si potesse, non sa ramante, se l’amata è nella cittá, starsene in villa? Se abita in un luogo, non vi passare? Se ha per usanza andare accompagnato, starsene solo; e cosí passarsela con quel miglior modo che sia possibile? Benché malagevole sia, credo però che si possa fare.
Raverta. Questo non sarebbe amare e dissimulare, perché chi vuole contendere col nemico ed a lui mostrarsi eguale, non ha per costume volgergli le spalle, ma, di sè rendendogli buon testimonio, cerca di vincerlo. E questo è quel ch’ora trattiamo. Ma neanco ciò che dite si può fare, perché, come parmi avervi giá detto, acqua lontana mai non spense foco vicino, ed Amore, malgrado di noi, ci guida a vedere l’amata vista. Né si può star lontano, perché c’impiaga cosí da lunge come d’appresso, e ci fa cangiare abito tutto diverso dal primo. Onde, s’eravamo usati andar soli, siamo constretti di trovar compagnia; se accompagnati, la lasciamo, acciò ne sia dato agio di sfogare gli ardenti sospiri Ma chi potrá mai celare amore ed amando fingere di non amare? Se per caso, giunto al cospetto della sua amata, vegga quella fisar gli occhi in lui, quale amante è che non impallidisca ed arrossisca e non rimanga trafitto ed insensato; e, se gli parla, sappia a proposito risponderle? Nessuno veramente. Sí che, signora Francesca, non è diffícile solamente, ma impossibile, amando, voler dissimulare; perché, tutto che si sforzi talora di mostrare il contrario, il volto e ’l colore bene spesso scuopre ciò che l’anima desia, né si può anco celare; come mostra il Boccaccio in persona de la Fiammetta, quando dice: «Pensai che, se da me Amore cacciare non potessi, almeno cauto si reggesse ed occulto nel tristo petto; la qual cosa, quanto sia dura a fare, nessuno il può sapere se no ’l prova. Certo io non credo....», e quel che segue. Onde dica chi vuole, ch’io ho il simulare amore per impossibile, perché si verrebbe meno, conciosiaché l’appetito, il piacere, la paura e ’l dolore sempre preme lo amante. Le quai cose, sforzisi quanto vuole, danno indizio dell’amore o in uno effetto o nell’altro. A questo modo Erasistrato medico conobbe Antioco essere preso d’amore di Stratonica. E medesimamente, pur nel certaldese, si legge nella novella del conte d’Anversa: che Giachetto Lamiens, deliberato piuttosto di morire che scoprir l’amor suo, non puotè tanto fare che, ai movimenti interiori, quel valente medico non s’accorgesse lui essere fieramente innamorato della Giannetta. E, se non fosse ch’io non voglio passare in infinito, v’addurrei moltre altre ragioni ed essempi: come di Didone che, non potendo celare l’amore di che s’accese per Enea, discorreva furibonda per Cartagine: ora lo menava seco, mostrandogli le ricchezze di Tiro, ora incominciava parlare, e, nel mezzo delle parole, s’arrestava. Cercava di novo averlo ai conviti regali, e, quasi pazza, un’altra volta cercava udir le cose dell’eccidio di Troia. Se si partiva, le pareva il palazzo restar solo. Stava nel loco dell’amato, l’udiva e vedeva assente, e, sotto specie dell’immagine sua, teneva il picciolo Ascanio nel grembo e lo Lasciava. Le torri incominciate non crescevano piú oltra, né piú le fabriche si finivano, ogni opra era interrotta, la gioventú piú non essercitava l’armi; perché, cercando d’occultar l’amor suo e piú infiammandosi, era fatta tutta diversa dal primo essere. Ma da queste, ch’io v’ho detto, potete leggiermente considerare le altre circostanze, e piú a pieno il vero.
Baffa. E voi che ne dite? Ché state cosí queto?
Domenichi. A mio giudicio, è verissimo e naturalissimo quanto ha detto il signor Raverta. E che sia il vero: che piú difficile sia dissimulare che fingere amore, se non è, togliete questo essempio, a voi proprio. Una donna, che voglia accrescere le sue bellezze con lisci ed altre cose simili, si abbellirá la faccia tanto ch’apparirá piú bella e piú vaga; nondimeno cosí industriosamente non potrá farlo né tanto bene che, poco o molto, non paia fatta ad arte e non naturale. Cosí anco è uno che voglia fingere amore. Medesimamente una donna, che sia bella di natura, non potrá mai contrafarsi la faccia con arte, per rendersi men bella, che non sia conosciuta per quella ch’è e non si conosca che voglia ascondere le sue bellezze. E meglio adornerá la deforme la sua bruttezza, che non celerá la bella la sua bellezza. La quale si può assomigliare a uno che voglia fingere di non amare: ché, faccia quanto vuole, non potrá mai tanto fare che lo celi, benché sia difficile.
Baffa. Orsú, conosco il vero anch’io, ed ho che fermamente sia cosí. E, poiché il signor Ottaviano m’ha di questo fatto chiara, voglio che si riposi alquanto, e voi mi direte il parer vostro d’intorno a questo altro dubbio: Se possibile è ch’uno avaro ami.
Domenichi. Dite a me?
Baffa. A voi dico.
Domenichi. Io non fui mai avaro, e meno penso d’esserci, onde mal vi saprei di ciò render ragione: però vi prego ad impormi altro carico, ché forse meglio ne restarete sodisfatta.
Baffa. Se io volessi ora parlarvi d’altro, non v’avrei di ciò richiesto. Ma tosto incominciate a farvi pregare. Ditene quello che ragionevolmente vi pare, ché io ve ne prego.
Domenichi.
Tan m’abbelis vostre cortes deman; |
Baffa. Parlatemi cristiano, ch’io non v’intendo, e non incominciate a volere consumare il tempo in queste favole, perché a ragione mi dorrò di voi.
Domenichi. Non vi turbate, di grazia; ché pur tuttavia vi dico che vi dirò il tutto e, se si può fare, dironne anco piú che non ne sento.
Baffa. Sia col nome di Dio.
Domenichi. Dicovi di no, perché nessuno può servire a due signori. O ch’è intento ed ha posto ogni suo desiderio ne’ denari, o no: se ha il desio e lo amore nell’avarizia, quella è lo suo amato, né può d’altri innamorarsi. Perché Amore fa l’uomo liberalissimo, e sono effetti contrari che non ponno stare in un luogo istesso. Conciosiaché Amore sia capitai nemico dell’avarizia, e lo amante non risparmia lo spender e ’l gittar via, perché Amore incita gli amanti a cose generose, a cose lodevoli, a costumi buoni, ma non mai alcuno a cumular dinari.
Baffa. Dunque, per quel che mi dite, tutti gli amanti gitterebbono il suo?
Domenichi. Questo giá non dico io. Dicovi bene ch’uno amante non cura d’accumular dinari, perché, se l’intento suo fosse a questo, non sarebbe amante, ma aperto avaro ed espresso, e non potrebbe amare. Né può l’umana natura due arti essercitare né due studi. E volgarmente si dice che «due cose non ponno tollerare compagnia: Amore e Signoria». Onde gli avari son privi di questo bene ed anco dello amor celeste, perché meno ancora amano la somma essenza, né conoscono altro iddio né altra potenza che la loro arca piena di mondani tesori. E se uno avaro potesse amare, Amore, che si dice essere ed è cosí perfetta e santa cosa, non sarebbe buono, se potesse essere congiunto con l’avarizia, vizio tanto mortale e cattivo.
Baffa. Concludete, infine, che non possa amare?
Domenichi. Si veramente che concludo, perché ama l’avarizia. Potrá ben lasciar quella e, se s’innamorerá, non sará piú avaro; ma per forza, come d’asse si trae chiodo con chiodo, Amore lo fará liberale, magnifico, splendido e generoso, di maniera che ogniuno, conoscendolo mutato, ne prenderá maraviglia. E queste sono delle potenze d’Amore. Di qui si può considerare ancora essere impossibile celare amore, perché l’uomo sempre si fa differente da quel ch’era prima.
Baffa. Può dunque amare.
Domenichi. Può, ma non giá mentre ch’è avaro; e, se s’innamorerá, avrá lasciato l’avarizia. Perché, oltre ch’Amore e l’avarizia sono contrari, non si può avere il cor fisso in due luoghi.
Baffa. Io v’intendo. — Chi con ragione ama piú: il timido o l’ardito?
Domenichi. Avendo ciascuno a dire la parte sua, questa tocca a voi, signora.
Baffa. Questo non voglio io, perché, oltra ch’io propongo le questioni, io ho risposto e rispondo ad ambidue voi; onde faccio pur troppo opponendomi con l’ignoranza mia alla dottrina vostra.
Raverta. Sia con Dio. Ma, a quel ch’io veggo, perché questo ragionamento a me perviene, con poche parole vi risponderò; e molto piú loderò la tèma che lo ardire, essendo sempre stato negli amori miei timidissimo, come ancor io sono. Ed amo quanto piú ferventemente amar si possa, talché giorno e notte il mio cor mai non riposa, anzi solamente allora respira, mentre gli pare essere rinchiuso nell’amato obietto. E tanta è la riverenza ch’io gli porto, che non ardisco scoprire l’amor mio. Ben so ch’ella sa ch’io l’amo e ch’io l’adoro: di ciò mi contento e timidamente, in me morto, in lei vivo dimoro. Perché considero che, se io le scopro il mio amore e le ne domando mercede, che forse si potrá sdegnare ed escludermi dalla grazia sua. Onde io mi contento di cosí languire. E, quando anco questo sospetto non mi tenesse, Amore pur mi terrebbe, perché dei veri amanti è privilegio il timore.
Baffa. Sète sospetto, e in ciò parlate con affezzione. Queste son ragioni vane. Conciosiaché Amore a chi ferventemente ama porge ardire, onde, scoprendo all’amata i suoi dolori e sperando averne mercede, se ha qualche risposta accompagnata da speranza, piú s’infiamma ed arde; e, cosí perseverando, cresce lo amore quanto piú crescer puote.
Raverta. Anzi teme l’amante: giunto al cospetto della sua donna, diventa mutolo, né sa formar parola; oltra che dubita, se con parlare a lei scoprisse questo suo amore, di esserne cacciato. E che sia il vero, non ve lo mostra il Sannazaro nella sua Arcadia, parlando, sotto nome di Sincero, del suo amore? Onde io giudico che l’amante timido ami piú ferventemente, perché sempre Amore fa timidi coloro in cui dimora. E, dove
è maggior parte di quello, similmente la téma è maggiore. Questo avviene, percioché l’intendimento dell’amata non si può intiero sapere. Ma quei che sono arditi mostrano di poco apprezzare l’amore, né sono dadovero infiammati. Ma il timido, oltra che ritiene in sé tutte quelle vive fiamme e quei cocenti ardori, non fidandosi di scoprirgli né osando domandar mercé del suo languire, ama con infinito amore. E la sua téma d’altro non nasce che dall’amore, perché in tutte l’altre imprese saranno animosi ed audacissimi, ma in questo pusillanimi e timidissimi. E però dov’è vergogna, ivi è timore; e dove è maggiore il timore,, piú vi dimora Amore.
Baffa. Ma, se Amore è una fiamma che non si può nascondere, come è possibile che un vero amante possa esser timido; ed essendo Amore un desiderio di fruir la bellezza, che non sia ardito al fine pervenire a quella?
Raverta. Vi dirò. Amore è un desiderio acceso dall’amato, ch’entra per gli occhi nostri e scende al cuore. Onde gli occhi nostri mostrano e fanno fede del cuor nostro e dell’amore; e per gli atti e movimenti si conosce la perfezzione e possanza di quello, e non per le parole. Anzi, entrando in noi a questo modo, ne toglie lo ardire, non di maniera che non ne lasci accompagnati con qualche speranza. Si che io giudico e per esperienza dico: che sempre ama piú l’amante timido che l’ardito. E convien quasi a viva forza, uno che sia dadovero infiammato non di sfrenata libidine, ché di questa non s’intende, ma di vero amore, esser timido. Perché la riverenza, che porta alla cosa amata, causa questo, come ben si dimostra l’innamorato Petrarca in tutto questo sonetto:
Piú volte giá dal bel sembiante umano ho preso ardir con le mie fide scorte d’assalir con parole oneste, accorte la mia nemica in atto umile e piano.
Fanno poi gli occhi suoi mio pensier vano, perch’ogni mia fortuna, ogni mia sorte, mio ben, mio male, e mia vita, e mia morte quei, che solo il può far, l’ha posto in mano.
Ond’io non potei mai formar parola ch’altro che da me stesso fosse intesa; cosí m’ha fatto Amor tremante e fioco.
E veggi’or ben che cantate accesa lega la lingua altrui, gli spirti invola.
Chi può dir com’egli arde, è ’n picciol foco.
Vedete come Amore, quando è amore, contra nostra voglia, ne rende timidi; ché, s’altro non fosse, la riverenza, ch’alia cosa amata portiamo, ne costringe ad esser tali; come medesimamente mostra in quell’altro sonetto:
Amor, che nel pensier mio vive e regna,
Baffa. Che vi dice ?
RAVERTA.
Quella ch’amare e sofferir ne insegna, e vuol che il gran desio, l’accesa spene, ragion, vergogna e riverenza affrene, di nostro ardir fra se stessa si sdegna.
Onde Amor paventoso fugge al core, lasciando ogni sua impresa, e piange, e trema; ivi s’asconde e non appar piú fòre.
Che poss’ io far, temendo il mio signore, se non star seco infin a l’ora estrema?
Ché bel fin fa chi ben amando more.
In infiniti altri luoghi parimente mostra il vero amore essere albergo di paura.
Domenichi. Dico anco di piú: l’amante ardito, se avesse, poniam caso, nello scoprire l’amore alla sua amata una volta, due e tre e molte, di cattive repulse, sarebbe sforzato, se non da altro sdegno assalito, levarsi dall’impresa. Ma il timido vive con quella speranza di continuo: che una volta la sua donna, mossa a compassione, abbia da dargli qualche mercede. Perché l’amatore è uno animo morto nel proprio corpo e vivo in quel d’altrui.
Baffa. Queste ragion piú tosto appartengono a volerne dimostrare che la timiditá sia meglio nell’amante che l’ardire. Ma
ora si ragiona: qual sia piú fervente amore, quel del timido o dell’ardito.
Domenichi. Il piú lodevole conviene anco che sia il migliore.
Baffa. A questo modo concludete che piú ama il timido che l’ardito non fa?
Raverta. Veramente è cosí il vero, perché chi ama teme, e, temendo, si persevera: onde, amando e perseverando, si vive con una certa téma e riverenza che da noi ci divide e con lo amato congiunge. Laonde poi Amore, vero conoscitore dei cuori degli amanti, riferisce i desidèri dell’uno nell’animo dell’altro. Però sempre terrò questa opinione per vera: che sia piú fervente l’amore con téma che con ardire, perché quella fa fede della riverenza che si porta alla cosa amata.
Baffa. Sia dunque cosí. Ma voi, signor Lodovico, so che fate il timido dadovero, poiché troppo non ragionate, anzi mi lasciate confondere con ogni minimo argomento. E, di piú, se il signor Ottaviano m’allega una ragione, sempre ve ne aggiungete un’altra per lui. Ma invero darò ancora che fare a voi.
Domenichi. Come vi piace. Ma parmi che gli abbiate risposto di maniera ch’io non avrei saputo far tanto.
Baffa. Si, si, è vero, e non si può negare; ma le mie risposte sono state frivole e di nessun momento. E ben so che, chi avesse meglio sostentate le ragioni e le difese d’uno amante ardito, che cosí di leggiero il timido non gli sarebbe stato superiore. Or sia con Dio, poich’io mi sono acquetata. Ditemi ora voi, signor Domenichi: chi pensate che ami con piú fervore: l’uomo o la donna?
Domenichi. È facile da giudicare.
Baffa. Forse volete dir l’uomo?
Domenichi. È vero e certo.
Baffa. La cagione?
Domenichi. Infinite ci sono e cause e ragioni.
Baffa. Incominciate a dirmene una.
Domenichi. La principale è questa, e sia detto con pace vostra: perché l’uomo è piú perfetto della donna, e però, quando diventa amante, ama con piú fervore.
Baffa. A me pare il contrario, essendo la donna di piú dolce e delicata complessione che l’uomo non è. Però ama piú ardentemente, e piú facilmente s’infiamma, non essendo molto difficile a uno uomo l’allacciare una donna: la quale impetuosamente con uno ardente zelo, subito credendo il tutto, ama ardentemente ed in sé tenendo le fiamme amorose, (le quali quanto piú di forza abbiano che le palesi, coloro sei sanno che l’hanno provate e provano tuttavia) non avendo, per téma e vergogna, possa di scovrirle, senza fine resta infiammata. Si che, senza dubbio, deH’amar piú ferventemente a noi si conviene il primo loco.
Domenichi. Anzi no, perché per lo piú simulate.
Baffa. Non parlo di quelle che fingono. Ora si dice e si presume che amino: onde, amando, dico essere piú fervente l’amor della donna.
Domenichi. Fate il debito vostro a difendere le ragioni che v’appartengono. Ma vi dico: che piú ardente è l’amor nostro, si come è piú resistente l’animo prima che s’allacci, ed udite queste ragioni...
Baffa. Non passate piú innanzi, ché so eh’ io sarei sforzata a cedervi; ma voglio far che da voi stesso, in un altro dubbio, di questo vi chiamarete il torto, e confessarete la donna amare con piú fervore, quando ama. Ed è minor male ch’io vi proponga questo altro, perché o me gli affermarete tutti due o almeno uno. Che me gli neghiate tutti due non credo io, perché le ragioni non sarebbono conformi. Lá dove che, facendovi forse questo buono, mi neghereste anco quest’altro: chi è piú costante l’uomo o la donna?
Domenichi. L’uomo.
Baffa. Per qual ragione?
Domenichi. La ragione è la medesima che io vi dissi dianzi: perché l’uomo è piú perfetto, ed, essendo piú perfetto, è piú costante.
Baffa. Questo non vi confirmarò giá io, perché, s’io vorrò andar dietro le perfezzioni, potrò negarvi quanto dite con ragion naturale. E dirò che, essendo l’uomo piú caldo, da quella qualitá convien pigliar leggierezza ed instabilitá. Ma non voglio che
s’entri in simili forme né materie, anzi che s’abbia da provare con ragioni ed essempi la maggior costanza; perché in amore si sono vedute donne costantissime, le quali piú tosto hanno eletto morire che mancare al suo amante; e darovene molti essempi.
Domenichi. Non ne voglio altrimenti, perché sarebbono piú tosto d’ostinazione che di stabilitá. Ma acquetatevi a quanto ne dice il Petrarca, vostro confidente e loro amicissimo:
Femina è cosa mobil per natura: ond’io so ben, ch’imo amoroso stato in cor di donna picciol tempo dura.
E quel che segue.
Baffa. M’avete allegato santo Agostino col dirmi questi versi, scritti piú tosto per martello che per dire il vero.
Domenichi. Non so che «martello», né che «vero». Vi potrei anco addurre santo Agostino, che medesimamente lo dimostra ed apertamente lo dice, e Virgilio che dice la femina essere cosa varia e mutabile.
Baffa. Che ho da fare io di questo altro poeta, che poco l’intendo? E Dio sa se cosí dice! Parlatemi de’volgari, e lasciate i latini da parte.
Domenichi. Cosi sia. Leggete Dante, lá ’ve parla, nella seconda cantica, in persona di Currado, dicendo:
Quando sarai di lá da le largh’onde, di’ a Giovanna mia che per me chiami lá, dove agl’innocenti si risponde.
Non credo che la sua madre piú m’ami, poscia che trasmutò le bianche bende, le quai convien che misera ancor brami.
Per lei assai di lieve si comprende quanto in femina foco d’amor dura, se l’occhio o ’l tatto spesso non l’accende.
Baffa. Lasciate, di grazia, star tanti poeti, perché, volendo coprire il difetto, eh’è in loro, d’instabilitá, l’attribuiscono a noi donne. Come fece Tibullo ch’amò Delia e lasciolla per Nemesi,
e poi lasciò Nemesi, e tolse Neera, ed alla fine fu si ardito che scrisse le donne essere instabili e leggiere. E Virgilio Galatea ed Amarilli...
Domenichi. Vi dico maggiore essere la costanza dell’uomo, il quale né per repulse né per sdegni, s’è vero amante, mai non cessa di seguir le imprese, anzi con la perseveranza sua fa conoscere la perfezzione e fermezza nell’amore.
Baffa. Forse con ostinazione.
Domenichi. Avete il torto, ché, a conoscere quanto voi siate instabili e leggiere, togliete l’essempio di Doralice che tanto mostrava amare Rodomonte, e poi, a piú d’una prova, Mandricardo. Onde il divino Ariosto dice che, morto ch’ebbe Ruggiero il tartaro, se lo illustre giovane l’avesse richiesta, che l’avrebbe accettato; tali erano i meriti suoi. Perché sempre instabilmente amano, e, quando veggono uno che le piaccia, mutano pensieri. Vedete anco la mutazione ed instabilitá della figliuola del soldano di Babilonia che fu poi moglie, polcella di nove uomini, del re del Garbo nel Boccaccio; e d’altre infinite.
Baffa. Che m’importano queste ragioni, che poco o nulla vagliono? Perché quella è invenzione di romanzi, e queste son novelle. E poi il buon ferrarese non dice che rissolutamente l’avesse fatto, ma dice «forse». Alatiel, perseguitata dalla fortuna, non per instabilitá né per voglia, ma per forza fe’ della necessitá virtú. Si che, signor Lodovico mio, neanco queste son buone ragioni né saldi argomenti per voi. Ma, se vogliamo citare esseinpi di favole, vedete se amò Tisbe. Leggete nelle istorie di Lucrezia, di Porzia e di tante altre, come si vede.
Domenichi. Lo fecero per onestá e per conservar la pudicizia, e non per costanza d’amore.
Baffa. Che direte di Alceste, la quale volle morire per il marito ?
Domenichi. Se vorremo in tutto fondarci sopra gli essempi, questi piú tosto vi saranno contrari. Ché non per altro si nomina l’Idra, se non per essere stato animale di sette capi; e di tante altre serpi non si tien conto, perché infinite se ne trovano. Cosi queste si notano per essempi, per essere quasi state
bianche cornici. Ma ora parliamo senza affezzione, naturalmente: la donna, se si vedrá sprezzata dall’amante, si leverá dall’impresa: l’amante non giá, né per cattiva risposta né per acerbo sdegno; ma con la perseveranza dará fede della sua costanza, né si moverá mai finattanto che non conoscerá l’amor suo essere senza speranza, o ch’ella per aventura abbia inclinato l’animo altrove. Allora si, e malagevolmente, cercherá di ritirarsi. Ma la donna, senza considerar piú oltra, subito si leverá. Perché non è da dubitare che, non solamente l’uomo non sia piú costante e la donna meno, ma di piú ancora l’uomo costantissimo e la femina leggierissima.
Baffa. A vostro modo la cosa starebbe bene. Ma invero
10 la voglio sostener fin eh’ io posso. Non fu costante e fida Argia? non fu Evadne? non Laodamia? non la bella asiana Pantea? Dunque fu instabile Penelope, la quale venti anni attese
11 suo marito? Specchiatevi in questo essempio, e poi parlate. Che direte pur di Porzia, di Giulia, cosí stabili e salde? Leggete il buon testor degli amorosi detti, lá dove dice:
L’altra è Porzia, che ’l ferro al foco affina: quell’altra è Giulia, e duolsi del marito, ch’a la seconda fiamma piú s’inchina.
Comparate la stabilitá di voi altri con queste, e poi giudicate sanamente.
Domenichi. Perché poco dianzi vi allegai tre versi dell’innamorato poeta, voi gli repugnaste; ed ora lo citate a vostro favore: ma sia in bene. Questi essempi vi sono piú tosto contrari, perché, additandomegli, venite a render lievi le vostre ragioni. Non sapete, come v’ho detto, che tutte le cose rare si notano per maraviglie e per essempi? E però di queste tali si fa menzione quasi come di miracoli. Ma io non voglio far raccolta d’essempi, di favole e d’istorie; oltre che, quando io volessi, vi potrei far vedere che la moglie d’Ulisse fu tutta il contrario di ciò che si dice, come scrive Licofrone. E però è buona cosa tenersi gli scrittori per amici, ché per lo piú fanno parere il nero per il bianco. Didone veramente fu pudicissima e moglie d’Iarba,
figurato per Sicheo, al quale morto servò intiera fede; nondimeno vedete come prima Ennio e poi Virgilio l’additò per impudica, e fanno credere tutto il contrario di quello eh’è stato. Tale è la potenza degli scrittori e de’ poeti. Medesimamente si legge Orfeo poeta non essere mai stato, se ad Aristotele si dee credere; nondimeno si leggono dell’opere per sue, e Marco Tullio scrive essere state di un certo Cerdone pitagorico. Credete però che neanco Aiace fosse di si gran statura, né Elena cosí bella, come si crede per le parole di Omero? V’ingannate, ché quegli non era mica gigante, né questa una Venere, come vi mostra con poche parole il Gallo di Medilo. Son ciance la maggior parte di queste cose: ma, per essere proprio del poeta e del filosofo il vender favole, quel che con piú strane invenzioni fa piú inusitate chimere, è riputato piú savio ed intelligente. E però s’ingegnano a trovar cose sopra natura, cacciando al nero oblio quelle che sono state chiare e vere, conservando quelle che mai non furono. Credereste voi, come finge il prencipe de’ greci che facessero i fenici ad Ulisse, quando gli diede a credere che portava i venti rinchiusi negli utri, e che vi erano quei monoculi, che solo un occhio avevano e devoravano le carni crude degli uomini?
Raverta. E quello altro Antimaco, poeta, che scrive alcuni avere navigato con galee per li boschi, e di sopra le cime degli alberi andavano a vela! Credetelo voi, se vi pare.
Domenichi. Ben dico io; e di piú anco, ché, se incominciano a fare un «si», in ultimo poi ha contrario significato. E chi sa che, quando il grandissimo greco die’ principio all’opra sua dall’ira d’Achille, non avesse in animo piú tosto di biasimarlo che di lodarlo? Ch’ io, per me, lo credo. Nondimeno poi cangiò voglia e pensiero, ed incominciò a lodarlo di maniera che Dio sa se mai fece alcuna di quelle tante prove ! Onde chi dubita che, se a quel tempo fossi stato anch’io e che fosse venuto in animo a uno Omero o Vergilio di essaltarmi per sapienza, bellezza o fortezza, essendo però piú tosto ignorante, laido e debile, ch’io non fossi ora creduto essere stato savissimo piu di Salomone, bellissimo piú di Assalone e fortissimo piú di San sone? Certo nessuno. Nondimeno sarebbe pur bugia espressa.
Baffa. Se anco al tempo nostro venisse voglia ad alcuno d’essaltarvi, non lo potrebbe fare?
Domenichi. Senza dubbio, ma non gli sarebbe prestata quella fede che allora se gli dava, perché ci sono in troppo quantitá i poeti, e poco se gli crede. Anzi, per meglio dire, è passato il tempo degli Omeri e Vergili.
Baffa. Diceste pur dianzi esser buono tenersegli per amici.
Domenichi. È vero ch’io lo dissi, e non vel niego; perché, tutto che le lode e biasimi d’una gran parte dei poeti moderni muoiano con gli autori stessi e le loro opre insieme, nondimeno giova pure anco sentire smusicare alcuna cosa in suo onore; come anco, se non nuoce, duole udire scoprirsi alcun suo vizio. E però è bene avergli amici.
Baffa. Da che procede che si poco durano nella memoria degli uomini le moderne opre, e piú tosto sempre s’appigli alle antiche? Non credo giá che sia perché anco a’ giorni nostri non abbiamo avuto e non ci siano d’eccellentissimi spiriti in tutte le scienze ed arti, meglio forse che gli antichi non furono dotati.
Raverta. È il secolo presente, signora mia, tanto corrotto, che sdegna aderirsi a quelli che sono stati al tempo nostro. E perché l’uno all’altro porta invidia.
Baffa. Oh male aventurosa nostra etade!
Domenichi. Si dice la vostra satira. Ma lasciamo da parte i poeti; ch’io, per tornare al primo ragionamento, con ragioni efficaci proverò la mia opinione, e vi farò conoscere chiaramente essere piú stabile l’amor dell’uomo che quello della donna non è. E che sia il vero, oltra che l’uomo è piú perfetto, qual complessione è piú atta a innamorarsi nel primo impeto; l’uomo o la donna?
Baffa. La donna.
Domenichi. Io vel concedo: se la donna in un subito piú tosto che l’uomo s’accende, il quale va piú gravemente, non è di necessitá che l’uomo, quando, fatta la elezzione, s’innamora, sia anco piú stabile e piú saldo né cosí per poco si mova, come fará la donna? La quale, si come per picciolo momento s’inclina, cosí anco, come lieve foglia, per ogni minimo vento si muove. Il medesimo dice il mio magnifico signor cavalier Cassola in un suo leggiadrissimo madrigale, lo quale ora, se tutto mi ricorderò, come spero, son per recitarvi. Né potrete giá dire che egli abbia scritto ciò per sdegno né per odio che vi porti, perché è vostro amicissimo e parzialissimo, ma per non celar il vero.
Questo è pur ver, questo è pur ver, madonna:
eh’in cor di donna poco
sta l’amoroso foco,
se ’l guardo, il dire od altro non l’accende.
E che sia vero, il vero or si comprende
in voi, madonna, in voi;
ché tutta, tutta fiamma
tal or vi veggio, e poi,
in tempo corto e breve,
in voi non trovo dramma,
che non sia tutta di gelata neve.
Vero è ch’io scrissi che celeste séte
creata fra le sacre e divine opre,
e che voi non avete
di feminil, se non quel sol che copre
un velo ed una gonna:
ma in quel, che giá diss’ io, séte pur donna.
Ma l’uomo come albero ben radicato e piantato, cosí di leggiero non si crolla. E che sia costante si conosce; ché né per prosperitá né per adversitá non si cangia, ma sempre segue. E però di qui anco si conoscono i veri amici, i quali, se amano nelle prosperitá, meglio anco si mostrano pronti e fedeli nei casi adversi. E quei che sono altrimenti meritano essere chiamati simulatori e perfidi, e non veri amici. Per che, magnifica madonna mia, panni, senza che piú inanzi io trapassi, onesto ch’ornai mi dobbiate cedere in ciò. E, se pur volete ch’io ceda a voi, come a maggiore, farollo per riverenza, ma non giá perché in ciò non siate inferiori a noi.
Baffa. Poiché pur cosí volete, ed io son contenta di cedervi. Ma vedete che nel primo dubbio, per lo quale vi ho mosso
questo, darete la ragione a me. Dunque, se voi séte piú costanti in amore di noi altre, piú fervente viene ad esser l’amor nostro, il quale aventandosi in noi con maggior émpito, a guisa di repente fiamma, mentre in noi dura, è piú ardente. Si che, avendo voi vinto questo secondo, il primo è nostro.
Domenichi. Non so come i’ debbia affermarlovi.
Raverta. Sarebbe cortesia di voi il lasciargliene vincere alcuna.
Baffa. Non voglio che mi ceda cosí per poco, anzi mi fa egli piacere infinito a contendere meco quanto può.
Domenichi. Non ne voglio dire altro, benché mi dia l’animo di farvi vedere: si come il calore d’un legno sodo, il quale sta piú ad accendersi che la paglia, è maggiore e piú potente che l’incendio di quella; cosí è piú fervente l’amor nostro, benché non cosí impetuosamente in noi scenda.
Baffa. Argomentate pure, ch’io ben vi responderò.
Domenichi. Giá v’ho detto ch’io non voglio.
Baffa. Cedetemi dunque.
Domenichi. Io vi cedo; e, mentre amate, concludo che ’I vostro amore sia piú fervente, si come piú tosto e piú leggiermente s’incende il vostro core.
Baffa. Resta che voi mi dichiariate: qual sia maggior segno a una donna d’essere amata, oltra la perseveranza.
Raverta. Questa è impresa da voi, perché veramente noi non sappiamo dimostrare in miglior modo l’amore all’amata, se non col continuare: lasciamo stare lo spendere, perché questo piú tosto conviene all’amor mercantesco che ad altro.
Baffa. Dunque ci è anco mercato in amore?
Raverta. Si, per certo; e questo è l’amor delle cortigiane, del quale noi punto non parleremo. Onde io di novo dico che non saprei dire qual maggior segno si sia di quel che s’è detto. Perché noi non sappiamo meglio dimostrare l’amor nostro che con una servitú continua. E questo sarebbe piú tosto ufficio vostro, perché, si come donna di grande ingegno, insegnandoci qualche altra via che s’abbia da tenere oltra la perseveranza, appararessimo cosí util segreto. Si che, di grazia, fatene di ciò capaci.
Baffa. Se io lo sapessi, non ve ne domanderei; anzi v’ho proposto questo dubbio per vedere se, meglio che col perseverare, si può conoscere l’amor dell’amante.
Raverta. Se non si conosce, oltra la perseveranza, a questo: che egli non vada a disfogare l’ardente suo amore e quella impetuosa rabbia con altri, ma in se stesso, oltra il perseverare, tenga rinchiuse tutte le fiamme e pazientemente sopporti ogni repulsa della donna; non so altro segno maggior potere addurvi.
Baffa. Né questo è buono; perché chi non sa che, se la donna di continuo facesse grata accoglienza alFamante, ch’egli durerebbe per sempre! Ma la perseveranza dell’uomo si conosce alle repulse che ognor riceve. Si che questa appartiene alla perseveranza né punto l’eccede, anzi il minor loco ritiene. Che ne dite voi, signor Lodovico?
Domenichi. Io invero non so che mi dire, perché do il supremo loco alla perseveranza. E tutti gli altri atti ch’amando s’usano, non essendo congiunti con quella, reputo come foco di paglia. Perché giudico anch’io che colui, eh’infino alla fine continua, sia salvo. Si che tutte l’altre mi paiono cose di minor momento. Ma dico ciò essere la principale, tutto che gran segno d’essere amata, disse la Corona nell’Amor santo, dialogo del mio gentilissimo ed ingegnosissimo Gottifredi, e per lo quale si possa esser secura dell’amor dell’amante, sia: ch’egli, con qualunque persona e qualsivoglia loco, favelli dell’amata. Benché lungo sarebbe a raccontare ciò che all’incontro le rispose il buon Pidrione, dandole a vedere che cosí si può continuamente favellare di persona che s’odia, come che s’ama; e molte altre cose.
Baffa. Questo voleva dire anch’io e di piú, ché tutte volte non è mica lecito di mentovare spesso l’amata. Perché, avendo ad essere l’amore con qualche rispetto, ragionandone spesso si genera sospetto. E cosí gli amori, di segreti che dovrebbono essere, divengono palesi e favola del vulgo.
Domenichi. S’intende sempre ragionarne moderatamente.
Baffa. È impossibile por freno alla lingua dell’amante nel ragionare che gli occorre dell’amata. E poi questo non eccede la perseveranza. Non è cosí? Ma dirovvi, a mio giudicio, quel che mi
pare che sia maggiore, oltra la perseveranza. La donna può conoscere piú evidentemente l’amore dell’uomo, se sa e conosce quello esser privo di tutti gli altri piaceri e di ciascuno altro contento, né conoscere diletto alcuno, ma pascersi solamente e nodrirsi dei dolci ed amari suoi. E questo ho per grandissimo segno d’amore. Perché alle volte, se ben l’uomo continua, forse lo fa per giungere solamente a quel desiato fine e vincere la sua ostinazione. Ma, se tutto il diletto sará posto nell’amata, non sará a questo fine, ma, perché non conoscerá altro bene né viverá in altri che nella donna, che io giudico questo essere, oltra la perseveranza, maggior segno d’amore. Tanto piú che il fine d’Amore tende alla dilettazione.
Raverta. Ben dissi io che lo sapevate meglio di noi, perché voi altre avete mille lacciuoli e mille segreti per conoscere se l’uomo vi ama o no. Ma perché prima non lo diceste?
Baffa. Che so io? Perché non lo sapeva, ma m’è venuto in mente. E poi, quando ben l’avessi saputo, avrei voluto vedere in ciò l’opinion vostra, per imparare alcuna cosa di piú.
Raverta. Poco frutto da me potete trarre in ogni conto, e meno in simili casi. E vi dissi apertamente ciò essere di vostro ufficio, onde poi lo avete dimostrato efficacemente. Perché a* miei di ho conosciuto di quei che amavano, o, per meglio dire, fingevano, che con la perseveranza erano l’istesso amore, e non avrebbono tralasciate le ore debite per cosa che si possa estimar di valore, ma poi a mille altre vie pigliavano diversi piaceri. Onde ora per le parole vostre conosco che quel non era perfetto amore.
Baffa. Certo non era.
Raverta. Ve lo confermo, senza alcun dubbio: perché ad uno amante che veramente ami, tutti i solazzi, tutti i giuochi, tutti i piaceri son noiosi, ché tutto il suo intento è fiso nel contemplare la bella idea della sua donna, la quale di continuo gli sta scolpita in mezzo il cuore, ed invisibile gli dimora inanzi.
Baffa. Lasciamola qui: ch’essendo l’amante privo di tutti gli altri piaceri, si giudica efficacissimo segno di vero amore. Ma voi stimate: che uno amante possa morire per troppo amore?
Domenichi. Io giudico che si, perché può occorrere che, amando ferventemente e veggendosi alle volte la cosa amata d’appresso, tutto il sangue e gli spiriti commossi si partano, e corrano d’intorno il cuore, si come parte e membro principale e piú nobile di tutti gli altri, e lo circondino di maniera che, se non gli giunge qualche conforto, può gelarsi ed intiepidirsi di sorte che quello, rimasto senz’un minimo conforto, manchi del suo valore; e, si come radice della vita nostra, rimanendo senza vigore, l’amante può morire.
Baffa. Non v’intendo: dichiaratemi meglio questa passion del cuore.
Domenichi. Dicovi: che il cuore, come sapete, è la piú nobil parte che sia nell’uomo e dal quale depende tutta la vita. E però Amore, passando negli occhi nostri, se ne scende al cuore, il quale è quello che di continuo in noi sta inquieto, e vorrebbe potere uscire per congiungersi con l’amato obietto. Perché, ogni volta che ci troviamo con gli occhi del corpo a contemplar l’amata cosa, nel primo émpito tutto il sangue e tutto il vigore eh’è in noi si parte, e ne viene un tremore ed un freddo che ne rende languidi e fiacchi. Di qui nasce lo impallidire; ma, cessato questo, si avampa di cocente foco e tutto s’arrossa. Ma in questo mezzo, come vi dico, il sangue nel primo impeto corre d’intorno al cuore, si come parte principale e membro piú nobile, per soccorrerlo. Onde, se aviene che a qualche via o con alcun lieto sguardo non se gli porga conforto, tanto che ’l sangue e vigore sparso e corso intorno a quello, abbia da ritornare ai luoghi suoi, può gelarvisi d’intorno e farvi un circuito, si come un serraglio; di maniera che, non avendo esito di pigliar fiato né loco onde possa respirare né per lo quale possa giungere conforto, come fiacco e debile, rende gli altri membri, dai quali è partito il suo vigore, subito infermi e lassi, in guisa tale che il corpo, rimaso senza sostegno, convien lasciarsi cadere ed isfinire. Cosi per troppo amore si può morire, e questo può avenire in un subito.
Baffa. Non so come io me lo creda, perché non mi ricordo mai, a’ miei giorni, aver veduto morire alcuno per troppo
amore, e rari per dolore; ma per subita e non sperata allegrezza, molti.
Domenichi. Per allegrezza infiniti son morti, come si legge di Sofocle e di Dionisio tiranno in Sicilia, che morirono in un subito, ricevuta dell’uno e dell’altro la nuova della tragica vittoria. E quella madre parimente, veduto il figliuolo ritornar salvo dal conflitto di Canne, subito spirò. Iuvenzio Talva e Filomene vissero negli affanni e morirono d’allegrezza. E questo nasce, perché il cuor nostro è assalito da subito impeto e tanto lieto, che tutti i vapori e ’l sangue e vigore si parte e corre al cuore, di maniera che, a guisa di fumo, quello affogano che non può avere onde respirare. Ma per amore ne moiono piú rari, per questo ch’io vi dirò. Amore, benché sia potentissima passione, è continua in noi; laonde, quasi, e senza quasi, sempre patendo, se la passione non ci assale cosí impetuosamente che non possa avere onde respirare di minimo conforto, l’aura vitale cosí di leggiero non ci abbandona. E che sia vero, discorrete, non a guisa di novella, ma si come vero essempio, il caso di Girolamo e della Salvestra, il quale, «raccolto in un pensiero il lungo amor portatole e la presente durezza di lei e la perduta speranza, deliberò di piú non vivere, e, ristretti in se gli spiriti, senza alcun motto fare, chiuse le pugna, a lato a lei si mori».
Baffa. Fu forse per dolore.
Domenichi. Ad ogni modo fu per dolore e non per gioia, ma la principal cagion fu per amore. Perché cosí impetuoso dolore lo assali, che gli spiriti, ristretti insieme e corsi al cuore per quello aiutare, prima gelarono e mancarono. Perché l’ultimo degli spiriti è il cuore, che, come piú nobile, piú vive in noi, e, mancato quello, tutti gli altri membri mancano. Che direte poi della Salvestra? La quale, assalita di subito dolore, si come dice il Boccaccio, «quel cuore, il quale la lieta fortuna di Girolamo non avea potuto aprire, la misera lo aperse, e l’antiche fiamme risuscitatevi tutte subitamente, mutò in tanta pietá, come ella il viso morto vide, che sotto il mantello chiusa, tra donna e donna mettendosi, non ristette prima che al corpo
fu pervenuta; e quivi, mandato fuori uno altissimo strido, sopra il morto giovane si gittò col suo viso, il quale non bagnò di molte lagrime, percioché prima noi toccò che, come al giovane il dolore la vita avea tolta, cosí a costei tolse.» Si che considerate da questo, se non vero, ma verisimile essempio, l’amante poter morire. Però tanto non si può tassare la crudeltá delle donne, che non sia anco molto piti. Dico di quelle, le quali, vedendosi dinanzi un misero amante languire, indurate piú che l’Alpi all’aura, e piú crudeli che tigri ircane, non curano l’altrui dolore, né pensano un cattivello amante per troppo amarle poter morire. Veramente a ciò dovrebbono le genti prò vedere, perché qual piú crudele omicida si trova d’una donna ingrata? Ché, se talora uno uomo torrá la vita a un altro, lo fará a caso e, se non a caso, per oltraggio ricevuto. Ma voi altre che pensatamente uccidete chi v’ama, chi vi serve e chi v’adora, e chi con un minimo cenno potete trar da morte a vita, vi contentate e perseverate con la vostra durezza in dargli morte! Vi dovrebbe pur movere la naturale compassione, se non altro, che da natura deve essere con noi. Diventate compassionevoli e non siate tanto indurate, che poi la pietá vostra non giovi ad altri e nuoccia a voi, come nocque alla Salvestra, la quale tardi divenne pietosa. Onde, data prima la morte con la sua crudeltá a chi tanto l’amava, a se medesima la procacciò ancora. Perché, signora Francesca, senza tanti essempi, si conosce pur troppo apertamente la crudeltá delle donne, ed uno amante per soverchio amore poter morire.
Baffa. Voi tassate tanto noi altre donne di crudeltá, che meglio sarebbe tacerne; perché chi sapesse intieramente quelle di voi altri uomini, confesserebbe voi ingrati e crudelissimi, e noi cortese e pietosissime. E, se non fosse ch’io non voglio spendere tutto oggi in raccontare istorie ed essempi, ve ne conterei infinite, e tra l’altre una crudeltá usata da un marito a sua moglie, intravenuta pure a’ giorni nostri, la quale è si fatta, che ben sarebbe crudelissimo quel cuore e privi d’amore quegli occhi che, udendola, non si movessero a pietá e restassero asciutti di lagrime.
Raverta. Di grazia, raccontatela; ch’anch’io vi prometto poi dirvi d’una giovane, la quale non ha molto tempo che per troppo amore si mori, ove insieme si vedrá la crudeltá d’un altro uomo.
Baffa. Per udire la vostra, dirovvi la mia con quelle istesse compassionevoli parole che me la scrisse il nostro messer Anton Francesco Doni; e però uditela da me come cosa di lui.
Fu al tempo del signor Alessandro de’ Medici, duca di Fiorenza, il quale a’ giorni suoi superò di sentenze tutti i savi e di costumi e di bontá vinse le leggi, una giovane bella e d’onesta famiglia, maritata ad un suo cortigiano, il quale, come sogliono fare la maggior parte, teneva una femina detta Muda, se ben mi ricorda, né mai da questa rea figliuolo alcuno avea potuto avere. Piacque a Dio dargliene uno della sua bella d’animo, e di corpo chiara consorte: dove alla femina, che nella medesima abitazione stava, fortemente coceva, e tanto operò con suoi malefici e tristizie, che converti in grande odio il maritale affetto. Talché, messa da lui la sua buona consorte in parte della casa ad allevare il suo picciolo figliuolo, senza pur mai vederla, la faceva dimorare. E, seguitando ogni giorno e facendosi maggiore il veleno nel petto di lui per il cattivo operare della femina, passato circa due o tre anni, ebbe ardire non solo villaneggiarla di parole, ma di batterla: dico questa iniqua, la tanto bella giovane...
Raverta. So che questa cosa fu lunga.
Domenichi. Aspettate, ché anco non incomincia il principio delle calamitá dell’una e delle crudeltá dell’altra.
Raverta. Forse lo sapete voi?
Domenichi. Ben sapete, ma seguite pure, ché in vero è compassionevole.
Baffa. ... Sopportava costei, per non dispiacere a lui, ogni cosa in pazienzia, avendo fede che un giorno Iddio vedesse il suo tormento, giá tanto tempo tolerato. Era superbo questo suo consorte, né sarebbe stato alcuno ardito a dirgliene parola. E si ridusse a tale, ch’altra persona non lo serviva che la rea femina, né alcuno abitava in casa sua, se non essi tre e ’l figliuolino che, giá grandicello, favellava il tutto. ...
Raverta. Mi maraviglio come non lo facesse morire.
Baffa. ... Deliberarono costoro ammazzare la bella giovane, e, parendo tutte le vie scarse ad uscirne con onore, per ultimo rimedio presero partito darle il diamante, ché col tempo la consumasse. E cosí fecero. ...
Raverta. Oh sceleratezza !
Baffa. ... Non giovò loro, ed a lei non nocque il tristo fatto, ma venne piú bella che mai di faccia, d’animo e di pazienzia. Mise loro tanto odio e tanta rabbia in core il diavolo, che una notte la presero ed in una volta a basso la legarono, dove ogni giorno la ribalda femina la batteva tutta. E, per il gridar suo ch’era vano, fatta rauca, a pena poteva favellare. E, tenutala per farla consumare, circa non so che mesi, a poco pane e meno acqua, divenne enfiata tutta per l’umiditá del loco. Dove, veggendosi vicina alla morte, ruppe con la lingua le parole, con gli occhi il pianto da cordiale affetto uscito, in verso la ribalda femina, cosí dicendo:...
Raverta. O giustizia divina, che facevi?
Baffa. ... — Se la pietá che ’l cielo costuma verso i suoi umili, donna crudele, ti fosse palese, se la bontá di Dio ti fosse nota e se la caritá ti gustasse, come gusta agli animi perfetti, donna iniqua, non faresti tanto errore. Dove mai t’offese, dove mai ti fece ingiuria l’animo e ’l corpo mio? Quale operazione ingiusta e quale effetto rio ha operato il corpo mio verso te, a usarmi tanta impietá, a straziare le mie trecce, a impiagare le mie carni e si obbrobriosamente tenermi? Ecco che, per mezzo tuo, giungo al morire; ecco, per crudeltá tua, che l’anima mia uscirá pur di tanto duolo; ecco ultimamente sazia la rabbia ed il furor tuo. Cibati delle mie percosse carni, bevi del mio innocente sangue, piglia queste ultime lagrime che dal cor mi vengono, e le porta al mio consorte, dicendogli che altro non gli posso porgere in suo contento, nell’estremo della vita mia...
Raverta. Parole simili a quelle di Gismonda sopra il morto core del suo Guiscardo.
Baffa. ... E, se pure io son degna di ricevere una grazia, che sará con tuo contento: o mi disciogli una mano, ché da me
stessa, o tu con le tue proprie mi cava il core, e portalo a lui, e gli dirai, per me, che ben lo essamini e guardi, ché altro non gli troverá che amor e fede verso Iddio e lui. E che di lui mi duole assai piú che di me stessa. Ultimamente insieme
10 devorate, per ultima vendetta contro l’innocenzia mia. —
Raverta. Oh parole dolci e compassionevoli! oh bontá infinita ! oh pazienzia grande ! oh regina delle martiri !
Baffa. ... La crudel piú che Medea e ch’una cagna affamata prese una pietra e, con parole di ribalda e di traditora, le batté la faccia, talché, cavatole alcuni denti, con parole piú crudeli se ne parti. ...
Raverta. Questa era ben crudeltá estrema; e quasi, a dirvi
11 vero, ch’io non lo credo.
Domenichi. Come no? Sono piú che vere queste cose, ed anco assai di piú, come sa tutta Fiorenza.
Baffa. ... Passati due giorni, non credendo ch’ella fosse piú viva, tornò la rea femina e, fattesele innanzi con un mal viso, le disse: —Uscirá mai piú il fiato di cotesto puzzolente corpo? — Ed ella, tacendo, secca di piangere, altro che un sospiro profondo non mandò fuori del dolente petto. Ora il suo picciolo figliuolino, che tanto tempo avea cercato e pianto la sua dolce madre, come Iddio volle, pervenne dove ella si stava, dapoi la partita della femina, giunta quasi all’ultimo fine della vita sua. E, abbracciando alla madre i ginocchi, ché piú su non poteva arrivare, e piangendo forte, gli baciava. Qui potete comprendere il dolor della madre a non potere dare un bacio nel fine al suo unico figliuolo. Pur, come meglio poteva, racchetandolo, gli diceva: — Deh, figliuol mio, sia maladetta la disgrazia! Assai ti doveva essere, sorte iniqua, avermi straziato tanto tempo ed ingiustamente: ora, per piú mio dolore, mi vedo innanzi il mio figliuolo in si estrema miseria. ...
Raverta. Ben cosí poteva dire.
Baffa. ... Ricòrdati, figliuol mio, se l’intendere ti serve a tanto mio lamento. Io son quella che t’ho portato nel mio ventre, io son quella che ti diedi il latte, io son colei che t’ho allevato, quella tua madre sono io che caggio per la fame e muoio per
il tormento, ed esco di questa vita per volontá di tuo padre, a cui fui sempre fedele, il quale ho sempre riverito e sinceramente amato. Né mi dorrebbe il morire, se io ti potessi con brevi parole raccomandartegli. Non mi sarebbe dolore d’uscire di questa vita, se io una sola volta me gli potessi dimostrare, se questa gli pare la sua donna ch’egli amava, ch’alia sembianza assomiglia una fiera, un mostro. Va’, figliuol mio, piglia una seggiola, di quelle piú picciole, e portala qui, ch’almeno, salendovi sopra, io ti possa baciare. Perché sará quanta consolazione avrá avuto questa anima tanti mesi sono. — Iddio, giusto riguardatore di tutte le cose e ch’alia fine non manca d’aiuto a chi fedelmente di core lo domanda, spirò il suo picciolo figliuolo; che, come un vento, corse alla corte ducale, facendo intendere l’essere della madre in quella guisa che farebbe uno uomo di etá matura...
Raverta. Io non ne so il fine, ma incomincio a rallegrarmi alquanto.
Baffa. ... La corte della giustizia andò alla casa: e prima, preso il marito e la femina, che di mezzo giorno sopra un letto per il caldo gravemente dormivano, e slegata lei, la tirarono di sopra, dove e parenti ed altra gente con gran fatica l’aiutarono. Furono dati i tormenti agli scelerati corpi; e, confessate l’infinitá delle tristizie, la iniqua fu appiccata per la gola col bastone legato ai piedi e la pietra che tanto tempo avea tormentato la bella giovane; ed il marito, contro voglia della moglie, che pur voleva se gli perdonasse, decapitato.
Raverta. Lodato Iddio, ché pur venne la loro.
Baffa. Ella, non volendo piú marito, si ridusse in un monastero di oneste suore, dove un tempo stette male, ma l’aiuto di Dio la ridusse a bene. Vive ancora santamente, dolendosi della sorte del marito e della sua disgrazia, tenendosi il suo figliuolo con gran contento.
Raverta. Vive anco?
Baffa. Signor si.
Raverta. Veramente, benché questa istoria sia stata lunghetta, nondimeno è cosí piena di parole dolci e compassionevoli, ch’io, per me, avrei voluto ch’ella fosse durata tutto oggi.
Baffa. Credo anch’io, per fuggire la fatica di dire la vostra e risolvermi d’altre cose. Ma io ve l’ho raccontata per essere stata a proposito del nostro ragionamento, poiché il signor Domenichi tanto contra ragione tassa di crudeltá le donne. Che ne dite voi? Parvi d’aver mai sentito cosa piú crudele?
Domenichi. Trovatene voi un’altra, ché io ne troverò le migliaia di voi donne; ma non le voglio dire, accioché da quelle non appariate ad essere piú crudeli, se piú di quel che séte esser potete.
Baffa. So bene io perché. Perché non ne sapete. Ma voi dite pure il vostro essempio.
Raverta. Per mostrare ch’io non fuggo fatica, ve lo racconterò piú brevemente che sará possibile, affine di non recarvi noia con tante parole né cercare di farvi piangere per compassione; ma perché conosciate come si può morire per troppo amore. Duoimi che anco questa fu una giovane, onde quelle che poi lo sapranno, desiderando farne vendetta, cercheranno di lasciarne morire infiniti.
Domenichi. Purché possano. Ma ditela pure, poiché anco di loro ne muoiono.
Raverta. Il valoroso ed onorato capitan Camillo Caula e, come ogniuno di noi può sapere, e meglio degii altri Vostra Signoria, signora Francesca, uomo cosí per lettere come armi illustre e degno d’essere nominato in ogni cosa d’onore, un giorno che n’occorse ragionare di diversi casi d’amore, mi raccontò questo per verissimo, occorso in Bassano, patria del nostro Betussi, luogo ameno e dilettevole quanto altro che sia d’intorno questi paesi, e pieno di donne amorose e giovani leggiadri. Che fu una giovane bellissima e graziosissima, la quale, avendo piú volte nell’animo suo considerato i costumi d’un vago giovane, e parendole non poter meglio locare l’amor suo in altri che in lui, di lui fieramente s’innamorò; e tanto crebbe l’ardentissimo foco, ch’ogni di piú sentiva consumarsi e venir meno. Onde, piú non potendo cosí misera vita tolerare, deliberò finalmente scoprirgli l’animo suo, non ad altro fine se non per fargli sapere che molto era da lei amato. Nondimeno
per molti di stette in questo pensiero, non sapendo risolversi in qual modo ciò meglio fare potesse. Perché di fare palese questo suo amore ad alcuna terza persona non si fidava né ardiva, si per essere ella di nobilissimo sangue, e molto piú che ’l giovane non era, come anco perché non pervenisse all'orecchie de’ suoi parenti, e forse per altri rispetti. Ma cosí miseramente vivea, con forte animo pur patendo ed aspettando occasione; la quale, in danno suo, le venne fatta...
Domenichi. Diteci almeno i nomi loro.
Raverta. Voi cercate troppo innanzi, perché, oltra che questa cosa è nota a pochi, sempre si dee aver risguardo all’onor delle famiglie.
Domenichi. Seguite.
Raverta. ... Aveva il giovane uno suo podere non molto distante dalla terra; al quale vicino il padre della giovane un bellissimo giardino aveva, con un palagio di non picciolo valore. Perché, essendo l’amato in villa, ella medesimamente s’avisò, essendo l’uno a l’altro loco molto d’appresso, di potergli da se stessa, a qualche via, fargli palese il segreto del suo core...
Domenichi. Tanto, che mi par vedergli rimanere d’accordo, e ch’egli s’imbeccasse su quella ventura. E cosí la sua morte fu per amore.
Baffa. Aspettate, vi prego.
Raverta. ... Ond’ella pregò il padre che fosse contento di lasciare ch’ella, insieme con la madre, andasse per qualche giorno a diportarsi al suo bel giardino. Ond’egli, ch’a paro di se medesimo amava l’unica figliuola, di leggiero le compiacque. E cosí andatavi, ogni giorno aveva agio di vedere il suo tesoro, per lo quale, come neve al sole, struggere si sentiva e, qual Meleagro nel fatato tizzone, si consumava. E tanto era la sua pena acerba, vedendoselo quasi di continuo innanzi e sapendo ch’egli forse, e senza forse, non sapeva che per lui languisse, che di gran lunga avanzava quella di Tantalo. E piú volte tra sé diceva: — Perché non gli scrivo io una lettera a significargli l’amor mio? Ma neanco questo è buono, imperoché, se pure egli degnasse darmi risposta, risponderebbe solo a quei particolari ch’io gli
proponessi. Laonde ora che in questo selvaggio loco, che tanto
vicini siamo, s’io me ne andassi a lui e parlassi, Amore forse
tanto d’ardire mi porgerebbe che, rispondendo a tutte le sue
opposizioni, meriterei d’acquistare la grazia sua. Perché chi è
piú atta a fargli credere l’ardor mio, senza lettere ed ambasciate,
di quel ch’io sono? Niuno può meglio mettere alcuna impresa
ad essecuzione di cui ella tocca. ...
Baffa. È verissimo.
Raverta. ... Chi può aver piú forza di render molle ogni duro core, di movere ogni anima cotanto costante, d’umiliare ogni spirito altiero degli amanti, che il volto pallido, gli occhi lagrimosi, il parlar debile ed interrotto, i continui sospiri e la propria presenza degli amanti? Nessuno altro veramente. Perché non delibero d’andarmene a lui e domandargli mercede? Ché tardo io? — E cosí, stando tra speranza e timore, tra paura ed ardire molti giorni, avenne un di che, stando lei sopra un verone che scopriva da un lato tutta la Brenta, vide quello starsene solo all’ombra d’un faggio. Onde di novo disse: — Perché non discaccio ora da me la vergogna? Perché ora non m’appresento a lui, a fargli intendere il mio languire? Sará sempre egli si crudele che lasci morire chi tanto l’ama? Non lo credo mai. Perché è impossibile che sia generato dalle dure querce d’Appenino, né nodrito dalle fiere tigri ircane, che non ascolti ed abbia di me pietade. Chi sa che, si come Iddio non vuole la morte del peccatore, ma che piú tosto si converta e viva, che anco Amore non abbia da volere ch’io, cosí struggendomi, muoia, ma piú tosto, amando, sia amata ed abbia ad essere felice? La fortuna spesse volte suole aiutare quei c’hanno ardire e scacciare i timidi. — E, cosí dicendo, scese le scale e piú volte ritornò a salirle. Imperoché un pensiero le diceva: — Ché non vai? — L’altro diceva: — Raffinati. — Nondimeno, tanto potè la passione e l’amore, ch’essendo stata finallora timidissima, quegli, malgrado suo, le diedero pur tanto ardire, che, posta in tutto da canto ogni vergogna, deliberò d’andarsene a lui. E cosí, smontate le scale, passando un prato, gli sopragiunse d’improviso. Ed essendogli stata un gran pezzo sopra, prima ch’egli se ne avedesse, percioché stava
pensoso, fu quasi per ritornarsene indietro; e buon per lei se cosí avesse fatto! Ma egli, alzando alquanto gli occhi, vide costei; di che maravigliatosi, subito le domandò ch’andava cercando cosí sola. La quale, per amore, per téma e per vergogna, restò quasi insensata e fuori di sé, come in vero era, essendo in lui viva ed in se medesima morta, ...
Baffa. Ciò che fa Amore.
R averta. ... né pure osava rispondergli, non che salutarlo né parlargli. Ma egli di novo interrogandola e pregandola a dirgli la cagione della sua venuta, costringendola per quanto amor portava alla piú cara cosa ch’avesse o desiasse, dopo un lungo sospiro, con voce debile e tremante cosí gli rispose: — poiché mi sento astretta da scongiuro al quale non posso resistere, e fattomi da te, cui non posso alcuna cosa negare, e se dagli atti del volto e dal suono delle parole le passioni dell’animo acquistano fede alcuna, senza dubbio potrai chiaramente conoscere quanto sia grande la possanza d’Amore. Onde hai da sapere come è lungo tempo ch’io sono di si fatta maniera e meritamente accesa di te, che giorno e notte mai non cesso di piangere e di sospirare. Né sapendo a qual modo dar rimedio a cosí estrema passione, non fidandomi di commettere questo mio amore ad alcuna persona, rotto ogni freno di vergogna, ho preso ardire io medesima di scoprirtelo, pregandoti solo ad aver compassione del mio doglioso stato e di contentarti ch’io t’ami; né altro desidero piú, se non che la servitú mia ti sia grata. Questa è stata la cagione del mio venire a te; e, se tu non credi ciò eh’ io ti dico, piglia il coltello c’ hai da lato ed aprimi il petto, ché, se in me è il core, ch’io non lo so, vi troverai il tuo nome impresso, il quale vi stará per sempre. Non mi essere crudele, ma vinca il mio amor la tua durezza, ché, se non avrai pietá di me, tosto dinanzi agli occhi tuoi mi vedrai morire. Né, come alla troiana Cassandra, mi sia tolto il credermi tal presagio, ché senza dubbio l’effetto ne vedrai seguire. Se altro non ti muove, movati a pietá la vecchiezza del mio caro padre e della mia misera madre, ai quali tu saresti cagione d’avermi essi perduta; onde non solo ne seguirebbe la mia, ma
la loro morte per amore e per dolore. — A pena puoté dir queste parole, tanto impetuoso cresceva il dolore, tante erano le lagrime che, dagli occhi scendendo, le vermiglie gote le irrigavano, tanto l’abondavano i sospiri, che a fatica credo si potesse reggere e non cadere tramortita. ...
Baffa. Un sasso, nonché un uomo, s’avrebbe mosso a compassione.
Raverta. ... Udite. Stava la misera giovane qual nave lungo spazio combattuta da nemiche onde del mare e da contrari venti, che, credendo aver passato un periglioso scoglio, pensando di piú non inciampare in alcuno altro, mentre ha speranza d’entrare in porto, sente sdruscire lo sfortunato legno sopra un maggiore nell’acque nascoso, né veggendo piú rimedio alla salute sua, conviene in tutto rompere e restare nell’alto mare affogata. Perché ella, fino allora avendo in sé tenute rinchiuse le fiamme ardenti e sopportato il grave incendio, ora, avendolo scoperto, mentre sperava trovare alcuno conforto ed udire alcuna lieta risposta, tutto il contrario le avenne. Ché il giovane, insuperbito o pur veramente nato dalle robuste quercie d’Ida e nodrito dai ferocissimi leoni barbarici, piú immobile che i freddi marmi di Persia, piú crudo che Nerone, avendo il cuore piú duro dell’acciaio e del diamante, non pieghevole ed umano né di dolori pietoso, poiché vide la giovane piú non parlare, cosí le rispose: — Tutto che ne’ casi d’amore io dia assai poca fede alle parole di voi altre donne, le quali, le piú volte e quasi sempre, simulate, quando anco ciò che mi dite fosse vero, pensate ad altro: percioché io ho donato il mio cuore ad altra donna, la quale piú che la mia vita io amo ed amerò. Né vi pensate mai che l’animo mio s’inclini a voi. Perché, se avete ciò fatto per tentarmi, si come io credo, o se pure cosí anco è come dite, ché poco me ne curo, invano vi séte affaticata, e ad altro pensate. —...
Baffa. O crudelissime spelonche abitate dalle rabbiose fiere, o inferno, eterna prigione stabilita dell’anime dannate, o madre nostra antica, perché non v’apriste allora ed inghiottiste costui per darli le dovute pene? Costui, tanto crudele, impossibile è
ch’umano fosse, non che amasse alcuna. Perché chi è d’Amor compunto, sempre ha degli altri compassione. Ma egli dovea essere piú privo e nemico d’Amore, che Narciso non fu prima che di se stesso s’innamorasse, facendole simile risposta.
Raverta. ... Anzi fu pur troppo innamorato, come udirete, e meritamente delle sue crudeltá fu pagato. ...
Baffa. Proseguite.
Raverta. ... Udendo questo l’innamorata giovane, considerate quale si restasse. Né altro gli puoté dire che queste parole: — Con tutto ciò, ed io amerò te sempre. — E quindi partitasi, ritornò nella casa, e, postasi sopra il suo letto, essendole tutto il vigore sparso gelato intorno al cuore, sentendosi per amore venir meno, perché era dottissima e virtuosissima, scrisse questi quattro versi, che poi le furono sopra la sepoltura intagliati, ché verisimilmente piú non ne potè comporre, perché, senza mai formar parola che fosse udita, subito se ne mori:
Morte mi die’ chi mi potea dar vita: né pungente coltei mi passò il core, ma, senza aver mercé, soverchio amore: né son però fuor de’ suoi lacci uscita...
Baffa. Volse mostrare nell’ultimo verso d’averlo d’amare anco nell’altro mondo. Ma ne segui poi altro?
Raverta. ... Fu con solenne pompa sepolta e da ogniuno pianta. Le furono poi da diverse persone fatte di molte composizioni, trovando ciascuno nuova invenzione sopra questo caso. Ma in fine fu proprio come egli mi raccontò ed io l’ho ora a voi recitato. Tra le quali medesimamente mi disse questi componimenti sopra ciò fatti dal nostro Betussi, i quali cosí bene fino allora mi s’impressero nella memoria, che mai piú non me gli ho scordati, e sono questi ch’udirete:
— Chi de la vita mia l’ultimo giorno segnerá, lassa? Il duro ferro, o il laccio, o’l possente veleno: e fuor d’impaccio mi leverá con minor doglia e scorno?
Misera me, perché face’io ritorno ora a l’uno or a l’altro, né procaccio l’ultimo fine al duolo; e, lenta, faccio in dubbioso pensar tanto soggiorno? —
Mentre, disposta di morir, Corina cosí dicea, fu tanto il suo dolore, che, senza altro piú dir, se ne morio.
O felice desio d’alma divina! che pur usci da questo mondo fuore senza tosco, ferita o nodo rio.
Baffa. Era forse Corina il nome di questa giovane infelice?
Raverta. Non, signora, ma egli finse cosí. Udite appresso un madrigale:
Muore chi siegue Amore: egli è pur vero, né sol senza alma vive: o ne l’amato si trasforma, e dimora in crudo stato.
Né sol finisce il duolo acerbo e fiero con foco, ferro, laccio o con veneno, tutto ch’egli si sia arso, ferito, stretto e venenato.
Anzi par che si dia
negli ardor, piaghe, nodi e toschi spesso
al cor lena e vigore,
ché sempre ne’ martir dimora oppresso;
ma per soverchio amore
sen fugge l’alma, ed uno amante muore.
Baffa. Èccene altro de’ suoi?
Raverta. Credo che si, ma il capitano a me non ne disse altro. Udite poi ciò che segui dell’amato giovane. Il quale indi partito, credendo avere condotto a fine una grande impresa, avendo fatto, per sua cagione e per troppo amore, morire si valorosa giovane, palesò il tutto a quell’altra ch’egli oltramodo amava, forse credendo perciò farsele piú caro: onde tutto il contrario avenne. Perché, che se ne fosse cagione, da subito sdegno ed odio assalita, mai piú non gli volse parlare né alcuna sua ambasciata udire. Laonde egli per dolore infermò ed in pochi giorni parimente, per troppo amore, se ne mori. Cosi
sopra lui venne la medesima pena, ch’ad altri contra ogni debito fé’ patire.
Domenichi. Anco costei allo ’ncontro dovea poco amar lui, imperoché gli ne rese mal merito; conciosiaché dovea gloriarsi d’avere amante tale, che sopportava di lasciare morire ogni altra per non mancarle di fede.
Baffa. Anzi fe’ bene, perché conobbe la crudeltá e la viltá dell’animo suo.
Domenichi. Che dovea dunque fare? Lasciare lei ed amar costei ?
Baffa. Questo non dico io, ma confortarla si bene e moderatamente, da valoroso amante, levarla pian piano da tal pensiero. E, se ben il suo cuore era inclinato altrove, consolarla con dolci ed amorevoli parole, si come fece il re Pietro d’Aragona verso la Lisa inferma.
R a verta. Séte anco chiara che si possa morire per troppo amore ?
Baffa. Si, sono.
Raverta. Potrei anco addurvi altri casi occorsi, e tra gli altri quel della moglie di messer Tomaso da Pisa, scritto dal Castiglione. E medesimamente uno essempio che Ebano riferisce in Atene d’un giovane, che tanto amò la statua della Fortuna, che, vietatogli di poterla comprare, la notte vicino a lei fu ritrovato morto.
Baffa. Non ne voglio altri; anzi mi pare che piú di tempo si sia consumato intorno a questa sola quistione che a tutte l’altre giá dette. Ma gli essempi sono stati quelli che n’han tenuto in lungo. Ed accioché entriamo in altro, poiché siamo posti a ragionare della potenza di Amore, avrei caro sapere quale sia maggior effetto: se fa l’uomo di pazzo savio, o di savio pazzo.
Raverta. Non so che mi vi dire, perché tutte le cose appresso di lui sono possibili, ed opra l’uno e l’altro effetto.
Baffa. E però ditemi qual sia maggiore.
Raverta. Non mi dá l’animo di dirvi quale sia; ma ben vi potrò dire quale mi paia maggiore e qual minore. Che Amore faccia il pazzo savio ed il savio pazzo, è notissimo. La
ragione è questa: ch’amando non siamo in nostro potere, anzi soggetti a quello ed alla cosa amata viviamo. Laonde parte del discorso nostro vero n’è tolto alle volte, ed alle volte la intelligenza e ’l vedere accresciuto, si come piú s’accostiamo all’appetito o alla ragione. Ed ora parlo dell’amore umano, di maniera che piú non operiamo quel che faressimo, se non fossimo dati a compiacere a chi di noi tien la miglior parte. Perché Amore ne apre gli occhi e ne fa giudiciosi, si come anco ne accieca, ne priva di giudicio e totalmente alle volte ne rende, di liberi, servi. Che renda piú l’uomo savio o pazzo, io terrò sempre l’openion contraria che tiene il vulgo, il quale stima tutti gli amanti esser pazzi. Non è vero; anzi gli rende savi ed aveduti; e di questi, se non tutti, assaissimi se ne veggono, i quali, prima che siano stati sottoposti ad Amore, erano sfrenati, di leggier cervello, privi di giudicio ed indiscreti, che, messo il desiderio suo a seguire Amore e divenuti amanti, si sono fatti moderati, ingeniosi e discretissimi. Hanno lasciato tutti i cattivi andamenti e si sono dilungati dai vizi ed accostati alla virtú. E di piú quelli eh’erano pazzi dado vero sono diventati savissimi ed hanno mutato vita, come fece Cimone, innamorato d’Ifigenia. Onde questa è una delle potenze d’Amore.
Baffa. Non fa egli anco diventare l’uomo, e cosí la donna, di savi pazzi, come fece Lucrezio? Ché sará altro che novelle, il quale prima impazzi, e poi da se stesso s’ainazzò.
Raverta. Fallo medesimamente, e s’ hanno veduto di savissimi che, soggetti ad Amore e però fatti ciechi, son divenuti favola del vulgo ed hanno operato cose vergognosissime, e di maniera sono impazziti che hanno rivolto in se stessi le proprie mani. Ma questo non procede d’Amore, anzi da bestiale furore e da sfrenata libidine, come piú apertamente, ragionandosi del vero amore, conoscerete, ché ora di quel non si ragiona. Ma, continuando di questo, dico Ch’Amore inalza gli animi a cose elevate, Amore fa gli amanti esperti, Amore è investigatore di tutti i cuori. Onde il vulgo ignorante è quello che sotto l’imperio d’Amore divien pazzo. E s’alcuno, discreto in tutte l’altre cose, si lascia trasportare d’Amore tanto ch’esca fuori di se, questa
giudico che sia maggior potenza. E dirò sempre eh’è maggiore sforzo quel d’Amore, se fa l’amante di savio pazzo, che se lo rende di pazzo savio. Perché è piú suo proprio d’elevar le menti che d’abbassarle. E però, se avviene la pazzia in uno che sia savio, per conto d’Amore, dirò essere questa sua maggior possanza. Ma la comune e volgar gente dirá sempre esser maggior miracolo, se rende l’uomo di pazzo savio; nondimeno l’uno e l’altro è di suo potere. Appiglisi l’uomo e la donna a quel che meglio gli pare.
Baffa. Veramente anch’io son quasi contraria a voi, e dirovvi la causa ed una ragione che quasi non ha risposta. Non dite voi che tenete che sia maggior miracolo che faccia l’uomo di savio pazzo?
Raverta. Si, dico.
Baffa. Ascoltatemi dunque. Non si tien per miracolo quello che piú di rado avviene? Direte che si. Dunque, essendo maggior cosa quella che piú di rado accade, piú raro si vede l’uomo pazzo diventar savio in Amore, perché infiniti si leggono uomini e donne aversi dato morte per Amore. Il darsi da se stesso la morte non credo giá che sia lodevole; non essendo lodevole, è tenuta cosa biasimevole; ed essendo degna di biasimo, è da vituperare. Onde è piú tosto grave pazzia che altro. E, occorrendo questo spessissime volte negli acciecati d’Amore, tengo che sia maggior miracolo se fa di pazzo l’uomo savio.
Raverta. Col medesimo vostro argomento voglio confondervi. Non dite che si sono veduti e si veggono infiniti, in altro savissimi, che nell’amor sono stati pieni di pazzia? E chi ha operato una cosa ed un’altra, dannosa fino a se medesimi, non pure ad altri, di maniera che contro se stessi ancora spesse volte hanno rivolto il ferro, ...
Baffa. E verissimo.
Raverta. ... perché si notano per essempio e se ne fa memoria?
Baffa. Accioché gli altri aprano meglio gli occhi.
Raverta. Non è vero: anzi perché sono piú rari che quelli che diventano, amando, savi. E, si come sono piú quelli che
si fanno in amore aveduti, cosí non se ne tiene conto. E, si come questi son meno, se ne fa numero per essere rarissimi, e però notasi quasi per miracolo. Si che vedete che son meno, ed essendo meno, questa è sua maggior potenza. E che sia vero, poiché quasi sempre volete fondarvi sopra gli essempi, i miracoli dipinti sopra le tavolette nelle chiese, non per altro s’appendono che per cose rare, conciosiaché rendono testimonio di coloro eh’essendo nei pericoli sono riusciti salvi, e perciò si notano per miracoli. Ma non è però dubbio che molti piú non siano quelli che vivono prosperamente, non però se ne fa memoria. Ditemi: è miracolo se di vivo l’uomo divien morto?
Baffa. Non è miracolo.
Raverta. Sarebbe poi miracolo se un morto ritornasse in vita?
Baffa. Certo che si.
Raverta. Adunque, perché si trova che Iddio n’ha suscitato alcuno, se ne fa memoria e si nota per essempio; il che non si fa di questo e di quel vivente che se ne muore. Cosi, perché piú rari sono quelli ch’amando divengono pazzi, se ne fa maggior numero, che di tutto il rimanente ch’amando veramente si fa savio, è da giudicare e tener per fermo che sia maggiore la potenza d’Amore quando fa impazzire altrui. Si come, se agli essempi vorremo risguardare, per quei si potrá vedere che fa i pazzi savi, conciosiaché le piú volte, e quasi sempre, Amore rende gli amanti savi ed aveduti.
Baffa. A tutte le vie, fin dalle mie proprie ragioni, mi veggo vinta. Mah! Bisogna cedervi.
Raverta. Da voi stessa vi date il torto.
Baffa. Sia con Dio. Ma voi, signor Lodovico, so che non v’arrischiareste mai a tór le mie difese ! Ma vi passate cosí leggiermente, di maniera che quasi pare che non ci siate, o pure ch’abbiate caro di vedermi in ogni conto rimaner perdente. Dite ancor voi alcuna cosa.
Domenichi. Che volete ch’io dica? Domandatemi, ch’io vi risponderò volentieri. Io taccio perché non m’abbiate da dir piú, come non è molto che diceste, «impaziente».
Baffa. So che ponete cura a ogni minima cosa, ma neanco per questo vi lascerò riposare. Si che ditemi qual sia maggior difficultá: acquistare la grazia dell’amata o mantenersi in quella?
Domenichi. Il mantenersela, senz’alcun dubbio, perché ogni cosa piú di leggiero s’acquista che non si mantiene.
Baffa. Anzi no: ché un padre di famiglia patirá maggiore affanno in acquistar la robba che non fará a conservarla; perché quella operazione gli sará industriosa e fatichevole, questa leggierissima e di poco momento. Si che maggior fatica mi pare l’acquistare che il conservare.
Domenichi. Perdonatemi, signora mia, voi séte in errore: perché cotesta è comparazion molto diversa dalla domanda che mi faceste. Altro è acquistare e mantenersi la grazia d’una persona che s’ama, che non è l’acquistar facultá ed accumular dinari. E, se al primo tratto vogliamo citare similitudini, ditemi: Iddio non dá egli a tutti noi la grazia sua? Se ne la dá, come si crede, questo è pure sua bontá e misericordia. Ma noi, che lasciamo le dritte vie, per lo piú, male ce la sappiamo conservare. Onde procede ciò? Procede solo perché non ci basta avere la grazia sua, se con le buone opere ancora non la conserviamo. Ma, per lasciare queste cose e parlare naturalmente, vi dico esser piú difficultá a mantenersi nella grazia della donna che in acquistarla.
Baffa. Giá, non m’avete ancora detto la cagione.
Domenichi. Dirovvi. Prima che noi siamo posti sotto l’imperio della donna e che noi abbiamo acquistato la grazia sua, siamo liberi ; tosto che col servirla e compiacerla siamo pervenuti ad essere accettati per amanti, Amore ne rende suoi servi; e qui bisogna l’industria, qui la fatica, qui la perseveranza per conservarsi nella grazia sua. Perché talora, mosse da’ suoi vani appetiti, vogliono di ciò che loro aggrada esser compiaciute. Ed oltra ciò, non bisogna tener piú quella suprema strada di prima, ma una di mezzo, ed in tutto esser privi d’ogni altro piacere. Perché, se la donna, di cui tu hai la grazia acquistata, sospetterá che per transtullo o per altro l’amante sta inclinato ad alcun diletto, di subito assalita da fiero sdegno, parendole
poco essere apprezzata, Io priverá di quella. E siale, per quanto esser si possa, stato ubbidiente, non avrá fatto nulla. Oltra questo, chi non giudicherá piu facile generare figliuoli che il nodrirgli? Certo, nessuno. E chi ben riguarderá, sará sempre piú agevole l’edificare una cittá che sapersela conservare e reggere. Quanti si sono veduti, ed oggidí si veggono, leggiermente divenire signori ed occupare cittá e regni, che cosí facilmente lungo tempo non vi si ponno né sanno mantenere? Onde non basta diventare possessore d’una bella e ricca gioia, ché maggiore industria e fatica ci bisogna a conservarsela. Tanto piú che la donna è come lieve foglia, che per picciolo vento muove ad ogni parte.
Baffa. Signor Lodovico, non è di patto che cosí spesso ritorniate ad offender le donne. A me pare che non sappiate dire altro.
Domenichi. Non voglio cosí dire, ma udite. Non abbiamo detto dianzi che la donna piú facilmente s’accende dell’uomo? Se cosí è, ché non è altrimenti, facil cosa appare acquistare la grazia sua, ma difficile poi il conservarsela. Perché, essendo facili ad allacciarsi, si debbono anco giudicare leggiere a sciogliersi. Onde veramente è da pensare essere grande impresa a mantenersi nella grazia loro. Maggiormente che bisogna essere pazientissimi, piú che Giobbe, a tolerare le loro repulse, a patire quelli acerbi sdegni e tutte quelle azzioni rie che di continuo agli uomini sono usate.
Baffa. Ben dite. Ma una donna di cui si sia in grazia, non dará passioni né affanni, né si moverá a sdegno contra colui che le sia in grazia; anzi, avendo presupposto di donargli l’amor suo o avendoglielo donato sempre, e’ gli sará benigna, né mai gli dará tormento alcuno.
Domenichi. Sia come si voglia, questo non fará giá ella, perché è proprio costume di voi donne, quanto piú sapete che un v’ama, v’adora e vi serve, di tormentarlo, né mai vi vedete sazie de’ suoi pianti.
Baffa. Tutto questo si fa per farne prova e per vedere s’egli è vero o falso l’amor vostro.
Domenichi. Mai non viene a capo questa vostra esperienza; onde bisogna che l’uomo faccia pensiero di patir sempre, e mai non avere ora di bene.
Baffa. Lasciamola qui, e passiamo piú oltra, ch’assai n’abbiamo detto. Né tacciamo come molti fanno, ch’andati per vedere un bel palagio, entrati in qualche bella stanza, ivi si fermano tanto, senza passar piú inanzi, che gli altri luoghi vengono occupati, o alcuna cosa gli interrompe; di maniera ch’andati per veder molto, perduti in poco spazio di felicitá, si partono malcontenti e peggio sodisfatti. E però, prima che ne sovragiunga la sera o altro ci impedisca, voglio che trascorriamo per tutto, senza lasciare adietro alcuno albergo di questo palagio. Non mancherá mai, se n’avanzerá tempo, a ritornare a considerarlo e per quello meglio a discorrere, tanto piú che io vi veggio di non troppo buono animo verso le donne. Nelle quistioni ch’appartengono agli uomini ed alle donne non voglio piú le vostre dichiarazioni, perché con voi a me convien sempre perdere. E però voi sarete contento dirmi : se Amor può essere senza gelosia.
Raverta. Secondo gli amori, perché di molte sorti son le gelosie. Ma vi risponderò: che può essere senza. Ed ho per migliore amore quel che non è macchiato di tal pece. Perché, se lo amante vive nell’amato, che fa di mestiero la gelosia? La quale per lo piú nasce da viltá d’animo, ché gelosia non è altro che dubbio di conoscersi inferiore ad altri, e quello stimarsi da meno fa dubitare di essere cacciato; e la gelosia conviene che faccia il geloso poco credere alla cosa amata. È ben vero che tutti i gelosi amano, ma odiano anco insieme; ed essendo congiunta la gelosia con amore, vi dimora odio ancora. Perché, come vi ho detto, la gelosia convien che nasca dal dubbio della costanza e fede della sua donna o dell’uomo: peste veramente mortalissima, che bene spesso fa macchiare i ferri d’amoroso sangue. La quale quanto malvagia sia, specchiatevi in Procri, ch’a se medesima procacciò la morte, poiché vanamente di Cefalo diventò gelosa.
Baffa. Tutto questo è poco a proposito di quel ch’io vi domando, perché ciò che dite piú tosto appartiene a dimostrarmi I - IL RAVERTA
IOI
che la gelosia sia cattiva: la qual cosa non ha dubbio. Ma io cerco sapere se Amore può esserne senza.
Raverta. Dicovi che si; imperoché, oltra che il non esser geloso nasce da nobiltá d’animo, nell’uomo non è mai gelosia quando si reputa tale, ch’essendo stato eletto dalla donna, operi di maniera che conosca non avere da restare inferiore ad alcuno altro. Ed egli allora vive senza rancori e senza quegli smisurati ardori. Dico bene questo: Ch’Amore non può né deve essere senza timore.
Baffa. Non è gelosia e timore il medesimo?
Raverta. Non giá, e sono di gran lunga differenti, perché gelosia è una infirmitá simile alla peste, che dall’aere corrotto procede, e però è mortale. Ma il timore è una specie d’ardore, generato d’Amore; né può, come ben vi dimostra il dottissimo Sperone, amare chi non teme.
Baffa. Ditemi: il Petrarca non dice egli in certo loco:
Amor e gelosia m’hanno il cor tolto?
Amava pur ferventemente, ed era vero il suo amore; nondimeno se stesso chiama «geloso».
Raverta. Intende di quel vero timore del quale leggiermente io v’ho parlato di sopra; ed in molti luoghi lo replica, come quando dice:
Che temere e sperar mi fará sempre,
ed infinite altre volte. Poi vi farò conoscere che neanco il Petrarca amò perfettamente, né piu oltra s’estese, in quanto che facesse, che alle bellezze dell’animo, come chiaramente in molti luoghi dell’opere sue egli medesimo afferma. Perché dal nostro amor sensuale s’ascende al contemplativo ed al celeste; e questo terreno, chi bene vi s’appiglia, è scala a noi per investigar quello. Ma, per ora, non vuo’ che tanto inanzi passiamo.
Baffa. Concludetemi, almeno, se si può amar senza gelosia.
Raverta. Pur v’ho detto che si; ma non senza timore, perché il timore causa la riverenza, e la riverenza rende perfetto l’amore. E sempre, amando, dico spiritualmente, ancora il timore
è necessarissimo, ma non di maniera che abbia da convertirsi in gelosia. Che Amore poi non sia anco con gelosia, non è da dubitare; ma è amore sfrenato, amore piú tosto degno d’esser chiamato «furore». Perché, s’uno amante vive nell’altro e sono ambidue una istessa alma ed un medesimo volere in due corpi, a che infettare gli animi di gelosia? La quale fa piú tosto odiare la cosa amata che continuare ad amarla. Si che io conforto ciascuno a fuggirla, e mi risolvo che il perfetto amore non solamente possa essere senza gelosia, ma che di necessitá vi debba essere. Lodo bene e voglio che una spezie di lieve timore, accompagnato da riverenza, dimori negli amanti.
Baffa. Ma che ne dite voi, signor Lodovico?
Domenichi. Io mi rimetto a quanto dal signor Raverta è stato concluso.
Baffa. Ma ditemi per vostra fé: chi piú merita esser amata: una donna timida o una ardita?
Domenichi. Senza dubbio la timida, perché giá buona pezza abbiamo detto e concluso che piú ami l’amante timido che l’ardito; ed ora, che la téma sia necessaria in amore. E però giudico che piú sia d’amare una persona timida, perché piu vero e piú stabile è l’amor suo. La paura ancora genera, per cosí dire, secretezza, rende gli animi piú conformi, conciosiaché una persona ardita sfoga piú le fiamme cocenti e meno dura in ardore. Oltra che, per lo piú, l’ardire non nasce d’amore, ma da infiammata libidine, come si può considerare dall’amore della moglie del figliuolo del re di Francia verso il conte d’Anguersa. Però giudico che piú tosto s’abbia d’amare una alquanto timidetta, perché l’ardimento non dá segno di perfetto amore, ma d’immoderato e sfrenato desiderio.
Baffa. Non debbono anco essere amate le donne ardite?
Domenichi. Questo non si vieta ad alcuno, ma si ragiona quale sia piú da coinendare e d’amare. Però vi dico che meglio mi pare la timiditá per rendere piú ardente e piú vero l’amore. Perché il timore di continuo accresce conformitá nelle voglie degli amanti; ché cosí di leggiero l’un dall’altro non si
muove.
Baffa. Poiché tanto lodate questa timiditá, vorrei che m’insegnaste a qual partito sia meglio scoprire l’amore all’amata, come sarebbe o da se stessi, o con lettere o con ambasciate, o a qualche miglior modo.
Domenichi. Vi dirò: da se stesso sará impossibile, se sará perfetto amore e non sfrenata libidine, perché abbiamo divisato esser necessaria la téma in uno amante, il quale, amando perfettamente, non averá mai ardire di palesare con la lingua l’ardente sua passione, si come abbiamo detto nel mostrare che piú ama il timido che l’ardito. Le messaggiere non lodo molto, conciosiaché non bisogna a pena fidarsi di loro stessi, non che arrischiare la sua vita alla fede d’altrui. Perché, vivendo l’amante nell’amato, sono una alma istessa ed una cosa medesima; e però dico «la sua vita all’arbitrio d’altrui». Ché per lo piú, per minor sospetto e per maggiore onestá, convengono esser femine di bassa condizione e di poca levatura; le quali o che piú diranno di quel che le commette l’amante, o meno; e che per lo piú rifaranno le risposte secondo il parlare dell’amata, non riguardando né considerando piú oltra.
Baffa. E per qual cagione non volete che, se sará eletta per messaggera una donna, che non abbia da riferire il vero e le formate parole?
Domenichi. Perché per lo piú, massimamente in quei primi movimenti, è differente l’animo dalle parole. Onde sempre l’amata, se non sará di picciola levatura e d’animo piú che immobile, stará ritrosetta, né al primo tratto consentirá alle parole che le sono dette, perché, se subito donasse speranza all’amante, 1* impresa parendogli con poca fatica acquistata, gli verrebbe ad esser men cara. Onde se l’amata le risponde una, due e tre volte: — Mi maraviglio del signor Ottaviano...
Raverta. Dite pur di voi, e lasciate star me.
Domenichi. ... che mi mandi a dire simili parole, perché egli non è per me, né io per lui; e poi l’animo mio non è da attendere a queste vanitá... — e tali altre risposte; ritornerá l’ambasciatrice e dirá: — Messer mio, figliuol mio, perché io v’amo e vi voglio bene, levatevi dall’impresa, tornatevi indietro, non
passate piú inanzi, ché non farete cosa buona: tutta la fatica sará perduta. Ella non vi cura, me ne son ben io accorta. — Dice di qua, dice di lá, e v’aggiunge sempre infinite cose di piú, e non risguarda né sa quanto nel principio si convenga ad amore, onde è poi causa di non lasciare che l’amor segua molto inanzi. Perché l’amante mai non sa a pieno il vero; e, alle volte che l’amore sará in tutto fuor di speranza, per fare il fatto loro, queste ree femine vi diranno tutto l’opposito.
Baffa. Non lodando il fare l’ufficio da se stessi, né meno le messaggiere, a quel ch’io veggio sono da usare le lettere. Ma sará pur necessario eh’alcuna le porti!
Domenichi. Né questo anco voglio che sia il primo massaggierò.
Baffa. Quale dunque?
Domenichi. Voglio ch’uno amante scuopra all’altro prima il suo amor con gli occhi, perché queste hanno ad essere e sono le prime scorte ed i primi messaggieri in amore, imperoché quello vien per gli occhi e penetra per quelli. Poscia, con gli atti e con la servitú, le faccia conoscere l’amor suo, conciosiaché la servitú e continuazione, e l’aver posto ogni suo diletto nella cosa amata accende quella a poco a poco dell’amor suo. E cosí, ogni volta che se n’è accesa, è fatta aveduta, ed essendone aveduta, l’è palese l’amor suo. Gli occhi poi sono quelli che, si come giudici in amore, incontrandosi con quei dell’amata, passano al cuore. Onde, non solamente uno vede l’amore e la passion dell’altro, ma chiaramente leggono i pensier suoi. Ed in vero, quei che l’hanno provato possono far certa fede che gli sguardi degli amanti, mentre che in un medesimo tempo l’un guarda l’altro, hanno molto piú forza di palesare i segreti del cuore, ch’apena le parole istesse non hanno; la qual cosa da un non so che divino, che tra tutte le parti corporee dell’uomo negli occhi è riposto, procede.
Baffa. A che modo si potrá conoscere se ama?
Domenichi. Ve lo dico pur tuttavia: che Amore, vero interprete dei cuori degli amanti, invisibili, dimorando nell’uno e nell’altro, denota la conformitá delle voglie comuni.
Baffa. Se cosí è, e che non s’abbia da passare piú inanzi, mai non si verrebbe a fine di possedere quella bellezza, salvo che con gli occhi; ma a volersi unire insieme?
Domenichi. Tutto che la vera bellezza non si posseda coi corpi, ma piú tosto si macchi; nondimeno, per dirvelo, oltra che anco da se stessi posson trovar vie, e con cenni e con altre cose, di riferirsi le voglie loro, laudo che, fattale alquanto di servitú, tanto che ambidue se ne chiamino sodisfatti e siano infiammati, che con qualche lettera diano ordine a’ fatti suoi e facciano palesi in iscritti i loro desidèri. E, oltra che nel proprio obietto l’uno legga i pensieri dell’altro, veggendo e leggendo quelle parole vergate con caldi sospiri, e con quel domandare grata mercede, se piú riscaldar si puote, abbia d’accendersi, trovisi anco altro mezzo piú segreto e forse piú nuovo, ma senza dubbio piú securo, da scoprire i suoi segreti all’amata. Come non è molto che s’è veduto chi ha dato a leggere altrui una lettera intiera nella luna, lontano l’uno dall’altro. Scrive questo a certo suo amico, per cosa verissima, messer Annibaie Caro, onor dei nostri tempi.
Baffa. Ho letto questa lettera, e l’ho inanzi agli occhi.
Domenichi. Lodo anco che l’amante, volendo scoprire l’amore all’amata, se si ritrova alla sua presenza, con finto nome sé e lei nominando sotto velame, dichiari la qualitá dell’amor suo, accioché la renda piú aveduta, o con simile arte, come accortamente fe’ il Zima. Né tanto questa arte è buona per Scoprire l’amore, ma anco per rendere piú saggi ed aveduti gli amanti.
Baffa. Ma circa il mandar lettere, se non sapesse poi leggere né scrivere, come si doverebbe governare?
Domenichi. Quando ella non avesse lettere, benché io v’abbia scoperto mille vie, allora, se non si può usare altro mezzo, per via di messaggiere diano quegli ordini ch’a loro paiono migliori; ma prima diligentemente avertiscano chi questi tali siano, a cui simil imprese commettono. E prima facciano che gli occhi ed i loro medesimi atti e movimenti siano quelli che l’uno all’altro significhino le sue voglie. IOÓ TRATTATI d’aMORE DEL CINQUECENTO
Baffa. Dunque vi pare che prima non s’abbia da usare altro messaggero che se medesimo con gli atti, ed a questo modo l’uno all’altro scoprire prima il suo amore; e poi, se si sa leggere e scrivere, trattare d’altri particolari?
Domenichi. Si, pare a me.
Baffa. Vedete che anco sará quasi impossibile far da se stessi, perché, nel mandar le lettere, bisognerá usare il mezzo di terza persona.
Domenichi. Potrassi anco di meno, se l’amante e l’amata saranno d’elevato ingegno, perché vi son mille vie. Togliete lo essempio di Gismonda, a che guisa diede la lettera al suo Guiscardo. E che i sospiri e gli occhi siano quelli che sono i messi d’amore, notate quei d’Anichino, quando giuocava con madonna Beatrice, i quali poterono piú che quanto vagheggiare e quanta servitú mai le fece alcuno altro. Si che anco mille altre vie ci sono, senza usare il mezzo di terza persona.
Baffa. Vedete che Anichino fu ardito; nondimeno io giudico che caldamente amasse, e voi tanto lodate Tesser timido.
Domenichi. Anzi egli fu timidissimo, perché mai non s’avrebbe scoperto, s’ella non l’avesse scongiurato per quanto amor le portava e datogli tutto l’ardire ch’ebbe; onde, tuttavia temendo, la pregò che, non volendogli consentire, lasciandolo stare nella forma ch’egli si stava, si contentasse che l’amasse. ...
Baffa. È vero: acconciatele pur tutte a modo vostro.
Domenichi. Che anco si possa amare senza far palesi gli amori suoi ad altri e pervenirne al desiato fine, vedete ch’agli atti e mille segni la moglie di messer Guglielmo Rosiglione s’accorse che ’l Guardastagno le portava amore, onde lo fece possessore delTamor suo.
Baffa. E voi sapete ben ciò eh’ad amendue avenne.
Domenichi. Pazienzia! Se si seppero mal governare, ne diedero anco le pene. Bisogna a tutte le cose aver risguardo, e chi ha superiore non assicurarsi tanto, che poi non solamente siano privi di potersi godere, ma si procaccino morte vergognosa. E però chi vuol seguire Amore, deve discorrere
assai.
Baffa. Chi giudicate che debba essere primo a dare indizio dell’amor suo: l’uomo o la donna?
Domenichi. Senza dubbio l’uomo, si per essere pivi cosa onesta, come anco per essere in quello riposta piú libertá e miglior ardire; ch’egli è chiarissimo la donna sempre dover servare piú gravitá dell’uomo e dovere essere quella ch’abbia d’essere pregata. Oltra che, sempre, naturalmente, l’uomo è piú audace della femina.
Raverta. Lodato Iddio! Pure una volta avete confermato la parte delle donne, ché miracolo è bene.
Baffa. Apunto lo voleva dire anch’io, ma piú tosto l’avete detto di me.
Domenichi. Avete il torto, perché, se in tutte le cose io non cedo alle donne, è perché io son sincero e mai non fui adulatore. Però non credo di dovere esser per ciò degno di biasimo. Guardinsi pure di non credere tutto a chi loro conferma ogni cosa.
Baffa. Signor Ottaviano, poiché di molte belle cose m’avete fatta aveduta, avrei caro che si disputasse: quale etá in amore sia piú d’abbracciare.
Raverta. Questo è difficile; perché tutte le nature non sono d’una istessa complessione, né avranno in sé nell’etá matura quello accorgimento e quel discorso che se gli conviene. Perché in tale uomo, e cosí anco donna, si ritroverá in acerba e giovenile etá maturo ingegno ed attempato discorso; il che non occorrerá in quelli di piú matura. Si eh’è difficile da giudicare. Nondimeno, naturalmente parlando, avendosi da innamorare per elezzione (senza altrimenti farvi la divisione dell’etá nostra, la quale si può figurare per le quattro stagioni dell’anno, cioè primavera, state, autunno e verno), giudicherei che non si dovesse porre speranza, far fondamento né collocare il suo amore in alcun giovane ch’almeno non giunga a venticinque anni. Perché, togliendolo piú inanzi, la bocca, come si suol dire, ancora gli pute di latte, ed essi medesimi non sanno pur quel che si vogliano: appetiscono il tutto, ed ogni cosa in un momento lasciano. E puossi somigliare l’ardor loro allo scoppio d’un folgore, che scende dal cielo con impeto e subito passa, né lascia altro IOS TRATTATI D’AMORE DEL CINQUECENTO
di sé che terrore e danno; perché questi cosí giovani hanno le loro voglie instabili. Ben è vero ch’amano con gran fervore, ma poco dura; e però in loro non si può far fondamento.
Baffa. Quale etá dunque è da seguire?
Raverta. Pian piano. Danno medesimamente quella matura, la quale giudico che sia da cinquanta anni in poi, perché è piú tosto atto il loro sangue ad intiepidirsi che a bollire ed infiammarsi. Ché, se bene s’accende, non può tolerare quelle impetuose fiamme: ma questa etá è piú atta all’amor contemplativo. E però giudico che dai venticinque anni fino ai quaranta sia da eleggersi lo amante, né punto biasimerei che, anco meglio, si togliesse d’un ventotto o trenta anni, per essere allora piú tosto uomo stabile che giovane mobile, conciosiaché viene ad essere compiuto, ed in tutte le azzioni non cosí, per poco, atto a cangiarsi.
Baffa. Fermatevi. Perché dite ora che l’amante sia da eleggere, cosí diciamo, dai venticinque infino ai quaranta, se dianzi affermaste l’etá perfetta incominciare dai ventisei, ed essere abilissima fino ai cinquanta?
Raverta. Dirovvi: se la donna eleggesse l’amante di cinquanta anni, che utilitá vorreste poi che da quel tempo in lá ella ne traesse? Perché l’etá sua andrebbe declinando, e cosí, maturando troppo l’uomo, manca di quel caldo ed umido che se gli conviene, e poco diletto di tale amore la donna ne trarebbe. Che volete: che s’innamori, allora, per godere perfettamente di questo suo amore due, tre o quattro anni? Ma, se dei quaranta anni pur vorrá pigliarlo, potranno aver dieci e piú anni di diletto nel loro amore. Tutto che l’opinion de’piú savi sia che gli amorosi affetti nell’uomo cessino nei settanta anni, e nella donna nei cinquanta. Ma non metto il fine degli amori alla congiunzion carnale né sopra i maritaggi. E però, non intendendo di questo, non ci reggeremo secondo l’opinion de’ piú saggi, alcuni de’ quali vogliono la donna aversi da pigliare dai sedici ai venti, e che l’uomo si mariti dai trenta ai trentacinque. Alcuni altri vogliono la giovane di diciotto anni e l’uomo di trentasei. Né questo danno, ma neanco lodo, per la gran differenza degli anni, salvo chi non la volesse cosí
giovane per costumarla a suo modo. Né manco voglio che ragioniamo se la donna deve incominciare a partorire dai venti fino ai quaranta, e l’uomo a generare dai trenta fino ai cinquantacinque: questo lascieremo provare ad altri. Ma ora si ragiona brevemente, discorrendo dell’etá che piú sia propria al vero amore, senza però molte divisioni.
Baffa. V’intendo ben io. La conclusione sta che voi dannate piú l’etá alquanto matura che la giovenile. Ma, se foste meno possenti di quel che séte, dubito ch’afTermareste l’opposito. Perché, soviemmi aver letto, credo sia nel terzo libro del Cortigiano , l’amante dovere essere piú tosto alquanto ben fatto che non a sofficienza maturo, e voi mi divisate altrimenti.
Raverta. Anzi no: ché pur v’ho detto, ch’a pigliare una cosa acerba, oltra che non è saporita, piú tosto nuoce che giova; ma dico bene che bisogna cogliere il frutto secondo sua stagione. E che sia il vero che l’etá acerba e quella piú matura sia da lasciare, qual frutto di queste tre qualitá è piú saporito, piú durabile e di maggior sostanza: l’acerbo, il maturo o il troppo fatto? Senza dubbio, direte quel di mezzo. Però la mezzana etá è piú da seguire, imperoché tutti gli estremi son viziosi.
Baffa. L’uomo adunque di che etá deve eleggere l’amata?
Raverta. Di minore assai di sé, imperoché piú tosto manca di essere atta ai servigi d’Amore; ed essendo di pari etá, quando l’uomo è sul fiore, allora la donna è fatta matura.
Baffa. Oh, di quante circostanzie ha bisogno questo amore ad essere eguale!
Domenichi. Si, per certo; e però chi meno vi s’invesca meglio ne sta.
Baffa. Pur di quale etá volete che abbia origine e principio?
Raverta. Ditelo voi, ch’assai m’ ho intricato d’intorno quel dell’uomo. Ché dubito non mi facciate tanto dire e ridire, che da me stesso non mi contradica, e faccia come fece l’Ariosto nel suo poema, che in un loco fa essere ucciso uno e molto dapoi lo fa comparire, onde i babuassi lo notano per un ben grande errore.
Domenichi. E dove fa egli questo? Piú tosto credo che questi tali siano quei ch’errino. Ma, di grazia, ditemi dov’è.
R a verta. Non voglio; ch’io non vorrei talora che, per parere da qualche cosa anch’io, facessi mostra di volerlo tassare, ché, a fé mia, questo non ho in animo.
Domenichi. Ad ogni modo, tra noi si può dir tutto. Raverta. Dirowi: nel diciottesimo canto mostra che Zerbino e Lurcanio amazassero Balastro e Finaduro, lá dove dice:
Non men Zerbin, non men Lurcanio è caldo: per modo fan, ch’ogniun sempre ne parli.
Questo di punta avea Balastro ucciso, e quello a Finadur l’elmo diviso.
Ma poi, nel quarantesimo canto, in quella stanza ch’incomincia:
Venne in speranza di lontan Ruggiero,
senza avervi posto mente, fa che Balastro sia vivo, dicendo che Ruggiero riconobbe
il re di Nasamona prigionero,
Bambirago, Agricalte e Farurante;
Manilardo e Balastro e Rimedonte, che, piangendo, tenean bassa la fronte.
Onde notano questo per errore.
Domenichi. È pur errore: si ha contradetto.
Raverta. Non affermo che stia bene; ma giudico che sia stato per inavertenza, benché potrebbe essere che questo Balastro fusse un altro, e non il primo. E però vi dico ch’anch’io temo di non mi contradire, e poi vogliate darmi su la voce.
Baffa. Seguite pure, ché non guardiamo noi cosí pel sottile. Domeniche Non so che dirmene. Questo sarebbe di vostro ufficio, perché séte atta, senza altre ragioni, per prova, in due sole parole a mostrarne il vero. Dove, se ben tutto oggi io m’affaticassi, indarno lo farei per esser vostra impresa.
Baffa. Se io volessi dire quel ch’io ne sento, non ne ricercherei il parer vostro.
Domenichi. A me pare (benché un poeta, il quale ampiamente ha scritto d’Amore, non voglia che la donna incominci a innamorarsi prima che di trentacinque anni), che tanto non I - IL RAVERTA
III
abbia da indugiare. Ma, per non dilungarmi molto dall’opinion comune, giudico che dai venti in circa possa e debba elevar la mente agli amorosi pensieri e cercare d’eleggersi l’amante.
Baffa. Perché non aspettare ai venticinque, si come volete che, per lo meno, indugi l’uomo, o piú tosto che di venti?
Domenichi. Perché, stando fino a venticinque, e piú tosto declinando la donna che l’uomo, non verrebbe il suo debito tempo a partecipare l’equalitá de’ frutti e doni d’Amore. Se anco di minore etá, le tenere midolle non potrebbono pazientemente sopportare le impetuose fiamme d’amore, non potrebbe star saldo né contrastare a quei piú sfrenati desidèri. Benché mi pare oggidí che prima eh’e’ giunga ai quindeci, ai tredici, per lo piú vogliano provare che cosa sia amore. Ma ciò è sfrenata libidine, né si può chiamare spezie d’amore, non che vero amore.
Baffa. Di ciò ne sia detto assai; ché ’n vero voglio attenermi alla sentenza che, non ha molto, ci diede, ragionandosi pur di questo, il dotto ed onorato, non men vostro che mio, messer Francesco Revesla novarese, che, come molti virtuosi eh’erano qui, ebbero sopra questa materia detto assai. Cosi insieme disse: «La migliore etá che s’abbia da eleggere è quella che piú piace; ed il meglio che sia è che l’uomo pigli la donna al modo suo, e parimenti la donna l’uomo; perché quello che piú ci conferisce è meglio e piú perfetto». Ma resta che, avendomi mostrato tante cose, nondimeno io reputo che non abbiate fatto nulla, se anco non mi date a conoscere: qual sia il vero mezzo per farsi amare. Dimostrandomi se ciò è in nostro potere, o pure grazia data di sopra; se consiste in bellezza, o in virtú, o che ne sia. Ma non mi risolvete questa domanda, come l’altr’ieri fece il Betussi, con quel detto di Salomone, ch’io non ne resterei punto sodisfatta.
Domenichi. Veramente quella è anco la piú bella risoluzione che se gli possa dare, perché chi ama viene amato.
Baffa. No no, non la voglio a questo modo, perché il proverbio «Ama chi t’ama» è fatto antico.
Domenichi. Poiché cosí non vi piace, ve la dichiarerò altrimenti. Certo non si può negare che le bellezze del corpo,
e piú quelle dell’animo, non siano doni d’iddio (per li quali molto si dee ringraziare), e di non poca forza a tirare gli animi altrui a farsi amare. Nondimeno grazia, piú che virtú, fa l’uomo beato; e però non so se sapete di quella isoletta in Francia, dove tutti i re sono tenuti a pigliar la corona.
Baffa. Non lo so altrimenti.
Domenichi. Ve lo dirò io, e poi vi diffinirò, insieme con questo ragionamento, la vostra domanda.
Baffa. A che serve questo?
Domenichi. State ad udire. Al nostro proposito: ché cosí anch’io di questa medesima domanda, giá son cinque anni, ne fui benissimo risoluto in Bologna dall’eccellentissimo dottore di leggi messer Iacopo Maria Sala, ed ora dignissimo auditore del reverendissimo ed illustrissimo Cardinal Farnese.
Baffa. Dubito che, con qualche novella, d’un parlare non vogliate entrare in altro, per farmi scordare la mia proposta.
Domenichi. Anzi non voglio. Egli mi disse, come si legge, ch’ai tempo di re Carlo magno fu in Francia una giovane di bassa condizione né di molte bellezze ornata, della quale il re si fieramente s’accese, che tutto l’intento suo era posto in amare e piacere a costei, di maniera che non solamente ogni altro amore aveva messo da canto, ma del regno ancora e dell’imperio poco curava. Pativa che gli infedeli il danneggiassero, lasciava che i sudditi senza ordine e senza freno alcuno vivessero, consentiva che i torti dominassero alle ragioni, e, accioché tutto in una parola io vi dica, per questo amor suo, d’ogni pensiero onorato vivea lontano. Onde il popolo, i circonvicini, i baroni e tutta Francia in tal guisa s’affliggeva, ch’ogniuno, per ultimo rimedio, la morte bramava dell’amata giovane, pensando che questa via sola fosse rimasa a poterlo sciogliere da si dannoso laccio. Avenne ch’ella, assalita da subita infermitá, se ne mori ; perché ogniuno di si fiero accidente faceva maravigliosa festa, credendo certamente che cosí caldo amore dovesse aver fine. Ma tutto il contrario era ordinato, imperoché punto non intiepidi l’amoroso foco, ond’egli ardeva mentre ella visse, per la sua morte. Anzi, lá dove gli altri s’allegravano, egli
infinitamente si doleva e lo avea per male. Né contentandosi d’averle fatto essequie molto piú onorevoli che ’l grado di lei non meritava, non potendo patire di star senza lei, che meno cara non gli era morta che vivendo si fosse stata, fattala trarre della sepoltura ed imbalsamare il suo corpo, di continuo appresso di sé lo voleva e gli dormiva accanto, non altrimenti che se lo spirito fosse anco stato con quello...
Baffa. Mi fate ricordare dell’amor d’Artemisia, la quale si fece stanzia della sepoltura di Mausolo, suo marito, e cibo del beveraggio ch’ella avea fatto della polve dell’ossa di lui.
Raverta. Mi maraviglio che non facesse a modo, in tutto e per tutto, degli egizzi, se vero è quanto si legge di loro, i quali non solamente, imbalsamati i corpi morti, ne gli tengono seco a dormire, ma anco a mangiare alle sue tavole.
Baffa. Che? mangiano, i morti?
Raverta. Lascio pensare a voi. Si fanno anco servire di dinari, quando n’ hanno bisogno, sopra i corpi dei padri e dei fratelli, come noi faressimo sopra una gioia o altro pegno. E, se io vi narrassi l’altre opre che vi essercitano d’intorno, ben vi farei stupire.
Domenichi. Non è maraviglia, perché «piú regioni, piú usanze». 1 greci gli abbruciano, benché abbiano lasciato questo costume. I persi gli sepeliscono sotto terra, come anco noi facciamo. Gli indi gli mettono ne’ vasi di vetro, come fanno gli speciali le lumache.
Baffa. Né piú né meno.
Domenichi. Gli sciti gli mangiano.
Baffa. Come! che gli mangiano?
Domenichi. Cosi fanno.
Baffa. Per grazia, non me ne dite piú, ma seguite il vostro ragionamento, ch’io giudico questa invenzion piú favolosa che le narrazioni di Luciano non sono.
Domenichi. Anzi è verissima, e, quando vi piaccia, ve lo farò vedere.
Baffa. Non me ne curo.
Domenichi. Ma dove era io? ché piú non mi ricordo.
Trattati d’Amore dei Cinquecento.
S
Raverta. Dicevate che il re sempre voleva quella giovane, cosí morta come era, appresso di sé...
Baffa. È vero.
Domeniche., e fuor di modo sentiva grandissimo cordoglio se alcuno fosse stato ardito a riprenderlo di questo suo amore. Di che tutto il popolo, temendo la disgrazia della corona, in strana maniera vivea doglioso; e tanto piu s’affliggeva, quanto maggiormente l’amor suo era conosciuto vano e senza rimedio. E per ultimo consiglio non sapevano che meglio operare, se non orazioni a Dio, ché, s’era per Io meglio, gli togliesse oggimai tal fantasia ed amore dell’anima e del core. Tra gli altri che supplicavano per lui, fu un vescovo, suo confessore, uomo di santa vita e di buoni costumi, grato e caro a Dio, il quale, conoscendo il re nell’altre sue cose moderato e d’onesta vita, di questa sua vanitá gravissimo dolor sentiva. Avenne che, dormendo egli una notte, gli apparve l’angelo in sonno, e gli disse che dovesse andare dove che il re teneva il corpo morto, e vedesse ciò ch’avesse sotto la lingua, e quello che vi trovava ne levasse, ché subito l’imperatore in sé tornerebbe e sarebbe libero di tale amore.
Baffa. Vi andò e fecelo?
Domenichi. Udite. Svegliato il santo uomo, e fuor di misura lieto, e non vedendo l’ora di conoscere se ciò ch’avea veduto dormendo fosse vero vegghiando, se n’andò la mattina alla corte, e, con buon modo impetrata grazia da Sua Maestá che le lasciasse vedere il corpo di colei che tanto amava, lá se n’andò dov’era, e cosí, mettendole le dita nella bocca, ritrovò sotto la lingua di lei una pietra legata in oro. La quale portata con seco, subito il re, ritornato in se medesimo, conobbe l’error suo ed incontanente fece levar via quel corpo e sepellire, non avendogli piú tanto o quanto di quell’affezzione che di prima gli avea grandissima. Perché tutta la gente se ne maravigliava, lodando e ringraziando Iddio di cosí subita e non sperata mutazione.
Baffa. Anco dei sogni e delle visioni si verificano.
Domenichi. Si, e spesse volte. Vedete come Lisabetta vide il suo Lorenzo, in visione, morto dai fratelli di lei.
Raverta. Senz’altre novelle, quale piú vera visione fu mai di quella dei due amici d’Arcadia? L’uno de’ quali vide il compagno morto e medesimamente nascosto da colui che l’avea ucciso, non altrimenti che se vi fosse stato presente.
Domenichi. È pur troppo nota, però la voglio lasciare.
Baffa. Benché gli altri la sappiano, giá non la so io.
Raverta. Lasciate ch’egli prima fornisca di dir la sua.
Baffa. Questo non voglio io: ditemi prima la vostra, poiché ella viene cosí bene in proposito.
Domenichi. Ditela, vi prego, ché ben seguirò poi quel che mi resta.
Raverta. Si legge che questi due amici erano andati ad una cittá, chiamata Megara, per alcuni suoi affari insieme. Accadde che l’uno d’essi andò alloggiare a casa d’un suo amico, l’altro all’osteria. Ed essendo ogniun di loro all’albergo suo andato a dormire, quel ch’era alla taverna apparse in sogno a quell’altro, domandandogli aiuto contro l’oste, il quale voleva tórgli la vita. Onde questi, svegliatosi tutto pien d’affanno, vedendo aver sognato e credendo il sogno vano, non si mosse punto, ma ritornò a dormire. Apena ebbe chiusi gli occhi, che di nuovo gli si offerse l’amico, mostrandogli le ferite sue e pregandolo, poiché non avea voluto soccorrerlo vivo, eh’almeno volesse vendicarlo morto e non volesse patire che tanta crudeltá restasse impunita. Ch’egli era stato ucciso dall’oste, e gettato sopra un carro coperto poi di letame, e che la mattina, sotto tale coperta, sarebbe stato condotto fuor della cittá; e però, se per tempo non gli rimediava, che invano poi s’affaticherebbe. Onde, la seconda volta desto, e per tal visione tutto smarrito, la mattina per tempo si levò di letto, ed, andatosene verso l’osteria, vide il carro carico. E, domandando chi lo guidava di ciò ch’era sotto quel letame, egli subito spaventatosi se ne fuggi. Cosi, scopertolo, vi trovarono il corpo del suo compagno morto. Onde, pigliato l’oste e fattogli confessare com’era il vero, gli furono date le debite pene.
Baffa. Alcuni non voglion poi che le visioni siano vere e che lo spirito d’un morto non tenga piú memoria di niente! Raverta. Anzi si. Non si legge medesimamente di Simonide, il quale, avendo veduto un corpo morto giacere sopra la terra non sepolto, mosso a compassione lo fe’ sepellire? E, avendo in animo di fare un passaggio per mare con una nave, fu avisato da quello spirito, ricordevole del beneficio, che non dovesse andarvi, perché v’annegherebbe? E cosí lasciò d’andarvi. Onde la nave, partitasi, ruppe ad uno scoglio, e, quanti in essa erano, miseramente affogarono.
Domenichi. Se la moglie di Talano di Molese avesse creduto al sogno del marito, il lupo non le avrebbe squarciato tutto il viso e la gola.
Raverta. Veramente i sogni, per lo piú, vengono a contenere in sé spezie vera di cosa ch’abbia a venire, chi ben vi mira. Come anco si legge di Faraone, il quale, sotto il sogno delle vacche, previde i sette anni d’abondanza ed i sette di carisma. Onde, interpretato che gli fu da Giuseppe, puoté rimediarvi.
Domenichi. Non è dubbio che spesse volte, sognando, si preveggano di molte cose, che poi vengon vere. Come anco si vede, per essempio, nell’ Inferno di Dante del conte Ugolino, ch’essendo in prigione, sognandosi, vide quella orribil visione, onde vide poi morirsi i figliuoli dinanzi, per la fame astretti a dirgli:
... Padre, assai ci fía men doglia se tu mangi di noi ; tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia.
Baffa. Che sogno fu il suo?
Domenichi. Leggetelo e consideratelo quando dice:
Breve pertugio dentro da la muda, la qual per me ha il titol de la fame, e ’n che convien ancor ch’altrui si chiuda, m’avea mostrato per lo suo forame piú lume giá, quand’i’ feci ’l mal sonno, che del futuro mi squarciò il velame.
E ciò che segue, onde narra il sogno e la crudeltá dell’arcivescovo Ruggieri.
Baffa. Alle volte bisogna guardarsi cosí delle visioni, come
dei pronostichi fatti a caso, perché non può nuocere, ma non
però dargli fede. Perché anco a caso, che che se ne sia cagione,
si veggono spesse volte esser predette delle cose che tornano
vere. E, benché di ciò vi potessi addurre molti altri essempi,
tutti gli lascerò, per dirvi un caso solo, occorso pochi mesi
sono in Roma alla signora Adriana dalla Roza, la quale, essendo
sana e lieta ed andando a piacere per la cittá veggendo quelle
cose antiche, occorse che si portava a sepellire un corpo nella
Traspontina, lá dov’ella per aventura era e n’usciva fuori. E, con
maraviglia risguardandolo cosí fermata, o pure scherzando,
come si fosse, disse uno di queicherici: — Signora, non vi maravigliate, ché tosto cosí sarete in questa chiesa portata ancora
voi, e diverrete quale è questo corpo. — Se ne rise ella, ma due
giorni poi, aggravata da una febre lenta, cadé inferma di maniera che in quindeci giorni se ne mori. Ed ivi, come quel prete
le pronosticò, fu sepolta.
Domenichi. Questa è quella signora per la quale il Betussi fece quelle stanze ch’egli mandò al signor Vicino Orsino, consolandolo nella sua morte?
Baffa. È vero.
Raverta. Di grazia, signor Lodovico, lasciatemele vedere.
Domenichi. Non le ho in iscritto, ma quando partirem di qui ve le recitarò.
Raverta. Non interrompete l’ordine, ora che siamo in questi mesti ragionamenti. Recitatele.
Domenichi. Farollo. Cosi incominciano:
i
Signor, poi che gli affanni e i piacer vostri, onde il cor mesto e l’alma allegra avete, di ragion sono, e debbono, esser nostri, perché di noi la miglior parte séte, non piú tanto dolor in voi si mostri, ma da miglior consiglio in voi s’acquete, acciò che il mondo mirando vi goda, e vi dia d’ogni onor la prima loda.
2
Morta è colei, ch’avuto ha un tempo in mano l’anima e ’l cor, non che i pensier di voi; colei che giá d’appresso e di lontano nel vostro amor temprò gli affetti suoi ; colei che, per sentier solingo e piano tornando al ciel, lasciato ha in terra noi.
Signor, dunque v’afflige il suo partire, s’ella è fatta immortai col suo morire?
3
Ah, non piú regni in voi si strana doglia, né cosí grave duol del suo diletto!
Degno non è che ’l vostro pianto toglia a la ragion in voi seggio e ricetto.
Ella, posta qua giú la frale spoglia, ode, vede ed intende il vostro affetto; e ben conosce come il pianto e ’l duolo non amor suo, ma danno vostro è solo.
’4
— Dunque, ben mio — dice ella, — il grave pianto che versali gli occhi tuoi la notte e ’l giorno, l’aver in odio il bel terreno manto ove fa l’alma tua degno soggiorno, il chiamar morte e ’l sospirar cotanto, ch’empie l’aria e le piagge d’ognintorno, è perch’io sia tornata al mio Fattore, lasciando il mondo e ’l suo fallace errore?
5
Di me non ti doler, che, fatta eterna, vivo cara e diletta al vero amante, che vuol che ’l mio veder chiaro discerna quel ch’io non ho veduto per avante.
Or l’occhio mio purissimo s’interna nel securo gioir de l’alme sante, e, gli umani diletti in bando posti, scorgo i vostri pensier, benché nascosti.
Tu, s’egli è ver che ’l mio terreno amasti, si come or veggio manifesto e chiaro, fatto d’altri pensier maturi e casti a l’infermo tuo cor saldo riparo, odia e disdegna quel che giá prezzasti, quel ben ch’avesti oltra misura caro; e, d’altro ardor, ma divino, infiammato, il mio riposo dolce ti sia grato.
7
E, perch’ora ti sia molto lontana, si come un tempo fosti a me vicino, t’ama ancora però la tua Adriana, tutta accesa d’amor casto e divino.
Disacerba ogni doglia acerba e strana,, caro a me piú che mai, gentil Vicino; e di qui, dove a te si serba loco, non ti partir col cor, molto né poco. —
8
Cosi l’alma gentile e benedetta, ch’ebbe in sé il fior d’ogni bellezze avolto, odo io ch’ai ciel col suo parlar v’alletta; né d’altro par che giá le caglia molto, quanto spiace a la candida angioletta de l’empio duol, nel qual voi séte involto, e vedervi contrario al grande Iddio, dal cui voler non si scompagna uom pio.
9
Ma che giovan, signor, pianti e sospiri, che prò ritorna a voi del tragger guai, poiché le leggi degli eterni giri per mortai preghi non si torcon mai?
Se la pietá dei vostri alti martiri e ’l consumarvi in dolorosi lai quel, c’ha Morte di voi, dar vi potesse, direi che pianger sempre si dovesse.
IO
Ora i prieghi e le lagrime non ponno ritòr a Morte le sue ricche prede; ella l’ha chiusi gli occhi in lungo sonno; ma l’alma aperto, piú che prima, vede.
Non sia il languir del vostro cor piú donno, perch’egli ancora noi tormenta e fiede; e la pietá devuta ai vostri servi lungo tempo felice vi conservi.
Raverta. So che il Betussi, in quanto s’hanno potuto estendere le forze del suo ingegno, benché debile, ma animoso, ha cercato con le rime confortare si benigno, amorevole ed onorato signore, desiderando con merite lode far immortale il nome di questa giovane, da si gentil signore, piú che se stesso, amata ed avuta cara. Almeno queste stanze rimarranno come testimonio della sua morte qualche giorno, fin che le lingue de’ maligni, accordate col tempo, saran cagione di donarle all’oblio. Ma resta chesi segua l’ordine dell’istoria incominciata e quasi scordata.
Domenichi. Si, chi sapesse ritornare sul camino; ché troppo sono uscito di strada, con tanti essempi e tanti versi.
Baffa. Mi ricordo ben io che dicevate che il popolo lodava Iddio ch’avesse liberato il re dell’amor che portava a colei morta.
Domenichi. È vero. Ma che tutto l’amore, ch’a costei dianzi portava, si rivolse verso quel vescovo, il quale incominciò tanto ad amare, che senza lui non poteva vivere né dimorare;...
Raverta. So che si dovea vedere impacciato.
Domenichi. ...né piú inanzi né piú indietro faceva di quel ch’egli voleva. Laonde, vedendo il buon cherico che perciò molto era odiato dai sudditi, ai quali pareva non Carlo, ma lui esser re di Francia e regger lo impero, e sapendo molto bene qual fosse la invidia delle corti, deliberò non tenere piú appresso di sé quella pietra, avendo per fermo che avesse in sé grazia di fare amare chi seco la tenesse. E cosí gettolla
in un lago d’intorno a una isoletta; al qual loco medesimamente il re pose tanto amore, ch’indi non sapevasi quasi mai partire. Tutte le sue delizie ed ogni sua gioia era d’abitare ivi, dove fece palagi, chiese ed abitazioni ricche e superbe fabricare, e quasi sempre vi dimorava. E, mentre visse, amò quel lago e quel loco quanto dire e amar si possa. E, venendo a morte, lasciò che ’n quella isola ogni suo successore avesse da pigliare la corona regale, e cosí fino al di d’oggi s’osserva. Questo voglio dire, con questa mia istoria o novella, pigliatela come volete, che, a voler farsi amare, come mi disse il Sala, bisognerebbe avere una pietra a cui fosse concessa simil grazia, perché giudico ciò non essere in nostra possanza, ma dono dato da’ cieli.
Baffa. Orsú, io v’ho inteso: voi volete dire che non basta esser bella, gentile e virtuosa ed aver tutte quelle qualitá ch’a donna rara si convengono, ché bisogna aver grazia d’esser amabile. Ma qui nascerebbe un dubbio, ed avrei caro che me lo risolveste: se questa pietra era appropriata di fare amare quella persona, che l’aveva seco, da altri che dal re.
Raverta. Questo non è dubbio, perché s’ha veduto che solo il re amava chi l’aveva.
Baffa. Dunque poco importa l’essere amata da un solo.
Raverta. Che vi pare? lo mi terrei felicissimo s’io fossi amato da una persona sola. E poi forse quella virtú, che le fu data, fu cosí domandata.
Baffa. Sia come si voglia, o vera o falsa che sia stata questa cosa, non voglio cercarne altro. Basta che, sotto velame di questa, ho compreso la risoluzione della mia domanda. Ma, come meglio si sa reggere in amore, non s’ha sempre miglior mezzo di farsi amare?
Raverta. Ogni cosa buona giova.
Baffa. Sará dunque buono che senz’alcuna passione, non togliendo il suo dritto al vero, mi diciate: s’egli è meglio mostrarsi pia o crudele all’amante.
Raverta. In poche parole ne dirò il mio parere. Non lodo la donna che sia in tutto pietosa né sempre si dimostri benigna
al suo amante. Perché io dirò, come giá disse il nostro gentile e virtuoso messer Giorgio Belmosto genovese, essendo grandemente innamorato d’una bella e graziosa donna: — Se costei mi si mostrasse sempre benigna ed io con poca fatica m’acquistassi la grazia e l’amor suo, poco l’apprezzarei ancora, perché d’ogni cosa, che facilmente si guadagna, poco conto si tiene, e quelle, che con piú fatica s’acquistano, piú sono amate. E piú amano le ricchezze coloro che col proprio sudor l’hanno acquistate che quei che le hanno ricevute da altri. Però piú amano le madri i figliuoli, imperoché il generargli ò di maggior fatica, onde sanno che son suoi. Ma piacemi che la donna nel principio, quando incomincia a conoscere uno che la serva d’amore, stia alquanto sopra di sé, né cosí leggermente si muova; anzi, benché l’ami, non mostri curarlo.
Domenichi. Per Dio, che buono ufficio fate, ché, quando devreste in tutto rimovere le donne dai loro crudelissimi costumi, allora piú le indurate! Purtroppo poco n’apprezzano e ne curano queste tigri, senza che voi ai danni nostri le consigliate.
Raverta. So ben io che fo male; ma, volendo dire il vero, mi convien pur cosí dire.
Baffa. Io dubito gravemente non questo sia doppio inganno, e, con questo volere che la donna si mostri alquanto piú tosto ritrosa che arrendevole, vogliate fare che alcuno non perseveri in amarci. Perché, se ciò facesse, non potrebbe egli levarsene agevolmente?
Raverta. Non, signora, se averá da essere vero amore. Perché l’amante sempre spera, onde è buono ch’ella cosí facilmente non si pieghi. Perché veramente voi donne piú facilmente d’amore v’accendete. Ma, in proposito, vi ritorno a dire che non facciate si larga copia di voi stesse agli amanti, si ch’eglino con poca fatica abbiano a godere del vostro amore. Non vi mostrate poi neanco tanto crudeli quando conoscete la servitú loro, ché da sdegno siano sforzati di levarsi da l’impresa. Ma, tenendo la via di mezzo, sempre secura, né in tutto benigne né in ogni parte crudeli vi devete mostrare, o donne,
perché ogni estremo è vizioso. E molte donne, per lo piú, s’appigliano agli estremi: o sono crudelissime o si mostrano pietosissime. Però, non inclinando piú all’una che all’altra parte, insino alla fine, che ricerca sempre la benignitá, essendo stabilmente fondato l’amore, quello vi guiderá a lodevole fine.
Baffa. Che ne dite voi?
Domenjchi. Dico che la donna sempre debbe essere pietosissima e non mai crudele.
Baffa. Ma chi credete poi che piú si persuada esser amato: l’uomo o la donna?
Domenichi. Senza dubbio, la donna.
Raverta. Ed io ho quasi il contrario, perché l’uomo, conoscendosi sempre piú eccellente, piú deve persuadersi a ragione d’essere amato.
Domenichi. E però, sendo piú perfetto, meno si stima, coneiosiaché il persuadersi non venga mai da buona parte. Ed il minor vizio ch’egli abbia in sé è la superbia e l’ambizione, dalle quali è sempre accompagnato. Però dal persuadersi troppo nasce che le donne sono per lo piú superbe ed ambiziose, e la maggior parte di loro sono monne Lisette, che, se non sempre, almeno le piú volte credono gli angioli essere delle loro bellezze innamorati. E tutto è colpa del loro poco cervello, come è opinione del mio carissimo Doni. Onde l’uomo, essendo sempre di miglior discorso, ognora si crede meno essere amato, perché quasi sempre e comunemente si chiama «amante», e la donna «amata». E l’amante, come agente della servitú, vien meno a riputarsi d’essere amato. Che possa poi l’uomo, benché meno si stimi, esser piú amato, di questo non si ragiona, perché nel vero amore l’uomo e la donna sono amanti ed amati egualmente. Ma ora si dice della persuasione, la quale ragionevolmente piú conviene alla donna, perché di rado amerebbe ed ama, se prima non pensa d’esser amata.
Baffa. Certo, voi dite il vero, imperoché di qui viene che per lo piú restiamo da voi ingannate, ché, come pure e semplici, sempre crediamo ai vostri finti sguardi ed alle false lagrime. Onde, essendo di natura pietose, persuadendoci d’essere
amate, facilmente ci pieghiamo, non sostenendo di lasciar languire chi talora, e bene spesso, nel suo cuore di noi ridendo e pigliando piacere, mostra amarne. Però ben disse l’Ariosto:
Perché le donne piú facili e prone a creder son, di piú supplicio è degno chi lor fa inganno.
Domenichi. Eccovi questi versi allegati da voi in mio favore, perché l’essere piú facili a piegarvi in amore mostra la gran persuasione, che di leggiero è in ogni donna, d’essere amata. Ma che anco non siano amate, le valorose opre e le degne fatiche, che gli amanti per le amate durano, fan fede del vero. Che non vi siano anco di quei che fingono, non si può negare. Ma volgi l’ordine: quante donne sono che il medesimo e molto peggio fanno!
Baffa. È vero, ma non dirò giá io che, se oprate cose lodevoli, non le facciate piú tosto per onor vostro che per amor di noi.
Raverta. Anzi per amore, perché piú ne infiamma l’amor di piacere all’amata che non fa l’onor nostro.
Baffa. Or questo si che ho caro udire; e però non vi sia noia ragguagliarmi a pieno: qual sia maggior stimolo a virtú: desio d’onore o di piacere all’amata?
Raverta. Veramente il desio di piacere all’amata giudico maggiore.
Domenichi. Ed io tengo il contrario.
Baffa. Anch’io son dalla vostra.
Raverta. Perdonatemi, signori miei, ambidue séte in-errore.
Domenichi. Questo non crediam noi. Perché quale è la piú cara cosa ch’altri abbia? Senza dubbio, all’uomo, che si dee dire uomo, egli è l’onore. Essendo quello il piú caro, è di necessitá che anco sia quel che piú ne infiammi e spinga a desio, per mezzo della virtú, a conservarcelo; perché, perduto ch’egli è, né piú è buono, né piú osa comparire in publico.
Raverta. Questo è vero. Ma non sapete poi che l’onore vi spingerá solamente a cose possibili, dove il desio di piacere all’amata vi metterá a facende supra l’uso naturale?
Domenichi. Può anco infiammarne di cose infami e dannose per compiacere a lei; il che non sará desio d’onore.
Raverta. S’egli è vero amore, sempre sará accompagnato da desiderio d’onore, per oprare cose magnanime e per rendere il nome vostro di maniera impresso nel core dell’amata, che, per mezzo delle rare virtú vostre, abbiate ad esserle caro; e però averá maggior possanza. E, benché solo per acquistar fama ed onore vi moviate, non essendo preso d’amore, nondimeno, parendo a voi che sempre vi sia termine e tempo, alcuna volta sovrastarete, né cosí sprovedutamente, come fareste amando di piacere a chi tien la miglior parte di voi. Perché si son visti degli uomini virtuosi ed atti ad ogni grande ed onorata impresa, lungo tempo essersi vissi senza dar saggio delle virtú loro; i quali, innamorati, poi hanno mostrato non solamente quanto valevano, ma s’hanno fatto stimar valorosi, forse molto piú ch’essi non erano. E che sia vero, si troverá sempre ch’uno innamorato in ogni impresa fará per quattro, non vo’ dir di piú, che daU’amorose catene siano sciolti; e piú opererá nel conspetto dell’amata che non fará all’absenza.
Domenichi. Si, forse delle pazzie.
Raverta. Avete il torto, signor Domenichi. Non sapete voi che per altro non durò tanto l’assedio intorno Troia, e sempre virilmente contra tutta la Grecia fu combattuto, se non per molti innamorati, i quali, alla presenza delle loro donne, contra infinito popolo, benché fossero pochi, coraggiosamente combattevano? Le quali, aiutandogli armare, con qualche amorevole parola gl’infiammavano in modo che prove mirabili facevano poi. Si legge parimente nel Castiglione dei re d’Ispagna Ferrando ed Isabella contra il re di Granata, che da altro non si crede che procedesse la vittoria loro se non che, quando usciva l’essercito in campagna, usciva anco la reina con le sue damigelle, accompagnata da molti cavalieri, suoi amanti, ragiogionando insieme, fin che di lontano yedevano tempo di mettersi in ordine contra i nemici; e quindi, partendo, cose maravigliose ed incredibili facevano, delle quali durerá memoria eterna. E ben si vide agli effetti, ché i pochi, contrastando con gli
infiniti, di gran lunga sempre restarono superiori. Molti essempi v’addurrei, che sono stati cagione di fare cose, che né per desio d’onore né per fama, se da quello non fossero state accompagnate, mai non sarebbono state possibili.
Domenichi. Io so che, non tanto per la ragione quanto per l’affezzione, volete sostenere la parte d’Amore; e però molti fondamenti voglio tacere, i quali potrei farvi in difesa dell’uno e centra l’altro.
Raverta. Anzi io vi prego a dirgli, accioché non paia che, in absenza del desio d’onore, sia data la sentenza in favore al desio di piacere alle innamorate.
Domenichi. Non ne vo’ dir piú, ma lasciarne la cura ad altri ; perché ancora io ho maggiore affezzione alla parte vostra che alla prima non porto, la quale ho mostrato di volere sostenere, e che convien sempre essere in compagnia d’Amore. Ché meglio può il desio di compiacere all’amata, accompagnato dall’onore, che l’onor solo; maggiormente che sempre al vero amore vi conviene essere aggiunto il disio d’onore.
Baffa. A questo modo m’avete chiarito il mio dubbio, sostentando una parte sola.
Domenichi. Perché l’altre difese son di minor momento, noi le lasciamo, accioché alcuno altro agevolmente possa opporsi. Ed ora soviemmi, giá sono quattro o cinque anni passati, essere stata fatta questa medesima disputa tra due gentiluomini e miei cari amici, uno de’ quali fu l’eccellentissimo messer Alberto Bazzicalupo. Il quale, come vero amico d’Amore ed amicissimo delle donne piú che non fu Caricle, di tal modo allora sostentò la parte d’Amore, che bisognò che il discreto e gentile, non mai sotficientemente lodato, messer Antonello Fasolo gli cedesse.
Baffa. È parimente necessario ch’anch’io ora mi confessi vinta da voi; altrimenti tutto oggi spenderessimo in vane contese. Ma, poiché tanta potenza date a questo Amore, può egli fare che uomo di donna e donna d’uomo per fama si innamori?
Domenichi. Chiarissimo è che può, e per lo piú convien che sia buono e perfetto. Perché l’uomo, e cosí anco la donna,
accendendosi per fama d’altri, non solo s’infiamma ed ama una cosa ch’egli solo stimi e buona e bella, ma anco di cosa, la quale, se non è perfetta, almeno è stimata da molti per tale. Né lungo tempo si può ingannare, perché, udendo ragionare del valore, delle bellezze, delle virtú e della bontá d’alcuno, subito s’infiamma. Ed, essendo Amore desiderio di fruire della cosa stimata bella, o vogliam dir buona, si brama d’esser tale; e questo ho per verissima specie d’Amore. Perché non solamente per l’affezzione, ch’altri porta ad una cosa che prima s’abbia veduta, s’accende; ma di piú, e che meglio è, per generale opinion d’altri, come si legge di Gerbino e della figliuola del re di Tunisi, e d’Anichino, senza le novelle di molti altri.
Raverta. Certo, non è dubbio che non si possa amare e meglio non s’ami, per fama, altrui; cioè che anco l’amor non sia piú perfetto di quel ch’egli è, se per gli occhi altri s’infiamma. E sempre s’amerá cosa molto apprezzata d’altri, e non mai cosa vile o di poco valore.
Baffa. Essendo gli occhi le prime guide in amore, non so come io mi debba credere che per fama innamorar si possa.
Raverta. Questo è facile: perché, tosto che vi perviene agli orecchi la notizia d’alcuna cosa degna e bella, allora gli occhi, diventando invisibili, corrono a contemplarla, e gli pare di vederla e comprenderla visibilmente, e nella mente formano la sua idea, la quale vi tien desta l’anima che brama anco effettualmente vederla. Come fe’ Lodovico, il quale si parti da Parigi e venne a Bologna per vedere se conformi erano le bellezze di madonna Beatrice alla fama che all’orecchie gli era pervenuta. Si legge ancora che Gianfré Rudel, signor di Blaia, s’innamorò per fama della contessa di Tripoli, senza averla mai veduta, solamente per averla udita molto commendare dai peregrini che venivano d’Antiochia. E, per vederla messosi in ordine, facendo il viaggio per mare, navigando infermò; e, giunto a Tripoli ammalato, la contessa l’andò a visitare. Onde, ringraziato Iddio che gli avesse prolungata la vita tanto che avesse veduta colei che tanto desiava con gli occhi del corpo
vedere e ch’amava, nelle braccia sua se ne mori. E però il Petrarca lo ricorda quando dice:
Gianfré Rudel, ch’usò la vela e ’1 remo a cercar la sua morte.
Baffa. Oh felice morte! Ma, se si trovasse poi quella cosa tanto lodata diversa dal creder suo, come andrebbe ella? Restarebbe infiammato o no?
Raverta. Giudico che si, perché la prima impressione, che si ha, rare volte avien che si possa levare, ché per lo piú con quella si rimane; onde medesimamente si ama. Imperoché, se ben con gli occhi del corpo si vede alcuna cosa che tanto non piaccia, nondimeno non può essere che il rimanente non si stimi sempre perfetto e che non si desideri d’esser tale.
Baffa. Avendosi l’uomo da eleggere una donna, ed avendone due eh’egualmente gli piacciano, una bella e semplice, l’altra non vaga ma accorta, quale dee piu tosto pigliare? Ditemi per ragione il parer vostro.
Domenichi. Io, che non son molto vago a riguardare, sempre torrei per lo meglio la piú bella.
Baffa. Forse per stare egualmente accompagnati?
Domenichi. Anzi al contrario.
Raverta. Io vi dirò: bisogna considerare di che sorte intendiate la semplicitá dell’ima e l’accortezza dell’altra. Perché, se la semplicitá della bella sará che solamente sia vaga, essendo poi le qualitá dell’animo suo di nessun valore, potrá aguagliarsi ad una bella statua senza spirito e senza vigore, onde poco utile se ne potrá trarre; conciosiaché sarebbe come amare una imagine, la quale con bei lineamenti ed a proporzione fosse formata, ma nel resto poi ombra e fumo.
Baffa. Voglio che sia cosí, ma non però che sia impudica né macchiata d’alcuno altro simil difetto: sia pur semplice, e questa sua semplicitá contenga in sé una certa specie di goffezza, per cosí dire.
Raverta. Quasi ch’io v’intendo. Sia come si voglia, se ben fosse anco un poco meglio, poco piú la prezzarci. Ma io giudico
che piu tosto si deggia amare una la quale in questa prigione (che cosí veramente posso chiamare il corpo) tenga rinchiusa una bellezza, accompagnata con quella grazia ed accortezza, piú da essere gradita ed avuta cara che tutte l’altre parti esteriori non sono. Le quali, benché cosí vermiglie e bianche non siano, essendo però accompagnate d’accortezza e da grazia, spirano tutte amore e leggiadria.
Baffa. Vedete ora, signor Domenichi, come anco le deformi hanno in loro stanza per amore.
Domenichi. Si, quando sono accorte e graziose.
Raverta. Questo s’intende sempre; perché chi volesse pigliare un mostro, che anco fosse senza alcuna grazia, sarebbe privo di giudicio. Ma divisato abbiamo ch’accompagnato sia da grazia ed accortezza, con la quale, accompagnando quella deformitá, venga a rendersi bella. E piú tosto uno, che donna simile averá per innamorata, vedendola ornata di tante altre buone qualitá, si chiamerá felice, che non fará quello il quale abbia una bella senza ingegno e senza discorso.
Baffa. Ben è vero, perché le piú volte queste semplici in loro non hanno stabilitá, discorso né ingegno alcuno; anzi sempre credono essere da tutti amate, né sapendosi reggere in amore, oprano effetti vergognosi e degni di biasimo e talora agli amanti dannosi. Come ora mi sovviene d’un dubbio proposto al cortese ed onorato gentiluomo messer Giovan Battista Pizzoni anconitano, ed a quel bell’ingegno, spirito dell’accortezze e dell’arguzie, messer Lodovico Dorfino salernitano, dal molto gentil e degno d’onore messer Prospero Sacco da Lodi, sopra questo caso.
Domenichi. Sopra quale?
Baffa. Ora dirovvelo, e vi racconterò tutta la cosa come avenne. Disse il virtuoso Sacco ch’essendo la regina Isabella in Granata con molte bellissime sue donzelle, e trovandosi a vedere alcuni leoni, fu un cavaliere spagnuolo, il quale era innamorato sommamente di una di quelle, che, per aventura, non poteva essere se non la men bella e meno cortese non solo di tutte quelle, ma di quante erano allora al mondo. Stava con parole ad aprirle il desiderio suo, ingegnandosi persuaderle
Traitali d’Amore del Cinquecento.
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l’estremitá dell’ardor suo, offerendosi non tanto ubidiente e fedel servitore, ma di morire anco per lei qualunque volta le fosse stato in piacere, e che questo all’esperienza avrebbe conosciuto; insieme con molte altre parole usate a dirsi in casi simili. Onde ella subito gettò l’uno de’ suoi guanti in mezzo di quei leoni, e, volgendosi a lui, disse: — Se tu m’ami quanto suonano le tue parole e per me sei disposto a fare ogni cosa, va’, piglia il mio guanto ed a me lo riporta. — Il cavaliere, piú animoso che considerato, disponendosi compiacerla o morire, corse fra i leoni e riportonne il guanto alla sua donna crudele, senza esser punto offeso. ...
Raverta. Eccovi come il desio di piacere alla cosa amata lo incitò a fare cosí degna ed ardita impresa; ché, per acquistare onor solo, ciò non avrebbe fatto.
Domenichi. Certo, che la sua si puote chiamar pazzia, comeché bene gliene seguisse.
Baffa. Udite il rimanente. Ritornato a lei, le diede una guanciata, la maggior che potesse, dicendole appresso: — Impara, dama discortese, a non comandare a cavaliere nell’avenire cosa che agevole ed onesta non sia; — ...
Domenichi. Sian benedette quelle mani!
Baffa. ... e da lei, senza amarla piú, se ne parti.
Domenichi. Fe’ ufficio di gentiluomo.
Baffa. Uditemi ora. Circa questo caso nascono tre dubbi, dei quali voi mi direte il parer vostro. Il primo: qual maggior discortesia fosse, quella donna a comandargli si villana impresa ed onde si mosse, o quella del cavaliere amante a darle la guanciata? L’altro: vorrei sapere per qual cagione i leoni si rimasero d’offendere lo spagnuolo. Il terzo: avendola lasciata d’amare, se gl’increbbe, (conciosiaché non può essere che molto, prima, egli non l’adorasse), e se perciò doveva odiarla. Diretemi appresso: quale sia piú possente passione, amore o odio?
Domenichi. Alla prima io risponderò senza pensarvi. Veramente non è da paragonare l’una discortesia con l’altra, perché quella dell’uomo fu piú tosto opra pia e lodevole, a correzzione dell’altre donne ignoranti e senza intelletto.
Baffa. Deh, signor Lodovico, non vi fate le donne tanto nemiche a torto !
Domenichi. Facciano al piacer loro. Il buon medico è sempre tenuto al vero.
Baffa. Ditemi, non fu dunque villania batter la donna?
Domenichi. Signora mia, no.
Baffa. Non sapeva egli con miglior modo levarsi?
Domenichi. Forse che no. Perché, s’avesse lasciato passare quella occasione, lo sdegno anco se ne sarebbe gito; onde ella, piú fatta superba, un’altra volta gli avrebbe potuto comandare qualche altra impresa, la quale, senza forse, non gli sarebbe riuscita cosí miracolosa come fu questa.
Baffa. Risolvetevi, ché tutte le vendette, le quali si pigliano delle donne, sono discortesie; perché chi non vuole l’amicizia loro, oltra che per opra se non cattiva non può essergli nemico, le può lasciare. Quando egli avesse operato tale effetto con un altro suo pari, a fé si ch’io lo lodare?; ma con una donna non si deve, a ragione, punto lodare, anzi infinitamente biasimare.
Domenichi. Questamon fu vendetta, ma ricordo. E, quando anco vogliate ch’ella fosse discortesia, giá non mi negherete che l’atto primo della donna non fosse aperta villania.
Baffa. Egli è il vero. Però vi domando: qual fu maggiore?
Domenichi. Quella della donna, perché in altro non dovete stimare il cavalier discortese se non d’averle battuta la gota.
Baffa. E questo vi par poco?
Domenichi. Ma, se fece questa opra, la quale pur volete chiamar «villania», non fu di gran lunga maggior la cortesia, che li fece, d’andare a manifesto pericolo di morte? Perché vi piacerá compensare l’uno con l’altro effetto, e poi mi favellarete. Ma che quella della donna non fosse maggiore non si negherá mai: a mandare a morire chi, piú di se stesso, amava la vita di lei.
Baffa. Forse cosí d’improviso vi corse, che pur non ebbe tempo di dirgli che si rimanesse.
Domenichi. Questa non è buona ragione; imperoché, se ragionava seco, veduto il suo buon animo, se ciò avea fatto per
provarlo, ben poteva dire che il conoscere l’animo suo le bastava. Ma dite pure ch’ella ciò fece per levarselo dinanzi o in un modo o in un altro, perché s’avea pensato che non vi devesse andare, o che, andandovi, al tutto avesse a rimaner morto. E fu il mandar lui per il guanto come l’impresa dí lasón al vello dell’oro.
Raverta. Di grazia, lasciamo andare questa disputa, che assai se n’è detto, lo penso che costei piú tosto lo facesse per poco discorso e manco cervello, e fosse una di quelle belle semplici e senza ingegno.
Baffa. Ben vi so dire che voi e il Boldu séte d’una istessa opinione verso le povere donne; ma con tutto ciò avete di grazia della grazia loro. All’altro.
Raverta. A quale?
Baffa. Perché i leoni si rimanessero d’offenderlo.
Raverta. Che ne disse l’Ugone?
Baffa. Giudicò che gli perdonassero accioch’egli, tornando sano, facesse quella opra tanto lodevole ad essempio dell’altre villane e discortesi.
Raverta. Argutamente rispose, come fu sempre di suo costume, e, per tassar le donne, meglio non avrebbe potuto rispondere. Ma che ne dite voi, signor Lodovico?
Domenichi. Che ne so io? Per rispondere con arguzie, si potrebbe dire che Amore gli intenerí il core, accioché l’innamorato giovane adempisse il comandamento della sua ben creata giovane; o che l’improviso impeto suo gli spaventasse (che non è però credibile, essendo il leone fortissimo animale e molto ardito); e simili altre cose. Ma a voi, signor mio, che ne pare?
Raverta. Il tutto potrebbe essere; ma io per ragione stimo che lo spagnuolo fosse nato sotto il pianeta del sole, e tutto fosse solare, conciosiaché il leone teme ed ama questi tali. E che sia il vero, per attribuirsi il gallo al sole, il leone, nel primo émpito che ne vede uno, si spaventa, e questo si vede per prova. Oltra ciò, se vede uno non nòcergli, e che non sia famelico, sdegna andargli incontra, perché egli è proprio di si feroce animale il perdonare agli umili e nuocere ai superbi.
Baffa. Né per questo anco m’assicurerei, perché rari credo escano dalle loro unghie liberi.
Domenichi. Ed ora sovvienimi, a questo proposito, che il discreto e gentile spirito messer Bernardin Merato mi raccontò d’un leone che in Francia ebbe giá in sua possanza il divin Giulio Camillo, e punto non gli nocque.
Raverta. Apunto anch’io, che mi vi ritrovai allora presente, voleva narrarle questo caso; ma voi m’avete prevenuto e tolto fatica.
Domenichi. Non, per Dio, ch’io non arò tolto, perché meglio di me lo sapete dire.
Baffa. Ditelo voi, signor Ottaviano, poiché vedeste anco il tutto.
Raverta. In Parigi, essendo un giorno andato il Cardinal di Loreno, idolo de’ virtuosi, messer Luigi Alamanni e messer Giulio Camillo con alcuni altri signori e gentiluomini per vedere un leone ed una pantera, che erano insieme, poiché da una grata di ferro gli ebbero alquanto mirati, fu comandato che fossero spartiti l’un dall’altro. Onde i ministri ch’avevano cura di ciò, nel cacciare il leone da una stanza in un’altra, egli se ne usci per un’altra porta, e venne dove tutti questi signori erano. I quali, spaventati, subito fuggirono chi qua e chi lá, salvo messer Giulio Camillo; il quale, non giá per far prova di sé, ma per gravitá del corpo, che lo rendeva un poco piú tardo degli altri, ivi rimase, ché non puoté fuggire, e si fermò senza punto muoversi. Il re degli animali incominciò andargli d’intorno e fargli carezze, senza molestarlo altrimenti; onde fu poi cacciato al suo loco. Che direte di questo, perché non fosse morto? Non per altro fu stimato che restasse sano, se non per esser sotto il pianeta del sole.
Baffa. Questo caso non m’è niente spiaciuto. Ma resta che mi diciate l’ultimo: se al cavaliere increbbe averla lasciata e se l’odiava; e, odiandola, se pativa passione, facendomi chiara chi piú possa in noi, amore o odio.
Raverta. Io credo che non gl’increscesse pure un poco, percioché piú può in noi sdegno che amore, percioché quel caccia
questo. — Se pativa passione odiandola. — Credo che, si come in lui viveva, amandola, il disio di farle cosa grata, cosí allora dovea trovarsi, in quello, desiderio incredibile di nuocerle, congiunto a una inquieta passione di farle altretanto, e piú, in suo danno, come per lo adietro in utile avrebbe fatto.
Baffa. Qual giudicate dunque maggior passione: amore o odio?
Raverta. Generalmente parlando, dirovvi che grandissima passione non sia quella d’amore non si può negare, e sallo chi l’ha provata e di continuo prova. Ma che non sia maggiore l’odio, non è da dubitare, conciosiaché per Io piú, e quasi sempre, si vede odio nascere in loco d’amore, ma ben di rado ove è odio germogliare amore. Onde facile è da giudicare che piú potente sia il nemico che caccia l’altro. Però, non potendosi con altro cacciare amore che con lo sdegno, salvo chi non s’attuffasse nel fiume Solenno (se vero è che abbia virtú in sé di liberare d’amore chi si lava in quello), è di necessitá che s’accompagni con l’odio, il quale in sé doppia passion contiene: doglia dell’amore prima portato a quella persona, sdegnandosi d’essersi tanto invilito e piangendo il tempo perduto, onde sempre si rode. E, si come solamente la passion d’amore lo incitava a unire quel suo desiderio, cosí quella dell’odio lo guida a bramar vendetta non tanto in vita, ma ancora in morte. Come si vede di molti, che, vivendo i nemici loro, non si sono potuti vendicare; ma, poiché sono stati morti, ne’ suoi corpi hanno sfogata l’ira.
Baffa. Meglio era dunque al cavaliere non convertire il suo amore in odio, poiché la sua passione si fece maggiore.
Domenichi. Chi sa poi se l’odiava?
Baffa. Alle ragioni ch’egli dice, non può essere altrimenti.
Domenichi. Può anco esser di no, perché tutti gli sdegni e tutti gli amori non hanno sempre radici; ma ora egli parla della passione dell’odio. La quale alcuna volta è tanto potente, che i medesimi ch’odiano, non potendo trarre a fine le loro voglie, consumandosi dentro di sé, si rodono e muoiono. E, si come è maggiore l’amore che si cerca tener celato, non è
dubbio ch’ancora non sia piú potente l’odio in sé ritenuto. Che molti amanti convertano il suo. amore in odio, infiniti essempi ci sono e si veggono. Che l’odio si converta in amore, raro si vede. E però, senza piú in ciò volgersi, chiaro è piú potente esser la passione odiosa che l’amorosa. E guardinsi le donne, le quali, per cavarne diletto, bene spesso fanno accoglienze e mostrano d’amar gli uomini, e, quando poi conoscono essere amate, non usano piú buone parole, ma chiaramente dimostrano il cattivo animo loro. Ché se quello amore si viene a convertire in odio, come è di necessitá che continuando faccia, guai a loro! perché non è il piú crudele odio di quello dell’amante, quando cessa d’amare ed incomincia odiare; conciosiaché si pente di quanto ha mai fatto per l’amato. E veramente, sia di qual sorte si voglia amore, se si cangia in odio, non credo che sia il piú pestifero veneno al mondo. Che fiere parole credete che fossero quelle, e piene d’odio senza piú scintilla d’amore, d’Agrippina, madre di Nerone? Alla quale, essendo stato predetto che, vivendo, il suo figliuolo aveva da regnare, ma che l’ucciderebbe, ella rispose: — Sia imperadore e amazzimi, — non credendo che ciò potesse esser vero. Ché, quando il caso avenne, porse al percussore il ventre, dicendo: — Questo si deve ferire, che ha portato e partorito un simil mostro. —
Domenichi. Vedete anco di che sorte è l’odio degli amanti, quando, per sdegni o per gelosia, lasciano d’amare. Specchiatevi nel certaldese, nella novella dello «scolare», dove si vede come madonna Elena ne fu trattata, quando egli, sdegnato forte verso di lei, il lungo e fervente amore portatole subitamente in crudo ed acerbo odio trasmutò. Considerate anco quell’altra di quei tre giovani ch’amavano quelle tre sorelle: di quanta forza fu lo sdegno e quanto potere ebbe l’odio della Ninetta contro Restagnone, amato prima assai piú che la propria vita, ch’ella istessa consenti e volle esserne micidiale.
Baffa. Non so che mi dire. Ben si vede la potenza della passion d’amore essere stata tale, che infiniti, non potendola sopportare, hanno rivolto le mani in se stessi, poco prezzando la vita; come, non ha molto, che mi raccontò messer
Annibai Tosco da Cesena, gentiluomo raro, questo effetto occorso ad una leggiadra donna, il cui.nome per molti rispetti voglio tacere. La quale, non potendo piegare l’indurato core del suo amante, o, per meglio dire, che si mostrava indurato, perché smisuratamente l’amava, da lei non mancò di volere, sciogliendo l’anima dal corpo, andare a trovare gl’innamorati spiriti. Imperoché, essendogli venuto alle mani un pugnale, con animo ardito con quello si percosse il petto, di maniera che tramortita gli cadde innanzi, senza altro dirgli che queste parole: —Non m’incresce il morire, ma duoimi ch’io ti lasci.—
Domenichi. Dunque ella mori?
Baffa. Non mori giá, ma corse bene infino sulle porte, e sopra il limitare trovò scritto non esser giunto il termine assegnato. Imperoché ogniuno desperava della sua salute.
Domenichi. Ben si può dire che questa fosse potente passion d’atnor vero, e si può notar per miracolo.
Raverta. Senza dubbio non si può negare, perché piú manifesta prova non credo che si potesse vedere. E, se aveniva, ch’io non vorrei per altra cosa di valore, e come fermamente si giudicava, che fosse morta, si ardita opra ed animo cosí invitto non restava senza degna ed eterna memoria, non per quanto si fossero estese le forze mie, ch’assai debili sono, ma per quanto gli ingegni dei piú chiari e virtuosi, ch’oggi tra noi sono, avessero potuto. Ma lodato Amore che cosí sia successo!
Domenichi. Lasciamo pure questi fatti da parte, perché quanto possa la passione dell’odio, oltre ch’assai ben lo avete dimostrato, si può considerar anco in Cleopatra. La quale, per l’odio che portava ad Augusto e per fuggire d’andargli nelle mani, con due venenosi aspi le poppe si tossico, contenta piú tosto di morire che di vedere chi tanto odiava. E tanto fu l’odio che Marco Antonio portava a Cicerone, che, cosí morto com’era, si fece mettere il suo capo su la tavola, per saziar l’animo suo di tale spettacolo odioso. E Fulvia, sua moglie, gli trasse la lingua, oltraggiandolo come se vivo stato fosse. Infiniti essempi vi potrei raccontare, i quali io taccio per esser chiarissimi e noti.
Baffa. Tacciansi adunque, ch’a questo modo, essendo piú potente la passion dell’odio che quella d’amore e scacciando l’odio l’amore, si come piú gagliardo di lui, e per altri effetti, meglio sarebbe che non ci fosse Amore.
Domenichi. Questo non dirò giá io, ch’a farne fede che sia utile e necessario, fin da principio di questo ragionamento, dal signor Ottaviano l’avete potuto comprendere.
Baffa. È vero. Ma io desidero che piú volgarmente e piú naturalmente me ne ragionate il vero, e rendendomi certa: se sarebbe meglio o peggio se non vi fosse Amore. Perché, quantunque egli sia cagione d’infiniti beni, veggio anco eh’è principio ed origine d’infiniti mali, come mi dá l’animo di farvi vedere. Imperoché, se bene il signor Raverta ha detto alquanto della bontá sua, non però allora gli volsi repugnare, ma tutte le sue ragioni lasciai passare senza contrasto.
Domenichi. Spazioso e largo campo mi date a coltivare, nel quale s’io vorrò porre quelle sementi che si puon mettere e si convengono, moltiplicando come fanno, da me solo non sarò sofficiente a poterne cogliere il frutto. Ed in profondo pelago con picciola barchetta me, male avezzo nocchiero, cercate di mettere; onde poco mi dilungherò dalla riva né ardirò d’entrare cosí di leggiero nel mezzo, come hanno fatto degli altri piú di me pratichi ed assicurati da migliore e piú saldo legno che non è il mio, troppo debile e frale. Si che, se parcamente di cosí ampia materia io ragionerò, m’avrete per iscusato, ché la grandezza sua mi fa temere di smarrirmivi dentro. E però solamente son per dirne quel poco ch’ai parlar nostro sará mistiero e non si potrá tacere, tanto piú che molti altri, via di me piú degni, a pieno n’hanno parlato e scritto quanto parlare e scrivere se ne puote.
Baffa. Cosi non voglio io; anzi desidero che non ne lasciate adietro alcuna parte, cercando di farne capaci del vero.
Domenichi. Giá non volete ch’io faccia piú del poter mio!
Baffa. Non giá.
Domenichi. Or lodato Iddio! Amore, dignissima madonna, non sará mai cagion d’alcun male, se dirittamente sará Amore.
E mi dubito che piú tosto non ricercate ciò, non perché dubbio alcuno abbiate, ma per tentarmi. Conciosiaché ciò che viene da Dio ed è in Dio non può essere se non perfetto e buono. Se in Dio è Amore, perché vogliamo dire che non sia buono? Perché non lodarlo, ché ne faccia partecipi di quel eh’è in lui? E se non fosse Amore, giá non saremmo partecipati della sua bellezza né conosceressimo chi ne ha creati; e, mediante quello, che in noi come principal grazia e dono d’iddio s’infonde, la riverenza che portiamo a’ padri e ch’eglino portano ai figliuoli, per tenerezza e per essere loro fattura, solamente si conosce. Non sarebbe santo il matrimonio, s’Amor non congiungesse Poneste voglie insieme. E, se non fosse Amore, in qual guisa gli animi e le menti nostre potrebbono contemplare e cercare d’essere fatti partecipi di quella perfetta deitá e vera bellezza, che negli amanti manca? Non è da dubitare Amore non solamente esser buona, ma necessaria cosa. E chi piú (per non estendermi molto, parlando del mondano e naturale amore), chi piú inalza le nostre basse menti Ch’Amore? Chi è cagione d’unire due anime insieme se non Amore? Egli è potente, egli è buono, e di piú meritamente si chiama «santo». E, se l’amicizia è buona e necessaria, medesimamente, essendo Amore fonte e mantenimento di quella, egli ha ad essere ottimo e piú che necessario.
Baffa. Poich’avete fatto alquanto di pausa, per darvi piú da rispondere: chi contrapesasse P inimicizie, i mali, gli affanni, e, per lo piú, le violenti morti che ne risultano (lasciando da canto Pamor di Dio verso noi, e cosí il nostro verso le cose celesti), non so quali fossero maggiori: o i benefici che da lui si conseguono, o i danni di ch’egli è cagione, ché piú spesse sono le perdite che i guadagni e piú continuo il danno che l’utile.
Raverta. Si, chi risguardasse all’amor ferino; ma non s’intende di quello, il quale piú tosto si chiama «luror bestiale» che «amor perfetto».
Baffa. Non so che dirmi di queste perfezzioni, perché io reputo Amore cosa amarissima, e qualunque ama può dire che mille volte il di si muoia. Credo anco ch’a gran torto vi sia
aggiunta quella prima lettera «A»; conciosiaché piú tosto sia cagione del morire nostro che del viver lietamente. Perché, oltra gli altri tormenti che ne fa patire, è cagione che mettiamo da parte non solamente le cose utili e lodevoli e s’appigliamo alle dannose e biasimevoli, ma che meno s’ami il Re dei cieli, come dimostra il Petrarca lá dove dice:
Questi m’ha fatto men amare Dio, eh’ io non dovea, e men curar me stesso,
e tutto quel che segue. Ed era pure degli affezzionati d’Amore. Però, eh’Amor sia di molta utilitá né bontá, ne sono in dubbio. Tanto piú, ch’ora leggo Piramo e Tisbe violentemente esser corsi a morte; lá nel mare si dice Leandro ed Ero essersi affogati ; odo Didone essersi amazzata; ed infiniti uomini e donne per amore esser male arrivati, che lungo sarebbe a raccontare, e tutti i libri ne son pieni. Che si dirá di tante ruine di ch’egli è stato cagione? Perché andò Troia per terra se non per l’amor di Pari e d’Elena? Per chi perdé Sansone, il forte, la sua fortezza se non per amar troppo Dalida, onde poi ne segui a lui e a’ filistei perpetuo danno? Chi fu cagion della morte d’Oloferne se non il troppo amar le bellezze di Giuditta? E Saiomone, che un solo Iddio conosceva ed adorava, per vano amor di piú femine non fu indutto ad adorar diversi idoli? Alessandro magno, che tutto il mondo vinse, non si lasciò poi vincere ad Efestione, alla quale portò tanto amore? Non fu giá cosa buona, né si gli conveniva. Chi tanti altri imperadori e re e donne d’alto affare ha condotto a vergognoso fine? Non altro, per certo che soverchio amore. Però chi ben considerasse alle infinite perdite, alle gran ruine, alle violenti morti, all’opre vergognose ed ai servili effetti, credo che giudicarebbe che meglio fosse non vi essendo Amore.
Domenichi. So ch’avete concio Amor per le feste. Molto devete essere stata ed esser crudele voi, madonna, e poco compassionevole nei casi d’amore, benché nel volto, s’io non m’inganno, non vi vegga cosí fiera, anzi mostriate pur la piú dolce cosa del inondo.
Baffa. Seguite pure il vostro ragionamento, senza altrimenti ricercare quel ch’io mi sia o ciò ch’io paia.
Domenichi. Taccio. Ma non ho potuto non dirvi queste quattro parole, poiché gli avete opposto tanto, ch’io non so qual maggior crudeltá si fosse potuta usare in un traditore, che tutta una cittá avesse messa ad uccisione e tutto il vostro parentado sotto crudelissimi tormenti ucciso. Né credo ch’ai piú tristo e reo malfattore d’oggidí si potesse imputare maggiore iniquitá né piú scelerati difetti di quelli che in un subito voi avete apposto a cosí utile, a cosí degna ed a cosí santa cosa. Onde io temo non perciò v’intravenga qualche danno; come fece ad Omero, il quale, per cantar contra Amore, perdé il lume degli occhi. 11 medesimo occorse a Stesicoro per aver vituperato l’amore di Paris e la bellezza d’Elena.
Baffa. Non è piú quel tempo, e poi ogni volta non si piglia vendetta. Ma, quando ciò m’accadesse, imiterei Stesicoro, e subito canterei la palinodia e mi ridirei di quanto ho detto contra di lui, onde mitigarebbe l’ira sua e mi ritornerebbe nel primiero stato. Perché chi è subito all’ira, tosto anco la raffrena.
Domenichi. Anco ve ne burlate! Ma sia con Dio. Spero, cosí brevemente rispondendovi, farvi udire, senza che egli altrimenti vi punisca, di quanto contra lui a torto avete detto. E, perché dite ch’ogniun, ch’ama, mille volte muore, non considerate che da quel morir volontario ne riesce una contentezza inestimabile, una dolcezza infinita ed una piú soave vita; perché i desidèri d’Amore tormentando dilettano, il dolce dente della concupiscenza morde, imperoché disiando si spera e conseguendo si gode. E se non fosse amore, come si conoscerebbe l’odio? Benché mi potreste rispondere: — Se non vi fosse amore, non nascerebbe odio, eh’è suo contrario. — Ma talora anco l’odio si cangia in amore, e, senza il suo contrario, non si può operare né conoscere effetto che buono sia. Le paci si conoscono per le guerre. E di qui nasce che l’infanzia non è stimata felice, perché, se non paté male, non partecipa anco del conoscimento del bene. Perché necessaria cosa è Amore, il quale se non vi fosse, non
si generarebbe. Imperoché, se Amore due separati corpi non congiungesse atti a generare loro simili, alcuno mai non nascerebbe. Benché mi potreste dire: — Se non si nascesse, non si morrebbe; dunque meglio è il non nascer mai. — Oh, buona ragione! Ma non sapete, poi, che ’l mondo verrebbe a fine? E però è necessario amore ed odio, cosí anco il nascere e ’l morire, si che, mancando l’uno o l’altro, peggio si starebbe. E, perché anco Edipo uccidesse il padre ed Oreste la madre, sarebbe meglio il non generar figliuoli? Certo, no. Non è cattivo il ferro né il fuoco, né meglio sarebbe se non vi fosse; nondimeno con l’uno s’ammazzano gli uomini, con l’altro s’ardono le cittá e le case; e questo perché s’adopra in male. Ma chi alle cose necessarie se ne serve, è buono, né senza si può fare, anzi è necessarissimo al viver nostro. Cosi è anco Amore; ché, quando è vero e dritto, Amore è buono e santo, né meglio si viverebbe senz’esso; quando tende all’inonestá, non è piú amor, ma rabbia. Che se con occhio sano riguarderemo, chi ne tiene uniti, altro che Amore? Chi ne rende pacifici se non Amore? Chi fa questa santa repubblica cosí eterna, altri che Amore? Che faccia poi avere men riverenza a Dio, l’amor vero non lo fa. E, benché l’innamorato poeta cosí dicesse allora, lo fece per argomentare con effetto di qualche importanza; ma poco dapoi riprovò quanto avea detto, dicendo:
Ancor (e questo è quel che tutto avanza) da volar sopra il del gli avea dato ali per le cose mortali,
che son scala al Fattor, chi ben l’estima; ché, mirando ei ben fiso quante e quali eran virtuti in quella sua speranza, d’una in altra sembianza potea levarsi a l’alta cagion prima;
onde dimostra che, contemplando queste bellezze mortali e terrene, si può con la mente giungere per mezzo d’Amore a quelle sempiterne e celesti. Perché, amando, ben si può amare Iddio, e da questa bellezza figurare l’immortale. Ma in quei versi, ch’avete detto di sopra, se medesimo accusa, dimostrando che
un tempo fu che non avea perfettamente amato. Ma Pamor vero, non solamente non ne toglie d’amare e servir Dio, ma piú n’infiamma e ne guida, perché veramente è scala alla beltá divina. E ben disse «scala», ché meglio non poteva dire, perché, di grado in grado, si va poggiando dal piú al meno imperfetto-, tanto che s’arriva al perfetto, ed indi dal piú perfetto alla divinitá. Onde ben dice l’apostolo Paolo: «Le cose insensibili di Dio per quelle sensibili si riguardano». E cosí dalla bellezza corporea si passa alla intellettuale e celeste; cosí si perviene a figurar l’alta cagion della vera bellezza, eh’è L io; e tutto per mezzo d’Amore.
Baffa. Si, lo ha detto una volta sola; e però, per questa sola dimostrazione, volete ch’egli abbia affermato che sia buona cosa?
Raverta. Anzi infinite. E, fra l’altre, non lo dimostra chiaramente in quel sonetto:
Quando fra l’altre donne ad ora ad ora?
Baffa. Che vi dice?
Raverta.
E dico: — Anima, assai ringraziar dèi che fosti a tanto onor degnata allora.
Da lei ti vien l’amoroso pensiero, che, mentre ’l segui, al sommo ben t’invia poco prezzando quel ch’ogn’uom desia.
Da lei vien l’animosa leggiadria, ch’ai ciel ti scorge per destro sentiero, si ch’io vo giá della speranza altiero.
Baffa. Che volete dir per questo?
Raverta. Non so che volete ch’io mi dica, né ciò che volete risponder voi. Eccovi che manifestamente vi dimostra di quanto utile sia Amore, perché, mentre si vede tanta bellezza, come di sopra v’ho detto, in cosa terrena e mortale, considerando poi quella di Dio sempiterna ed immortale, si desta nell’animo uno ardentissimo desiderio di andare al cielo, per contemplare la detta inestimabile e singoiar bellezza. Come anco nell’Alighieri, quando dice:
Lo raggio de la grazia, onde s’accende verace amor, e che poi cresce amando, multiplicato in te tanto risplende, che ti conduce su per quella scala, u’ senza risalir nessun discende.
Baffa. Bisogna però poco prezzar quel ch’ogni uom desia.
Raverta. Non è dubbio, conciosiaché quella è libidine e non amore. Però tutti gli essempi di favole e d’istorie, che avete citato, son vani; perché quei perfettamente non hanno amato, anzi lascivamente e senza freno, mossi da eccessiva libidine e da desiderio di vanamente possedere non la vera bellezza, ma l’ombra sua (percioché «ombra» si chiama il corpo), si sono ridotti a vituperoso e dannoso fine. Perché chi altro die’ ragione alla lor morte se non i suoi disonesti voleri? Si che quel non fu Amore, ma specie di rabbia e di furore. Ch’Amore è beatissimo, per esser belio e buono. La prova è chiarissima.
Baffa. Prima che passiate piú inanzi, desiderando io conoscere questo perfetto amore, avrei caro che me lo dimostraste e facestemi meglio conoscere la sua bontá.
Raverta. Quel che meglio e di piú bramate vedere ed udire, per ora mostrivi il signor Domenichi o il Betussi, il quale ragionevolmente non può molto indugiare a comparire; ché io, oggimai lasso, desidero lasciar cosí onorato peso a chi meglio di me sopra gli omeri del suo ingegno lo possa sostenere. L’ora è tarda, ed io son di maniera in tanti intrichi amorosi involto, per obbedir voi, cui non posso negare alcuna cosa, ch’io non veggo ordine come io possa con onor mio uscirne. Nondimeno, oltra lo avervi ubbidito, questo anche mi consola, che io, sendomi accorto del mio soverchio ardire e del poco valore, senza passar piú avanti, a chi piú di me vale ho lasciato l’impresa. Chiedendo a voi, al signor Lodovico e ad altri, se per. aventura alcuno altro avesse udito quanto ho tutt’oggi poco avedutamente parlato, perdono. Pregandovi a far si che quanto intorno Amore ho detto, si come giá m’avete promesso, resti tra queste mura, accioché io non diventi favola del vulgo.
Domenichi. Sia pure a me perdonato che, si come persona
di poco valore ch’io sono, non m’ho aveduto dell’error per me commesso in por la lingua in queste cose, le quali, come bene n’avete dimostrato, sono da voi.
Baffa. Poi ch’ambidue avete detto, ora a me tocca dire. Vizio e poca modestia sarebbe la mia se io di novo con preghi volessi indurvi, a lume di torchi, far della sera di chiaro, oltre ch’io vi conosco quasi che stanchi; perché due volte, si nel principio del vostro ragionamento, come dal mezzo in poi, che piú oltra non volevate passare, m’avete compiaciuto. Pregovi solo che perdoniate l’incomodo ch’io v’ho dato al desiderio mio, e, quando senza vostro disagio sia, che vogliate ritornare a me, per finir d’insegnarmi quel ch’avete incominciato. E, accioché abbiate causa di venir piú tosto che forse non fareste, non vi lascierò partire senza qualche carico di nuovo pensiero; onde vi proporrò una nuova quistione sopra la risoluzione di un dubbio, alla quale pensando finché piú vi rivedrò, avrò piú quiete, con credenza di esserne meglio ragguagliata.
Domenichi. La domanda è onestissima, poiché ci date agio di pensarvi; e però, tutto che fosse mezza notte, si deve ascoltarvi .
Baffa. L’altrieri mi disse pur l’onorato messer Gabriel Giolito che è stato un gentiluomo suo amicissimo, il quale, innamorato d’una gentil madonna, godeva dell’amor suo, e lungo tempo si sono goduti insieme. La quale, desiderando (che che se ne fosse, ché non so, la causa), di maritarsi, piú volte, ragionando seco, gli avea aperto questo suo pensiero; ed egli, per mostrare di curar il ben della giovane, o pur perché poco l’amasse, o veramente per mostrarsi d’animo altiero (eh’ io non so il perché) le avea detto che. ogni fiata che le se offerisse partito onesto ed a lei conveniente, che ne sarebbe contentissimo. Stando la cosa in questi termini, e piú volte avendone lo amante ragionato col Giolito e dettole, cosí in presenza di lei come in assenza, che avrebbe avuto di piacere che le si fusse offerta alcuna buona occasione onde la donna avesse da chiamarsi contenta, egli, come vero amico, pensando che poco fusse da lui amata, lodava questo pensiero e lo confortava di si lodato proponimento. È occorso
che la occasione è venuta ed un partito conveniente se le è offerto; onde, il tutto comunicato allo amante, egli, senza veruna resistenza (che veramente, se l’amava, doveva repugnarvi), ha consentito che a lui si sia tolta ed in matrimonio data ad altri ; e cosí se ne è privato.
Domenichi. Che dubbio vi nasce?
Baffa. Aspettate che ora ve lo dirò. Fatto questo, ha incominciato poi a dolersi col cortese messer Gabriel, dicendo che, se tutte quelle fiate che seco comunicava questo suo pensiero non lo avesse confortato a far ciò, che egli mai avrebbe consentito, e cosí che ora non ne sarebbe privo. Ond’egli, rispondendogli, gli ha detto che pensava che poco si curasse di quella tal donna, e che credeva che poco la amasse, come crederebbe ogniuno, e che, essendo amante, nessuno meglio di lui poteva sapere l’intrinseco del suo cuore, e che non si deve doler d’altri che di se stesso.
Raverta. Cosi pare a me.
Baffa. Il dubbio, che messer Gabriel mi dimandò e che io propongo a voi, è questo: se egli amava questa donna o no.
Domenichi. Io giudico che poco la amasse, e che la maggior parte sará di questa opinione; e, se l’ora non fusse cosí tarda, con fortissime ragioni ed argomenti or ora ve lo dimostrerei, e mi offero sostentar questa parte. Perché chi sará quello, che abbia un ricco e bel gioiello che gli sia caro, che ne faccia altri possessore? E poi d’una donna che si ami!
Raverta. Non passiamo piú oltre, perché io son di contraria opinione, e giudico che la amasse di perfetto amore, avendo caro piú il ben dell’amata e l’onore che il proprio diletto.
Baffa. Cosi mi piace, che siate di contrario parere, ché io, avutone le ragioni da amendue, ne potrò poi render certo il buon Giolito, il quale allora si parti senza risoluzione, per esservi sovragiunte altre persone che turbarono questo discorso.
Domenichi. Cosi si fará. Ma dateci oggimai licenza, signora Francesca.
Baffa. Andate felici. Ma non vi si scordi la mia promessa.
Domenichi. Cosi si fará. APPENDICE
i
All’illustrissimo signor VICINO ORSINO di Castello Giuseppe Betussi
Quanto abbiano avuto di potere appresso di me i preghi amorevoli di Vostra Signoria illustrissima, i quali mi saran sempre in loco d’espresso comandamento, ne fa fede il presente volume ch’io le intitolo. Né si creda alcuno ch’io m’abbia stimato sofficiente a ragionare di si profonda materia con dimesso stile, perché sarebbe in errore. Ed io non sarei stato ardito a scriverne, se l’autoritá di quella non m’avesse fatto tale, reputandomi persona che sapesse compiacere al desiderio suo. E veramente ch’io mi reco a maggior onore l’esser conosciuto ignorante e quel ch’io sono, compiacendo a lei, che se tutte l’accademie degli uomini virtuosi, che oggidí vivono, m’avessero giudicato dottissimo. Io non dubito che molti saranno (se pur molti quella mia fatica leggeranno), i quali si faranno befle del mio ardire: chi riprenderá lo stile e quale tasserá l’invenzione. A costoro non risponderò io particolarmente, perché tante risposte sarebbe mistiere far loro quanti saranno i lettori. Solamente a quegli mi rivolgerò che forse mi riprenderanno d’avere scritto d’Amore, avendone prima tanti onorati e saggi spiriti, inanzi di me, cosí dottamente e ragionato e scritto. Ed io dico loro che, se ben consideraranno i miei scritti, troveranno in quegli cose nuove e non mai piú dette, le quali,
se forse non sono mirabili né ingegnose, sono elle almeno quasi uno sprone a contemplare piú adentro nei segreti d’Amore. E benché io, ragionando di lui, non abbia saputo ritrovare il vero, potranno forse degli altri piú sottili investigatori degli amorosi misteri eh’ io non sono, désti dal mio garrire, penetrare alla cognizion di lui con gli intelletti loro. Ma, quando altro non faccia in mia difesa, scusimi appo ciascuno e la poca etá mia e ’l desiderio che io ebbi sempre, il quale è venuto crescendo con gli anni, di non vivere indarno, ma di lasciare alcuna memoria, benché breve, nell’orecchie degli uomini, del mio nome. So che Vostra Signoria illustrissima lo degnerá leggere; il quale io ho per maggiore e piú onorato guiderdone che venir me ne possa. Perché, non desiando piú oltra, di quello m’appagherò ed insieme della sua grazia, e non avendo dubbio che, per esser cosa di me, suo affezzionatissimo servitore, che gli abbia a piacere. Come anco non spiacerá al molto magnifico messer Vincenzo Calbo, essendo egli, per virtú dell’amicizia che ha con Vostra Signoria illustrissima, quasi una gran parte di lei; e parimente sará carissimo al mio capitan Camillo .Caula, illustre splendor della milizia, per l’afi’ezzione che egli a quella porta, ed io a lui. E, confidandomi nel favor suo, avrò poca cura del mordere altrui. A quella bacio le mani e la prego a conservarmi nella grazia sua, raccomandandole la servitú mia.
Alti x di febraio mdxluii, di Vinegia.
II
Al magnifico
SIGNOR CAVALIER LUIGI CASSOLA Giuseppe Betussi
Troppo diseguale è il cambio ch’io fo con Vostra Signoria. Perché quella mi fé’ dono della Urania sua, gravida di molti vaghi e leggiadri figliuoli, degni d’Amore e di lei; ed io le mando ora a leggere un mio dialogo sterile e senza frutto, il quale tanto conviene all’ingegno ond’egli è uscito, quanto ch’egli disdice a venire in quelle mani ove pur viene. Vostra Signoria, che è nobilissima e cortesissima, degnandosi talora leggerne alcuna riga, fará parte, all’opra indegna d’ogni favore, di quella virtú e gentilezza eh’è infinita in lei; si come il sole comparte del suo splendore, senza punto perdere di quello, a ciascun loco, per oscuro e negletto che sia. Forse averrá, per mia buona ventura, mentre Vostra Signoria sará intenta ai dolci effetti d’Amore, i quali io ho a pena nel mio ragionamento accennati, eh’Ella potrá scordarsi o sentir meno amare le punture della infermitá, noiosa compagnia dell’etá sua. Il che cosí pur m’incontrasse, come io mi crederei d’aver bene impiegato ogni mio studio e ciascuna mia fatica, spesa d’intorno a si disutil componimento! Ma il mio desiderio non sará in tutto vano, venendo dall’animo ch’io ho fuor di modo affezzionato al ben suo. E però son certo che s’appagherá di quello e me ne vorrá render guiderdone. Il quale voglio che sia il conferire queste mie ciance col signor Anton Maria Braccioforte, suo carissimo nipote e mio onorato fratello. Né saprei cosa desiderare che in piú onor mi risultasse di questa. E però, senza piú, all’uno ed all’altro fo riverenza e bacio le mani.
Di Vinegia.
III
1
SONETTO
di Lodovico Dolce a Giuseppe Betussi
Betussi, mentre iniqua e fera stella a me d’esser con voi vieta e contende, del vostro alto valor tutto m’accende la fama, che fin qui suona e favella.
Questa m’apporta dolce, alta novella del bel lavor, cui la man vostra intende, per aggradir il mondo che lo attende, e far la nostra etate adorna e bella.
Oh fortunato! Ché, di lode vera cinto e con salde piume alzato al volo, vivrete ancor fra noi mille e miU’anni.
Io pur, lontan da la mia patria altera, men vo lungo la Brenta afflitto e solo, lagrimando d’Amor e de’ miei danni.
2
RISPOSTA
di Giuseppe Betussi a Lodovico Dolce
Dolce, provo io fortuna acerba e fella, che ’l suo venen tutto a’ miei danni spende e, togliendomi a voi, tanto m’offende quanto ornate la nostra alma favella.
Ma io tenuto sono eterno a quella fama che del valor vostro risplende, e ’n ogni parte insidie e reti tende, facendo ogni cor servo, ogni alma ancella.
Beato voi, poi che, di gloria intiera coronato, spiegate illustre volo, a la morte facendo aperti inganni.
Io, segno ai colpi d’aspra sorte e fiera, qui talor nel sen d’Adria mi consolo, e tempro, come io posso, i gravi affanni.