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i - il raverta 59


Raverta. So che avete avuto che fare per un poco.

Domenichi. Ma ciò che importa? Chi non vuol leggere le cose, nessuno lo sforza.

Raverta. È ben vero, e chi ha faccende deve attendere agli affari e non a leggere simili cose.

Baffa. Se questa lettera fosse traposta insieme con alcune altre o in qualche ragionamento, come si farebbe a non leggerla?

Domenichi. Lasciarla stare, trapassando due o tre carte, perché, ad ogni modo, questa non interromperebbe niente, essendo fatta da per sè. Ma perché mi dimandate ciò?

Baffa. Dirovvi: conosco ch’è una cosa lunga, onde vorrei sapere, quando ciò occorresse, che poter rispondere a que’ tali che la biasimassero.

Domenichi. Ditegli che, quando ch’ei la fece, era scioperato e che non avea da scrivere lettera alcuna per suo padrone, e che voi, prima di loro, vi sète accorta ch’era lunghissima; nondimeno avete voluto che sia lasciata così, perché, se quei tali saranno affaccendati, si troveranno degli spensierati ancora. Così non potranno dire né accorgersi di cosa che noi abbiamo detto né ci siamo accorti prima di loro; e vadano ad apparare; ch’egli ha saputo far buona scelta di molti uomini virtuosi.

Baffa. Così farò. Ma ditemi: vi sète accorto come tra gli uomini virtuosi ha dato certe lode ad uno, onde copertamente non poco lo biasima?

Domenichi. Sì, sono.

Raverta. Anch’io me ne sono aveduto.

Baffa. Basta, non ne diciamo altro, perché gran fatto non sará che molti se n’aveggano. Ma quel che importa è che questi tali, come è staio detto dianzi, sono della buccia di Cencio Dini, contadino del luogo di Santa Croce, diocese di Lucca, indegnamente cancelliere del reverendissimo Cardinal Gambara, legato di Lombardia; il quale gaglioffo, offra l’essere infame da nativitá, villano e furbo, è il piú arrogante, ignorante e furfante che calchi terra.

Raverta. Conoscete voi, signora, questo vituperio degli uomini e vergogna del mondo?