chiuso ne la mia mente inferma e vile,
a queste carte dar gloria ed onore,
scrivendo i pregi onde voi sète altiero,
tutto ch’a par di voi sia lo mio stile
basso, rozzo ed umile.
Ma non so incominciar, non sono ardito
con cosí debil legno entrar ne l’onde,
troppo larghe e profonde,
dei vostri onori, abbandonando il lito:
scorgimi, Febo, e voi, sante sorelle,
mostratemi a cantar cose sì belle.
Ben può il gran Tebro a le sue lodi antiche,
a le vittorie, a le palme, ai trofei,
ond’egli è degno d’immortal memoria,
benché sia padre a molti semidei
ed abbia al nome suo le stelle amiche,
propor novella ed onorata gloria,
materia ad ogni istoria,
che nato sia d’intorno le sue rive
il piú bel germe e la piú nobil pianta,
di cui ogni lingua canta,
ogni intelletto pensa, ogni man scrive.
Quel, di ch’io parlo, è ’l caro signor mio,
vero amico degli uomini e di Dio.
Roma, s’avesti mai figlio onorato
fra tanti di cui vive il grido ancora
e vivrá mentre il ciel girerá intorno,
questo uno è ’l mio Vicin, quel che t’onora,
che ti promette il tuo primiero stato;
questo anco ti torrá vergogna e scorno,
e ogni tuo colle adorno
fará, come mai fu, di verdi allori;
per costui gli occhi tuoi dai gravi lutti
tosto saranno asciutti,
veggendol cinto il crin di mille onori;
e fia la tua ben lieta e dolce sorte,
giovin tornando, omai vicina a morte.
Deh, perché quanto è in voi, signor invitto,
raccolto da larghissimo pianeta,
per gradir gl’infiniti merti vostri