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Baffa. Né per questo anco m’assicurerei, perché rari credo escano dalle loro unghie liberi.
Domenichi. Ed ora sovvienimi, a questo proposito, che il discreto e gentile spirito messer Bernardin Merato mi raccontò d’un leone che in Francia ebbe giá in sua possanza il divin Giulio Camillo, e punto non gli nocque.
Raverta. Apunto anch’io, che mi vi ritrovai allora presente, voleva narrarle questo caso; ma voi m’avete prevenuto e tolto fatica.
Domenichi. Non, per Dio, ch’io non arò tolto, perché meglio di me lo sapete dire.
Baffa. Ditelo voi, signor Ottaviano, poiché vedeste anco il tutto.
Raverta. In Parigi, essendo un giorno andato il Cardinal di Loreno, idolo de’ virtuosi, messer Luigi Alamanni e messer Giulio Camillo con alcuni altri signori e gentiluomini per vedere un leone ed una pantera, che erano insieme, poiché da una grata di ferro gli ebbero alquanto mirati, fu comandato che fossero spartiti l’un dall’altro. Onde i ministri ch’avevano cura di ciò, nel cacciare il leone da una stanza in un’altra, egli se ne usci per un’altra porta, e venne dove tutti questi signori erano. I quali, spaventati, subito fuggirono chi qua e chi lá, salvo messer Giulio Camillo; il quale, non giá per far prova di sé, ma per gravitá del corpo, che lo rendeva un poco piú tardo degli altri, ivi rimase, ché non puoté fuggire, e si fermò senza punto muoversi. Il re degli animali incominciò andargli d’intorno e fargli carezze, senza molestarlo altrimenti; onde fu poi cacciato al suo loco. Che direte di questo, perché non fosse morto? Non per altro fu stimato che restasse sano, se non per esser sotto il pianeta del sole.
Baffa. Questo caso non m’è niente spiaciuto. Ma resta che mi diciate l’ultimo: se al cavaliere increbbe averla lasciata e se l’odiava; e, odiandola, se pativa passione, facendomi chiara chi piú possa in noi, amore o odio.
Raverta. Io credo che non gl’increscesse pure un poco, percioché piú può in noi sdegno che amore, percioché quel caccia