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i - il raverta 51


Raverta. Certo ch’io voglio; ma pensava ora a questa lettera che avete detto: non è ella quella nella quale lo consiglia a non andarsene a Roma e lo conforta a venirsene a Vinegia per alcun giorno a piacere? Onde poi gli nomina molti uomini virtuosí che ci sono, da lui tenuti in somma riverenza e molto apprezzati.

Baffa. Ella è dessa.

Domenichi. Maravigliomi che dall’uno o dall’altro di loro non l’abbia veduto.

Baffa. Egli la fece appunto in quel tempo che voi eravate in viaggio per venire a Vinegia, tanto che voi per alcun modo non ne avete potuto aver notizia.

Domenichi. M’avete posto un desiderio incredibile di vederla.

Baffa. Mostrerovela ben io quando vorrete, perché io n’ho copia.

Domenichi. Vorrei ora.

Baffa. Ora non voglio io, ché pure troppo tempo abbiamo perduto, e tanto ch’io temo non potere a pieno essere raguagliata di quanto desidero sapere d’intorno Amore.

Domenichi. Poiché tanto siamo riposati, per grazia, non vi sia noia lo aspettare fin che io la vegga e subito la legga.

Raverta. Compiacetelo, signora, in cosa di sí poco momento.

Baffa. Eccola, poiché pur cosí volete.

Raverta. Leggete, signor Lodovico, che anch’io v’oda.

Domenichi. «Al riverito messer Antonfrancesco Doni». «Chi vi consiglia, fratello onorando, a lasciar Piacenza, per andare in corte e poi a Roma, dove la virtú non è stimata, i buoni costumi sono cacciati ed il ben vivere è odiato, non credo che vi sia punto amico. Né penso che voi siate di sí corrotto giudicio; perché sapete ben che, oltra il farvi di libero servo, vi bisognerebbe anco di sincero diventar simulatore, di buon tristo, di dotto ignorante e di gentil villano. E, volendovi mantenere in grazia del clero, vi sarebbe di mistiero far tutto il contrario di ciò che si conviene a un virtuoso vostro pari. Imperoché da loro non sono amati né avuti cari altri che gli apportatori dei propri diletti, non s’apprezzano se non