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8 trattati d'amore del cinquecento


Raverta. Buona ragione è la vostra. Onde eccovi che non la lasciaremo a questo modo. Ed accioché serva piú salda ed intiera conclusione, porremo inanzi quella voce «stimata», «conosciuta», la quale si riferirá a Dio, conoscitor di tutte le cose delle quali non si ha certa cognizione, ch’amando, benché non siano, stimiamo belle.

Baffa. Voi avete fatto una disputa e gli avete dato non so che diffinizione in generale, e ciò che vi concludiate per me anco non lo so.

Raverta. Troppo correte in fretta. L’abbiamo partita, ed ora l’uniremo e diremo in questo modo: Amore è uno affetto volontario di partecipare o di essere fatto partecipe della cosa conosciuta, stimata bella.

Baffa. Replicatemi brevemente le ragioni.

Raverta. Voi di soverchio m’affaticate, volendo ch’io vi ritorni a dire una cosa piú volte.

Baffa. Per cortesia vostra, ditela ancora una volta e non piú.

Raverta. Perché «affetto volontario» è generale, per essere così di quello che si possiede quanto che non si possiede. Di «partecipare o essere fatti partecipi», l’uno serve all’amor di Dio verso noi e l’altro all’amor nostro verso Iddio. «Della cosa conosciuta, stimata bella» serve medesimamente a Dio che conosce, ed a noi che stimiamo. Perché, dicendo solamente «conosciuta», resterebbe che in noi fosse anco quello conoscimento ch’è in Dio. Però, lasciandovi quella voce «stimata», meglio al nostro si conviene, perché n’è tolta la cognizione di molte cose, che, se ben non sono, amandole presumiamo e stimiamo che siano; il qual difetto non può cadere in Dio che perfettamente conosce se stesso bello, ancora accompagnato con le cose create mentre ne fa partecipi. Onde anco con questa sola voce «conosciuta» si renderebbe l’uomo quasi cosí perfetto come Iddio; e con quella sola «stimata» si leverebbe molto di perfezzione alla cognizion di lui.

Baffa. Ora si ch’io ho compreso il tutto, e con questa diffinizione assai m’avete sodisfatto.