Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
14 | trattati d'amore del cinquecento |
Domenichi. A questo modo la bellezza corporea è ombra della contemplativa e spirituale.
Raverta. Sí veramente.
Baffa. Dunque questi occhi esteriori e l’orecchie poco giovano. Perché, se cosí è, che le bellezze interiori ed incorporee siano le vere, nè questi potendole apprendere, vi sono per niente; e meglio fòra se non ci fossero, perché vanamente non si mirarebbe.
Raverta. Anzi sono necessarissimi, imperoché per mezzo di questi si perviene alla contemplazione, onde intrinsecamente poi si considera alla perfezzione; e l’anima, come giudice, viene a conoscere la vera bellezza. E molti sono che hanno acuto vedere e buono udire; nondimeno vedranno delle bellezze, che non conosceranno, e cosí udiranno delle cose utili, nè perciò punto pasceranno l’orecchie di quella soave dilettazione, se l’anima non sará quella che apprenda la vera cognizione. E l’anima alle volte e bene spesso piglierá piú facilmente in sè una cosa che l’altra, secondo che sará piú appropriata ed a quelle piú inclinata.
Baffa. In conclusione, a quel ch’io veggio, la vera beltá voi chiamate la interiore, punto non apprezzando il corpo. Ma, se cosí fosse, ardirei dire che Iddio avesse fatto delle cose che non sono necessarie e che son vane, essendo di nessuno momento.
Raverta. Oh, in quanto grande error sète a imaginarvi non che a dir ciò! Ma, sí come vi ho detto che gli occhi corporali sono necessari accioché veggiamo le cose composite e corporali, cosí è necessario il corpo. Percioché da questa bellezza frale, che si dice «ombra», si passa alla vera e perfetta luce, come piú a pieno a miglior luogo vi dirò. Ma non bisogna fermarsi in questa apparenza e stimare essere quello che in vero non è, perché l’uomo in ciò chiaramente s’inganna. E Dio non ha fatto cosa che non sia necessaria e buona. Leggete, se ben mi ricorda, il Petrarca in quella canzone. «Lasso me, ch’io non so in qual parte pieghi», lá dove dice:
Tutte le cose, di che ’l mondo è adorno,
uscir buone di man del Mastro eterno:
ma me, che cosí adentro non discerno,