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28 trattati d'amore del cinquecento


né bontá né diletto; almeno fu cagione d’alzare l’intelletto suo, lá dove per sé non fora alzato mai: di maniera che vivono piú celebrati e piú chiari che mai. Perché


          Questa fe’ dolce ragionar Catullo
          di Lesbia, e di Corinna il sulmonese,



dice il divinissimo Bembo. Onde Amore è quello che tien desti i sonnacchiosi animi nostri, e leva le menti a cose degne. Cosí non si fermassero mai le menti nostre piú del convenevole in queste cose terrene. Ma seguite pure il vostro ragionamento.

Raverta. Dicovi che, se l’uomo conosce utile per sé e non per l’amico, come può contenere in sé perfetta bontá, né diletto comune? Onde è necessario che in sé lo amore s’estenda a queste tre cose.

Domenichi. Voi dite che Amore può tendere non solamente all’utile per sé, ma per altri.

Raverta. Sí dico, e deve.

Domenichi. Dunque Amore non sarebbe affetto volontario, in quanto a noi, di essere fatti partecipi, ma converrebbe anco essere di partecipare. Perché, tenendo all’utile suo, vengo a partecipare lui, e, tenendo al mio, allora desidero essere partecipato. Onde la partecipazion sola avete attribuito a Dio che partecipa noi.

Raverta. Ben dite e sofficientemente arguite. Ma io vi dico che in noi può essere che facciamo altri partecipi, e che anco noi siamo fatti partecipi. Perché, ad essere Amor perfetto, bisogna che sia corrispondente, e cosí essendo, come parmi avervi detto, si è amato ed amante, onde si partecipa e si viene ad essere fatto partecipe; ch’è una ragione. E poi, come che il proprio ed ultimo fine d’ogni agente sia per sua perfezzione, per sua utilitá e per suo diletto, nondimeno tutto il bene, che vuole lo amante per il suo amico o per lo amato, non è per il piacere ch’egli in quello riceve solamente, ma ancora perché viene a godere di quello medesimo di che partecipa lo amante e lo amico, conciosiaché sia amante ed amato ed un altro istesso. Onde tutte le felicitá sono cosí proprie dell’uno come dell’altro.