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questo, darete la ragione a me. Dunque, se voi séte piú costanti in amore di noi altre, piú fervente viene ad esser l’amor nostro, il quale aventandosi in noi con maggior émpito, a guisa di repente fiamma, mentre in noi dura, è piú ardente. Si che, avendo voi vinto questo secondo, il primo è nostro.
Domenichi. Non so come i’ debbia affermarlovi.
Raverta. Sarebbe cortesia di voi il lasciargliene vincere alcuna.
Baffa. Non voglio che mi ceda cosí per poco, anzi mi fa egli piacere infinito a contendere meco quanto può.
Domenichi. Non ne voglio dire altro, benché mi dia l’animo di farvi vedere: si come il calore d’un legno sodo, il quale sta piú ad accendersi che la paglia, è maggiore e piú potente che l’incendio di quella; cosí è piú fervente l’amor nostro, benché non cosí impetuosamente in noi scenda.
Baffa. Argomentate pure, ch’io ben vi responderò.
Domenichi. Giá v’ho detto ch’io non voglio.
Baffa. Cedetemi dunque.
Domenichi. Io vi cedo; e, mentre amate, concludo che ’I vostro amore sia piú fervente, si come piú tosto e piú leggiermente s’incende il vostro core.
Baffa. Resta che voi mi dichiariate: qual sia maggior segno a una donna d’essere amata, oltra la perseveranza.
Raverta. Questa è impresa da voi, perché veramente noi non sappiamo dimostrare in miglior modo l’amore all’amata, se non col continuare: lasciamo stare lo spendere, perché questo piú tosto conviene all’amor mercantesco che ad altro.
Baffa. Dunque ci è anco mercato in amore?
Raverta. Si, per certo; e questo è l’amor delle cortigiane, del quale noi punto non parleremo. Onde io di novo dico che non saprei dire qual maggior segno si sia di quel che s’è detto. Perché noi non sappiamo meglio dimostrare l’amor nostro che con una servitú continua. E questo sarebbe piú tosto ufficio vostro, perché, si come donna di grande ingegno, insegnandoci qualche altra via che s’abbia da tenere oltra la perseveranza, appararessimo cosí util segreto. Si che, di grazia, fatene di ciò capaci.