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46 | trattati d'amore del cinquecento |
partecipare invisibilmente, dilungandosi da tutte le vanitá. E cosí in tutto questo mondo non si può restare senza qualche contentezza, la quale intieramente non si può fruire, finché, dopo la separazion del corpo, quella non viene a unirsi col sommo Iddio. Onde rettamente gode poi dell’amor divino. E questa è la sua ultima contentezza e felicitá, e l’amor nostro verso Iddio.
Baffa. Se la creatura rettamente con l’intellettuale anima solamente ama, ma non però si rettamente che con la spirituale si faccia consideratrice dell’eterna, può ella, poi che lascia questo corpo, giungere subito a quella prima bellezza e fruire di quella eternitá?
Raverta. Non; perché, s’era in questo velo in tale amministrazione, né leva l’anima spirituale al principio del sommo bene, di quello, poi la sua separazione, non può intieramente esser fatta partecipe. E però manca di questo amore e di questa union divina, laonde patisce grave e dura pena. E la doglia si fa maggiore, perché allora considera come malamente si sia fermata in questo modo, né mai abbia cercato di levarsi all’alta cagion prima del primo vero amore. Onde ora si vede priva di quello che la può rendere beata, e che in questo modo la potrá far felice; essendole mostrata la via di potere, col suo dritto governo nel corpo, salire, dapoi la separazione, col mezzo però della grazia di Dio, nell’altissimo paradiso. Onde, per il poco veder suo, resta nell’inferno in eterno, priva di quella somma bellezza, per essersi per troppo in queste miserie umane fermata. Perché la pena infernale non è altro che vedersi privo della vera ed eterna luce: onde tale e tanto è il dolore, che supplicio maggiore a quella non si può agguagliare. Però dice Dante nel Purgatorio , parlando dell’inferno:
Loco è lá giú non tristo da martiri,
ma di tenebre solo; ove i lamenti
non sonan come guai, ma son sospiri.
Benché la misericordia d’iddio può moversi e renderla felice e beata. Ma perciò sempre si deve oprare di sorte che Iddio abbia d’amarci.