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12 trattati d'amore del cinquecento


Baffa. Dite ciò che vi piace.

Raverta. M’avete fatto scordare quello che io avea incominciato.

Domenichi. Dicevate di quante sorti sia: quella degli animi, quella dei corpi, e volevate dir l’altra.

Raverta. E quella delle voci: cioè l’armonia di suoni, di versi e di prose, delle quali le orecchie godono.

Baffa. Dunque, consistendo la bellezza in queste tre parti, la mente, gli occhi e l’orecchie, sarebbono quelle per mezzo delle quali si goderebbe di quella, e gli altri membri non sarebbono necessari in Amore.

Raverta. Sì, ché con questi si gode la perfetta bellezza; onde gli altri atti, che si estendono piú oltra, appartengono piú tosto ad una spezie di rabbia e di furore che di altro. Perché molto contrario è il perfetto amore alla libidine. E colui che in amore non si contenta di queste due perfezzioni per goder la bellezza, non appetisce il vero, anzi di rabbia è piú tosto infiammato. Né il perfetto amore si estende alla congiunzione di membri, perché allora la bellezza resta macchiata. E di qui viene che i piú savi additano una bella vergine per il proprio bello.

Baffa. Qual è la propria bellezza?

Raverta. La propria bellezza è quella per la quale tutte le cose sono decorate e per la quale tutte le cose sono o appaiono belle, e tutte le cose utili saranno belle.

Domenichi. Se cosí fosse, il cibo è pur necessario ed utile: nondimeno non si dirá mai «bello». E molte altre cose.

Raverta. Noi parliamo ora dei sensi delle cose animate, e diremo gli occhi esser «begli» non solamente per quella forma o proporzione che mostrano di fuori, ma per la potenzia che hanno di farne vedere; e chiamaremo tutto il corpo «bello», non per altro che per gli atti i quali, mediante quello, essercitiamo.

Domenichi. Dunque, contemplando la proporzione di essi membri in quanto all’essere ben formati, ed a quei lineamenti che ad altro non servono che ad allettar gli animi nostri a quella bella figura, non si potrá dir «bellezza».