Pagina:Trattati d'amore del Cinquecento, 1912 – BEIC 1945064.djvu/74

Ond’io non potei mai formar parola ch’altro che da me stesso fosse intesa; cosí m’ha fatto Amor tremante e fioco.

E veggi’or ben che cantate accesa lega la lingua altrui, gli spirti invola.

Chi può dir com’egli arde, è ’n picciol foco.

Vedete come Amore, quando è amore, contra nostra voglia, ne rende timidi; ché, s’altro non fosse, la riverenza, ch’alia cosa amata portiamo, ne costringe ad esser tali; come medesimamente mostra in quell’altro sonetto:

Amor, che nel pensier mio vive e regna,

Baffa. Che vi dice ?

RAVERTA.

Quella ch’amare e sofferir ne insegna, e vuol che il gran desio, l’accesa spene, ragion, vergogna e riverenza affrene, di nostro ardir fra se stessa si sdegna.

Onde Amor paventoso fugge al core, lasciando ogni sua impresa, e piange, e trema; ivi s’asconde e non appar piú fòre.

Che poss’ io far, temendo il mio signore, se non star seco infin a l’ora estrema?

Ché bel fin fa chi ben amando more.

In infiniti altri luoghi parimente mostra il vero amore essere albergo di paura.

Domenichi. Dico anco di piú: l’amante ardito, se avesse, poniam caso, nello scoprire l’amore alla sua amata una volta, due e tre e molte, di cattive repulse, sarebbe sforzato, se non da altro sdegno assalito, levarsi dall’impresa. Ma il timido vive con quella speranza di continuo: che una volta la sua donna, mossa a compassione, abbia da dargli qualche mercede. Perché l’amatore è uno animo morto nel proprio corpo e vivo in quel d’altrui.

Baffa. Queste ragion piú tosto appartengono a volerne dimostrare che la timiditá sia meglio nell’amante che l’ardire. Ma