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20 | trattati d'amore del cinquecento |
contemplazion corporale, lascia la vera strada, per la qual può salire
alle cose celesti; e di piú, amando il corpo solamente, meno
ama l’uomo, perché l’anima è l’uomo, ed in quella consiste la
vera bellezza. Ed il corpo è la sua prigione ed il suo sepolcro,
onde chi ama quello ama un’ombra. E questi tali si ponno
assomigliare, come diceva Eraclito (come che la parola sia poco
onesta), all’asino, ch’ama piú lo strame che l’oro. E però nell’intrinseco
consiste la vera nostra bellezza, come dimostra Socrate
nella sua orazione ridotta dal nostro Betussi in questi versi:
O Pan amico con ogni altro dio,
che in questo loco bel fate soggiorno,
datemi tanto don, vi prego, ch’io
tutto sia fatto bel dentro e d’intorno;
in guisa tal, che l’estrinseco mio
da l’interno di me non prenda scorno;
ch’io stimi ricco il savio, e abbia tanto oro,
quanto sia d’uom modesto ampio tesoro.
Così pregava il saggio filosofo. E chi sará quello che piú non lodi il prudente Ulisse che ’l formoso Nireo? Certo nessuno che voglia con gli occhi dell’intelletto discorrere quali siano le vere bellezze da essere apprezzate.
Baffa. Di tale maniera quasi, anco in una sua canzone, cosí dalle bellezze dell’animo come da quelle del corpo meritamente comenda il signor Vicino Orsino.
Domenichi. Lo so; e, benché altramente io non abbia per vista contezza di Sua Signoria, credo che molto piú sia il vero di ciò ch’egli ha scritto.
Raverta. Com’esser può ch’io non l’abbia mai veduta né udita? Però, di grazia, chi di voi n’ha copia o me la lasci vedere o degnisi recitarla.
Baffa. Ditela voi, Domenichi.
Domenichi. Purché io l’abbia a memoria.
Raverta. Oh, pensateci, ché ben vi tornerá a mente.
Domenichi.
Vorrei, signor, col piú degno pensiero,
col piú nobil desio, ch’abbia uman core,