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Domenichi. Io giudico che si, perché può occorrere che, amando ferventemente e veggendosi alle volte la cosa amata d’appresso, tutto il sangue e gli spiriti commossi si partano, e corrano d’intorno il cuore, si come parte e membro principale e piú nobile di tutti gli altri, e lo circondino di maniera che, se non gli giunge qualche conforto, può gelarsi ed intiepidirsi di sorte che quello, rimasto senz’un minimo conforto, manchi del suo valore; e, si come radice della vita nostra, rimanendo senza vigore, l’amante può morire.

Baffa. Non v’intendo: dichiaratemi meglio questa passion del cuore.

Domenichi. Dicovi: che il cuore, come sapete, è la piú nobil parte che sia nell’uomo e dal quale depende tutta la vita. E però Amore, passando negli occhi nostri, se ne scende al cuore, il quale è quello che di continuo in noi sta inquieto, e vorrebbe potere uscire per congiungersi con l’amato obietto. Perché, ogni volta che ci troviamo con gli occhi del corpo a contemplar l’amata cosa, nel primo émpito tutto il sangue e tutto il vigore eh’è in noi si parte, e ne viene un tremore ed un freddo che ne rende languidi e fiacchi. Di qui nasce lo impallidire; ma, cessato questo, si avampa di cocente foco e tutto s’arrossa. Ma in questo mezzo, come vi dico, il sangue nel primo impeto corre d’intorno al cuore, si come parte principale e membro piú nobile, per soccorrerlo. Onde, se aviene che a qualche via o con alcun lieto sguardo non se gli porga conforto, tanto che ’l sangue e vigore sparso e corso intorno a quello, abbia da ritornare ai luoghi suoi, può gelarvisi d’intorno e farvi un circuito, si come un serraglio; di maniera che, non avendo esito di pigliar fiato né loco onde possa respirare né per lo quale possa giungere conforto, come fiacco e debile, rende gli altri membri, dai quali è partito il suo vigore, subito infermi e lassi, in guisa tale che il corpo, rimaso senza sostegno, convien lasciarsi cadere ed isfinire. Cosi per troppo amore si può morire, e questo può avenire in un subito.

Baffa. Non so come io me lo creda, perché non mi ricordo mai, a’ miei giorni, aver veduto morire alcuno per troppo