Alcyone/L'otre
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L’OTRE.
I.
fui, prima che mi traesser le coltella.
Deh come olente alla stagion novella
egli era e tra le capre sue petulco,
5o uom che m’odi, e ben barbato e torvo
e di téttole dure ornato il gozzo
e d’aspre corna il fronte invitto al cozzo,
negli occhi súlfure, atro come corvo!
Sagliente egli era, e mogli in abondanza
10ebbe, e feroce fu nelle sue pugne;
ma al suon d’un sufoletto, erto su l’ugne
fésse, imitava il satiro che danza.
Occiso penzolò sanguinolente
dall’uncino; e squarciato fumigava,
15nudi ostentando in sua ventraia cava
l’argnon focoso e il fegato possente.
Tratta gli fui di dosso umida e floscia.
Pelo e carniccio poi tolsemi il ferro.
Ghianda di gallonèa, scorza di cerro
20fecermi bona concia nella troscia.
Rasciutta nelle cieche stìe, premuta
dai macigni, distesa dall’orbello,
per sorte un dì cucita fui bel bello
con fil d’accia da femmina saputa.
25Otre divenni e principe degli otri
obeso appresso i pozzi e le cisterne.
Acqua di cieli, acqua di fonti eterne
contenni, acqua di rivoli e di botri,
dolci acque e fresche ma di odor caprigno
30sapide tuttavia, sì che talvolta
le femmine entro me chiusero molta
menta e il seme dell’ànace fortigno.
O uomo, l’otre invidia le tue seti!
Pianure arsicce, livide petraie,
35pigre maremme febbricose, ghiaie
e sabbie in foco per deserti greti,
stridor di carri, ànsito di giumenti
io conobbi, e il guatar del sitibondo.
Io valsi più che l’universo mondo
40al desiderio delle fauci ardenti!
O uomo, da benigni iddii tu hai
le tue seti. Il garòfolo e il papavero
non così vividi ardere mi parvero
come la bocca tua che dissetai.
45Non il capro, onde tratta fui sua spoglia,
mai si precipitò come chi volle
bere da me. Tutto lo feci molle.
Oh gaudio della gola che gorgoglia!
Mani cupide premono i miei fianchi
50turgidi (sembra che gli arsi occhi bevano
prima che i labbri) mani mi sollevano
su arsi volti, di polvere bianchi.
Va da me per le vene al cor profondo
la mia liquida gioia, al più remoto
55viscere. Oh bene immenso! Eccomi vòto.
In dieci gole ho dissetato il mondo.
II.
E vòto fratel fui della bisaccia
grinzuta ch’ebbe la cipolla e il tozzo
in coniugio. E non più rempiuto al pozzo
60fui, non udii crosciar la secchia diaccia,
ma dalla mamma copiosa udii
crosciare emunto il latte nel presepio
occluso. Per indùlgere al mio tedio
nova sorte mi fecero gli iddii.
65Gonfio di latte, anch’io ubero parvi
più capace e men roseo. Notturno
pendevo nel presepio taciturno,
come gli uberi sotto i materni alvi.
Ma non mai tanto l’otre ebbesi amica
70la pace come allor che, in su lo scorcio
dell’autunno, s’apparentò con l’orcio
per favore di Pallade pudica.
Pacifera è l’oliva e tarda e pingue.
Da poi che gemuto ha sotto la mola,
75si raddolcisce e più non fa parola;
mentre la garrula acqua ha mille lingue.
Or pieno fui di castità palladia
e di silenzio. Tacito ascoltava
pulsar la tempia fievole dell’ava
80e il pane lievitare nella madia.
D’improvviso, una notte, mentre vòto
giacea sul palco fra i minori otrelli,
venne un bifolco tutto irto di velli
e seco trassemi a un officio ignoto.
85Duro il suo pugno parvemi qual sasso
e l’ugna adunca qual branca di belva.
Tramontavano l’Orse. Ad una selva
orrida, in riva al fiume, arrestò il passo.
Quivi nel sangue prono era disteso
90il suo nimico. Gli troncò la testa
con una falce; e quella mozza testa
prese a' capegli, e me carcò del peso.
Subitamente mi rempiei del nero
sangue. E disse il falcato al teschio: “Avevi
95tu sete? Orbè, se t’arde sete, bevi,
nell’otro che t’ho acconcio, il vin tuo mero.„
E il teschio e il sangue dentro ei mi serrò.
Gonfio ero fatto, ed ei mi sollevò.
Su la riva del fiume ei mi portò.
100In mezzo alla corrente ei mi scagliò.
Fervido era anco il buon licor doglioso.
O uom che m’odi, acqua di fonte, bianco
latte, olio lene, quanto ebbi nel fianco,
non vale il sangue tuo maraviglioso!
105Entro di me fu breve e immensa guerra,
ismisurata e rapida tempesta.
Non parvemi serrar la tronca testa
ma contenere l’orbe della Terra.
Poi nel gel fluviale in grumo e in sanie
110si converse quel peso; e la corrente
mi voltò per le ripe, oscuramente
trassemi verso le contrade estranie.
III.
Era l’aurora quando in mezzo ai salici
mi rinvenne l’Egípane biforme.
115Uom che m’odi, il tuo spirito che dorme
più non vede gli antichi numi italici!
Vivon eglino pieni di possanza:
hanno il fiato dei boschi entro le nari;
i gioghi venerandi han per altari,
120e di sé fanvi testimonianza.
Più non li vedi, o uomo. Nel tuo petto
il cor si sface come frutto putre.
E la Terra materna invan ti nutre
de' suoi beni. Tu plori al suo cospetto!
125Mi rinvenne l’Egípane divino.
Possentemente rise in suo pél falbo;
poi tolsemi per trarmi di fra gli àlbori
umidi: mi credea gonfio di vino.
Dava schiocchi la lingua sua salace
130mentr’ei m’aprìa. Ma pél non gli tremò
quando scoperse il teschio e il grumo; “To’„
disse “nell’otro il capo del gran Trace!„
E sopra l’erba mi sgravò del reo
peso, mi scosse. Poi raccolse il teschio,
135lo rotò, lo scagliò forte nel Serchio
gridando: “Tu non sei capo d’Orfeo!„
Tal era il riso de' suoi denti scabri
quale un rio lapidoso. Allor nell’acque
chiare mi terse; m’asciugò. Gli piacque
140anco d’enfiarmi co' suoi curvi labri.
Pieno fui del divino afflato, pieno
fui del selvaggio spirito terrestro!
Venne allora il Panisco, che mal destro
era nel nuoto, al bel fiume sereno.
145E il nume padre a lui mi diede; ed io
tenerlo a galla seppi, io lo sorressi
nel nuoto quando i piccoli piè féssi
troppo agitava celere disio.
Molto l’amai. Dall’ombelico in giuso
150di pel biondiccio qual cavriuoletto
era ma liscio il rimanente, eretto
il codìnzolo, un po’ lusco e camuso.
Tenérmigli solea sotto l’ascella
ove appena fiorìa qualche peluzzo
155rossigno; e avea del suo cornetto aguzzo
tema non mi bucasse per rovella,
sì rapido era il pueril corruccio
s’ei districava il piè dall’erba acquatica
o alzar vedeva l’anatra salvatica
160o sentiva guizzar da presso il luccio.
Viride Serchio in tra due selve basse!
Mattini estivi, quando il bel Panisco
biondetto sen venìa, cinto d’ibisco
roseo, con suoi lacci e con sue nasse!
165Troppo, ahimè, destro erasi fatto al nuoto.
Omai fendeva le più rapide acque;
sì che più giorni e più l’otre si giacque
solo nel limo, e alfin rimase vòto.
IV.
Ma gli alti iddii anco mi fur benigni.
170Un bel pastore dalla barba d’oro
mi raccolse. Ed all’ombra d’un alloro
mi lavorò con suoi sottili ordigni.
Quattro di bosso ei fecemi cannelle
ineguali, e assai bene le polì.
175La più corta alla spalla m’inserì
e strinse con cerate funicelle.
In bocca tre l’artiere me ne messe,
l’una più lunga, l’altre due minori;
nella più lunga numerosi fóri
180praticò, che diverse voci desse.
Le due brevi, di largo cerchio e stretto,
aperte in giuso a mò di padiglione,
servir di grande e piccolo bordone
dovean come le frondi all’augelletto.
185Oh meraviglia, quando per la corta
canna eglio enfiò la nova cornamusa!
Tutta di pia felicità soffusa
giovine donna venne in su la porta,
nuda le belle braccia, e disse: “O caro
190marito, o barbadoro, ecco che nasce
ricchezza ingente nelle nostre case;
ed i granai si rempiono di grano,
gli alveari si rempiono di miele,
d’aurei pomi si rempiono i frutteti,
195di rose citerèe tutti i verzieri,
e di cervi e di damme le mie selve;
e avrò tra i muri miei variodipinti
un talamo con quattro alte colonne,
e vestimenta avrò d’ogni colore
200e per cignermi d’ogni sorta cinti;
e avrò e avrò nelle mie veglie ancora
per filar la mia lana mille ancelle,
mariterò le mie dolci sorelle
ai satrapi dell’Asia spaziosa!„
205Questo fecero grande incantamento
l’otre e il pastore con un poco d’aria,
o uom che m’odi, con un poco d’aria
e col nume di Cintio arco-d’-argento;
però che il faretrato Citaredo,
210il qual pur trasse Marsia di vagina,
sia largo della sua virtù divina
all’inculto pastore e al dotto aedo,
al calamo forato e alla testudine
tricorde se lui prieghi un puro cuore.
215Noi come greggi i vesperi e l’aurore
pascemmo nella verde solitudine.
Il pino irsuto diede il molle fico,
i narcissi fioriron su i ginepri,
danzò il veltro armillato con le lepri,
220e l’antico fu novo e il novo antico.
Oh maraviglia! Come l’elitropio
al Sol, volgeasi al suono la soave
donna dalla sua porta. E l’architrave
parea sculto da Dedalo il Cecropio
225e lo stipite rozzo una colonna
del Palagio di Pelope l’Eburno,
quando il pastor dicea: “Come l’alburno,
intorno al cuore mi biancheggi, o donna!„
Divenuta più candida nel suono
230ell’era, come il lin nell’acqua infuso.
Sorridea sempre. E la conocchia e il fuso,
la spola e i licci erano in abbandono.
Pe’ capegli repente l’abbrancò,
pe’ suoi capegli come l’uva nera,
235come il folto giacinto a primavera,
come dell’edera il corimbo forte,
pe’ capegli repente l’abbrancò
la Morte, l’abbattè, pel calle oscuro
la trascinò: di là dal fiume curvo,
240nel regno buio la portò la Morte.
E nessuno e nessuno più la scorse.
Cupo silenzio fu dentro le case.
L’ombra lunga occupò la soglia, invase
il talamo. E l’aurora più non sorse.
245Ma pianto non sonò dentro le case:
erano il cuore e gli occhi opache selci.
E fuggì la lucertola dall’embrice,
anche fuggì la rondine, anche l’ape.
Io pendea tristo, presso il focolare.
250Ed alfine il pastore si sovvenne
dell’otre. Mi guatò gran tratto. Venne,
mi tolse, muto, senza lacrimare.
Io mi credeva ancora esser premuto
contra il fianco dal cubito leggero
255e disciogliere in me, rivolto al nero
Ade, l’ingombro del dolore muto.
“Sposa, ch’io venga su le tue vestigia!„
E da me svelse i calami con cruda
mano, li infranse. L’anima sua nuda
260e noi profferse alla gran Notte stigia.
V.
O uom che m’odi, fu laboriosa
la mia sorte. Non fecero grandi ozii
a me gli iddii. Solstizii ed equinozii
passano, passa il colchico e la rosa.
265Tutto ritorna; e la saggezza è vana.
La saggezza non val legno ficulno
né zàccaro caprino. Io voglio, alunno
di Libero, finir di fine insana.
Se bene obeso, molto vidi e udii
270però che amico fui de’ viatori
insonni, esperto di molti sapori,
a servigio di efimeri e d’iddii.
Molto contenni, puro o adulterato.
Il falso e il vero son le foglie alterne
275d’un ramoscello: il savio non discerne
l’una dall’altra, l’un dall’altro lato.
E la virtù si tigne come lana,
e la felicità come Vertunno
tramuta la sua specie. Io voglio, alunno
280di Libero, finir di fine insana.
So nelle loro generazioni
diverse l’acqua, il latte, l’olio tacito;
so il sangue umano e so l’afflato pànico
e so le metamorfosi dei suoni.
285Ma il licor rubicondo che ti rende
simile ai numi, o uom che m’odi, ignoro:
quello onde gonfio mi credette il buono
Egìpane, e il gran riso ancor mi splende!
Tu m’hai raccolto, o uomo, nello speco
290ove per ruzzo trassemi il lupatto.
Che valgo? Vedi tu come son fatto!
Piacciati dunque d’insanire meco.
Desio d’altre fortune non mi tocca.
Più lungamente vivere non posso.
295Ricucimi la spalla ov’ebbi il bosso
animato e ristringimi la bocca.
Tu vedi: sono vecchio e non ti giovo.
Ma è larga alla tua sete e alla tua fame
la Terra, e tu le devi il tuo libame.
300Nell’otre vecchio or poni il vino nuovo!
Vendemmierai con cantici di gioia.
Farai del mosto mite il vin possente.
Della giovine forza, alla nascente
luna, tu m’empirai queste mie cuoia,
305che me le schianti almen la giovinezza
terribile! E coronami di fiori
selvaggi, ed al più folto degli allori
tuoi sospendimi. Oh ultima bellezza!
Discisso tonerò nel gran meriggio.
310Lungi s’udrà nell’alta luce il tuono.
E tu dirai, la pura fronte prono:
“Bevi l’offerta, o Terra. Io son tuo figlio.„