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di Alfredo Panzini | 395 |
levava allora. «Ah sì, scusa sai». Fece toilette. Venne. Ma mi persuasi, per l’ultima volta, che noi eravamo divergenti. Egli era inebriato d’amore della poesia del d’Annunzio, l’«Otre», apparsa in quei giorni. «Tutto — diceva — è, e deve essere artificiale in arte: lo stesso linguaggio italiano non è artificiale? la donna non è artificiale? Tutto ciò che è bello non è artificiale?».
Il suo poema, in terza rima dantesca Il Terzo Peccato è, in verità, ben artificiale! Eppure meriterebbe di essere riletto; specialmente le note sono preziose. Ricordo la disperazione del tremendissimo editore Hoepli per le audacie verbali di questo poema e il terrore dello stampatore, che si vedeva buttar giù la composizione ogni volta che Colautti gli rimandava le bozze corrette.
Il Terzo Peccato fu l’ultimo suo sogno di gloria, ed ebbe il merito di tenerlo in vita per qualche tempo.
Ma ormai nei suoi scritti si veniva avvertendo una certa cristallizzazione. Il coperchio dell’intelligenza si rinserrava. Non è così di tutti? E ogni letterato gode quando vede l’altro letterato che si cristallizza.
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È un peccato non fermare questa bellissima contraddizione: