Il marito dell'amica
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IL
MARITO DELL’AMICA
ROMANZO
MILANO
libreria editrice galli
di
c. chiesa e f. guindani
Gall. Vittorio Emanuele, 17 e 18
1891
proprietà letteraria
Milano, Tip. degli Operai (Società coop.), corso Vitt. Eman., 12-16
Ritta sul marciapiede, che dal lato meridionale domina la spianata della Stazione fino alle verdi ombre dei bastioni e all’arco elegante del passaggio Principe Umberto, Sofia cercava cogli occhi una carrozza vuota.
Il vento di marzo faceva svolazzare il suo abito leggero coperto di trine; e probabilmente l’effetto dei suoi stivalini a punta aguzza, a tacco alto, stretti sul piede da una fila serrata di bottoncini di vecchio argento, la preoccupava molto più della carrozza. Certo è che voltava il capo da destra a sinistra, con molta graziosa vivacità.
Intanto le carrozze che erano accorse per il servizio dei viaggiatori se ne andavano ad una ad una cariche di gente e di bauli, e il piazzale rimaneva deserto, spazzato da un vento fortissimo, che sollevava colonne di polvere. Sofia cominciava a perdere la pazienza, prevedendo di dover fare a piedi la sua entrata in città; quando, un fiacchere che aveva portato avventori alla locanda del Giardino d’Italia, svoltò all’angolo e le apparve come una tavola di salvezza.
Lottando coraggiosamente col vento e colla polvere, vincendo la sua ritrosia di donnina elegante, armeggiando fino al punto di fare segni vivaci coll’ombrello al vetturino, ella giunse presso al fiacchere mentre il cavallo si fermava; ma, dall’altra parte, e quasi contemporaneamente, due persone avevano fatta la stessa caccia e si presentavano coi medesimi diritti.
Sofia sostò un momento, irresoluta.
I suoi competitori erano: prima, una signora alta, severa, vestita con sobria eleganza; e poi un servo tutto nero da capo a piedi.
Dopo il momento di irresolutezza, Sofia pensò di andarsene in pace; e lo avrebbe fatto se l’occhio della signora, ostinatamente fissato su di lei, non avesse preso, improvvisamente, dilatandosi, una espressione dolce e sorridente.
— Ah! — esclamò Sofia.
— Sei tu? — domandò l’altra con una voce vibrante e calda.
Le due donne si abbracciarono con effusione.
Il servo colle valigie in mano, e il vetturino dall’alto del suo seggio, aspettavano.
Sofia, tutta rossa, agitandosi, parlando forte esprimeva la sua maraviglia per un incontro così straordinario. L’altra, dolcemente commossa, sorridendo con aria materna, le ricambiava la carezze, ripetendo:
— Ma sì! Non mi par vero.
— E da dove arrivi tu?
— Da Buenos-Aires.
— Scusate il viaggetto.... Io torno da Sesto di Monza.
Rise forte, tanto il contrasto le sembrava piccante.
Poi soggiunse:
— Ma e dove vai ora?
— A cercarmi un albergo.
— Non hai famiglia, parenti?
— Nessuno.
— Oh! ma allora vieni da me.
— Da te?...
— Sì, sì; figurati se ti voglio lasciare... la mia migliore amica! Andiamo, vieni a casa mia.
E la spingeva in carrozza, risolutamente, con quella sua grazia dominatrice di donna viziata, avvezza a fare quello che vuole, senza pensarci su molto.
— No, no, più tardi... ci rivedremo...
Così protestava l’amica, dolcemente, con voce tranquilla, poichè la scenetta si prolungava già troppo e il vetturino dava segno di impazienza.
Fu Sofia che la vinse.
La viaggiatrice, un po’ a malincuore, un po’ cedendo al fascino petulante della giovane signora, sedette nella vettura; Sofia le si pose accanto, stringendo le sottane per far posto ai bagagli. Il servitore si accomodò sul seggio del vetturino.
— Via Monforte, l’ultima casa.... Ed ora — Sofia alzò i vetri perchè il vento era violentissimo — ora, lascia che ti guardi. Sei molto bella, sai? Narrami un po’ che cosa hai fatto in questi cinque o sei anni che non ci vediamo.
— Ho preso marito.
— Ed io pure; compiono oggi i ventiquattro mesi.
— Due anni, dunque?
— Sì; ma a dire due anni mi sembra di essere vecchia vecchia... È come il mio bambino...
— Hai un bambino?
— Sì, di dodici mesi.
— Ah!
— Sono stata a trovarlo perchè è un po’ indisposto.
— Non lo allevi in casa?
— Mio marito dice che i bambini crescono meglio nell’aria libera della campagna.
— A proposito, che dirà tuo marito di questo tegolo che gli piove in casa?
— Lui? Ma nulla affatto, te lo assicuro; è l’essere più freddo dei due emisferi.
Una pausa, leggermente imbarazzante, troncò il dialogo delle due amiche. La forestiera si faceva sempre più seria, osservando attentamente la sua antica compagna sulla quale l’esperienza della vita non aveva prodotto alcun cambiamento; era una donnina piacente, grassoccia, con un sorriso troppo infantile, corretto a volte — e ancora troppo — da uno sguardo provocante e leggero.
Un doganiere che si affacciò allo sportello le occupò per un momento: quando furono libere, Sofia borbottò contro gli intoppi che si incontrano ad ogni passo.
— Senti — disse improvvisamente l’amica — questo modo di entrare in casa tua è proprio romanzesco; permettimi di presentarmi un po’ meglio... fra qualche giorno....
Allora Sofia le saltò al collo, baciandola furiosamente, piangendo, dicendole che era un’ingrata, che non l’amava più, che non ricordava più nulla della loro amicizia di collegio, dei giuramenti scambiati, e che diffidava di lei. Terminò abbrancandola per i polsi e protestando che non la lascerebbe partire nemmeno se la mettessero alla tortura.
Tanta espansione d’affetto vinse gli ultimi scrupoli della signora; ella pensò poi in cuor suo che, qualunque fosse la posizione di Sofia, era abbastanza ricca per contracambiare l’ospitalità.
Giunsero frattanto all’ultima casa di via Montone; e Sofia, tutta giuliva, precedendo l’ospite sulla scala la introdusse nel suo appartamentino, elegante e signorile, coll’aria un po’ vuota degli appartamenti nuovi.
— Ci siamo! — esclamò poi, trionfante.
E volta alla cameriera, che aveva aperto l’uscio:
— Mio marito?
— Non è tornato ancora.
Qui la forestiera fu ripresa dalla curiosità di sapere, alla fine, chi fosse il marito della sua amica; ma la prudenza e il tatto acquistati in una vita burrascosa la consigliarono ad aspettare le confidenze, anzichè provocarle.
— Che c’è? — domandò Sofia alla cameriera che restava ritta sulla soglia, con fare impacciato.
— È venuto il signor Bandini.
— Ebbene?
— È qui; aspetta la signora.
Sofia arrossì leggermente.
— Digli... digli che...
Poi con una delle sue brusche risoluzioni:
— Maria — aggiunse mettendo una mano sulla spalla dell’amica — mi permetti?
E prima che Maria potesse rispondere:
— Torno subito; devo dire due parole a quel signore. Tu intanto leva il cappello; la cameriera ti condurrà in una cameretta accanto alla mia... è piccina, ma te la accomoderemo per benino, vedrai. Fa come se fossi in casa tua; cinque minuti e sono da te.
Sparve lasciando dietro a sè, sul tappeto, un guanto e la pezzuola profumata di verbena.
In un gabinetto ottagono, tappezzato di stoffa color verdemare a mazzi di rose in rilievo, un giovinotto aspettava, sdrajato su un divanino basso. La sua testa bruna, accuratamente pettinata, spiccava sul fondo della tappezzeria, mettendo una nota forte in quella armonia romantica e delicata delle rose sulla gradazione color d’acqua. Egli aveva una posa affatto prosaica, coi piedi appoggiati al cuscinetto di trine che stava a un lato del divano; ma balzò ritto quando Sofia schiuse l’uscio, dicendogli a bruciapelo:
— Siete molto imprudente. Perchè aspettarmi? Lo sapevate pure che oggi mi recava a trovare il bambino. Andatevene; ho un’amica con me; non posso ascoltarvi.
— Ecco un fiume di parole, fra le quali ne cerco invano una dolce al mio indirizzo.
— Scusatemi.
Sorrise, e gli porse la mano che egli baciò.
— È molto tempo che siete qui?
— Non so.... pensavo a voi e non ho contato le ore.
— Sempre galante.
— Dite sempre innamorato.
— Ztt!... sapete che questa parola non la voglio sentire. Amico, alla buon’ora.
— Che distinzione sottile.... Ma se sapeste come il sentimento che provo per voi è nobile.... elevato....
— Lo credo, senza di che ve lo permetterei forse? Ma andatevene. Oggi non possiamo far musica insieme, nè leggere i nostri poeti favoriti....
— Ma che cosa vi è accaduto?
— Una combinazione strana. Ho incontrato, figuratevi, l’amica mia più antica e più cara, dopo sei anni che non ne sapevo più nulla. Pensate quante cose abbiamo a dirci. Eravamo in collegio insieme, lei con qualche hanno più di me, e ci siamo amate con passione, con una intensità che faceva strabiliare tutti; molto più che i nostri caratteri sembrava dovessero armonizzare poco. Lei seria, studiosa, riflessiva.... io tutta gaja, vivace.... i maligni dicono anche leggera; ah! ma protesto. Maria mi conosce bene; sa che sotto una apparenza.... come dire?
— Incantevole.
— Oh via!
Gli diede un buffetto sotto il mento.
— Dunque andatevene.
— Ma sino a quando starà qui la vostra....
— La mia amica?
— Sì.... Cercavo un nome ad hoc, come Castore e Polluce, Oreste e Pilade.... ma è singolare, nella storia dell’amicizia mancano affatto i nomi femminili.
— Maligno. Si vede proprio che parlate per invidia. Ebbene, saremo generose. Vi permettiamo di venire a farci la vostra corte alla sera.
— Coram populo?
Sofia si strinse nelle spalle con un movimento pieno di civetteria e di grazia.
— Pazienza. Posso mandarvi alcuni fiori?
— Sempre bene accetti.
L’elegantissimo Alfredo Bandini tornò a baciarle la mano, sospirando, e si accomiatò.
Sofia stette un momento a guardare l’uscio per dove era partito; aveva l’occhio brillante, il seno agitato da un palpito irregolare; si sentiva felice e malcontenta nello stesso tempo. Girando lo sguardo sulle pareti del gabinetto, la sua emozione parve trovare una fonte di mollezza nel verde tenero dove morivano le rose, sul divanuccio a spalliera dorata, dai contorni morbidi, nella luce della finestra, smorzata da tendinette di seta rosea; e sedette, cedendo al fascino di un languore che la invadeva tutta.
Quel Bandini!.... Il giorno in cui le aveva offerta la propria amicizia ella era uscita, irata, dalla prima battaglia col marito. Bandini le parlò con tanta grazia dei cuori che soffrono, mostrò di conoscere così bene l’organismo di un’anima femminile, trovò parole così eleganti (era toscano e parlava come un angelo) che a lei parve di rinascere, come quando dopo una pioggia violenta si vede spuntare un raggio di sole.
Ed ora, sì, ora c’era del pericolo. Sofia si raggomitolò sul divanuccio, abbandonando la testina sul guanciale. Si trovava nella stessa situazione di un fanciullo al quale venga proibito di aprire un vaso di miele, ma che a furia di girarvi intorno, riesce a scoprire nel vaso un forellino, dal quale succhia il dolce, pensando di non far male.
La cameriera venne a toglierla dall’estasi, domandandole gli ordini per la forestiera.
— Ah sì! — fece Sofia.
E si alzò, ratta, dimenticando subito Bandini per ricadere nella tenerezza che le suscitava l’amica, compiacendosi in quel passaggio violento dall’una all’altra emozione.
— Dov’è?
— È nel salotto.
— Va bene. Quando viene mio marito avvertilo subito che c’è di là una mia carissima amica.
— Ma sai — le disse Maria movendole incontro — che la tua casa è proprio un piccolo paradiso?
— Sì non c’è male, considerato che siamo fuori del centro, quasi alle porte della città.
— Ma questo è un pregio anzi. Hai luce, hai spazio intorno a te, hai un bel giardino!...
— E che m’importa del giardino! Tanto non ci vado mai. I giardini sono buoni per le ragazze che si compiacciono di sognare al rezzo delle robinie.
Un po’ di sarcasmo, un leggero dispetto appariva nella voce di Sofia; Maria, avvertendolo, le circondò dolcemente, con un braccio, la vita e la baciò sui capelli. Sofia le rese il bacio con espansione.
— Come si cambia, non è vero? — disse poi sorridendo — oh non son più la pazzerella d’una volta.... ho perduto molte illusioni.
— Ne perdiamo tutti i giorni, ma da ogni illusione che cade germoglia il frutto dell’esperienza....
— Tu sei sempre stata una ragionatrice; trovi che ogni cosa cammina per il suo verso, e sarà. Ma per me la vita ha due lati soli: o è buona o è cattiva; quando non è felice è infelice. Non conosco altro.
Un breve silenzio, un rapido sguardo.
— Come desidero di vedere il tuo bambino! Ti assomiglia?
— Dicono di sì.
— Chi sa come lo ama suo padre!
— Mio marito non vive che di scienza.
Pronunciò queste parole rabbujandosi in volto.
Maria non ebbe più dubbi; il marito era il punto nero.
In quel momento entrò la cameriera portando un mazzo di viole e di camelie.
— La fioraja di San Babila ha mandato questi fiori a nome del signor Bandini.
— Va bene — disse Sofia, arrossendo come già aveva arrossito all’udir pronunciare quel nome — mettili sul tavolino.
— C’è anche un biglietto.
Sofia lo prese, congedando la cameriera.
— Leggilo, te ne prego — esclamò Maria vedendo che il bigliettino scompariva, spiegazzato, in una tasca microscopica dell’abito.
— È inutile, so già di che si tratta.
Era nervosa; prese il mazzo e lo collocò dentro a un vaso, dopo aver fiutato a lungo le violette; poi tornò presso all’amica, tentando di ricucire i brandelli della conversazione.
— Che cosa si diceva? Ah! tu mi credi ancora una bambina.... ebbene sono vecchia, vecchia decrepita. Dio che mondo stupido! Pensare che noi tutte si cresce nella speranza di un amore unico, immenso, potente, eterno; che a questa chimera dedichiamo il meglio delle nostre aspirazioni e che alla fine; tutte, qual più.... qual meno.... ci tocca prendere due o tre corteggiatori per compensarci dell’amore che non c’è.
Questa sfuriata improvvisa, abbastanza singolare e senza dubbio fuor di proposito, terminò di lumeggiare Sofia. L’amica concluse che aveva fatto bene a venire; si soffriva in quella casa. Compresse un leggero turbamento e mostrando solo affettuosa sollecitudine, disse con accento calmo e grave:
— Cara piccina, chi ti ha messo in testa queste brutte idee?
— Chi? Nessuno. Le vedo io.
— E dove le vedi?
— Dappertutto.
— No, dappertutto, da un lato solo.
— Ah! sì, il tuo solito lato. Puoi parlare così perchè sei felice.
— Se trovi che è una felicità l’essere vedova a ventotto anni.... sola al mondo....
Era vero. Come mai Sofia aveva potuto dimenticare i suoi doveri di ospitalità, la sua amicizia, per perdersi in digressioni personali? Un momento, in carrozza, Maria le aveva accennata la sua vedovanza, e poi più nulla; ella non s’era curata di domandarle altro. Rimediò nel solito modo, eccedendo sempre, con una valanga di abbracci.
— Povera Maria, perdonami! Oh! ma dimmi, sei stata felice?
— Secondo ciò che s’intende per felicità.
— Hai trovato un marito almeno che avesse i tuoi gusti, le tue abitudini; che amasse quello che tu ami e abborrisse quello che tu abborri? Un marito tenero, appassionato, previdente, compiacente?....
Maria ebbe un accesso di schietta ilarità.
— Che ritratto fantastico! Questo, mia cara, non è un marito, è un amante.
— Ah! — fece Sofia trionfante — lo confessi dunque, i mariti non sono così.
— Senza dubbio.... ma essi sposano; è il gran merito che hanno sugli amanti. I sospiri, le dichiarazioni, i madrigali di tutto coloro che ci fanno la corte, non valgono il solo, semplice sì di colui che ci dà il suo nome. È il poema in confronto del sonetto; non si può giudicarli alla stessa stregua, e non si può pretendere dal poema il ritmo grazioso e leggero di un sonettino.
— Tanto grazioso! — sospirò Sofia.
— E tanto leggero — appoggiò l’amica. — Perchè, infine, qual è lo scopo di questi corteggiatori, che ci si assiepano intorno? (Ella pensava in quel momento al signor Bandini). Vi amo, essi dicono, ma noi siamo giovani, siamo avvenenti, che gran sacrificio l’amarci! Le nostre poltrone sono soffici, morbido il tappeto, il salotto tiepido; non pagano essi le toelette che ci fanno eleganti, nè l’accordatura del nostro piano che li delizia. Vorrai pure ammettere, senza peccare di superbia (sorrideva) che abbiamo un certo spirito: così il valoroso che ci dedica il suo amore non corre nemmeno il rischio di annojarsi tra un bacio e l’altro. Essi, sicuro, vogliono farci credere che ci amano per farci piacere; ma il piacere lo fanno a sè stessi.
Sofia rimase un momento sopraffatta; poi seguendo lo slancio dei suoi pensieri superficiali gridò:
— E allora ho dunque ragione di dire che noi, povere donne sensibili, siamo costrette a cercare senza posa....
— Punto — interruppe Maria, dissimulando un sorriso per la singolare conclusione. — Io direi invece che, poichè è sempre la stessa cosa, meglio il marito co’ suoi difetti, co’ suoi sbadigli, colla sua veste da camera.... Non sarà eroico, ma è sincero.
Sofia rise di cuore. Questa dissertazione sugli uomini l’aveva divertita: gli uomini erano un tema favorito per lei, anche a costo di dirne male, o di lagnarsene, o di vituperarli, accusandoli di tutte le disgrazie che colpiscono il sesso debole.
— Siamo curiose noi due — disse alla fine. — Invece di raccontarci le nostre vicende siamo qui a discutere come avvocati.
— Sì, parliamo un poco di noi.
— Prima te. Che vita fu la tua dopo il collegio?
— Ho sofferto molto.
— Eppure sei rimasta buona: io vedi, quando ho qualche cosa che mi contraria divento cattiva.
— Così è dei piccoli dolori; inaspriscono — rispose Maria colla sua gran calma serena, colla sua voce calda, dalle vibrazioni sonore. — Solamente i grandi, i veri dolori danno forza. Tu vivi in una piccola cerchia di piccole emozioni; il tuo mondo interno, scommetto, ha le proporzioni dell’ambiente che ti circonda: un salottino, un lembo di cielo, un raggio di sole, un po’ di aria... quanto basta, appena per respirare.
— Ma io...
— Cara, non te ne faccio una colpa. È press’a poco la vita di quasi tutte le donne. Che eri tu a cinque anni? Una bella bambina vestita di bianco, coi capelli sciolti sulle spalle; la mamma ti adorava, ti baciucchiava, ti chiamava il suo tesoro; gli amici di casa ti portavano i confetti... non è così?
— Precisamente.
— E a quindici? A quindici, l’abito era ancora bianco, quando non era color di rosa, ma sempre fatto all’ultima moda sotto l’occhio vigilante della mamma. Gli amici di casa, invece dei confetti, ti offrivano dei fiori, delle romanze... ti facevano dei complimenti. Ti alzavi alla mattina cantando, poi andavi a passeggio; alla sera ballavi. Tutti sorridevano intorno a te, facevano a gara per persuaderti che la vita è seminata di rose.
— È vero.
— Ti presentarono finalmente un marito; era giovane, ricco, piacente.... tu lo hai preso.
— Oh! — sospirò Sofia — non tutto questo, ma infine fu proprio così.
— Ed ora concludi: come è vuota la vita! Ma sai perchè la trovi vuota? Perchè non hai sofferto mai.
In fondo alla sua leggerezza Sofia non mancava nè di cuore, nè d’ingegno. Le ultime parole dell’amica la colpirono fortemente; Maria se ne accorse e cedette più volontieri ancora a un sentimento generoso che le dettava di essere la prima a rivelarsi.
— Senti; io rimasi orfana presto e per questo dovetti imparare a reggermi da me e ho conosciuto che cosa vuol dire lottare.... Tu meriti la mia confidenza, Sofia; mi hai accolta in casa senza saper nulla di me; voglio renderti la prova di fiducia, voglio aprirti intero il mio cuore.
— Oh cara....
Due lagrime spuntarono sugli occhi di Sofia e scendendo lungo le guancie, tracciarono un piccolo solco nella polvere rosa della cipria.
— Hai conosciuto mio padre — continuò Maria. — Sai che uomo era, e come ad una mente elevata unisse un carattere fiero ed indipendente. Povero, aveva fatto sforzi incredibili per provvedere alla mia educazione in collegio. Tornata con lui, la nostra vita ritiratissima veniva quasi interamente consacrata allo studio. Eravamo affatto soli; non avevo amiche; non andava mai al passeggio; il carattere un po’ selvaggio di mio padre e i suoi crescenti malanni, ci facevano il vuoto intorno; nessuna eco delle gioje mondane veniva a scuotere il silenzio claustrale della nostra casa. Leggevo a mio padre i suoi libri di storia e di scienze naturali; ascoltavo le sue dissertazioni, i suoi lamenti di vecchio disilluso, le memorie e i rimpianti del tempo passato.... e avevo sedici anni. Dentro a me la vita, intorno a me la morte.
— Povera Maria! Io sarei morta davvero. Mi ricordo, l’unica volta che venni a trovarti, che impressione mi fece il muraglione nero del tuo cortile, e quell’unico cipresso funebre che lo ombreggiava, e quella sala austera, vasta come un tempio, nuda e fredda come una prigione....
— Te la ricordi? Ebbene in quella sala austera, in quella sala che somigliava ad una prigione ho passato la mia giovinezza, quasi tutta
Nelle belle mattine di primavera, sporgendomi sul muraglione nero coperto di muffa, seguivo in alto il volo delle rondini e da un vicino giardinetto mi veniva a ondate il profumo delle glicinie che non potevo vedere; leggevo sui libri le descrizioni dei prati verdi e degli alberi in fiore; avevo qualche volta una voglia pazza di correre, di gridare, di buttarmi sull’erba, di allargare le braccia verso il cielo sconfinato.... D’estate, verso sera, sentivo le ragazze del vicinato che si vestivano, ridendo, e uscivano per il passeggio. Io mi accoccolavo per terra, sfinita, con un desiderio intenso di vivere. Non sapevo se io ero bella. Chi vuoi che me lo dicesse? ma avevo una voglia grandissima di essere bella e di essere amata.
— Ma proprio nessuno veniva in casa tua? Tuo padre non capiva che soffrivi?
Maria scosse il capo.
— Mio padre era vecchio, infermo, disilluso del mondo; la pace, una pace assoluta, era il suo bene. E poi, eravamo sempre in grandi impicci economici; nell’età in cui le altre ragazze vivono serenamente di sogni, io conoscevo già il prezzo del pane sudato, misurato.... oh! ma se tu sapessi come le avversità maturano l’intelletto, come tutto ciò che è lotta ringagliardisce e dà forza! Aggiungi che nella mia schiavitù avevo una specie di libertà superiore alle mie compagne, perchè mio padre non mi sorvegliava punto e nella sua biblioteca avevo trovato dei libri di filosofia, di scienza, di medicina sui quali io mi ero precipitata, come sull’unico spiraglio di luce che mi fosse concesso. Pascevo lo spirito per ingannare la lunga anemia del mio corpo.
— Hai sempre amato lo studio, tu.
— Sì, ma più che lo studio, la verità. Avevo la smania di sapere, di conoscere.... Frugai impavida in tutti i problemi religiosi e filosofici....
Da un lieve segno di stanchezza apparso sul volto di Sofia, Maria comprese che si era messa in un argomento troppo serio; la leggiadra donnina non poteva seguirla sul sentiero faticoso dove la sua anima aveva combattuto. Sostò improvvisamente, turbata, sentendosi un rossore sulla fronte; pentita forse di quell’abbandono di sè stessa.
Alle vive sollecitudini di Sofia, continuò:
— Tu vedi, ad ogni modo, come io crebbi; bene o male che sia, la mia educazione così differente da quella che si imparte alle fanciulle, mi fece quello che sono.
— E nessuna altra corrente ti sviò.... nemmeno più tardi?
— Vuoi dire l’amore? Esso venne e ribadì le mie catene da una parte, allargò dall’altra l’orizzonte delle mie gioje ideali. La mia esistenza non mutò affatto — si fece solo più concentrata. Tutti i desiderî, le ansie, i sospiri che tacitamente mandavo al mondo, al di sopra dei muri della mia prigione; le aspirazioni sitibonde alla vita che mi tentavano nelle sere d’estate, quando sentivo l’eco delle gioje altrui; i turbamenti ignoti, le smanie cocenti, tutto ciò che ondeggiava come nebbia nel mio cervello, come fuoco latente nelle mie vene; tutta infine la mia giovinezza compressa e selvaggia si raddrizzò lanciandosi verso quel sentimento nuovo. L’amore prese subito il posto d’ogni cosa che mi mancava; ma l’amore compresso, l’amore segreto, l’amore senza speranza, il più fatale, il più forte degli amori!
Esso mi fu gioja, mi fu sorriso d’amica, mi fu carezza di madre, fu la fede del mio avvenire.... io non avevo che lui! Te lo immagini questo amore serio e profondo? Lo vedi crescere di giorno in giorno e mettere radici indistruttibili in un cuore come il mio, che non aveva nessuno degli allettamenti mondani?
Sofia strinse un momento la piccola testa tra le manine eleganti.
L’amica le avea schiuso un abisso di pensieri. Ella si trovava per la prima volta davanti ad una vera passione e ne provava le vertigini, non esenti da un brivido di terrore.
— Ma chi era quest’uomo? — domandò timidamente.
— Chi era?... (Un gran pallore passò sulla fronte di Maria). La crescente ristrettezza nostra ci consigliò di prendere in casa un giovane, caldamente raccomandato a mio padre per senno e sapere.
Quando dico un giovane non ti devi figurare.... no, non dei soliti. Egli aveva poco più di trent’anni, ma le fatiche di aridi studî lo avevano invecchiato anzi tempo, e più nello spirito che nel volto.
— Tuttavia ti piacque?
— Lo amai — disse.
E dall’accento grave, quasi solenne, Sofia colpita non replicò altro.
Trascorse un minuto di silenzio, dopo il quale l’amica avrebbe forse riprese le sue confidenze; ma durante quel minuto lo squillo del campanello avvertì l’arrivo di qualcuno; infatti la cameriera, facendosi sulla soglia, annunciò il signor padrone.
— Ripiglieremo questa sera i nostri discorsi — disse Sofia alzandosi.
— Con mio marito saremo obbligate a sorbirci un po’ di noja.... non è lui certamente che potrebbe comprenderti, cara la mia Mariuccia.
— Mi spaventi — rispose Maria abbozzando un sorriso, e poichè il passo del marito già risuonava nella stanza vicina, aggiunse:
— Ma chi hai dunque sposato?
— Non te l’ho ancor detto? Vedilo, il professore Emanuele Campo....
Maria emise un grido rauco, soffocato; fu assalita da uno smarrimento improvviso; si aggrappò colle mani contratte ai bracciuoli della poltrona quasi temesse di cadere; e Sofia nulla vide, nulla udì, essendo balzata verso l’uscio, spalancandolo, con fracasso di imposte sbattute e di allegro vocìo.
La camera, che Sofia aveva assegnata all’amica, confinava col gabinetto verdemare, mediante uno stretto passaggio esterno, coperto di vetri e tutto pieno di fiori, così che somigliava ad una serra. La camera dava sul giardino; le finestre erano chiuse, perchè la viaggiatrice sembrava molto stanca e si era ritirata quasi subito terminato il desinare.
Sofia attraversando l’appartamentino in punta di piedi, impartiva sommessamente gli ordini per il domani, raccomandando a tutti di non fare rumore perchè la signora riposava.
Ma la signora non riposava affatto. Appena entrata in camera si era gettata sopra una sedia, di traverso, colle braccia incrociate sulla spalliera e tra le braccia il capo, che si agitava tratto tratto sotto la convulsione dei singhiozzi repressi. Piccole lagrime scarse, cocenti le rigavano le guance e la bocca fremente ripeteva a bassa voce: «Emanuele! Emanuele!» con accento di spasimo infinito.
Per molto tempo rimase così, senza raccapezzare nessuna idea, schiacciata sotto il fatto tremendo che Emanuele era il marito della sua amica.
Intanto le ore passavano, inavvertite dalla sofferente, adducendo nella casa la profonda quiete della notte.
Al di là del gabinetto verde, nella camera degli sposi, si udì il rumore di una chiave girata con precauzione; poi un passo d’uomo.
Maria balzò in piedi stringendosi il capo colle mani.
Non avrebbe potuto, non avrebbe voluto dire nemmeno a sè stessa perchè quel passo d’uomo, nel silenzio della notte, la tormentava atrocemente; perchè ogni cadenza le si ripercoteva sul cuore, come un martello, straziandola — e peggio, peggio ancora quando il passo tacque, quando nella camera attigua non si udì più nulla.... Comprese allora in un momento solo, quello che non aveva mai compreso: le gelosie più orribili, le vendette più mostruose. E non bastava. Lei stessa avrebbe voluto morire sotto lo spasimo di torture inaudite, ma morire con lui, dello stesso dolore, uniti in un grido ultimo d’angoscia, che lo facesse tutto suo. Non era più l’anima di Emanuele che essa voleva, era il suo sangue; perchè l’amore in lei era giunto al parossismo supremo, all’odio.
Alla fine il suo forte carattere prese il sopravvento. Incominciò a spogliarsi lentamente, distratta; gli abiti cadevano e le si ammucchiavano intorno; ella li raccolse tutti, in una sol volta, e li gettò sopra una sedia. Poi spense il lume, brancicando al bujo per trovare il letto, e si cacciò sotto le coltri con una fretta disperata, come se in quel bujo, in quel silenzio, ella potesse sperare un rifugio contro sè stessa. Le molle elastiche scricchiolarono un istante; solo un’istante. Ella giaceva immobile, rigida come statua di marmo sul coperchio di una tomba.
Aveva gli occhi sbarrati nell’oscurità, e pensava.
Pensava che Emanuele era un povero giovane triste e taciturno, quando si presentò per la prima volta alla fanciulla che viveva col padre nella casa solitaria. Era serio, studioso, calmo; armonizzò subito coll’ambiente e colle persone. Le vecchie mura annerite videro un ospite di più — non un sorriso di più. Per qualche tempo Emanuele e Maria non ebbero che rapporti superficiali; parlavano delle loro letture, gravi entrambi, presente il padre che dava consigli.
Il giovane professore aveva una ricca biblioteca di classici latini e greci sui quali passava le notti.
Uscendo da’ suoi colloqui coi morti, una specie di freddezza gli rimaneva sul volto e nelle parole sempre misurate. Al suo temperamento poco espansivo, la rigidezza di studî severi aggiungeva una parsimonia di forma che lo avvicinava ai suoi eroi prediletti, i laconici greci.
Maria, seria anch’essa, sentì prontamente una viva simpatia per il suo compagno di prigione; ma era appassionata, avida d’amore, e la simpatia non poteva aver freni.
I primi morsi della fatale passione li aveva avvertiti in un senso di malinconia e di gelosia fortissima. Quando Emanuele usciva di casa, i muri le sembravano più tetri, il silenzio più sepolcrale. Si abbandonava sul davanzale della finestra, coll’occhio perduto nel vuoto orizzonte, anelando dietro i passi di lui; invidiava il selciato sul quale egli posava il piede, l’aria che gli agitava i capelli, le persone che lo vedevano, gli oggetti che egli toccava, i libri che lo interessavano; il paesaggio, il muro, l’insetto, il granello di polvere sul quale cadeva lo sguardo di lui dolce e freddo.
Una smania terribile la struggeva nelle lunghe sere d’inverno, pensando ai tiepidi salotti che lo avrebbero accolto, tra i sorrisi di donne eleganti e felici; e nei languidi pomeriggi estivi, immaginandolo al rezzo dei giardini, nella penombra delle verande, in quella società, in quel mondo da cui essa era bandita.
Nè la fantasia si chetava su queste immagini; ma, incalzando, la turbava fino nell’intimo delle viscere coi misteri dell’ignoto.
Di fronte ai problemi scientifici, la sua anima mirabilmente temprata, non aveva perduto i suoi veli, e la vergine si arrestava sul limite del passo vietato. Pure ne sentiva gli acri struggimenti, e certe sere, quando il giovane rientrava, calmo, sereno, un po’ pallido, ella avrebbe voluto avventarglisi contro per strappargli il segreto della vita. In quelle sere ella intuiva più che mai l’umiliazione del suo amore incompiuto.
Forse egli leggeva tutto ciò negli occhi di Maria, bellissimi; forse la lotta era incominciata in lui prima ancora che nella fanciulla.
Chi parlò? Nessuno. Si compresero. Allora egli le scrisse:
«Vi sono dei momenti nella vita in cui si maledice la ragione che frena i moti più soavi del cuore; vi sono dei momenti in cui si invoca come grazia celeste la più leggera spensieratezza che ci tolga la memoria del passato e le previsioni dell’avvenire per lasciarci godere interamente le dolcezze del presente. Amica mia, io sarei felice se potessi tutto abbandonarmi ai moti del mio cuore, assecondarlo in tutto, e tutta in voi versare la piena dell’affetto che lo innonda.
«Non facciamoci illusioni, la nostra amicizia ha cambiato natura; io sento che voi non siete più per me un’amica come tutte le altre, sento che mi soggiogate e mi inebbriate... Ah! Maria, non posso assecondare in me e forse eccitare in voi una passione che non so dove debba finire, che so anzi finirà col logorarci a vicenda in aspirazioni vane e in vuoti desideri? Pare una crudeltà, pare un’empietà spogliare questi poveri giorni che chiamiamo vita, di quella poesia e di quelle gioje di cui qualche rara volta li circonda il cuore; ma l’uomo di carattere è costretto a queste crudeli privazioni. Io non posso, io non debbo amarvi.»
Maria pianse molto e poi rispose a questa lettera con una sola parola: «Vi amo.»
Tutti i giorni l’ampia capacità di un vecchio vaso di terraglia, posato sul caminetto, nascondeva una lettera. Quelle di Emanuele erano contegnose e studiate, quelle di Maria irrompenti con tutto il fuoco della passione. Ella avrebbe voluto scuotere, elettrizzare il giovane stoico, che sembrava aver preso per divisa: «Poco mi allegro e poco m’addoloro.» Ma egli resisteva con una tenacità tranquilla che infiammava maggiormente la fanciulla, dandole un desiderio affannoso di sacrificarsi, di trasfondere in lui i suoi santi entusiasmi e la sua fede inalterata.
Crescendo l’amore le cresceva pure la gelosia e quel vago terrore del mondo che non conosceva. Le ore che Emanuele passava fuori di casa erano per Maria altrettante ore di supplizio, accresciute dalla solitudine e dal doversi frenare sempre, soffocando ogni palpito, ligia alla sua parte tranquilla e rassegnata di infermiera, ma coi sensi in tempesta e l’animo ansioso, inappagato.
Questa passione senza speranza aveva delle strane voluttà. Dopo una lettera seria, asciutta, nella quale era stata considerata con calma la necessità di troncare l’inutile corrispondenza, essi si incontravano nel salotto e passando dietro la poltrona dell’infermo le loro mani si scambiavano una stretta eloquente; poi i loro sguardi non si abbandonavano più. Al domani egli le scriveva:
«No, non sapete quanto mi siete cara e dilettissima sopra tutte le donne, quante lagrime secrete, quante interne e terribili battaglie mi costi questo nostro amore. Io non mi riconosco più. Abbandono gli studi che mi furono tanto graditi, i miei classici mi vengono a noja; che io vegli o ch’io dorma non penso che a voi.»
Felice di avergli strappato uno slancio di vero amore, Maria trovava la forza di ragionare a sua volta; ed era lei che parlava di doveri, di pura e di semplice amicizia.
In queste alternative egli fu leggermente indisposto; aveva delle fatiche straordinarie di professione, delle noje, delle seccature infinite; il suo scetticismo tornava a galla; imprecava alla vita. E Maria a consolarlo con tutte le tenerezze della donna innamorata.
Ma quell’amore non bastava ad Emanuele perchè egli non credeva all’amore. I suoi sogni giovanili si erano dileguati davanti a un convincimento, sempre crescente, che l’amore non è altro che illusione. Tolta la necessità materiale di unirsi ad una donna, il giovane scettico non vedeva, non sentiva altro. L’affetto appassionato di Maria se, qualche volta, riusciva a scuoterlo e a commuoverlo, gli lasciava però sempre lo sgomento di una grande aberrazione.
Nei momenti più dolci, quando la fanciulla gli dava l’anima negli sguardi e sembrava implorarne la pietà, presso a cedere, una voce inesorabile gli mormorava all’orecchio: Anche questo non è altro che illusione. — E si rifaceva freddo, non volendo essere trascinato in quel tumulto di palpiti e di desiderî, non volendo soffrire, non volendo amare — amando tuttavia, debolmente, per impulso di lei e per la viltà del cuore, che si faceva, a sua insaputa, alleato dei sensi.
Una volta, la lettera che Maria trovò in fondo al vecchio vaso terminava con queste parole, che la gettarono in un turbamento indicibile: «un vostro bacio sarebbe il miracolo che muta l’inferno in paradiso.»
Nelle sue lunghe ore solitarie, Maria doveva averlo provato il desiderio di un bacio, del primo bacio d’amore, che non sapeva, ma supponeva differente da tutti; mille volte questo desiderio doveva esserle salito dalle labbra allo sguardo; e nei colloqui della sera, sotto la blanda luce della lucernetta, un’attrazione invincibile doveva trascinarla verso la bocca di Emanuele, il disegno della quale, puro e gentile, spiccava con un fresco incarnato sulla barba bionda.
È certo che non esitò. La stessa sera, quando Emanuele venne a congedarsi, ella gli fece un piccolo cenno, puntando l’indice nella direzione di una scaletta che egli doveva salire per recarsi in camera: poi si salutarono, freddi in volto, comprimendo i battiti del cuore.
Trascorsero alcuni minuti durante i quali Maria tendeva l’orecchio al suono smorzato dei passi che si allontanavano; e intanto accomodava i guanciali sulla poltrona del padre, con un tremito nelle gambe, colle mani fatte di ghiaccio. Ascoltò ancora — nessun rumore. Egli era là.
La scaletta si rizzava, ripida, parcamente illuminata nei gradini inferiori; buja in alto. Maria attese un richiamo, cercando cogli occhi nella semi oscurità, sperando di vederlo subito. Nulla. Guardò allora angosciosamente in alto dove i gradini si perdevano nelle tenebre fitte. Non un cenno, non un bisbiglio; ma nel silenzio di quell’ombra c’era una vertigine che l’attirava. Fece ancora qualche passo, smarrita, finchè un respiro affannoso le venne incontro e due braccia possenti la presero attraverso le reni.
Il corpo di Maria si piegò come un giunco, abbandonandosi, provando l'impressione di una ferita acutissima. Sotto la dolcezza dell’amante ella sentiva fremere, repressa, una brutalità ignota. Eppure mentre tremava in quella violenta rivelazione, mentre un senso nuovo, quasi doloroso, si destava in lei dal bacio di Emanuele, una tenerezza struggitrice, un bisogno di darsi, di sacrificarsi le faceva mormorare: «ti amo, ti amo!» Al che egli non rispondeva altro che stringendola maggiormente, con un rantolo nelle fauci.
Ed ora, coricata su quel letto straniero, cogli occhi aperti nella oscurità di una camera ignota, Maria rivedeva quella scaletta, risentiva quel primo bacio al quale molti altri erano seguiti di poi senza cancellarne la profonda impressione.
Sostò per poco, ondeggiando col pensiero in un periodo di deliziosi incanti, durante il quale i giorni volavano in una continua ricerca di furberie e di astuzie per stringersi in un amplesso rapido, per ripetersi che si amavano. Nelle lettere, Emanuele diceva ancora che bisognava combattere una passione insensata, le chiedeva scusa per aver turbato co’ suoi ardori la casta tranquillità di lei; le prometteva di frenarsi, di soffrire, di non chiedere più nulla. Un solo istante però distruggeva tutte queste saggie teorie. Così nel cuore di Maria ardeva sempre la fede, alimentata dai giovanili entusiasmi e dall’immenso amore.
Ad onta delle sue letture, ella, dotata di molto idealismo, era rimasta ignorante sulle verità materiali dell’esistenza; come un cieco che abbia studiato a perfezione il meccanismo della vista, ma che non vede. Istintivamente sentiva che nell’amore di Emanuele per lei c’era qualche cosa che non poteva capire, differente dalle sensazioni sue proprie; ma che cosa fosse preciso non cercava. Non era curiosa, non era maliziosa.
Quando la bocca di Emanuele così piccola, così gentile, le dava nel bujo quei baci virili che la sorprendevano e la turbavano, ella rimaneva per poco sotto l’assillo di una curiosità indeterminata, che svaniva poi nei tranquilli colloqui intorno alla lucerna, allora che il giovane professore, calmo, colla sua voce monotona, rispondeva alle controversie del padre; e l’impressione violenta svaniva per lasciar posto a una idealità piena di dolcezza.
Maria non pensava neppure che vi potesse essere un pericolo per lei in quell’amore. Era cresciuta con un principio di morale, non bigottamente ristretta, ma di una conclusione rigida e inflessibile. A’ suoi occhi, l’abbandono completo di una donna, quando non fosse reso legittimo, metteva capo a una vergogna incancellabile.
Certe parole grosse, brutte, ch’ella aveva udite per caso, le sembravano applicabili a tutte le donne che cedono; e nei momenti di maggior debolezza, il ricordo di quelle parole le faceva salire alla fronte una fiamma di vergogna. L’uomo ha un altro, diverso e vasto campo in cui esercitare la virtù; egli ha le virtù cittadine, politiche, patriottiche e guerriere; ha l’onestà della carica che occupa e dei commerci che intraprende. La donna non ha che questa povera, modesta virtù del resistere, che cresce nell’ombra, spoglia di gloria, quasi sempre inapprezzata. Non importa; Maria aveva fede in essa; sperava che Emanuele avrebbe superati gli ostacoli che li dividevano e si sarebbero alfine sposati.
Si voltò dolorosamente nel letto; la successione delle idee che le presentava in quadri spiccati le scene principali nella sua vita, l’aveva condotta ad una scena ch’ella non poteva ricordare senza sentirsi dare un tuffo nel sangue. Sempre la tetra casa, l’abbandono, la miseria e suo padre morto — questa la cornice. Nel mezzo, lei, disperata, folle, abbracciata come un naufrago ai ginocchi di Emanuele.....
A questo punto, con tutte e due le mani, prese il guanciale e se lo pose sul volto, premendo, non trovandosi abbastanza nascosta nelle tenebre, desiderando nascondersi a sè stessa in un bisogno di annientamento; ma anche soffocata dal guanciale vedeva gli occhi di Emanuele senza lagrime intanto che la sua voce misurata le diceva: Non posso farti mia.
E l’amava, sì, l’amava; ma non aveva la fede che inspira, non aveva il coraggio che spinge alla lotta, non si sentiva la forza di darle la sola prova d’amore che un uomo possa dare ad una donna onesta: soffrire con lei, lavorare per lei...
E dopo tanti anni, lì, in quella camera che apparteneva a lui, su quel guanciale dove egli aveva forse appoggiata la testa sognando di un’altra, i singhiozzi della povera donna scoppiarono alti, irrefrenati.
Sofia avevo fatto preparare la colazione per le undici.
— È troppo presto forse? — domandò a suo marito, che passeggiava in su e in giù per il tinello con un certo orgasmo insolito.
— No, mi è indifferente.
E si piantò dritto davanti alla finestra per non vedere sua moglie, oppure per concentrarsi nella fissazione di un pensiero ostinato, col naso sui vetri, tormentando colla mano destra la barba. Improvvisamente domandò senza voltarsi.
— Non mi hai mai parlato di questa tua amica...
Sofia era uscita. Egli si buttò allora sopra una poltrona, coll’occhio fisso sul pavimento, finchè vide agitarsi nel vano dell’uscio il lembo di un abito color di viola.
— Signora...
Era in piedi, nell’attitudine rispettosa di un uomo educato quando saluta una donna.
Maria non serbava, della sua notte insonne, che un malinconico pallore. La pupilla asciutta aveva ripresa l’abituale serietà; e tutto in lei, dal parco sorriso al gesto dignitoso, annunciava un completo dominio di sè stessa. Non credeva di trovare Emanuele solo, e però approfittando dell’occasione, con grande coraggio gli disse:
— Mi dispiace, signore, che jeri, paralizzata dalla sorpresa inaspettata... non abbia trovata la presenza di spirito di salutarvi subito come una vecchia conoscenza... Non posso però continuare una finzione...
Egli la interruppe con dolcezza affettuosa:
— Ed io pure mancai di questo spirito — sorrise amaramente — sapete che non ne ebbi mai troppo... ma ora la nostra posizione è stabilita così; non possiamo cambiarla. Che ve ne pare?
Sofia entrò saltellando; aveva udita la voce dell’amica e veniva a darle il buon giorno colle mani piene di fiori. Ella aveva di queste inspirazioni civettuole e gentili.
Sedettero a mensa tutti e tre, Maria leggermente preoccupata dalla complicità di silenzio che Emanuele le aveva imposta; complicità che andava sviluppandosi e facendosi sempre più intima e pericolosa, per l’incontro degli sguardi fuggevoli, per una parola detta a caso e nella qule essi ritrovavano un lembo del passato, per certe inflessioni di voce, che ricordavano loro tante ore di felicità.
Gli occhi di Emanuele, di un grigio dolce e freddo, si posavano senza audacia, ma con una attrazione frequente e prolungata sul volto e sulla persona di Maria; un momento le parve che egli le guardasse la bocca con insistenza; arrossì e si ritrasse istintivamente.
— Mangi sempre così poco? — le domandò Sofia.
— È un’abitudine.
— Americana? Oh ma qui bisogna cambiarla; ora devi ritornare milanese... poichè non ci abbandonerai più, spero?
Maria fece un gesto vivace.
— Come? vuoi tornare laggiù?... e per che fare, mio Dio?
— Non so... non sono decisa... fra pochi giorni prenderò una risoluzione.
— Speriamo favorevole per tutti — disse Emanuele sorridendo.
Portarono il caffè.
— Amaro? — disse ancora Emanuele, più che non chiedesse, offrendone una tassa alla signora.
— Amaro! — esclamò Sofia. — Che idea!
Emanuele e Maria scambiarono uno sguardo.
— Lo prendo amaro difatti — rispose Maria con semplicità. — Tuo marito ha indovinato.
Sul vassojo del caffè c’era una lettera per Sofia.
— Notizie del bambino? — domandò il marito.
— No, sono biglietti per il concerto di questa sera.
— Chi li manda?
Sofia esitò un momento.
— Bandini — disse poi, risoluta; e volgendosi a Maria:
— Ti piace la musica?
— Sì... secondo...
— Precisamente come a mio marito. Credo che potreste andar d’accordo voi due.
Guardò i biglietti, ai quali andava unito il programma: Mendelssohn, Chopin, Liszt... e passando rapidamente, com’era suo costume, da una cosa all’altra:
— E il disegno? Una volta disegnavi. Te ne occupi ancora?
— Era una delle mie distrazioni nella seconda solitudine che trovai in America.
— Anche là? — chiese Sofia guardandola in fondo agli occhi. — Mi racconterai tutto, non è vero?
Si volse bruscamente verso Emanuele.
— È stata molto infelice, sai? E non lo meritava.
Questa volta fu Emanuele che arrossì.
Sofia era andata a prendere una cartella di disegni, dove stavano raccolti in artistico disordine foglie d’ornato, studî di nasi e di mani e qualche paesaggio alla matita.
— Guarda, se non ti ho sempre voluto bene. Ho ancora questo schizzo campestre che mi hai regalato l’ultimo anno di collegio. C’è scritto di tuo pugno: «Alla mia cara Sofia.»
Un foglietto scappò fuori dalla cartella e cadde sul tappeto. Emanuele lo raccolse lestamente.
— Rendilo — disse Sofia tendendo la mano.
— Al suo legittimo proprietario — rispose Emanuele accostandoselo al petto. — Sei stata tu che me lo hai portato via per copiarlo.
— È vero, ma siccome non l’ho copiato... — Glielo prese con femminile imperio, e lo mostrò all’amica. Era il Bacio di Francesco Hayez; ma Maria doveva conoscerlo da molto tempo, esso doveva ricordarle una folla di tormentosi pensieri, perchè lo guardò appena e si alzò in piedi, incapace di dominarsi più a lungo.
Quel dialogo d’amicizia a sostrato d’amore, tutti quei sottintesi, quelle tacite complicità la mettevano in uno stato di agitazione penosa e paurosa.
Anche Emanuele si trovava a disagio e stimò meglio allontanarsi, sorpreso di sentirsi scosso nella sua calma abituale e di non aver pronto sulle labbra lo scettico sorriso che lo consolava di tutto.
Quando le due donne rimasero sole, Sofia volle che l’amica continuasse il racconto della propria vita, interrotto il giorno prima dall’arrivo del professore, ma ogni idea di Maria era sconvolta, alterata. Sofia le si presentava adesso come l’ultima persona del mondo alla quale ella potesse fare delle confidenze. Non entrò in particolari, scorse di volo e sommariamente la storia di un amore infelice, per concludere che si era trovata sola, alla morte del padre, senza appoggio, senza consigli.
Ferita nella più intima delicatezza del suo amore, troppo ingenua forse e troppo rigida per comprendere e per perdonare ciò che vi era di logicamente, di umanamente ragionato nel rifiuto dell’uomo scoraggiato e povero, ella volle strapparsi dal cuore una passione alla quale aveva sacrificato invano i più caldi entusiasmi, i più ardenti desiderî della giovinezza.
Confessò di aver dovuto lavorare per vivere, di essere scesa mille volte a patti colla propria coscienza, domandandosi se non era meglio gettarsi nelle braccia del suo amante e dimenticare tutto; ma non aveva la tempra delle donne che cedono. In lei la resistenza era natura ed era convinzione.
Si allontanò e fece di tutto per dimenticare. In quest’opera fu molto ajutata dalla conoscenza che fece di un uomo intraprendente, simpatico, generoso, un uomo che aveva buona parte dei meriti che mancavano a Emanuele ed anche dei difetti che il professore non aveva; ma erano difetti amabili che agli occhi di Maria, avida di contrasti, dovettero sembrare virtù. Ardire elegante, modi spigliati, cuor leggero e caldo; tutto ciò era il contrario della freddezza sospettosa, dello scetticismo scorato che l’aveva fatta soffrire.
Quell’uomo che la conosceva appena le offerse subito il suo nome e le sue ricchezze. Maria ne fu così tocca, che ebbe quasi vergogna di aver dato le primizie della sua anima a un essere che non aveva saputo comprenderla. Si gettò ad occhi chiusi nel nuovo amore, non trovando più le ebbrezze del primo, ma con una voglia di stordirsi, con un bisogno prepotente di quella felicità che le era sempre mancata.
Il matrimonio avvenne due mesi dopo e gli sposi partirono immediatamente per l’America, dove il giovane intraprendente aveva iniziato un commercio su larga scala.
Se Maria credeva di trovare nel marito la realizzazione di quell’ideale che con Emanuele le era mancato, dovette presto convincersi che anche questa volta si era ingannata.
L’uomo che l’aveva sposata, con una leggerezza alla quale la passione era affatto estranea, la abbandonò colla stessa leggerezza, scevra di cattiveria, in una di quelle sterminate lande dell’America del Sud, quasi sola con pochi contadini e mandriani alla testa di una tenuta grandissima, ricca di pascoli, dei quali egli aveva iniziato il traffico e poi, stanco, se ne era allontanato, passando dei mesi interi a Buenos-Aires in allegre compagnie.
È ben vero che Maria aveva dal marito frequenti inviti di seguirlo in città, dove ella avrebbe potuto abbandonarsi a tutte le seduzioni di una vita elegante e scapigliata; avrebbe potuto essere la compagna delle sue cene, delle sue partite di piacere; darsi come lui ad una amabile spensieratezza; ma questo per Maria era impossibile.
Perduta ogni illusione di dolce ed intima vita di famiglia, non volendo d’altra parte concorrere alla rovina del marito nè farsi sua complice, ella vide la sua strada semplice e retta, attaccata alla casa, ai doveri che il marito trascurava. Si pose alla testa degli affari, attiva, intelligente; si fece rispettare, si fece amare sopratutto dai coloni che dipendevano da lei. Un servo abile ed onesto, Pablo, fu il suo interprete nei primi tempi, il suo ajuto di poi e sempre.
Ferita due volte, Maria non si abbandonò allo scoramento; ma dal suo stesso dolore traendo forza, invece di imprecare contro un ideale svanito, mosse coraggiosa alla ricerca di altri veri. Come un condottiero in campo nell’ora disperata si raccoglie intorno i migliori soldati, ella fece appello ai più nobili sentimenti, alla carità, al perdono.
Il suo primo, il suo unico amore, come una dolce memoria lontana, venne a tenerle compagnia nella nuova solitudine.
Dall’esperienza della vita, dalla conoscenza degli uomini, aveva attinta una filosofica rassegnazione e attraverso questo prisma guardando la condotta di Emanuele giunse a scusarla, a spiegarla, quasi logica conseguenza delle lotte interne che contristavano quella povera anima. Allora fu colta da una tenerezza senza nome, mista di acuti rimpianti e di infinita compassione. Il deserto che la circondava fu presto popolato dall’immagine di Emanuele; le memorie del passato accorsero in folla e ritrovarono subito il loro posto antico.
Bastava una parola, un profumo, una data luce, uno scalino sprofondato nell’ombra, perchè, in mezzo alle più aride occupazioni giornaliere, le si sprigionasse un vulcano di desiderî sopiti, non spenti; e un tormento continuo, e un rimorso d’averlo abbandonato; un accusare sè stessa di non essere stata generosa, di non essersi sacrificata interamente.
Da queste lotte che avrebbero insterilita una persona volgare, Maria usciva radiante di fede, portando nel suo piccolo mondo un raddoppiamento d’affetti, una intelligenza squisita delle sofferenze umane; un compatimento, una misericordia che non si stancavano mai, perchè si alimentavano della ferita ch’ella aveva nel cuore.
Improvvisamente suo marito morì, vittima di una rissa in una casa da giuoco.
Trascorso l’anno di lutto, Maria, affidando i suoi vasti possedimenti nelle mani di un agente sicuro, era venuta in Italia accompagnata dal suo fido Pablo.
E quando, spoglio d’ogni riflessione personale, ella ebbe fatto a Sofia il racconto succinto del suo matrimonio, della vita in America e della morte del marito, Sofia celiando le disse:
— E se ora ritrovassi il tuo primo innamorato?
— Impossibile — rispose Maria, seria.
— Perchè?
Alfredo Bandini nel mandare a Sofia i biglietti per il concerto, se ne era riservato uno per sè, proprio accanto alla sedia di Sofia; e per tutta la durata del concerto stette su quella sedia, nell’attitudine di un picchio sul ramo, parlottando a voce bassa colla sua bella vicina, sorridendo, lisciandosi i baffi e i capelli e gettandosi indietro tratto tratto sulla spalliera, per mostrare il panciotto d’ultimo taglio, teso a perfezione sul torace apollineo.
Sofia, dal canto suo, tutta gaja in una elegante toeletta color d’avorio, con una profusione di serenelle sul cappellino e sul seno, era felice di quel corteggiamento in piena folla che la additava agli sguardi invidiosi delle altre signore e le dava, per così dire, la marca di fabbrica di donna elegante.
I notturni delicati di Chopin, le strane fantasie di Liszt passavano nella sala attraverso le piume dei cappellini, che si agitavano lentamente, seguendo il ritmo armonioso, tra un’onda di profumi acuti e penetranti. Il silenzio era di rigore; ma alcuni gentili bisbigli rompevano la consegna, accompagnati da occhiate lunghe, da brevi sorrisi, da un agitarsi molle dei ventagli. Le signore più eleganti avevano un mazzolino di fiori sul seno, a sinistra, e tratto tratto lo accomodavano con le manine inguantate.
C’erano, fra tutte quelle signore, le abbonate ai concerti, quelle che non mancano mai dovunque siavi un pianista da giudicare, un violinista celebre, una cantante straniera — dilettanti appassionate e imperterrite, a prova di sbadigli. C’erano le artiste vecchie, ritirate dalla scena, ora maestre di canto — grosse, grasse, vestite a panneggiamenti e a drappeggi come un arco trionfale, aventi nelle orecchie i diamanti regalati dall’imperatore di Russia, al bel tempo dei loro successi. E poi le novelline, le allieve, le aspiranti alla gloria della Patti ed a’ suoi milioni. Infine le indifferenti, quelle capitate per caso, per ozio, per curiosità, per compiacenza, ed anche semplicemente per trovarsi con qualcuno e potersi guardare due ore di seguito negli occhi.
In fondo alla sala, Sofia scorse una signora di sua conoscenza, Elvira Bonamore, e la salutò con ripetuti cenni del capo, poi volle indicarla a Maria.
— Vedi laggiù quel cappello alpino con una penna di fagiano? È la Bonamore. Domando io come si fa a venire ad un concerto serale vestita come per andare a caccia.... Sarà per farsi osservar meglio. E l’inseparabile cugino.... vedi? un biondo un po’ calvo. Graziosissimi....
L’orchestra cominciò a suonare il minuetto di Boccherini. Tutte le signore presero una attitudine attenta e soddisfatta. Sofia rovesciò il capo e tenne gli occhi socchiusi, le braccia languide, come vinta da un gran fascino; i suoi piedini, allungati, riposavano sui piedi di Bandini. Una dolcezza somma alitava per l’aria. Visioni rosee, sorridenti, attraversavano le fronti amabilmente pensose. Sorgevano, sotto le note del Boccherini, le dame del settecento così civettuole nei loro tupè cosparsi di polvere di Cipro, cogli abiti scollati e le scarpine ad alti tacchi; scivolavano, con un fruscìo di panieri rigonfi dietro i paraventi dorati, su uno sfondo verde tenero dipinto ad amorini.
Un galante cavaliere in calzoni di raso color perla, col cappello schiacciato sotto l’ascella e lo spadino ciondolante sulle coscie, le passava in rivista, ciarlando con un abatino dagli occhi a mandorla, dalla parrucca profumata e dalle mani candide coperte di brillanti.
Parchi ombrosi, mormorio di ruscelli, susurro di fronde, taciti sospiri d’amanti incompresi, lunghi baci d’amanti felici; sogni, palpiti, speranze, memorie, tutto ciò scaturiva dalle note, ondeggiava nei cervellini commossi, suscitando piccoli fremiti di piacere.
Una giovane vestita di bianco, con due cerchi plumbei sotto agli occhi, cantò l’aria di Gluck nell’Orfeo: «Che farò senza Euridice» e le marchese civettuole scomparvero, scomparvero gli abati e i cavalieri in spadino. Una fiamma calda di passione serpeggiò nella folla; molte testine si agitarono languidamente seguendo il ritmo della musica; le occhiate divennero più profonde; più intensi i rossori delle labbra morsicate dietro i ventagli.
Sofia mormorava piano a Bandini:
— Com’è bello! — e la sua manina, sotto il guanto di pelle bigia, premette la mano del giovane, così, come per caso; restando per qualche minuto ferma sulla mano di lui.
Il concerto terminò colla composizione originale di un nuovo maestro; una rapsodia violenta che scosse dalle membra gentili il torpore della seduta, tra il chiudersi dei ventagli, tra il grazioso affacendarsi delle pezzuole riposte e delle trine spiegazzate che tornavano a stendersi sotto una intelligente carezza.
La mantiglia di Sofia le era scivolata dalle spalle; Bandini gliela rimise, indugiandosi, intanto che ognuno si disponeva alla partenza; e standole vicino colle mani errabonde intorno ai veli, le mormorò all’orecchio:
— Mi è antipatica la vostra amica; ha la serietà di un inquisitore.
— È buona — rispose Sofia, convinta.
E uscirono insieme.
Nell’atrio incontrarono Emanuele.
— Che miracolo! S’è mai visto mio marito così previdente?
Il professore tutto chiuso nel suo pastrano e leggermente impacciato, si scusò:
— Temevo che non aveste cavaliere.
Una carrozza era pronta; le due signore si posero nel fondo. Emanuele additò un posto a Bandini, ma questi ringraziò molto contrariato, dicendo di dover andare per un’altra strada; Emanuele sedette solo, davanti alle signore.
Maria, rannicchiata nel suo cantuccio, ascoltava una impressione di malessere crescente; la ascoltava per studiarla, per rintracciarne le cause. Era il dolore di aver trovato Emanuele sposo di un’altra? Era, ma non del tutto.
Maria si sentiva a disagio fra quelle due persone a cui doveva egualmente mentire, e cercava il modo di uscirne al più presto senza parere ingrata verso Sofia.
Avvezza a una vita di pensiero, quella esistenza meschina e superficiale la irritava e le faceva male; vedeva chiaramente la china per cui Sofia scivolava e avrebbe voluto richiamarla a’ suoi doveri, ma si chiedeva se ne aveva il diritto e se era abbastanza pura per poterlo fare.
L’ambiente tiepido del concerto, la melodia dei suoni, la corrente sensuale che aveva dischiuso tanti sorrisi e accese tante scintille negli sguardi procacemente ricambiati, tutta quell’onda di mollezza, di abbandono, quel profumo di gentile peccato diffuso in ogni atomo, l’aveva momentaneamente prostrata.
Nella oscurità della carrozza, scorgeva la massa nera formata dal corpo di Emanuele, a un breve tratto da lei; i loro abiti si toccavano. Come mai i loro pensieri non si sarebbero incontrati?
— Non ho veduto al concerto la Guidobelli — disse improvvisamente Sofia.
— Si capisce — rispose Emanuele — poichè si trova già da cinque o sei giorni sul lago, nella villa di Ormani.
— È contento il marito? — chiese Sofia con una vocetta squillante.
— Contentissimo. Fra un mese al più saranno divisi legalmente.
La cosa parve naturale a Sofia, ed anche al professore, che aggiunse:
— Egli ha già pronto il conforto.
— La Rina Lucci, non è vero?
— Si dice.
— Dovrà allora abbandonare il suo capitano.
— O tenerli entrambi.
Il silenzio si rifece su queste parole. La carrozza andava avanti lentamente, nelle vie semibuje dei sobborghi lontani dal centro. Tratto tratto un fanale sull’angolo di una viuzza o al di sopra di una bottega gettava nell’interno un rapido sprazzo; fu in uno di questi momenti che Maria vide lo sguardo di Emanuele rivolto su di lei e ne provò un senso di tormento che tradusse rincantucciandosi più ancora nel bujo.
La sua gran calma era messa a una dura prova, nè ella stessa avrebbe saputo dire se più temeva la vittoria o la sconfitta.
Giunta a casa si fermò a discorrere con Sofia cinque minuti, in piedi, tra due usci. Sofia le disse che il giorno dopo doveva andare ancora a trovare il suo bambino, che sarebbe tornata subito, e appena appena fosse rimesso in salute l’avrebbe condotta anche lei a trovarlo. Non glielo voleva mostrare brutto, giù di ciera.... Le mamme sono molte civette.... La salutò, baciandola sulle guancie, e poi sul punto di allontanarsi:
— Ah! mi dimenticavo; domani è il mio giorno di ricevimento; sarò a casa per l’ora delle visite, senza alcun fallo, ma se capitasse qualcuno, te ne prego, fa gli onori e scusami presso i miei amici. E scusami tu pure.
Sotto l’apparente volubilità, l’accento di Sofia avea qualche cosa di incerto, come un pensiero nascosto a stento nell’onda delle parole; Maria, nel salutarla di nuovo, sentì che le tremava la mano e si ritirò turbata da mille dubbi strani, inverosimili, malcontenta di una posizione dove tutto era mistero.
Emanuele amava Sofia? Sofia gli sarebbe rimasta a lungo fedele? Sapeva ella gualche cosa del passato di lui? Egli si curava dell’avvenire di lei? Da qual parte stava la virtù? Chi soffriva più dei due?... Chi mentiva meglio?
Queste e altre domande fluttuarono per alcun poco nella mente di Maria, confuse alle impressioni del concerto, all’attitudine spavalda di Bandini e a quella indifferente di Emanuele; ma tutte insieme non erano di natura tale da tenerla desta; al contrario le pesarono e le si aggravarono addosso finchè trovò pace in un sonno greve, senza sogni.
All’indomani, era un bel mattino primaverile e gajo, il terzo da che Maria si trovava a Milano. Aprendo la finestra le parve di sentire un’onda di profumi che venissero a darle il buon giorno. Maria li respirò a lungo, sentendosi rinascere nella purezza dell’aria fresca.
Appoggiata al davanzale, mentre respirava gli olezzi del sambuco e delle glicinie fiorite, le veniva in mente il suo meraviglioso giardino delle Estancias, dove tutta la flora americana pompeggiava nel massimo sviluppo, dov’ella aveva trovato la pace, dove tanti cuori di persone ignoranti e buone l’avevano amata sinceramente — e si domandò se era tornata nella sua patria per rivedere una vana amica e un amante infedele. Dovette pur confessare a sè stessa che la speranza di incontrarsi con Emanuele l’aveva spinta al lungo viaggio; e perchè la speranza non aveva oramai ragione di essere, poichè il passato era irrevocabilmente distrutto, a che restare?
Da un alto ramo della glicinia si staccò una fogliolina lilla, attraversando lo spazio: roteò un istante portata da una folata di vento, leggera, iridescente, bagnata nei vapori biondi del mattino che la facevano scintillare come un’ametista, poi cadde a piombo sul viale, dove fu presto confusa nell’umida e grigia uniformità della sabbia.
— Così è! — mormorò Maria a fior di labbro; e si staccò dalla finestra, tranquilla, ma con una punta di malinconia in fondo al cuore.
Nella cameretta che le avevano assegnata e che serviva prima di studiolo, c’era una libreria. Maria incominciò a guardare distrattamente il titolo dei libri, quasi tutti romanzi e poesie, finchè la colpì il cartoncino di un piccolo volume; quel cartoncino era giallo, con dei mazzi di rose rosse, somigliante a nessun altro; antico, puerile nelle sue aspirazioni di eleganza; aveva i tagli dipinti in color lacca e un nastrino verde, succinto, pendeva dal mezzo delle pagine.
Ella sentì un palpito alla rista di quel libro, lo prese tremando; era Puschin, uno di quelli che aveva letti in compagnia di Emanuele, uno de’ suoi più simpatici. Lo strinse nelle mani come un amico, e si pose a sfogliarlo febbrilmente, quasi dalle carte ingiallite potessero uscire fresche e vitali le illusioni d’una volta.
Rilesse: «Le procelle delle passioni rinfrescano, rinnovellano, maturano i cuori di vent’anni e fanno loro produrre splendidi fiori e frutti; ma nell’età provetta e infeconda il ravvivamento degli affetti, non genera che doglia e pianto, simili alle piogge d’autunno, che sfrondano i boschi.»
«Felice colui che si alza dal banchetto della vita prima di vedere il fondo del bicchiere.»
E rimase col libro aperto, abbandonato sui ginocchi e sovr’esso gli occhi immobili pieni di lagrime.
Fu bussato all’uscio timidamente.
Maria si alzò. Era la cameriera che veniva a chiederle se le occorresse la sua opera prima della colazione.
— La colazione? — domandò Maria trasognata. — Quante sono le ore?
— Le dieci e mezzo. Il padrone è già nella sala da pranzo.
Il padrone! Maria aveva dimenticato che la sua amica non c’era, che il padrone sarebbe stato solo con lei.
— No — rispose in modo reciso — non vengo a colazione. Favorite dire al mio domestico che si tenga pronto. Esco.
Uscì difatti quasi subito, seguita da Pablo.
A piedi, seguendo il semicerchio ombroso dei bastioni, Maria si incamminò al sud della città.
Aveva uno scopo prestabilito: andava lesta, sicura, come persona pratica dei luoghi e che ha fretta di giungere alla meta.
S’era vestita semplicemente per non dare nell’occhio, ma la sua alta e snella persona, il suo portamento, gli occhi neri e fulminei colpivano i rari passanti che si voltavano a guardarla.
Non era bella; era tipica nella perfetta armonia delle sue forme esterne col raggio che le veniva dall’anima, perchè quelle forme e quel raggio si fondevano in una generale espressione di vigore, di grazia e di bontà. Solamente a vederla passare dritta, elegante, coll’occhio severo e la bocca dolce che prometteva indulgenza, si capiva che non era una donna volgare, che pensava di più, e più alto, di quanto sogliono le altre.
Pablo seguiva a due passi di distanza. Le loro macchiette brune si staccavano vigorosamente sulla linea verde dei bastioni, nella chiarezza limpida di quel mattino di marzo.
Ogni tratto Maria si fermava per riconoscere la posizione; passò senza osservarlo molto il primo tratto dei bastioni, dove l’orizzonte è ristretto e la città presenta il fianco monotono di molte case aggruppate le une sulle altre, con piccoli giardini incolti a ridosso dei muri. Ma al di là di porta Vittoria il panorama si allarga; i piccoli giardini diventano ortaglie vaste e ben tenute; sorgono le cupole e i campanili delle chiese, fra le quali emerge il Duomo colle sue svelte guglie trinate — e lontano, oltre i tetti bruni delle vecchie case, oltre i tetti rosei delle fabbriche recenti, a nord, una linea ondulata: le Alpi.
In quell’ammasso grandioso di pietre e di tegoli caldamente lumeggiati dal sole, l’occhio di Maria seppe discernere l’ala nera di un palazzo diroccato, sotto l’ombra di un antichissimo cipresso rimasto ritto in mezzo al succedersi di case nuove e di piantagioni moderne, come una sentinella che non abbandona il posto. Maria guardò a lungo, affascinata dalle visioni del passato, ferma sul ciglio del bastione; poi riprese il cammino con passo ancor più celere.
Erano le undici, quando arrivò davanti alla casa che rinchiudeva per lei tante memorie. Nulla era cambiato; nè il portone basso e tetro, nè il cortile fasciato dalle alte muraglie coperte di muffa, nè le finestre coi balconcini panciuti di ferro battuto, a riccioloni, intaccati dalla ruggine; nulla era cambiato nell’aspetto austero, fra la prigione e il chiostro.
Solamente i locatori erano cambiati e nella vasta sala dove un vecchio infermo era morto, dove una fanciulla avea pianto, cinquanta bambini convenivano tutti i giorni a fare il chiasso. La vecchia casa cadente era stata utilizzata per un asilo infantile.
Quando Maria si arrestò sulla soglia del portone i fanciulli uscivano allora in corte per la ricreazione, sbrigliati, tumultuosi, chiamandosi a vicenda, rincorrendosi nello spazio angusto, sempre in pericolo di cadere; tenuti in freno da una maestrina di diciotto anni che aveva fra le mani un lavoro di uncinetto, nel taschino del grembiale un romanzo, e che pure s’affannava a gridare: «Zitti dunque! Tranquilli, ubbidienti. Ora viene la signora direttrice!» parole che volavano, inafferrate, al di sopra dello sciame brulicante, coperte dalle vocine stridule e dal rumore di cento piedini vivaci che battevano il lastrico.
Era una allegria spontanea, un erompere di forze giovanili, di desiderî nascenti, uno sgambettare senza scopo, un gridare senza dir nulla; e poi un aprirsi simultaneo di panierini ed una gaja esposizione di mele, di panetti lucidi, di chicche che dava luogo ad altro vocìo, ad altri sgambettamenti e a qualche baruffa incruente.
Non vi erano ombre malinconiche per quei fanciulli. Le loro risa salivano argentine nel cortile tetro, le snelle figurine mettevano degli affreschi vivi sul muraglione; i più arditi tentavano dare la scalata al cipresso.
Maria fu colpita da quell’onda di vita nuova che contrastava colle sue memorie; tanto rumore dove c’era una volta tanto silenzio! tanta gioja dov’ella era stata così mesta! Chiese alla maestra il permesso di assistere ai giuochi dei bimbi e la maestra lo concesse subito, pensando che la signora potesse avere dei bimbi da mandare a scuola.
Davanti a Maria si era fermata una ragazzetta vestita di celeste, colle braccia un po’ nude piene di fossette, colle gambe grasse dai contorni molli e due occhi estatici, grandi, lucidi, come bagnati, occhi di persona linfatica, che fecero pensare a Maria:
«Ecco una donna che non soffrirà, che non combatterà; che cederà la prima volta, e la seconda, e sempre..... e la chiameranno buona.» Discorreva con un’altra che presentava il tipo opposto; alta, sottile, nervosa, aveva le vene a fior di pelle e una piccola testa di razza, intelligente e pensosa, colla bocca seria e lo sguardo fermo nella pupilla affondata; sull’abitino di una tinta fredda, la carnagione bruna e trasparente usciva senza contrasti, più bruna nelle piegature del collo e sulla nuca dove spuntavano vigorosi i capelli nerissimi.
Maria guardò questa seconda bambina con un vivo interesse, quasi con una simpatia di famiglia; simpatia che crebbe e si fuse a un sentimento di compassione, nel momento che un fanciullo già grandicello, passandole accanto, la scherzò sulla sua pelle scura e sull’abito dimesso; e quel fanciullo si pavoneggiava in una tunica color verde bottiglia, con un gran collo di trine alla Richelieu, che faceva cornice alla testa di una virilità precoce e di una bellezza non comune; il suo sguardo duro e imperioso rivelava già l’abitudine della conquista; doveva essere il figlio di un ricco, adorato e viziato — un futuro tiranno.
E che pericolosa civetta quella bimba di sette anni, colla faccia di donna, che si è messa nascostamente dell’ovatta nel corpetto, che ha la pelle profumata dagli aromi sottili rubati alla mamma, che cammina col petto in fuori, colle anche snodate e guarda con insistenza provocatrice il bel ragazzo dalla tunica verde!
Un gruppo di piccini, biondi, colle gambuccie nude, ruzzolano nella terra del cortile e vengono ad abbattersi coi piedi, colle mani, con tutto, sull’abito di Maria, che sorride, gonfio il cuore di una tenerezza triste.
Quella infanzia giuliva così ignara dei mali che la aspettano, accresce la malinconia delle sue riflessioni. Che farà di qui a venti anni il piccolo filosofo dalle brachette aperte che è ora tutto intento ad anatomizzare una formica? — Non spezzerà egli allo stesso modo un povero cuore di donna? Quanto tempo ci vorrà perchè quel grazioso amorino ricciuto diventi un ipocondriaco, nemico di tutto il mondo? E gli ospedali, i manicomi, le carceri non recluteranno forse il loro contingente futuro tra quelle testoline ingenue che colla bocca rosea rosicchiano una mela?
— Età beata — disse la maestra, infilando una maglia.
Maria sorrise a guisa di assentimento e sollevati gli occhi guardò la finestra della gran sala, dove era trascorsa così mestamente per lei una età che si dice pure beata. Ritrovava i brandelli della sua giovinezza distrutta; li ritrovava sui cornicioni del davanzale che le aveva sorretta la persona stanca nelle languide sere di estate, quando da quel pertugio della sua prigione anelava le ebbrezze della vita e le sfioriva, nella lunga attesa, il desiderio. Li ritrovava nelle ombre grigie del cipresso, sul balcone dove ella spiava i passi di Emanuele, nel mistero della scaletta buja dove per la prima volta egli l’aveva baciata, nello sfondo cupo dell’alcova dove era risuonato quel fatale: non posso. E riportando lo sguardo sullo sciame vivace, no, no, ella pensava, nessuna di voi proverà quello che io ho provato. Non tu, paffuta biondina, che sarai madre di famiglia tranquilla e soddisfatta; non tu, bimba linfatica dagli occhi lucidi, che prenderai sempre nel mondo tutto quello che trovi, lasciando i sogni ai poeti; nè tu, piccola civetta, che darai i tuoi sorrisi a tutti ed a nessuno il cuore. Forse — ella guardava ora la fanciulletta bruna della testina intelligente — tu forse! Le si avvicinò, abbracciandola stretta stretta: Oh se io fossi tua madre!
La civettina, tenendo per mano il bel ragazzo dal collo alla Richelieu, propose il giuoco dell’ambasciatore. Sei bambini da una parte, sei bambini dall’altra. Avanti i primi:
«È arrivato l’ambasciatore.
«Tam tirum, lirum, lera....
— È un giuoco stupido — disse la brunetta.
— Quando si fa la sposa no — rispose la bimba linfatica.
— Io non la faccio mai la sposa.
La civettina si avanzò trionfante, perchè l’ambasciatore era venuto a prenderla «vestita di raso bianco» con centomila lire di dote.
— Che miseria! — esclamò il bel ragazzo — almeno cento milioni!
— Cento milioni è più che centomila lire? — domandò uno dei piccini.
Ma nessuno gli rispose.
La campana della scuola avvertì che l’ora della ricreazione era trascorsa. La maestra si levò in piedi dignitosamente e i fanciulli tornarono ad aggrupparsi, spingendosi verso l’uscio, gridando con un rinforzo di acuti, quasi per esaurire nell’ultimo momento di libertà le forze ginnastiche dei loro polmoni.
— Che noja! — mormorò la civettina dal busto imbottito, scuotendo le gonnelline. Il bel ragazzo dalla tunica verde, sfogò il suo malcontento con un gesto di sfida, dietro le spalle della maestra. Qualcuno era rassegnato, e tra questi la fanciulletta intelligente. I piccini non capivano nulla, continuando a trastullarsi in mezzo alla terra, finchè fossero venuti a levarli di peso.
In breve il cortile restò deserto, sparso di buccie di mele, di briciole di pane, di pezzi di carta e di qualche pezzuola dimenticata; nell’angolo dei piccini, sotto il cipresso, c’era una scarpetta, larga come un guscio di noce, piena di sabbia.
Maria si fermò un istante ancora, assaporando l’amarezza delle sue memorie.
Era invasa da quel pensiero mesto fra tutti, della indistruttibilità del passato. Si domandava perchè mai la vita è divisa sì crudelmente in parti che non attaccano l’una all’altra?
Perchè si passano dieci, vent’anni in un dato ambiente, con persone e con affetti che sembrano eterni, e poi tutto cambia; per altri dieci, per altri vent’anni, per sempre, nuove persone, affetti nuovi, più nulla di quello che è stato, nulla, tranne il rimpianto pungente nei cuori che non sanno dimenticare? E se tutto cambia, se tutto muore, perchè solo non muore il triste dono della memoria?
Comprese alla fine che era necessario partire: e lo fece con rincrescimento, a brevi e lenti passi, mormorando fra sè: Addio, addio: come si staccasse da persona viva.
Le vocine dei bimbi, in alto, sotto la volta cupa del salotto ripetevano in coro: Ba-Bo-Bu.
Suonava il tocco alla chiesa della Passione quando Maria rientrò nell’ultima casa di via Monforte. Proprio in quel momento un giovinotto correva dietro a una vettura da nolo, vuota, e raggiuntala intimava al cocchiere di condurlo a rotta di collo alla Stazione centrale.
Maria non avrebbe fatto attenzione a questo incidente, se nel giovinotto non avesse riconosciuto Alfredo Bandini — elegantissimo, come sempre, stretto in un abito blu con una cravatta blu a grossi piselli bianchi e un cappello a cencio posto sull’occhio destro. Tra le mani coperte di guanti svedesi aveva un fiore di così rara bellezza che Maria dovette guardarlo, ammirata: era una gardenia, stradoppia, di un bianco vellutato.
— La signora ha di queste gardenie alle Stancias — disse Pablo.
— Sì.
Ma già Bandini era balzato in carrozza, e Maria tornando a’ suoi pensieri saliva le scale silenziosa.
— È ritornata Sofia? — domandò alla cameriera.
— Nossignora. La corsa arriva fra cinque minuti: la mia padrona sarà qui fra un quarto d’ora, se pure non vi sono ritardi.
L’immagine di Bandini tornò a passare, come un baleno, nella mente di Maria: e di nuovo svanì, nel raccoglimento della sua cameretta. La cameriera che l’aveva seguita le disse:
— Il signor professore l’ha aspettata a colazione.
— Dovevate dirgli che ero uscita.
— Glie lo dissi; ma egli l’ha aspettata egualmente fino a mezzogiorno.
— Ed ora è uscito?
— È nel suo studiolo.
— Aspetta la vostra padrona adesso.
Su queste parole Maria congedò la cameriera e prese dalla libreria il libro di Puschin: lesse, in apparenza tranquilla, fino all’arrivo di Sofia, il quale arrivo fu segnalato da uno sbattere di porte, da uno squillare di campanelli e dal passo affrettato della cameriera, che correva dall’una all’altra stanza.
Maria pensava di lasciar libera Sofia nei primi momenti: ma la graziosa donnina senza nemmeno levarsi il cappello venne a salutarla, colle sue solite espansioni vivaci. Era allegra, molto colorita in volto.
— Il tuo piccino sta meglio?
— È guarito, grazie. La settimana ventura incominceranno a svezzarlo e in questa fausta ricorrenza lo vedrai, perchè lo portano qui.
Da quando Sofia era entrata, Maria sentiva un odore acutissimo, che non sapeva d’onde venisse e che attribuì alle essenze di cui Sofia faceva uso; ma poco dopo, avendo la viaggiatrice slacciata la leggera spolverina che la copriva, l’amica le vide, alla cintura, una gardenia grande, doppia, di un bianco vellutato, di una bellezza rara, ed essendosi chinata per fiutarla, ella disse con accento spigliato:
— Bella, nevvero? Me l’ha data il medico, lassù, in rigraziamento delle laute visite che noi gli abbiamo pagate....
— Credevo — rispose Maria con voce un po’ tremante — che non si potessero trovare due fiori simili a questo; mi sono ingannata.
— Perchè?
— Ho veduto un’ora fa il signor Bandini in possesso di una gardenia identica.
Sofia nulla rispose, ma le sue labbra tinte di cinabro si contrassero ad una smorfia che era metà sorriso, metà dispetto.
A Maria non restava più nessun dubbio sul buon accordo esistente tra Sofia e Bandini; ma fin dove giungeva? E ammesso che fossero ancora al di qua del confine, quanto tempo avrebbero impiegato a varcarlo? Di solito la corda si rompe nelle mani di chi la tiene troppo tesa.
Maria, nella sua integra onestà, sentiva il disgusto di quella relazione effimera, tessuta di vanità e di libertinaggio, dove il cuore non aveva nessuna parte e dove la sua amica correva i più grandi rischi. A questo disgusto si univa una amarezza profonda pensando che Emanuele l’aveva abbandonata per una simile donna; e all’amarezza una compassione intensa e — forse — nelle intime latebre del cuore, l’inconscio tripudio dell’orgoglio vendicato.
Ma ad ogni modo, Maria non volle ascoltare che il primo sentimento. La sua amica era in pericolo, la sua amica aveva bisogno di lei. Abbracciò risolutamente questa idea e vi si dedicò con ardore, felice, oltre a tutto, di poter giovare ad Emanuele senza che egli lo sapesse.
Ora vedeva uno scopo, una via tracciata. Scosse gli ultimi avanzi delle sue memorie, diede gli ultimi sospiri al suo amore perduto e concentrò tutti i suoi pensieri sull’amica.
Forte di questa missione le parve anche di poter affrontare con maggior sicurezza lo sguardo di Emanuele. Decisamente tutto era finito tra loro due.
Non retrocesse e non tremò, quando mezz’ora dopo, sollevando la portiera del salotto, udì la voce calma del professore che diceva:
— Mia moglie è arrivata or ora dall’aver visitato il bambino.
L’interlocutrice di Emanuele era la signora Bonamore.
Fatta la presentazione, Maria sedette accanto alla signora, ed il padrone di casa terminò la frase scusando Sofia che si faceva aspettare. Egli aveva dei modi gentili, di una freddezza dolce che era eguale per tutti, una fisionomia poco mobile, che tradiva difficilmente le sensazioni.
— È guarito questo caro fanciullino? — domandò la signora Bonamore, esaminando Maria di sottecchi.
— Perfettamente.
— Allora avremo la festa?
— Quale festa?
— Sofia ci ha promesso quattro salti.... ed ora che è guarito il bambino....
— Giustissimo, le signore balleranno.
Un sorriso sarcastico piegò le labbra di Emanuele.
— Lei non sa.... — la signora Bonamore abbassò gli occhi con imbarazzo, accarezzando il velluto del suo manicotto — se Sofia ha intenzione di invitare.... la Guidobelli?
— No, davvero, non lo so.
— Se osassi.... vorrei consigliare Sofia.... Lei, professore, che opinione ha della Guidobelli?
— Ho l’opinione che è una bella donna, molto elegante e che sta benissimo vestita di nero.
— Non scherzi! — un po’ impazientita, la Bonamore accarezzava il velluto a contropelo — Io dico rapporto al carattere.... alla condotta....
— Il carattere delle signore, in virtù di una legge salica in senso inverso, ha da secoli il diritto di essere sempre un carattere adorabile.
— Insomma — la Bonamore rivolse direttamente la parola a Maria — parlerò a lei, poichè il professore non è affatto serio quest’oggi. Che le pare, cara signora, di una donna che cambia amanti tutti i mesi? Io non sono puritana.... oh! comprendo gli abissi dell’amore.... ma le convenienze, il mondo, una certa dignità.... Che ne dice?
— Sono straniera alla questione — rispose Maria — non conosco la signora Guidobelli, e, in tesi generale, non saprei dire fino a qual punto una donna può conservarsi onesta agli occhi del mondo. L’onestà, mi pare, dovrebbe essere assoluta.
Sofia entrava in quel punto; in buonissimo punto per rompere il ghiaccio che minacciava di isolare i tre personaggi. Emanuele prese subito commiato, salutando le signore con un gesto largo, e passando davanti a Maria che si trovava prossima all’uscio la risalutò, fermandosi un momento, quasi aspettasse da lei una parola. Maria abbassò il capo, freddamente, ed Emanuele uscì, lasciandola sotto l’impressione di una tranquillità forzata, come uno che abbia preso l’etere.
Sofia e la Bonamore si ingolfarono subito in un cicaleggio leggiero e saltellante, sul quale venivano a galla alternativamente le loro amiche, i loro abiti e i loro cicisbei, mischiati allo scandalo del giorno e ad una puntina impercettibile di maldicenza.
Venne di lì a poco la signora Guidobelli, così elegante nel suo abito di velluto nero a ricami di blonda applicata, che la Bonamore le fece, quasi senza accorgersene, una riverenza e un complimento.
Poi capitò la contessa Barattani, divota e caritatevole, vedova di due mariti, in procinto di prendere il terzo, e dominata dall’idea fissa di fondare un ospizio, a ottant’anni, in espiazione de’ suoi peccati. Poi la graziosa Nina Menni, che era stata tanto infelice nel suo primo amore da farsi perdonare tutte le consolazioni prese dopo.
Il salotto di Sofia si riempiva a poco a poco di fruscii di gonne frastagliate, di ondeggiamenti di trine, di guizzi serpentini, di carni profumate e di chiome dipinte. Era press’a poco la stessa società del concerto; con una musica di paroline melate che tenevano le veci dei notturni di Chopin; colle stesse occhiatine sapienti, coi sorrisi frenati nella cerchia lucente del cinabro.
Si parlò della festa, Sofia volle schermirsi; disse che non era una festa, ma una semplice, semplicissima riunione di famiglia.
— Quelle appunto che mi piacciono — rispose la Bonamore.
— Senza lusso — aggiunse la contessa.
— Quell’odioso lusso — osservò la Guidobelli — ch’io non posso soffrire. Fa tanto piacere l’uscir di casa come ci si trova, alla buona....
Tutte le signore approvarono, mulinando subito che toeletta avrebbero potuto sfoggiare alla festa di Sofia.
Entrò Alfredo Bandini.
Maria ebbe nel cuore un movimento di rivolta contro tanta impudenza, ma non diede a dividere nulla. Sofia le volse un’occhiata inquieta:
— Mi perdoni, signora, se vengo a sorprenderla nel sacra sacrorum delle sue visite intime... Sono impaziente di avere notizie del bambino.
— Mio figlio sta benissimo, grazie.
Nel rispondere così, la voce di Sofia era alquanto alterata; sembrava anche a lei che Bandini spingesse oltre il suo zelo. Si trovava presa in una rete le cui maglie si stringevano d’ora in ora.
— Molto più — continuò Bandini — che un telegramma ricevuto in questo momento mi obbliga a partire stasera per Firenze.
Ognuna di queste parole era sottolineata. Sofia comprese la necessità di nascondersi agli occhi del terribile areopago che le stava d’intorno ed esclamò con simulata indifferenza:
— Ah sì? — poi volta a Nina Menni — Che bel cappellino! È ancora la Chaillon che ti serve?
La Bonamore si alzò per uscire; la Guidobelli anche. Sofia le accompagnò fino all’uscio, e nel tornare al suo posto trovò Bandini insediato in una seggioletta bassa dietro la sua poltrona.
— Come, lei sta lì?...
— Se mi permette — rispose egli col suo brutto sorriso da satiro.
Sofia si gettò nella poltrona con un abbandono di donna vinta; la poltrona cigolò, prima che il sorriso di Bandini fosse finito.
La contessa e Nina Menni avevano impegnata una discussione sopra Sarah Bernarhdt. Nina assicurava che la Bernarhdt piace molto agli uomini; la contessa negava, in base alla propria esperienza, sostenendo che gli uomini amano le donne grasse.
Intanto Bandini, audacemente, mormorava qualche parola nell’orecchio a Sofia.
Maria, fingendo di accomodare i fiori nelle giardiniere, non li perdeva di vista, finchè Bandini con una sveltezza di prestigiatore fece scivolare il suo piccolo portafogli dietro il guanciale sul quale Sofia appoggiava le spalle.
— Le donne magre — strillò Nina Menni — hanno sempre fatto impazzire gli uomini. Che ne pensa il signor Bandini?
— Noi uomini — disse Bandini, accompagnando la frase con una profonda occhiata da sfinge — amiamo la donna che ci ama.
Un fremito sottile agitò le spalle di Sofia.
— Ve ne andate di già? — chiese, vedendo le signore in piedi.
Poco dopo uscì anche Bandini, trionfante, riempiendo il vano della porta colla sua aitante persona, dopo avere stretta la mano a Sofia in un modo speciale. Le due amiche si trovarono di fronte, sole.
A Maria pesava assai il secreto che aveva scoperto e se non fosse stato il dubbio di peggiorare le cose con una risoluzione precipitata, avrebbe voluto prendere Sofia nelle braccia e scongiurarla di troncare ogni relazione con quel bellimbusto vanesio e insolente.
— Hai veduto le mie amiche? — disse Sofia — amiche per modo di dire, perchè non ve n’è una sola che io ami come amo te.
— Lo spero bene.
— Quelle signore non ti sono piaciute?
— Sarò schietta. No.
— E a me neppure.
— Oh scusa... allora perchè le ricevi?
— Mio Dio come si fa? Bisogna pur conoscere qualcuno.
— Scegli meglio.
— Scegliere! E chi scegliere? Dove? Se tutta la società è uguale!
Si alzò e fece qualche passo, stringendo la mano pendente lungo le pieghe della gonna. Maria sospettò che nascondesse così il portafogli di Bandini. Era agitata, nervosa; andò un momento nella sua camera e poi riapparve, sempre colla mano stretta fra le pieghe dell’abito; si avvicinò al tavolino, allo stipo, alla caminiera, toccando i vasi, i libri, con un fare che voleva parere svogliato e che tradiva invece una forte preoccupazione. Alla fine tornò a sedere, rassegnata. Il portafogli non era più nella sua mano.
— La signora Bonamore — riprese Maria, seguendo con una calma apparente il filo del discorso — non deve vedere di buon occhio la signora Guidobelli....
— Lo credo. È la sua rivale.
— Prima che tu venissi, ne parlava come di una relazione poco onorevole....
— Già, perchè le ha rubato l’amante.
— L’amante?
— Sì, quello che aveva prima del cugino, che le è antipatico e le serve solamente negli interregni, come facente funzione.
— Tutto ciò è molto brutto.
— Ma!
Sofia si strinse nelle spalle; prese, dal tavolino accanto, una sigaretta, l’accese e incominciò a fumarla lentamente, cogli occhi distratti, rivolti al soffitto.
— Infine tu sei amica della signora Guidobelli?
— Come la sono di tutte, e di nessuna....
— E la inviterai alla festa insieme alla signora Bonamore?
— Perchè no? Sono donnine simpatiche, eleganti; dove vanno loro si traggono sempre dietro un codazzo di uomini.
— Ma intimamente, tu le stimi?
— Che domanda curiosa! Sei sempre la stessa. Come si fa a conoscere così bene le persone da sapere se si debbano stimare o no?
— Ammesso che non è facile, vi sono tuttavia dei segni esterni che possono servire di guida; e poichè tu stessa narri le avventure galanti di queste signore....
— Ma sono cose che si vedono tutti i giorni, che non hanno nessuna importanza. Si capisce proprio che hai vissuto in un deserto.
Sofia diventava sempre più nervosa, acre; la voce le usciva dalla gola, con un sibilo acuto. Si seccava immensamente.
Maria non si sgomentò; vedeva la crisi vicina e le moveva incontro coraggiosamente. Oramai si comprendevano. In quella battaglia coperta giuocavano la loro amicizia: o ne uscivano insieme abbracciate, o diventavano nemiche per sempre.
— Mia cara Sofia, quando una donna che ha un marito buono, onesto, leale, si lascia trascinare da frivole apparenze di passioni...
— La signora Bonamore è vedova — interruppe Sofia seccamente.
— Ed anche la signora Guidobelli?... E Nina Menni?...
— Sì, sì, anche quelle, è vero. — Sofia era al massimo grado dell’eccitazione nervosa. — Ebbene, sono tutte così, che farci? È una marea che sale, sale sempre, ci avvolge, ci stringe, ci soffoca. Essa parte dai luoghi più turpi, attraversa la società equivoca, serpeggia nel mondo elegante, arriva fino alle donne oneste.... ne siamo inondate addirittura. Difendersi è inutile. È come quando si cammina in mezzo al fango. Sulle prime si evita di fare la più piccola macchia, poi ci si adatta ad averne qualcuna, ma solamente sul tacco degli stivaletti; il fango cresce e ne abbiamo fino alla caviglia; un bel momento ci accorgiamo che esso è spruzzato anche sull’abito.... Ah! in fede mia, ciò stanca; e allora....
Gettò la sigaretta, e si rovesciò sulla poltrona accesa in volto, con le tempie che le battevano forte. Maria, tranquilla, ripetè:
— Allora?
— Scusa, sai? — si rizzò sulla vita, un po’ dura — mi fai dei discorsi così strani.... Se non ti dispiace parliamo d’altro.
— Come vuoi.
La calma severa di Maria suscitò nell’altra una specie di rimorso e di vergogna, per cui soggiunse con accento più dolce:
— Della festa che darò e che mi preoccupa molto, del mio bambino, di....
— Sì — interruppe Maria, afferrando questo soccorso inaspettato — parlami di tuo figlio. Non me lo hai ancora descritto. È biondo? nero?
— Biondo, cogli occhi neri. I capelli di suo padre, gli occhi miei. La bocca, non c’è che dire, anche quella è tutta di Emanuele. Hai osservato la bocca di mio marito?
A questa improvvisa domanda il volto di Maria si contrasse dolorosamente; ma Sofia non ne fece caso, gettandosi a capo fitto nel nuovo argomento, felice di essere sfuggita all’argomento di prima. Continuò:
— Ciò che mi incanta è la sua intelligenza. A undici mesi, figurati, balbettava mamma; e mi conosceva, e mi tendeva le sue manine, così.... Uno dei passati giorni, quando stava male, vegliai molte ore alla sua culla. La nutrice, intanto, dormiva. Io sola lo avevo in custodia e guardando quel visino fatto pallido dalla febbre, quel corpicciuolo dimagrato, un pensiero atroce mi attraversò la mente. Mi figurai che fosse morto. Morto, mio Dio!...
Sofia, volubile, si abbandonava adesso colle sue smanie solite ai trasporti dell’amor materno; e, sincera sempre, null’altro sentiva in quel momento che una ineffabile tenerezza.
— Oh! se morisse davvero.... Io non sono molto pia, no, credo poco.... Non so precisamente quello che credo: ma allora mi rivolsi al Dio delle madri. Egli deve esistere, e gli chiesi a qualunque costo la vita del mio bambino.
Piangeva.
— Egli te l’ha concessa — disse Maria.
— Sì.
— E — le prese la mano con dolcezza somma, guardandola negli occhi — non ti chiese a sua volta il patto?
— No davvero — mormorò Sofia, sorridendo attraverso le lacrime.
— Eppure, nell’istante che fra te e Dio si dibatteva la vita di tuo figlio, dimmi, non saresti stata disposta a concedere qualunque cosa?
— Oh! senza dubbio.
— Tu dunque sentivi che questa creaturina appena nata esercitava su di te un potere che supera tutti gli altri? Presso quella culla hai dimenticata la società, il mondo.... se quella marea montante, se quel fango di cui parlavi poco fa, fosse salito a macchiare la coltre del tuo bambino, a coprirlo, a soffocarlo non ti saresti slanciata in suo ajuto?
— Maria!....
— Non avresti voluto, per lui, essere pura d’ogni colpa, monda perfin d’ogni sospetto?
Erano, entrambe, immensamente commosse. Maria col volto presso il volto dell’amica, mormorava accentuando appena:
— Non avresti voluto annientare ogni pensiero che non fosse nobile e santo? Distruggere qualunque traccia di debolezza? Fuggire le tentazioni che ti rapiscono a lui?...
Si guardavano negli occhi, dritto, fino in fondo, come due pantere in lotta. Sofia sentiva la propria debolezza e cedeva, vinta, spossata dalle emozioni.
In quel mentre entrò la cameriera:
— Il signor Bandini manda a prendere il portafogli che ha dimenticato qui.
Sofia, senza muoversi, tese la mano; prese il portafogli, lo aperse e stracciò il primo foglietto — non abbastanza rapidamente che Maria non potesse leggervi un sì, scritto a grossi caratteri tremanti, con matita rossa; poi lo rese.
Appena la cameriera fu uscita, le due amiche caddero nelle braccia l’una dell’altra; Sofia in preda a una convulsione di nervi, singhiozzando sulla spalla di Maria.
Dopo vennero le confidenze.
Lei non aveva intenzioni cattive.... oh!... ma si trovava così sola con suo marito freddo e scettico, travolta in una società galante dove ad ogni passo c’era una tentazione ed un eccitamento. Bandini si era mostrato gentile, assiduo, insistente.... innamorato....
Non facevano niente di male. Passavano le serate, leggendo, ciarlando; alla finestra, al piano.... qualche volta si trovavano fuori.... egli spiava ogni suo passo. Da qualche tempo, è vero, si mostrava più esigente.... non sapeva nemmeno lei dove sarebbe andata a finire.
Quel giorno appunto, prima di partire per Firenze, le aveva strappato il sì per un ritrovo....
Oh! ma ora si ravvedeva; non ci cascherebbe più, più. Voleva dedicarsi tutta al suo bambino, capiva che la vita è fatta di sacrifici; pregava Maria che la sorreggesse, che la ajutasse coi suoi buoni consigli. Si metteva nelle sue mani.
Maria, senza fidarsi troppo del rapido pentimento, non la abbandonò, cercando di sostenere le sue buone intenzioni e di tenerle vive coll’affetto per il bambino. Ma quando le parlava di suo marito e voleva entrare nei particolari della loro intimità, Maria non poteva vincere un malessere, un turbamento che la irrigidiva tutta, e tentava sottrarsi a quelle confidenze.
Sofia invece si abbandonava intera, avvolgendo l’amica nel fascino delle sue espansioni, nelle attrattive pericolose di quel suo temperamento da sirena, debole, ineguale, tutto a scatti improvvisi e ardori fugaci. Il suo affetto per Maria saliva un crescendo appassionato. Poichè vizio e virtù, amore ed oblìo le si presentavano sotto l’unico lato di una emozione da provare, ella si attaccava a Maria colla stessa foga irreflessiva colla quale l’avrebbe rinnegata, se Bandini fosse stato il più forte.
Ora, tentando la voluttà del rimorso, Sofia ne ricavava tutto ciò che poteva ricavarne di effetti nuovi, di sensazioni pungenti. Sussultava ad ogni rumore, aveva dei brividi, dei sospiri interrotti. Rileggeva in quei giorni la Parisina, l’Edmengarda, Portia, tutte le storie truci di donne adultere — le leggeva raggomitolata sul divanuccio basso del gabinetto verdemare, coi trasparenti abbassati sulle cortine rosa delle finestre, immersa in un languore pizzicante, pieno di visioni.
Il suo piacere maggiore era quello di immaginarsi che fosse veramente caduta; inventava il luogo, il come e il quando. Alfredo le avrebbe detto così e così — ella avrebbe risposto così e così. Chiudeva gli occhi e sentiva nel collo l’alito caldo di Bandini. Si immergeva in quel voluttuoso corrompimento della fantasia fino ad averne le vertigini, e poi saltava in piedi, colle braccia levate, gridando: Sono pura! Sono pura!
Un po’ davvero, un po’ affettata, le venne una febbricciuola, accompagnata da dolori reumatici, che la obbligarono a letto; dove Sofia si adagiò rassegnata, circondandosi di una nube di trine, di fiocchi color perla e color cielo appuntati su cuffitte trasparenti, in mezzo a lunghi accappatoi profumati d’ireos, a pezzuole cifrate, e a boccette di aceto aromatico.
Il ritratto del suo bambino chiuso in una bella cornice di metallo niellato, con una viola nell’angolo, le stava davanti appeso alla parete.
Formava dei progetti seri. Una volta guarita suo figlio tornava a casa; ella stessa se ne sarebbe occupata, sorvegliando i suoi giuochi, l’istruzione e l’igiene; lo avrebbe condotto a fare delle lunghe passeggiate, gli avrebbe insegnato presto che la vita non è altro che un martirio.
Se Maria, seduta ai piedi del letto, accennava qualche volta ad un prossimo ritorno in America, ella balzava fuori, avvinghiandosele al collo, supplicandola di non rapirle l’amicizia, il più gran conforto che aveva dopo suo figlio. E Maria restava; presa alle attrattive dell’affetto, della carità; attaccandosi ogni giorno più a quella donna, che avrebbe potuto odiare e che invece amava con un sentimento bizzarro misto di compassione e di abnegazione.
Una sera, Sofia dormiva; Maria erasi indugiata più a lungo dei solito presso il letto, assorta nelle malinconiche riflessioni che scaturivano a lei da ogni oggetto e dai confronti che le riusciva impossibile il non fare — che faceva anche con una gioja amara, l'unica che le fosse ora concessa.
Ella non rifuggiva dai tristi pensieri del suo amore, perchè erano sempre pensieri d’amore, pensieri di Emanuele; e preferiva soffrire con lui, odiarlo anche, anzichè liberarsene, dimenticando.
Il pendolo si era fermato; Maria non sapeva che ora fosse, ma si alzò sbigottita udendo risuonare nella stanza attigua il passo di Emanuele. Fino a quel giorno ella era riuscita ad evitare un incontro che non credeva pericoloso, ma che trovava della sua dignità l’eludere.
Fu dunque con un movimento rapido che aperse l’uscio, decisa di attraversare il salotto senza fermarsi, rispondendo brevemente al saluto del professore.
— Maria... — egli disse ponendosele davanti mentre stava per uscire dall’altra parte — Maria, perchè fuggite?
Era turbato, pallido. Il lume che teneva in mano gli rischiarava tutto il volto, dolcissimo in mezzo alla barba bionda.
Maria non trovò una sola parola.
— Ve ne prego...
Era sempre la sua voce temperata, cristallina; senza effetti di chiaroscuro, vibrante naturale sotto l’impulso del cuore.
— È tardi....
— Ve ne prego, una sola parola....
— Che cosa?
Ella ebbe il coraggio di guardarlo, seria, colla fronte alta, mentre il cuore le martellava. Ed egli pure la guardò con tenerezza somma.
— Maria, non negatemi il favore di potermi giustificare.
— Giustificare? E di che?
La durezza dell’accento di lei parve colpirlo; soggiunse con maggior dolcezza ancora, quasi umilmente:
— So di avere dei torti agli occhi vostri, ma credetelo, sono torti apparenti, che espio come torti reali.
— Non vi ho chiesto delle confessioni.
— Permettetemi almeno una discolpa.
— A qual pro? Il passato è sepolto.
— Siete spietata; non volete neppure conservare una memoria scevra di rancore?
— Non ho rancore.
— Sì... lo vedo, voi mi credete un vile mentre non sono che un disgraziato.
— Vi ingannate; ho di voi la stessa opinione che ebbi sempre.... ma lasciamo questi discorsi, a che giovano?
Si scostò facendo un passo verso l’uscio. Egli la prese per le mani, guardandola supplichevolmente, con una scintilla negli sguardi. Aveva deposto il lume su di una scansia alta; si trovavano nella penombra dell'uscio aperto, come una volta, quando ella lo aspettava sulla scaletta solitaria e che egli se la stringeva pazzamente al petto.
— Ma infine che volete? — mormorò Maria con voce che non era più ferma.
Emanuele non risposa subito; solo all’atto che ella fece per sciogliere le mani, una parola gli uscì strozzata dalla gola e la disse a bassa voce, tremando, come un fanciullo che teme di essere battuto.
— Vi amo.
Maria non gridò, ma ebbe la stessa sensazione come se il fulmine le fosse passato davanti agli occhi; un freddo di paura e di ribrezzo la prese alla nuca, poi una vampa ardente le inondò il volto. Sedette.
Egli al vederla così immobile, rigida, che non accennava nè a rispondergli, nè a fuggire, gli si inginocchiò davanti, timido, con le lagrime in fondo agli occhi:
— Ascoltatemi, Maria, ascoltatemi per pietà. Sapete che ho passata la vita sui libri, non conosco le frasi galanti che sono come la scherma dell’amore. Altri al mio posto vi parlerebbe con maggior riflessione; io non so neppure quel che mi dica.... Comprendo vagamente che dovrei tacere, ma non mi è possibile. Soffro da otto giorni come un dannato.
Abbassò la testa sul lembo dell’abito di lei. Maria lo lasciò fare; sembrava pietrificata; cogli occhi sbarrati guardava davanti a sè, come una sonnambula che vede mondi ignoti agli altri mortali.
Egli continuò sempre con quella voce che pareva un lamento, dolce, infantile, con una nota scorata di uomo che non spera nulla:
— Dovrei.... no, non recito una parte. Amica mia, ch’io abbia ragione o torto non dico che la verità: è la mia scusa. Piansi tanto dell’abbandono, al quale mi costrinse allora la povertà della mia carriera, che solo oggi comprendo come si possa piangere di più. Tuttavia il tempo aveva cicatrizzata la mia ferita; ve lo confesso.... non sono sincero? Mi ritenevo guarito, speravo di avervi dimenticata.... il vostro matrimonio vi aveva contribuito moltissimo... ero troppo fiero, troppo onesto per pensare di approfittarne giammai.... mi credete, nevvero? Disilluso sull’amore e scettico, accettai più tardi un matrimonio di convenienza, fui punito nella perdita delle mie ultime illusioni.... Ora vi ho riveduta, e nell’istante che i miei occhi si fissarono nei vostri, tutti questi anni di oblio scomparvero. Io vi ritrovo nel mio cuore così viva come se non foste uscita mai. Ebbene, non mi rispondete?
Le labbra di Maria si contrassero a un sorriso strano, spasmodico. Egli le si avvicinò più ancora, senza che ella opponesse nessuna resistenza.
— Non avete pietà di me?...
Maria si scosse finalmente, retrocedendo la sedia:
— Pietà di voi? Di voi?
Si arrestò un momento, mettendosi la mano sugli occhi, quasi a persuadersi che non sognava.
— E siete voi, Emanuele, che mi chiedete pietà? Voi a cui io la chiesi invano, orfana, abbandonata, struggendomi nel vostro amore? Ma non vi ho io amato fino al delirio, non vi ho dato i più begli anni della mia giovinezza, non ero pronta per voi a qualunque lotta? Voi solo mi respingeste. Che volete adesso? Che posso fare per voi?... Andatevene.
L’ira, lo sdegno, il disprezzo fremevano nella sua voce.
Emanuele avvilito mormorò:
— Non mi perdonate ancora!
Ella fece un gesto vivace.
— No, non mi avete perdonato. Ma che debbo offrirvi per placare la vostra collera? Eccomi disarmato nelle vostre mani; fate di me quello che volete.... Colpitemi e sarete vendicata.
— Quello che è stato è stato — disse Maria levandosi in piedi — dimentichiamo entrambi.
— Null'altro?
— Io vi perdono.
Poi trascinata da una tenera pietà, soggiunse:
— Da lungo tempo vi ho perdonato. Nelle giornate solitarie, in paese straniero, la mente ricorreva volontieri ai dolci sogni del passato. Rifacevo la vostra vita... Quando mancano tutte le gioje si tenta qualche volta la gioja crudele di rimuovere il ferro nella ferita. Io volli immaginarmi la vostra gioventù, atrofizzata da uno scetticismo precoce, rifugiarsi tutta nella idealità dei libri. Con uno sforzo del pensiero vi seguii attraverso i dedali complicati ed aridi dei vostri studî prediletti; a forza di conversare coi morti vi lasciaste sfuggire dalle dita le fila che vi univano ai viventi.... eravate vecchio a trentanni. E quando a voi si confidò il cuore ardente di una fanciulla, trasaliste di quel legger brivido dell’insetto che un bambino trapassa collo spillo, ma la ferita non fece sangue. Voi non sapeste amare.
— È vero. Sono un triste scettico che non conobbe della vita altro che il lato cattivo, che non trovò in una felice serenità della mente la fede, che non seppe trarre dall’amore le sue forze maggiori: costanza e sacrificio. Ma questo disgraziato destinato a fare intorno a sè degli infelici, è egli stesso il più infelice di tutti. Se sapeste quante volte invidiai i caratteri caldi e appassionati che attirano le simpatie e che projettano intorno tanti raggi da illuminare tutto ciò che li circonda! I poeti, gli artisti, i soldati, i martiri, tutti quelli che sorridono, che piangono, che amano, che combattono, essi sono i beniamini della natura. Noi siamo i rejetti. Ma vi è ancora peggio; quando uno dei nostri intorpidito dal lungo sonno, si sveglia; quando dopo tanti anni di tenebre e di negazione, scorge improvvisamente la luce e la verità, se vuole rialzarsi, se cerca anch’egli una croce o una bandiera, allora non gli si crede. È un castigo meritato, direte, ma è molto crudele.
Un leggero incarnato gli era salito alle guancie; la fiamma che prima gli brillava nelle pupille si era velata di una profonda mestizia. L’orgoglio solo gli impediva di piangere.
— Se questa crudeltà esiste, essa non sta in me, ma nella forza di avvenimenti che non posso cambiare.
Gli tese la mano, risoluta e calma, padrona della situazione. Egli non osò trattenerla.
— Sia. Ma non troverete voi una parola di dolcezza per colui che fu il vostro primo amore?
Nel cuore di Maria si combatteva una fiera battaglia; distolse gli occhi da lui:
— Dite l’unico.
E lo lasciò solo, nella penombra della stanza che la candela illuminava appena. {{ast1} Non c’è nulla, più nulla! — mormorava Maria, automaticamente, premendosi il cuore colle mani.
Si era seduta, senza addarsene, davanti alla pettiniera; e nell’ovale dello specchio la sua testa si rifletteva in attitudine scorata, china sul busto, con quelle mani strette al cuore che le doleva.
Guardò a lungo nello specchio, senza vedere, come se l’immagine riflessa non fosse la sua; finchè, un sospiro le fece sollevare la testa, e allora si riconobbe, faccia a faccia con sè stessa.
L’occhio nero e profondo che la guardava era il suo occhio, l’occhio che piaceva ad Emanuele; così egli l’aveva veduta un momento prima, colla pupilla larga, nuotante nel raggio luminoso dell’anima. Anche i capelli bruni, leggeri, che le incorniciavano la fronte piacevano ad Emanuele; e gli piaceva la linea della tempia, molle, che dava alla testa un’espressione particolare, somigliante alle madonne di Murillo. Aveva essa i bei lineamenti? No; ma la bocca morbida, i bianchi denti, il collo flessibile avevano pure attirato i baci di Emanuele; al pari della mano piccola, quasi trasparente, nella sua aristocratica gracilità. Si fermò. Un pensiero rapido, riluttante alla parola, venne a completare quell’esame; una tinta rosea le apparve sulle gote. Ella si tolse bruscamente dallo specchio.
Era meravigliata di non trovare una lagrima; si sentiva gli occhi asciutti, il cuore arido e la bocca amara, come se lo sconforto immenso di tutto il suo essere si fosse tradotto in una forma fisica di sofferenza.
Non amava più.
Aveva perduto in un momento il suo dolore, quel dolore dolce e accarezzato, quell’amore senza speranza, pieno di lotte segrete e di vittorie. Il suo ideale stava per mutarsi in una tresca volgarissima. Emanuele, nella comoda impunità del matrimonio, la desiderava. Essi avrebbero potuto riattaccare, per la via dei sensi, la trama d’oro del primo amore; sotto gli occhi di Sofia, placidi, soddisfatti, senza rimorsi....
Avrebbe fatto quello che fanno tutte: la signora Guidobelli, la signora Bonamore, Nina Menni, Sofia.... e più tardi la bambina linfatica dell’asilo infantile, la civettina, la sentimentale, tutte, tutte, tutte.
Vedeva, come in un caleidoscopio, una casa senza portinajo, una scaletta equivoca tra l’harem e il chiostro; un uscio chiuso sei giorni alla settimana, aperto il settimo sui misteri rancidi di una camera ammobiliata; dentro a quella camera fiori freschi e tappeti sdrusciti; fuoco nel caminetto, gelo nelle muraglie; una solitudine disperata rotta da pochi momenti tempestosi. E poi la complicità delle cameriere, i silenzi prezzolati, il terrore che strozza i baci nell’ansia continua dell’essere scoperti; il sospetto degli altri, il malcontento di sè. Così un anno, due anni, tre anni — e poi l’abitudine, e poi lo sbadiglio; infine, nella migliore ipotesi, più nulla. Puah!
Un nodo le stringeva la gola; soffocava nell’onda calda della tentazione, nei vapori di colpa che la circondavano sotto ogni forma, mostrandole come si trovasse sola nelle sue alte utopie, ne’ suoi sogni di virtù.
Non importa; essa era rivoltata. Il brusco sfasciarsi della sua ultima illusione la rendeva attonita, come davanti ad una mostruosità; e a questo stupore mancava la soavità delle lagrime.
Improvvisamente le venne un rammarico. Se Emanuele fosse morto! Morto quando ella credeva ancora in lui, quando avrebbe potuto piangerlo! Ma no; viveva e per una crudele ironia diceva adesso di amarla come non l’aveva amata mai.
Tutto questo le sembrava enorme.
Colle mani si era coperta la faccia. Da pochi momenti Emanuele aveva tenuto quelle mani fra le sue e anche questo le faceva ribrezzo; le allontanò, fregandole sul vestito, pensando nuovamente al tempo passato, quando le accadeva di baciarsele perchè Emanuele le aveva strette. E il ribrezzo, coi ricordi, le si comunicò a tutta la persona, misto a un senso di sdegno contro sè stessa, quasi di rabbia per aver tributato tanto culto a un idolo così meschino; finchè vinta dal disgusto, con un bisogno immenso di dimenticare, si gettò sul letto e dormì di un sonno pesante che assomigliava ad un letargo.
All’indomani si destò nelle stesse condizioni di spirito; ma più calma. Era come se avesse subito una operazione; le mancava qualche cosa, ma non soffriva più.
Si vestì lentamente, con cura; attardandosi nel pettinare i suoi bei capelli; presa da un torpore sensuale che si sviluppava senza ostacoli in una momentanea assenza della volontà.
C’era sul tavolino il volume di Puschin, col suo nastrino verde pendente dal taglio screziato; lo allontanò con indifferenza, prendendo in sua vece un romanzo francese, di un autore celebre e moderno. Incominciò a leggerlo qua e là, saltando le descrizioni interminabili del lusso parigino e degli abiti della protagonista, affrontando senza gusto e senza ripugnanza le scene veriste di un amore incestuoso tra la matrigna e il figliastro, abbacinata un po’ dallo splendore dello stile che riproduceva in un modo insuperabile quell’ambiente corrotto da tutte le voluttà.
Una scena famosa in una serra, dove all’ombra dei fiori tropicali una pelle d’orso nero foderato di velluto color di rosa accoglieva, lungi dalle persone importune, i due amanti, le fece interrompere la lettura. Restò per qualche istante trasognata, col respiro breve, sentendo nel sangue delle punzecchiature e alla testa un vapore pesante come se avesse odorato dei profumi malsani.
Errando collo sguardo intorno alla camera, le venne ancora sottocchio il volumetto di Puschin e lo fissò, questa volta colpita dallo strano contrasto. Povera Taziana! Che aveva mai essa di comune colla elegante Renata? — Nella luce affascinante di quella serra, sui tappeti voluttuosi, fra gli intensi profumi del vizio raffinato passò, fredda e pallida come una visione, la casetta di Taziana sprofondata nella neve e il profilo severo della fanciulla russa che languiva d’amore. Povera Taziana!
Col suo fazzoletto, Maria coprì il volume di Puschin, poi riprese la lettura, sempre a sbalzi, volendo giungere alla fine. Dopo la scena dello specchio che segna l’alta parabola delle vergogne di Renata, chiuse il libro; si levò in piedi, stirò le braccia, oppressa sempre da un cerchio doloroso intorno ai polsi.
Quello era dunque il mondo!
Suonarono le dieci ore. Era tempo di dare il buon giorno a Sofia. Sofia la aspettava con impazienza per annunciarle che il medico doveva venire quella mattina e le avrebbe permesso di uscire dal letto.
— Come sono contenta! molto più....
— Molto più?
— Che ti lascerò con minore dispiacere, sapendoti ristabilita.
— Ancora?
Sofia minacciò col dito.
— Sii ragionevole, mia cara, non posso stare qui per tutta la vita.
— Ebbene, ebbene ne parleremo; ma oggi no. Lasciami godere la mia convalescenza senza contrarietà. Vuoi farmi riammalare?
Maria era più seria del solito; di una serietà diversa, torbida. Le pareva di subire una trasformazione, di sentire un’altra persona sostituirsi a sè stessa. Il suono delle parole di Sofia le giungeva da lontano, attraverso una nebbia di pensieri confusi, dove ella si smarriva, provando l’impressione di una grande stanchezza.
— E poi — continuò Sofia, ritta a sedere sul letto — domani o dopo arriva il piccino. Lo devi pur conoscere.
— Sì....
Maria guardava la graziosa ammalata, tutta gaja e sorridente tra i riccioli scomposti, tenuti insieme da un nastro celeste. Sotto i trafori della camicia da notte si scorgeva la sua pelle di un trasparente roseo, di una morbidezza palpitante. Le coperte in disordine, trascinavano sul tappeto un lembo di frangia; una boccetta di essenze, mezzo sturata, evaporava dal vicino lavabo un odore penetrante di verbena che rompeva l’aria umida ancora, in quella camera richiusa, dai vapori del sonno.
Il letto, nel posto vuoto accanto a Sofia serbava l’impronta di un altro corpo; le lenzuola erano tiepide, il guanciale scomposto, la rimboccatura gualcita e ognuna di quelle pieghe, di quelle gualciture, ogni solco del materassa sembravano aver trattenuto qualche cosa della persona assente; come una vitalità calda ed intima che turbava.
— Compatisci — disse Sofia tirando la coperta su tutto quel disordine. — Emanuele si è alzato appena adesso....
Maria non rispose.
— Che hai questa mattina? Non sei la Maria di tutti i giorni. Ti senti male?
— Forse.... non saprei.... ho dormito poco bene; oh! cose che passano.
E ripetè nel suo interno: «Cose che passano» per persuadersi che non valeva la pena di affliggersi, nè di soffrire, nè di meravigliarsi.
A un tratto Sofia balzò dal letto, colla camicia che le saliva sopra i ginocchi, poggiando le gambe nude sulla costa dei materassi intanto che cercava cogli occhi le pianelle.
— Che fai?
— Voglio mettermi un po’ all’ordine prima che venga il dottore.
Maria fece per allontanarsi.
— No, no resta. Ti pare? Siamo donne — e poi non ti ricordi quando si dormiva tutte insieme nel dormitorio? Che bei tempi! Ti ricordi che suor Luisa spegneva il lume prima di levarsi la sottana?... Ti ricordi le camicione che avevamo tutte? — lunghe fino alla caviglia, alte fino alle orecchie.... Non si sapeva allora.... Era pur buffa, suor Luisa! Però confessa, che noi non si sapeva proprio nulla.
Fece due o tre passi, rabbrividendo e ridendo, stringendosi intorno i merletti della camicia, che lasciò poi scivolare sotto le ascelle, davanti al lavabo. Con una fina spugna si bagnò la nuca, le spalle, le braccia, il seno, gettando intorno, insieme agli spruzzi d’acqua, l’essenza di verbena.
— Piglierai freddo — disse Maria seria, quasi rigida.
— Ci sono avvezza — rispose Sofia, colla voce smorzata dall’asciugamani che si faceva scorrere rapidamente sul collo.
Poi si incipriò, mise un po’ di rosso sulle labbra, si guardò le unghie, infilò al disopra della camicia un corpetto di batista ricamata e tornò in letto, rannicchiandosi come una gattina.
Il dottore venne subito dopo. Era un uomo di mezza età, tinto, azzimato, con una barbetta da Mefistofele. Egli curava esclusivamente le signore e, diceva la fama, sapeva approfittarne.
Sofia civettò un poco con lui abbandonandogli, il braccio, invitandolo a sentire le pulsazioni del cuore attraverso la sottile batista del corpetto.
Di nuovo Maria voleva allontanarsi; di nuovo Sofia la trattenne.
Intanto la cameriera che aveva introdotto il dottore, era andata ad avvertire Emanuele. Egli venne, così pallido, che Maria ne restò alquanto impressionata.
— Badiamo, professore — disse il medico sorridendo — che nel guarire la signora non abbia da ammalarsi lei.
E accompagnò la frase con una strizzatina d’occhi.
Sofia ebbe un risolino furbo abbandonandosi sui guanciali, in una posa provocatrice.
Maria si rifece di ghiaccio, dura, immobile presso alla finestra, torcendo gli occhi dal letto. Sentiva come un ronzìo, le tre voci; quella fioca di Emanuele che domandava i ragguagli della malattia, quella dei dottore compassata, quella di Sofia squillante in note argentine; ma non seguiva il filo del discorso. Nel suo cervello indolorito le sensazioni si confondevano. Vedeva la pelle d’orso nero foderata di velluto rosa, lì, in quella camera; e sovr'essa Emanuele e Sofia abbracciati.
— Un po’ di distrazione le farà bene — prescriveva il dottore — nei mali delle donne i nervi formano la prima metà e l’immaginazione la seconda.
— Aix.... San Maurizio....
L’odore della verbena, nell’atmosfera umida, rinchiusa, dava il capogiro a Maria; essa ora vedeva Emanuele cogli occhi sbarrati che diceva a Taziana: «Ti amo!» — Taziana rideva.
Chi rideva erano Sofia e il dottore, accomiatandosi. Gli occhi di Emanuele però stavano veramente davanti a lei, sbarrati, pieni di amore.
E Maria rise, rise forte, sonoramente, con una scossa convulsa in tutte le membra. Era finita: si sentiva scettica.
Emanuele era avvilito.
Nel suo codice di morale maschile, le sottigliezze che tormentavano Maria non potevano entrare, e quello che non capiva non ammetteva.
Fin da quando si erano conosciuti, il contrasto spiccatissimo della loro indole aveva suscitato delle polemiche lunghe e spesso rinnovate, che li avrebbe allontanati se fossero stati di sesso eguale, e che metteva invece una nota piccante nel loro nascente amore.
Emanuele era nato con un temperamento freddo, con poca immaginazione, con nessuna dote poetica.
L’affetto austera di una madre religiosa, virtuosa, ma poco tenera non aveva aggiunto nulla all’aridità naturale. Giovanissimo si era dato tutto allo studio delle lingue morte nel quale trovava pochi rivali: e se dalle ascetiche conversazioni coi libri egli entrava nella vita reale che i suoi vent’anni reclamavano imperiosamente, il passaggio era affatto fisico. L’ideale della donna gli mancava.
Quando conobbe Maria, era un uomo serio e calmo, dal dolce sorriso, sano e vigoroso nei sensi, atrofizzato nell’anima.
L’incontro di quella giovinetta ardente, intelligente, così diversa dalle donne che egli era solito vedere, gli produsse una sensazione piacevole; se la fece amica. La sua intenzione era di fermarsi all’amicizia, perchè era onesto, perchè si sapeva povero così di amore come di fortuna.
Fu una triste scoperta quando si accorse di amarla e di essere amato, ma la lotta in lui non durò a lungo. Una eguale freddezza da parte di Maria avrebbe subito spenta la fiamma; così non fu, e continuarono per molti anni una catena avvicendata di brevi ebbrezze e di penose battaglie, nelle quali Maria, avida di combattere, prodigava pazzamente i tesori del cuore e dell’intelletto, rinnovati sempre dalla sua natura appassionata; Emanuele invece vi esauriva le ultime scintille di entusiasmo.
Nel suo temperamento pessimista, scettico per nascita, l’immenso amore di Maria si rifletteva come una esagerazione, per cui si sentì quasi sollevato dal brusco scioglimento della loro relazione che gli tolse la responsabilità di un affetto al di sopra delle sue forze; e nella dolce mitezza del cuore trovò un augurio sincero per lei che andava sposa di un altro.
Così quest’uomo vicino ai quarant’anni, pensò di aver sepolto l’unico suo amore; e quando, mutate le condizioni di fortuna, gli venne offerto un matrimonio dove non gli si chiedeva amore, lo accettò, indifferente, come chiusa comune di un’esistenza scolorita.
È forse necessario essere felici? Questo concetto stoico che ben si attagliava al suo indifferentismo, era il perno d’ogni suo ragionamento; o almeno lo fu fino al giorno in cui, rivedendo Maria, gli scattò improvvisamente nel cuore una di quelle passioni tardive nelle quali l’amore sembra vendicarsi di chi troppo a lungo lo ha rinnegato; passioni fatali, spasmodiche, che hanno tutta l’amarezza dell’esperienza e nessuno dei sorrisi che abbelliscono la prima età.
In lui non c’era ombra di calcolo, non sapeva mentire. Quella dichiarazione che era parsa a Maria un ironico insulto, scaturiva spontanea da un cuore non avvezzo alla sofferenza e che soffriva, non avvezzo ad amare e che amava come un pazzo.
Nel suo inconscio egoismo d’uomo, Emanuele non ricordava più le ore che Maria aveva passate in una agonia di desiderio, quando egli viveva nel mondo, viveva della sua giovinezza, e a lei — a lei — erano pungolo, non balsamo i baci; aveva dimenticato il suo no crudele che doveva strappare brutalmente ogni illusione alla fanciulla pura. Lui che soffriva, lui che piangeva, non pensava che prima di lui ella aveva pianto, ella aveva sofferto; gli sfuggiva il lento lavorio di quell’anima di donna che aveva pure i suoi sdegni, le sue debolezze, le sue rivolte; e perchè non capiva, sentiva dentro di sè un avvilimento un cruccio nuovo e insopportabile.
Se Maria fosse stata commossa dal suo amore, se gli avesse detto che l’amicizia per Sofia, la dignità di sè stessa le impedivano di corrispondergli, se avesse trovato uno solo degli sguardi di una volta, si sarebbe creduto meno infelice; ma alla sua schietta tenerezza ella era rimasta di ghiaccio, alle sue tacite suppliche, aveva riso.
Ora non lo sfuggiva nemmeno. Discorreva con lui a fronte alta, colla più perfetta tranquillità, lasciandosi guardare fino in fondo agli occhi, sicura.
Una sera, sul tavolino della sua camera, Maria trovò un biglietto suggellato. Non ebbe bisogno di aprirlo per sapere di chi fosse; tuttavia lo aperse calma, e lesse:
«No, Maria, non è una larva l’amor mio. Io vi amo quanto più sinceramente si possa amare. Non mi sono mai sentito così inquieto, non ho mai avuto un vuoto così desolante nel cuore come ora che ho perduto l’amor vostro e sento che mi è necessario. Se poteste leggermi nell’animo, se vedeste le mie angoscie in questi giorni e le lagrime che con dispetto e vergogna di me stesso spargo sopra questi fogli, Maria, non dubitereste più.»
Lo rilesse ancora, quasi avesse desiderio o paura di risentire l’emozione che provava, un tempo, leggendo le lettere contenute nel vecchio vaso di terraglia. Ma non sentì nulla. Ripiegò il biglietto e lo pose in una cassettina dove soleva tenere tutta la sua corrispondenza; non le venne neppure il pensiero di stracciarlo.
Come uno che abbia avuto ammalato un braccio, lentamente lo tocca per sentire se gli duole ancora, Maria provava ad ascoltare sè stessa quando Emanuele le stava vicino, quando la fissava con quei suoi occhi chiari o, nel salutarla, le stringeva la mano con disperato ardore. Lo guardava qualche volta con un senso bizzarro di curiosità, pensando: «È per costui che ho sospirato otto anni, che ho sciupato in ansie e desiderî vani le forze vitali del mio cuore; è per costui che sono stata tanto infelice, è per costui che quasi morivo.» E si metteva ad esaminarlo attentamente, minuziosamente nei capelli, sulle guancie, sulla bocca bella e gentile, fresca come quella di un bambino, nel collo forte, nelle larghe spalle quadrate, nelle mani virili. E poi ricordava i violenti amplessi sulla scala buja, quei baci, quei fremiti che la seguivano tormentosi nella sua cameretta di vergine, che per lungo tempo aveva creduto fossero anche a lui le sole gioje concesse: e il sorriso scettico le saliva sulle labbra, ed era in quei momenti che essa poteva guardarlo colla freddezza sprezzante che lo faceva disperare.
Igiorni di Emanuele erano diventati un supplizio senza nome. Trascurava gli studi, gli amici, le solite occupazioni, gli affari. Girava per la casa come un maniaco, spiando Maria, aspettandola ore ed ore, inventando il modo di poterle toccare la mano o sfiorare, con un pretesto, i capelli.
Alla notte non dormiva, e se dormiva sognava di lei.
Cercò tutto quello che gli restava di memorie, un ritrattino, una ciocca di capelli, due o tre libri; le lettere le aveva distrutte, ma faceva sforzi di pensiero per rammentare i brani più appassionati.
Una sera, c’era qualche amico in salotto, e Sofia accompagnò sul piano un vecchio baritono che si fece applaudire nel coro del Nabucco.
Quegli accenti così toccanti di un popolo che piange la patria perduta, quel malinconico lamento del passato, gli strapparono dal cuore uu lungo gemito. La durezza della sua vita di stoico si fondeva nelle strette acute del rimpianto; l’anima ribelle all’amore ed al dolore, pagava finalmente il suo più largo tributo. Nascosto fra le tende della finestra, colla faccia contro il muro, Emanuele singhiozzava.
Il giorno dopo Maria riceveva un altro biglietto scritto convulsamente, quasi illeggibile.
«Vorrei poter rifare l’esistenza per consacrarla tutta a voi: vorrei essere giovane, vorrei essere poeta, vorrei essere ricco per conquistare il mondo e metterlo ai vostri piedi. Ohimè, Maria, il mio cuore è consunto, i miei capelli diventano bianchi.... Perdonate il male che vi ho fatto e amatemi, se non potete per amore, almeno per pietà.»
Questa volta Maria si accinse a rispondergli una lettera affettuosa e ragionata, una lettera calma da persona educata e gentile. Aveva cento buoni argomenti per persuaderlo a desistere da quella frenesia; gli ricordava le sue stesse frasi di altri tempi, quando egli parlava non da innamorato ma da filosofo; accennava brevemente a Sofia e chiudeva assicurandolo che gli aveva perdonato, ma che amarlo non poteva più.
Rileggendo la lettera, che era riuscita di quattro pagine, le parve troppo lunga; e poi non le piaceva l’allusione a Sofia; la stracciò in tanti piccoli pezzettini, ripromettendosi di scriverne una seconda più corretta; e difatti ci pensò per un po’ di tempo, col desiderio di trovare delle frasi incisive come quelle di Emanuele.
Dopo alcuni giorni, non avendo concluso nulla, decise di lasciare anche quel biglietto senza risposta.
Coll’insistenza di Emanuele ritornò in Maria la paura di trovarsi sola con lui — o meglio che paura un senso di noja e di irritazione — ma per fortuna non sembrava che questo dovesse essere probabile, perchè era venuta a Milano la nutrice col bambino, i quali riempivano la casa.
Sofia poi, che era guarita perfettamente, stava in moto dalla mattina alla sera, correndo dietro al piccino di camera in camera, ora per baciarlo, ora per provargli una vesticciuoia; si nascondeva dietro agli usci facendo: bau! con risate clamorose, divertita da quel nuovo passatempo.
Le poltrone erano seminate di cuffiette e di bavettine, le finestre di pannicelli; dagli usci sempre aperti passavano colle folate di vento primaverile gli strilli dell’erede, e la ninna-nanna della nutrice. Era, per tutta la casa, una gajezza, una vivacità insolita.
In pochi giorni, il dottore dalla barba mefistofelica si era fatto amico di casa.
Veniva a tutte l’ore, o per guardare i denti al bambino, o per il latte della nutrice, o solo per prendere notizie della signora, discorrere un poco con lei sul divanuccio, giuocando di spirito e di civetteria.
Sofia diceva: Il mio vecchio dottore: accompagnando la frase con una smorfietta piena di sottintesi. Ed era di una allegria! Sembrava rifiorire insieme alla stagione.
Tutto, intorno a lei, si animava della sua espansività.
Maria principalmente si sentiva attirata verso quella creatura mobile e cangiante, viva, impetuosa, guizzante come una serpe, misteriosa e indecifrabile sotto una apparente franchezza.
Nel vuoto amaro del suo cuore Maria accoglieva quella amicizia così fervida, se ne faceva quasi un dovere, uno scopo umanitario, dal momento che Sofia aveva ascoltato i suoi consigli e aveva messo Bandini alla porta. Questo le sembrava un gran trionfo.
Ora che cosa le rimaneva? Acchetare, colla sua freddezza, il riacceso amore di Emanuele, rendergli la sposa onesta e pura, godere un istante della loro felicità, della loro pace, e poi.... al di là dei mari, nella lontana America, la solitudine.
Sofia insisteva perchè avesse a stabilirsi in Italia; Maria non aveva preso ancora una decisione, ma nel suo paese tutto la rattristava; non la circondavano che memorie di lotte inutili, di sterili dolori, e il suo cuore ardente aveva bisogno di sacrificarsi ancora, di combattere, di amare.
Molti progetti grandiosi le turbinavano nella mente.
Pensava ai poveri, ai vecchi, agli abbandonati, agli infermi, ai bambini traviati, alle donne perdute e vedeva questa turba immensa di persone tendere le braccia a lei, chiederle quelle forze d’amore che non aveva potuto dare ad altri, quell’alta intelligenza del dolore che aveva acquistato soffrendo e prometterle in cambio un riposo di tutti i suoi affanni, una serenità completa e sicura nell’oblìo di sè stessa.
Infervorandosi nella sua idea, andava più in là. Giunse al punto di chiedere a sè stessa se veramente avesse amato Emanuele, se tutto non era stato un sogno, una follia di mente esaltata; e le parve in coscienza di dover conchiudere così.
Da otto anni una ciocca di capelli biondi, chiusa in un piccolo medaglione d’argento con due iniziali intrecciate non l’aveva abbandonata mai. Ma ora, credette giunto il momento di distruggere anche questo ultimo avanzo di un amore che voleva rinnegare.
Maria si avvicinò al caminetto, tenendo fra l’indice e il pollice la ciocca bionda, che il tempo aveva abbrunita come fosse oro vecchio; la contemplò per pochi istanti, con tristezza, e poi la lasciò cadere in mezzo alla fiamma, che divampò subito crepitando.
Un odore disgustoso, leggermente nauseabondo si diffuse per la stanza, odore di cosa morta, che fece indietreggiare Maria, mentre i suoi occhi aridi non abbandonavano il guizzo serpentino della fiamma.
— Così dunque, o amore, disseccato non sei altro che una putredine — pensava — ed io, ti portai otto anni sul cuore, ciocca immonda, umida dei baci di tutte le donne ch’egli avrà conosciute prima di me!...
Prima e durante; quando ella lo aspettava sitibonda d’amore alla finestra, ed egli passava le serate fuori, tornando poi pallido e tranquillo....
Ella avrebbe voluto ora avventarsi su quella ciocca già distrutta, perchè il fuoco le sembrava troppo nobile fine; e rammentava, indignata, la dichiarazione di poche sere prima, una dichiarazione d’amore, adesso che era marito e padre.
Sofia fece una delle sue solite entrate clamorose, sbattendo sui mobili le gale trinate dell’accappatojo, fra un’onda di profumi, saltellando sui tacchi alla Luigi XV.
— Sai la novità? il mio Guiduccio cammina. — Prendevo il caffè, ed a lui che se ne stava qualche passo lontano, mostrai il cucchiaino, così, ridendo. Vederlo! Si staccò subito dalla sedia dove era appoggiato e, patatì, patatì colle sue gambettine tremolanti, mi venne fino ai ginocchi.
Non aveva paura, che! rideva il birichino; ora cammina proprio davvero.
Maria fece le sue congratulazioni, seria, con quel fondo di malinconia pensosa, che dava una impronta speciale alla sua fisionomia ed alle sue parole.
Sofia disse ancora qualche cosa a proposito di Guiduccio, ma improvvisamente si ricordò che quel mattino si era tagliata un’unghia, così male da trarne sangue e guardò il dito con interesse, succhiandolo e accarezzandolo, lagnandosi con Maria di quella disgrazia. Aveva un mano piccola, grassoccia, piena di fossette, senza nervi, colle unghie sprofondate nella carne; mano bella e impudica, di una morbidezza lubrica. La guardava ancora, voltandola da tutte le parti, quando entrò il dottore.
L’unghia tagliata fu il primo argomento. Il dottore prese la mano, la lisciò, la strinse; Sofia rise, dicendo che le faceva il sollecito; la ritirò; venne ripresa, riesaminata, riaccarezzata, tutto questo con mille moine, attucci, dispettucci e vezzi civettuoli, finchè Sofia prendendosi soggezione dell’amica, si fece seria e nascondendo entrambe le mani sotto le trine dell’accappatojo:
— Sa la novità? Mio figlio cammina.
Rifece il racconto del primo passo, intanto che lei prendeva il caffè, senza dimenticare il patatì, patatì delle gambettine tremolanti.
— Or via dunque — interruppe il dottore — adesso che suo figlio è emancipato, possiamo combinare questa passeggiata?
Sofia faceva spesso dei progetti. Prima la festa, poi una gita ai monti, ma non si era messo capo a niente. Il dottore insistè molto sulla gita; disse che la stagione era favorevole, che più tardi il sole avrebbe disturbato.
— E la mia festa?
— Le preme tanto la festa?
— Certo, Ho un abito color fragola che l'anno venturo non sarà più di moda.
— Ebbene, facciamo l’una e l'altra; oggi saremo alpinisti e domani ballerini.
— Tutto sta a convincere mio marito — fece Sofia allungando le labbra, con un movimento ondulatorio della testa.
— Suo marito?... ma non sarà differente dagli altri mariti?
Si guardarono maliziosamente, cogli occhi socchiusi; la presenza di Maria fu ancora quella che li fece diventare serii.
— Ne riparleremo — concluse Sofia.
Due giorni dopo, la gita era combinata. Alla mattina del terzo, per tempissimo, il dottore, la signora Guidobelli, la signora Bonamore col cugino, qualche altra persona, tutti bene equipaggiati e in arnese da campagna, erano riuniti nel salotto: Sofia comparve, vestita di panno turchino, col corpetto aperto sopra un giustacuore rosso scarlatto, con una penna rossa nel cappello e i guanti scamosciati che le salivano fino al gomito. Fu accolta con un urrà. Anche Maria, naturalmente, era della partita. Emanuele fino dalla sera aveva detto di non voler saperne, ma al momento di mettersi in moto venne lui pure, serio, impettito, con un soprabito grigio sul braccio.
— Non ha un aspetto molto gajo tuo marito — susurrò la Bonamore all’orecchio di Sofia.
— È un originale.
— Ha la faccia di uno che non abbia dormito.
— Probabilissimo. È rimasto tutta la notte nel suo studio, dove non c’è, in fatto di comodità, che una poltrona di pelle colle molle rotte.
— E il piccino? — domandò Maria al momento di partire.
— Dorme — rispose Sofia, scendendo le scale a braccio del dottore.
Due ore di ferrovia e un’ora di carrozza mettevano la brigatella ai piedi delle prealpi. Erano le otto circa.
Le signore incominciarono subito a estasiarsi sul panorama. Quelle milanesi eleganti intonarono in coro l’elogio della campagna, del verde, dei monti, del cielo spazzato. La novità tingeva in bello ogni cosa; l’aria del mattino, alla quale non erano avvezze, le stimolava; sembravano tutte giovani, anche la Bonamore, che aveva messo per precauzione una veletta bianca intorno alla faccia.
Maria stava con loro, procurando di interessarsi alla conversazione scucita, ma più che tutto ascoltando le voci calme e giulive della natura, che le mettevano nel cuore una gran pace.
Lo scopo della passeggiata era un Santuario posto su un’erta vetta, a cui si giungeva per una strada mulattiera scaglionata tutto in giro alla montagna.
Non c’era ordine di marcia; le donne andavano avanti strette insieme, un po’ tenendosi per mano, un po’ spingendosi; fermandosi spesso a scambiare qualche parola cogli uomini che venivano dietro alla spicciolata, ognuno per proprio conto.
La voce che dominava tutte era quella di Sofia, come fra tutti spiccava il suo abito turchino col giustacuore rosso. La Guidobelli, elegantissima, con una gonna bigia che le scendeva poco sotto il polpaccio, calze bigie, stivaletti bigi di pelle di daino, con un alpenstock in mano, cantarellava le ariette piccanti della Carmen e della Donna Juanita. La Bonamore, nel sentimentalismo cronico de’ suoi quarant’anni, coglieva erbucce e fiorellini.
A un dato punto il sentiero divenne così stretto che bisognò camminare soli, tutti in fila; il dottore si pose dietro a Sofia, per sorreggerla nei passi difficili. Gli altri uomini imitarono l’esempio. Maria accettò per cavaliere un maggiore in ritiro, che aveva viaggiato molto e che le parlava dell’America.
Emanuele non aveva dama. Veniva ultimo, senza che nessuno badasse a lui.
A due terzi della strada la conversazione incominciò a cadere. Erano stanchi e affamati — le signore al pari degli uomini. Per compenso, la vista non poteva essere più incantevole.
Tutto il piano lombardo si stendeva a perdita d’occhio; due laghi scintillavano da lontano in mezzo al verde; le Alpi formavano spalliera.
Dagli orli del sentiero salivano odori di menta selvatica e di timo: la valle era morbida di erba novellina, ridente nella sua giovinezza, con certe note ingenue e alcuni tocchi sfumati come si vedono nei bambini. Gli alberelli gracili mettevano le prime gemme sui rami nudi, di una grazia ascetica; i pochi insetti che volavano non avevano forme decise; i fiori delle fragole, ancora semichiusi, punteggiavano di un bianco virgineo il declivio dei prati. Il cielo aveva delle trasparenze di velo, cangianti, con un predominio di note bianche. L’aria era calma, non per anco riscaldata dai raggi del sole — freddamente pura.
Pareva che la natura tutta non avesse sensi, tanto l’espressione ne era casta.
Maria si fermò un momento per abbracciare collo sguardo la bella solitudine. Lasciò che gli altri passassero avanti e sparissero dietro una svolta del sentiero, volendo sentirsi libera nella sua ammirazione, nello slancio che la spingeva verso la purezza della campagna. I suoi polmoni saturi d’aria cittadina si dilatavano, intanto che la sua mente uscendo dalle impressioni sensuali della vita, si ergeva leggera ai pensieri ideali.
Per quanto l’occhio potesse vedere, non un richiamo alla materialità umana; nessun stimolo per la carne; solo e dappertutto una freschezza giovanile, una serenità innocente, come di mondo appena nato, svelantesi inconscio a quel mattino d’aprile.
Sofia la chiamò per mostrarle il santuario che appariva intero sullo sfondo di un boschetto di abeti, e presala attraverso le spalle con uno dei suoi movimenti graziosi:
— Quanto ti voglio bene!
Maria sorrise, col cuore tranquillo, piena di calma dolce e triste.
Tutto era stato disposto per un asciolvere sull’erba, che non si volle differire neppure di un minuto. Il dottore dirigeva ogni cosa con una garbatezza, un buon gusto ammirabili.
Emanuele non si era mai potuto trovare accanto a Maria, ma non ne aveva peranco cercata l’occasione, chiuso in un abbattimento che gli si rifletteva sul volto e gli allontanava la compagnia, tanto come egli cercava di sfuggirla.
La Guidobelli disse piano alla Bonamore (alla quale, da che le aveva portato via l’amante, si mostrava molto affezionata):
— Campo non è punto allegro. Avrà forse dei meriti, ma gli manca indubbiamente quello di essere simpatico.
— Deve stare poco bene; Sofia mi ha detto che questa notte non si è coricato.
— Amabile anche come marito.
— Non occupiamoci di lui; è il meglio che possiamo fare. Sofia ce ne dà l’esempio.
E sedette allegramente sull’erba, gettando via il cappello. La Bonamore aveva in tasca uno specchietto, che fece il giro delle signore, intanto che gli uomini stappavano le bottiglie.
L’aria frizzante e il vino buono accesero presto i cervelli: la conversazione, tumultuosa dapprima, si suddivise e si fece più intima. Gli uomini, quasi tutti, provarono il bisogno di confidare qualche cosa nell’orecchio della loro vicina.
Maria si trovava un po’ a disagio. Approfittando della confusione sorta da un brindisi si allontanò chetamente ed entrò in chiesa; una chiesuola rustica, primitiva, scrupolosamente pulita, con quell’odore indefinibile delie chiese abbandonate e quei lumicini spaventati tra l'economia e la divozione.
Visitò i tre altari, esaminando i voti appesi e leggendo qualcuna delle ingenue dedicatorie; molte fra esse erano vecchie di due secoli, scritte con vernice bianca su rozze tavole di legno. Guardò le palme di fiori di carta piantate nei loro vasettini di vetro celeste, le tovaglie delle mense, gialline, ornate di pizzi all’uncinetto; la Via Crucis, con un Cristo gigantesco vestito di rosso, replicato quattordici volte; e poi si raccolse in un banco, senza pregare, assorbendo con tutta l’anima la calma mistica del tempio, meravigliata di trovarsi sempre nel cuore, accanto alla pace riconquistata, un fondo di malinconia.
Fuori, sul prato, trillava la vocetta acuta di Sofia in mezzo al cozzare dei bicchieri. Maria si mosse e senza sapere il perchè, guidata dal desiderio crescente della solitudine, passò davanti all’altare maggiore e uscì dalla porticina della sacristia. Là il silenzio era perfetto; sembrava di essere ai confini della terra.
Un sentiero strettissimo girava dalla parte opposta della montagna, scoprendo i fianchi di un burrone irto di massi granitici in fondo al quale, alla profondità di un duecento metri, scorreva mugghiando il torrente. Maria prese quel sentiero, a passi lesti come se qualcuno la chiamasse. Una brezza freschissima, un po’ umida, le scioglieva i capelli sulla fronte, le spianava i ringonfi dell’abito; un ramo spinoso le strappò il pettine, che cadde sui sassi e si ruppe. Ella sembrava non se ne accorgesse. Camminava, camminava, fuggendo il mondo, beata dell’aria pura e della libertà, compiacendosi di immaginarsi sola in quella natura incontaminata.
A un tratto le apparve un uomo, ritto sul tronco di un albero rovesciato. Per un senso istintivo di pudore portò le mani nei capelli e alle vesti scomposte. L’uomo voltò la testa dalla sua parte; lo riconobbe, era lui.
Egli la vide avvicinarsi senza pronunciare una parola, senza fare un gesto.
Quando Maria gli fu accanto si accorse con terrore che il tronco dell’albero sporgeva dritto sull’abisso, ad una altezza vertiginosa.
— Che fate? — gli domandò, sorpresa e spaventata.
Non rispose subito; ma stette a mirarla con una disperazione negli occhi, con uno smarrimento di tutto il volto, fino a quando accostandosi ella viepiù le disse a bassa voce:
— Datemi la vostra mano.
Maria credette che non potesse da solo rimettersi sul sentiero e fu pronta a tendergli la destra.
Egli la baciò con affetto riverente e poi la sciolse. Il tronco scricchiolò, torcendosi sotto il peso del corpo che vacillava.
Ella comprese tutto. Non ebbe che un grido: Emanuele! e slanciandosi forsennata lo prese nelle braccia, trascinandoselo sul petto, retrocedendo con quel corpo sempre stretto contro il suo, finchè caddero entrambi sulla roccia, quasi esanimi.
— Lasciatemelo dire, care amiche, intanto che gli uomini non ci sentono, quest’aria montanina altera la pelle. Mi par di avere la faccia dura come corame.
La Bonamore sorrise all’ingenua confessione di Sofia, e traendo di tasca una boccetta accuratamente chiusa in un astuccio:
— Ecco il rimedio. Glicerina.
— Ma questa Elvira è portentosa, pensa a tutto.
La Guidobelli si abbassò sulla spalla di Sofia mormorando malignamente:
— Vantaggi dell’esperienza.
Gli uomini che si erano sbandati tornarono in gruppo, facendo osservare che il tocco era passato e conveniva pensare al ritorno se si voleva desinare a Milano.
— E mio marito? — chiese allora Sofia.
— E la tua amica? — soggiunse la Guidobelli.
— Eccoli.
Apparvero, come una visione, sul ciglio del sentiero; vicini, non uniti.
Le loro figure, quasi della medesima altezza, si disegnavano nettamente su uno sfondo delicatissimo di cielo, a cui il pieno meriggio dava una tinta dorata. Emanuele era a testa nuda. Maria coi capelli disciolti, le vesti strette intorno ai fianchi, cadenti con una semplicità di peplo.
— Basta vedere l’America per diventare eccentrici — disse la Guidobelli, socchiudendo con curiosità impertinente i suoi occhietti da miope.
Incominciarono la discesa, Guidobelli e Bonamore a braccetto; Sofia col dottore; Maria con due o tre uomini, che poi abbandonò, preferendo starsene sola. Aveva caldo; si sentiva scottare le mani e il collo, per cui rialzati i capelli che le pesavano e intrecciatili semplicemente sulla nuca, trovandosi più libera, sollevò la testa con un movimento di fierezza che le era naturale, dilatando le narici.
Il sole dardeggiava in pieno. Ogni cespuglio usciva illuminato dal fondo uniforme del verde, con gradazioni più calde, varianti dall’ambra allo smeraldo; ogni ramo sembrava gonfiarsi, nel crescendo del meriggio, sotto la efflorescenza carnosa dei primi germogli.
Nelle penombre, poste in rilievo dalla luce, apparivano pelurie di nido, tremolìi indistinti come di vita intima e raccolta; e sospesi sui rami lunghi fili d’argento, quasi cortine d’alcova, e sotto le foglie cento rumori bizzarri d’essersi nascosti attendenti a misteriose cose — un brulichío sommesso, un mormorío dolce, come di preghiera, come di aneliti repressi, come di canzoni mormorate bocca su bocca.
Maria non riconosceva più il paesaggio del mattino. Tutto era cambiato in quel volgere d’ore. Una forza segreta aveva rialzato le gemme degli alberi rivelandone la maturità, turgida, tra le esalazioni vitali del bocciuolo che si apriva. Il terreno, che la rugiada non velava più, sembrava sollevarsi in alcuni punti con degli aneliti di seno materno; i colori si accendevano al sole, le forme prendevano linee spiccate; i profumi si facevano più intensi. Un tepore quasi umano correva per l’aria. Tutte quelle foglie, quei rami, quei fiori avevano un palpito; il segreto della natura li aveva tocchi; sentivano anch’essi una vita — amavano.
Maria restò immobile sotto la vampa del sole; immersa in un bagno di luce e di calore, che le stimolava l’epidermide, portandole il sangue al cervello. Giù per il sentiero echeggiavano i passi de’ compagni e le voci risalivano, chiassose, con esplosioni di note sanguigne, nel benessere pieno della digestione.
Maria ascoltava. Nasceva in lei la rivelazione di una virilità giunta al suo pieno sviluppo. Al cospetto di quella natura feconda si sentiva commossa e dalle privazioni della sua casta vita si sprigionavano indomati ardori, sorde ribellioni.
Comprendeva allora per la prima volta il palpito unico dell’universo; lo ascoltava in sè, lo vedeva fuori di sè; le sue sensazioni si confondevano colle sue impressioni; un filo arcano, vibrante come una corda armonica, batteva tra lei e la natura, tra la sua anima e l’anima di tutto quel mondo vivo che le stava intorno.
La sua alta persona, nella incandescenza del sole, raggiava; attraverso i capelli le passavano delle striscie d’oro; il suo collo, il principio delle braccia, che le brevi maniche lasciavano scoperte, acquistavano nella intonazione generale una tinta calda di frutto maturo. Tendeva avanti le mani, allargate, con un desiderio di confondersi a quei colori, a quei profumi, con una ebbrezza strana in tutte le fibre.
Improvvisamente si ricordò una scena del passato. Era sola con Emanuele; ella lo abbracciava e il giovane dopo aver risposto ai primi amplessi, tentava di allontanarla, preoccupato, lasciandole l’impressione di una sofferenza repressa.
Maria allora non aveva compreso.
Ora comprendeva.
Nell’aria calda del meriggio il volto del professore le si ripresentava con una espressione nuova. Sapeva adesso in qual modo egli l’amava. Anche lui!.... Ebbe un fremito e un rossore, null’altro; affrettò il passo, leggera, come se due ali la portassero.
Fu svegliata bruscamente dall’estasi. Una coppia moveva verso lei, Sofia ed Emanuele; Sofia la chiamava forte, battendo le mani per il piacere di averla ritrovata, assicurando che temeva fosse caduta nel burrone. Quando le fu vicina volle abbracciarla, secondo il suo costume; Maria la respinse, sotto l’impulso di una avversione repentina.
— Mi pare indisposta — susurrò Sofia all’orecchio di Emanuele, e volgendosi di nuovo a lei, graziosissima, le disse: — Vuoi prendere il braccio di mio marito?
Le due parole mio marito trapassarono Maria da parte a parte; ella fece un balzo, turbatissima; rispose di no, in modo secco, che non ammetteva replica.
Sofia sul momento restò mortificata, ma raggiunta la compagnia non pensò più all’amica, mettendo tutto sul conto dei nervi.
In vagone, intanto che un treno direttissimo li riconduceva a Milano, l’allegra brigatella si trovò di nuovo tutta riunita in un solo scompartimento; un po’ pigiati, con grande piacere delle signore Sofia, Bonamore e Guidobelli, che mostravano tuttavia di lagnarsene, cacciando ogni tanto qualche sospiro, allungando i piedini per stare più comode.
Maria aveva cercato un posto lontano da Emanuele; ma erano di fronte e si guardavano. Si guardavano deliberatamente, lei con una espressione nuova, egli con una raddoppiata tenerezza negli occhi.
— Mi ricorderò per sempre del 14 aprile — disse il maggiore in ritiro, seduto accanto a Maria, intenzionato di farle una corte seria.
Maria sorrise, distratta, guardando davanti a lei, come se quelle parole fossero uscite da un’altra bocca. Il movimento monotono della ferrovia sembrava cullare le idee che le insorgevano dentro; non tentava neppure di combatterle. Ammetteva ciò che non aveva mai voluto ammettere: la fatalità di certi momenti.
Ella aveva ancora nei polmoni l’ossigeno robusto della montagna; sotto gli occhi la morbidezza dei prati lombardi e nell’anima un tumulto confuso, delle audacie nuove, arditissime.
— La donna che cede all’amore (era il dottore che commentava, dopo averlo raccontato, un piccante aneddoto dell’alta società milanese) la donna che cede all’amore è sempre rispettabile, anche quando ha l’apparenza di commettere una colpa.
Nessuno protestò. Le signore abbassarono il mento fra i nastri dei loro cappellini, con tacita e pudica approvazione. Il maggiore esclamò, pieno di fuoco:
— Sicuro! Sicuro!
Maria pensava che tutte le donne celebri per bellezza, per ingegno, per coltura, per cuore, tutte le donne cantate dai poeti, idealizzate dagli artisti, avevano amato fortemente; come si ama in questo mondo vivo, in mezzo alla natura palpitante; come l’uomo vuole e deve amare, come pretende di essere amato. Guardò Emanuele, rapidamente, con una vampa sul volto, e chiuse le palpebre. Le passarono in un baleno davanti agli occhi i loro incontri sulla scala buja, e tornò a guardarlo, alla sfuggita, aprendo le palpebre adagio adagio.
— Che bella campagna, non è vero? — disse il maggiore.
— Sì — rispose Maria — appoggiando il fazzoletto alla fronte che le si imperlava di sudore.
La Guidobelli rivolse qualche parola al professore, ed Emanuele parlò per cinque minuti, colla sua voce dolce e fredda, di una gentilezza convenzionale.
Maria non ne perdette un suono, colla testa voltata al finestrino del vagone, intenta a guardare i salici che fuggivano rapidamente come ombre grigie nel verde grasso dei campi; ripetendo fra sè: «Lo amo, lo amo, lo amo.»
Certe meditazioni che una volta, alle Stancias, l’avevano turbata sotto la forma mite di uno scrupolo, l’assalivano adesso brutalmente. Tornava a chiedere a sè stessa se la sua virtù non fosse stata piuttosto egoismo e ipocrisia; e che cosa era infine la virtù, se non una maschera per gl’ignoranti? Non accade lo stesso colla religione? Ai bambini si fa recitare meccanicamente il Pater noster e si dà a baciare un pezzo di legno o un foglio di carta, ma qual è la persona intelligente che si arresta alla forma esterna? Non era ella stata troppo bambina?
Il treno si fermò in una piccola stazione; una casa di mattoni rossi fiancheggiata da uno steccato di legno, al quale faceva ressa una folla di contadini. Un po’ più in là, verso un campo di trifoglio, un gruppo attrasse l’attenzione di Maria; era una donna, bella, ritta e appoggiata con un braccio al collo di una giovenca che si piegava docile allargando in uno sguardo mansueto i suoi grandi occhi a fior di testa.
Guardando meglio, Maria si accorse che un vingolo simpatico univa la giovane contadina all’animale; erano gravide tutte e due, placidamente serene nel benessere completo della maturanza, mostrando alla piena luce del giorno l’orgoglio del loro sesso — e subito tutto ciò che era intorno, la folla dei contadini, la folla dei viaggiatori, le grida, i rumori, il movimento della piccola stazione tutto le parve mettesse capo a quelle due creature, quasi sintesi unica dell’armonia universale. E ancora, quando la locomotiva correva, nel rimpicciolimento del paesaggio, Maria vide disegnarsi netto il contorno vigoroso della donna e giganteggiare colle sue forme arrotondate; mentre la giovenca mugghiava sommesso, aspirando le tentazioni del trifoglio.
— Tutto è amore — concluse Maria mettendo fuori del finestrino le braccia perchè si sentiva soffocare e le pareva che le vesti diventassero strette ai larghi aneliti del suo petto.
Provava una dolcezza straordinaria a pensare che Emanuele l’amava, l’amava al punto di morirne. Ella non lo aveva compreso subito; sospettava un volgare capriccio ed era invece una vera passione. Come poteva dubitarne ora? Ora che lo aveva veduto sull’orlo di quell’abisso, e che nello sguardo disperato di lui le si era rivelato un abisso ancor più profondo?
Quale tenerezza la spingeva verso l’uomo timido e onesto, che non sapeva fingere, che non sapeva vestirsi di orpello teatrale, che non aveva il coraggio della lotta, ma che sapeva guardare in faccia la morte colla sua freddezza di filosofo antico!
Quel crescendo di un amore che era cominciato colla placidezza dell’affetto, per giungere alla più violenta passione, non la meravigliava più. Non aveva ella stessa subìta una eguale metamorfosi? Perchè prima non si era data a lui liberamente, passando sopra a tutti i pregiudizi della società, mostrando che lo amava al di sopra del mondo intero? Ah! come era stata vile, allora.
L’aria frizzante del tramonto le sferzava le braccia e il volto, ma Maria non se ne accorgeva, assorbendola avidamente cogli ultimi raggi del sole, forte di una vita nuova che era entrata in lei, come se un vincolo misterioso avesse legato i suoi sensi ai sensi della natura tutta, ed ella ne sentisse la potente energia recarle torrenti di sangue al cuore.
La voce di Emanuele, quella voce che solo per lei aveva note vellutate, quasi calde, le mormorò:
— Maria....
Si volse. Il treno era fermo, il vagone vuoto. Tutti erano scesi, già perduti nel brulichío della stazione, dalle cui porte spalancate si intravedeva un altro brulichío di persone aspettanti.
Ella non disse nulla. Lo guardò negli occhi, seguendolo nel breve spazio del vagone, e prima di mettere i piedi sul predellino gli si strinse contro, nell’angolo semibujo, e lo baciò sulla bocca.
Nel cuore di Maria così retto, educato aspramente alla scuola del dovere, l’irruzione del nuovo sentimento non procedeva senza ostacoli.
Era un mormorío sordo, come di persona lontana della quale non si odono bene le parole ma se ne indovina il senso; era un terrore che la prendeva improvvisamente nel mezzo delle più ardenti fantasie, per cui, trasognata, si guardava nello specchio esclamando: «Ma sono io?» quasi fosse persuasa di vedere un altro volto.
Eppure la sua risoluzione era presa; voleva darsi a Emanuele, interamente, attirata dalla grandezza del sacrificio, che le faceva distruggere ogni passata credenza sull’altare dell’amore. Aveva un’impazienza strana di andare a lui e dirgli: «Prendimi, voglio farti felice, tu che non sapesti esserlo mai.» L’amava tanto più ora che lo aveva fatto soffrire, ora che aveva veduto le sue lagrime; sentiva che le apparteneva come amante, come schiavo, come povero. Era cosa sua e lo voleva.
Tutte le ripugnanze di qualche giorno addietro cadevano ad una ad una. Era come il neofita di una religione nuova che ripudia valorosamente le antiche superstizioni. Dal momento che comprendeva, dal momento che amava, nulla doveva nè sorprenderla, nè arrestarla.
La sua fantasia ed i suoi sensi, che avevano conservato nel matrimonio quasi una castità, si trovavano improvvisamente senza veli, e questa nudità che il soffio dell’amore santificava, non era oscena; prendeva anzi ai suoi occhi una imponenza grandiosa di bellezza veramente umana.
Ma se alti erano i pensieri di quell’amore, finchè Maria vi si abbandonava nelle solitarie ebbrezze della sua stanza, nella pratica giornaliera incontrava urti violenti che la atterrivano.
Frenarsi sempre, eludere gli sguardi, misurare i gesti, trovarsi di nascosto, e di nascosto scambiare con due o tre parole i tormenti delle intiere giornate, questa era la sua vita e la vita di Emanuele. Era giunta senza avvedersene, per un pendío fatale, ad uno di quei volgari intrighi che aveva tanto disprezzati.
Invano ella ripeteva a sè stessa che dopo dieci anni di lotta e di resistenza, un amore come il suo acquista il diritto di affrancarsi. Non era meno vero che, un amore come il suo, doveva scendere alle menzogne degli amori delle altre; la Guidobelli, la Bonamore, Ninna Menni. Che valore aveva dunque la nobiltà del principio, quando il fine doveva essere eguale?
Questi erano i rimproveri della voce ignota che parlava in lei; ma la passione parlava più forte e Maria invece di evitare le occasioni si accontentava di nasconderle.
L’improvviso odio per Sofia, che alla bontà innata del suo cuore doveva ripugnare come la massima delle ingratitudini, Maria lo impugnava per farsi uno scudo. Forse che Sofia amava suo marito? Era degna di possederne l’affetto? Colla stessa leggerezza che aveva accolto Bandini, non stava adesso per cedere alle insistenze del dottore?
A questo pensiero Maria si soffermava, sentendosi mancare il respiro, sotto l’oppressione di un desiderio mostruoso.
A farlo apposta, Sofia le prodigava più tenere che mai le sue carezze, con una dolcezza umile, cercando qualche volta di prenderla per sorpresa, con una grazia infantilmente birichina.
Alla mattina, mezzo vestita, entrava in camera di Maria e le buttava al collo le braccia nude, lasciandole sulla pelle l’odore di verbena dei suoi lavacri; sedeva famigliarmente sul letto, trattenendo le sottane che le cadevano, col busto slacciato, nel suo abbandono impudico di donna grassa, assonnata ancora, cogli occhi un po’ rossi. Talvolta prendeva un pettine di Maria per lisciarsi i capelli o si provava un corpetto di lei, davanti allo specchio, e dappertutto lasciava una traccia del suo profumo molle e sensuale.
Quando era uscita, Maria apriva la finestra; si lavava la faccia, il collo, le mani, nauseata e irritata, con un morso di gelosia nel cuore.
All’asciolvere era un altro supplizio. Sofia si divertiva a punzecchiare suo marito, chiamandolo freddo e insensibile, convalidando l’argomento con allusioni scabrose, mettendo arbitra l’amica. Una volta Sofia era in vena di civetteria; prese dal piatto una ciliegia e scherzando, ridendo, colle sue moine vezzose volle per forza che Emanuele la mettesse in bocca e, siccome resisteva, si levò di scatto e andò a sedersi sul bracciuolo della poltrona dove egli stava seduto, continuando l’assalto.
Tutti i giorni vi erano scene di questo genere, insopportabili, grottesche. Emanuele sembrava impazzirne.
Non potevano quasi mai trovarsi soli. Emanuele, timido, non osava chiedere a Maria cosa alcuna che potesse comprometterla. Nei rari momenti di libertà egli le diceva una parola sola: «Mi ami?» come se non potesse crederlo — e la guardava, aspettando.
Una sera, abbracciandola stretta nel vano di una porta, le mormorò colla voce di un moribondo che implora un sorso d’acqua: «Vieni...»
Non disse dove, non disse quando. Vieni, era l'anelito del suo cuore che soffriva, spoglio di ogni riflessione e di ogni calcolo. Vieni, parola sublime, senza senso, uscita dalle labbra di un uomo schiettamente innamorato.
Scettico per temperamento e per teoria, Emanuele in pratica non conosceva la vita; da tale contrasto risultava l’ingenuità delle sue manifestazioni in una passione che provava per la prima volta. Questo era che commoveva tanto Maria.
Ella aveva cercato invano per lunghi anni di portare i tesori del suo amore a quel cuore malato, ed ora, quando meno lo aspettava, il cuore malato si metteva a battere, sorgeva, viveva, ed erano le sue lagrime che avevano compito il miracolo; era dal suo tenero affetto che germogliava tardivo l’affetto di lui; così Maria sentiva questo legame duplicato da una tenerezza quasi materna, fatta d’orgoglio e di pietà. Lei sola poteva farlo felice; lei sola ne aveva il diritto per tutte le lagrime e per tutti i dolori che le era costato quell’uomo.
Dalle confidenze di Sofia, sapeva che Emanuele non dormiva più con sua moglie. Si era fatto portare un letto da campagna nel suo studio, col pretesto di veglie prolungate; infatti, fino a notte tarda, si scorgeva il lume attraverso le imposte socchiuse.
Quando il silenzio era profondo, Maria, appoggiata al davanzale della sua finestra, teneva fissi gli occhi su quel lume. Un rettangolo di giardino divideva le due finestre esternamente; all’interno vi stava di mezzo tutto l’appartamento. Dopo che egli le aveva detto vieni, sembrava a Maria che quel lume la chiamasse, con una dolce e tacita insistenza, invitandola col suo bagliore tranquillo.
Altra volta, quando Emanuele chiedeva il primo bacio, ella non aveva esitato; ma portava allora una grande arme con sè, la propria innocenza. Ora la situazione era affatto cambiata; Maria sapeva ciò che Emanuele voleva.
Nell’aria buja della notte, nessun rumore veniva a interrompere l’aspra battaglia ch’ella combatteva da sola, al davanzale della sua finestra; ma nel breve orizzonte dove sembrava alitare il respiro della città addormentata, una visione di fantasmi sfilava sorridendo con aria di scherno. Erano donne graziose, facili fanciulle, spose senza scrupoli; tutte la guardavano compassionevolmente attonite e meravigliate della sua solitaria follía — ed essa guardava loro, riconoscendo volti noti, amiche colle quali si era trovata nelle conversazioni, in casa, in chiesa; signore educate che parlavano di morale a proposito di tutto — e passavano, pudicamente ravvolte nelle cortine dell’alcova matrimoniale, nel bianco velo sparso di fior d’aranci, seguite dalla turba degli amanti discreti e prudenti.
In un momento di chiaroveggenza quasi magnetica, Maria scorgeva i misteri di tutte quelle finestre chiuse; i mille misteri risolventisi in uno solo, antico come il mondo, eterno come la giovinezza; il mistero delle città e delle selve, dell’uomo e della natura, il solo perchè dell’universo. — E dal fondo delle viscere le sorgeva una violenta protesta contro i rigidi principî che inceppavano il suo amore.
— Eccomi — mormorava colle braccia tese nell’oscurità, coll’occhio fisso sul punto luminoso — sono donna e ti amo; vengo a te.
Sì, sì, vengo — continuava a dire a bassa voce movendo appena le labbra — aspettami Emanuele, mio amore, mia gioja, dolor mio.
Si mosse come una sonnambula, a passi brevi e tremanti, sentendosi paralizzata dalle anche in giù e tutto il corpo diaccio. Si fermò un minuto davanti allo specchio, un solo minuto. Era pallidissima, cogli occhi grandi, cinti di violetto; strinse le labbra, commossa; a Emanuele piacevano i suoi occhi così. Aveva un pajo di stivaletti che scricchiolavano; li levò e si pose le pianelle.
Nell’aprire l’uscio, una corrente d’aria le spense il lume. Dovette brancicare ai bujo, urtandosi contro i mobili, debole così da reggersi appena. Quand’ebbe riaccesa la candela, sulla soglia dell’uscio, esitò. Aveva nel petto un rodío, come se due mostri ignoti si contendessero a colpi di zanna il suo cuore.
Uscì finalmente, attraversando in punta di piedi il gabinetto dalla tappezzeria verdemare, attiguo alla stanza di Sofia. Sul divanuccio c’era l’abito che Sofia aveva spogliato quella sera, lungo, disteso, colle maniche ancora gonfie e il corpetto che sembrava tiepido nella lieve evaporazione delle carni contenute. Maria nel passare lo smosse e l’abito cadde bruscamente per terra, con un fruscío secco, come di risata sardonica.
Al gabinetto seguiva il salotto, tutto ingombro di poltrone, di tavolini e di ninnoli eleganti, con due specchi altissimi, posti di fronte, che riflettevano simultaneamente la figura spettrale di Maria. Ella ne ebbe quasi paura e abbassò gli occhi, rifuggendo dal guardarsi, con un aumento di tremore nelle gambe e quel diaccio per tutto il corpo che le dava l’impressione di sentirsi irrigidire.
Due camere ancora la separavano dallo studio di Emanuele; in una di queste, molto ampia, nuda, con un guardarobe altissimo, ella c’era stata appena una volta. Non ricordava bene se l’uscio era a destra od a manca; alzava il lume, per vedere meglio, quando un respiro robusto di persona dormente la inchiodò nel mezzo della stanza, sbigottita. La bambinaja dormiva su un lettuccio, dietro un paravento, colla coltre di filugello giallo tirata sugli occhi, e accanto a lei, la culla di Guido biancheggiava nello sfondo latteo delle trine, sospese e drappeggiate intorno.
Maria pose una mano davanti alla fiamma e guardò al di sopra della luce smorzata, trattenendo il fiato. La faccia del piccino, tutta rosea nella cornice ricamata della cuffietta, riposava in attitudine di una pace profonda, colle palpebre serrate che gettavano un’ombra sulle guancie; in fondo al piumino di seta celeste usciva uno de’ suoi pieducci, nudo, e fra questi due estremi il piccolo corpo ravvolto nelle coperte si alzava e si abbassava con un movimento regolare, di una placidezza beata e sana.
Dall’altra parte, l’uscio spalancato scopriva l’incerto nereggiamento di un corritojo, attraversato da una striscia sottilissima di luce che sfuggiva da una fessura dell’uscio di Emanuele.
Maria era come impietrita, con un senso di soffocazione penoso e opprimente che le serrava la gola. Volse gli sguardi, lenti, dalla culla all’uscio, sempre colla mano alzata contro la candela, ascoltando.
Sentì le forze che le venivano meno; e quel ghiaccio rigido della membra fondersi sotto una fiamma invadente, che partita dalle guancie, dopo esser salita ratta alla fronte discendeva, stendendosi per tutto il corpo, frustandola colla reazione di una vergogna improvvisa.
— Non posso — mormorò, quasi per giusticarsi, con un terrore angoscioso — non posso!
E ripeteva, senza saperlo, le parole che Emanuele stesso aveva dette a lei, una volta.
Rifece la via percorsa, senza voltarsi indietro, con ondeggiamenti da ubbriaca.
Quasi tutto il giorno l’amica era stata chiusa nella sua camera. Nel notare questo fatto insolito, Sofia non ebbe tempo di pensare ai commenti, perchè era quella per lei una giornata burrascosa, riboccante di occupazioni e per giunta straordinaria, avendo scoperto una lettera amorosa diretta alla sua cuoca, zitellona di quarant’anni, fidatissima, guercia dall’occhio destro e con un porro sul sopraciglio sinistro.
La sorpresa di Sofia eguagliava la sua indignazione; nel suo esclusivismo di bella donnina questo amore di una donna brutta le sembrava una mostruosità. Dal canto suo la cuoca, attaccata nei suoi diritti di libera creatura, aveva protestato stando fuori di casa mezza giornata.
Il pranzo si risentiva di questa oscillazione e Sofia era obbligata a fare delle frequenti scomparse da tavola.
Maria, molto pallida, con uno smarrimento negli occhi che tradiva una terribile lotta interna, paventava ogni volta che le assenze di Sofia la lasciavano sola col professore.
Egli era arrivato a quel punto dove un uomo non si padroneggia più. La passione gli usciva dagli sguardi sempre fissi su Maria, dalla voce che aveva per lei intonazioni tenere e tremanti, come di carezza trattenuta. Non vedeva più altro di quanto lo circondava; il suo scoraggiamento d’uomo che non crede a nulla cedeva a una invasione di ebbrezza giovanile, quasi fanciullesca, semplice e primitiva nel suo modo di rivelarsi. Maria ne era atterrita e commossa.
— Ma badate — gli disse in uno degli intervalli che restavano soli — vi fate scorgere.
Egli la guardò, colpito dal rimprovero, e scuotendo il capo risolutamente:
— Così non è possibile vivere, Maria.
— Lo so — mormorò lei, chinando gli occhi avvilita — è una infamia di tutti i momenti.
Egli volle protestare contro quella parola e le si fece vicino. Maria, tendendogli la mano ferma che lo allontanava, gli chiese a bruciapelo:
— Credete sia una sola la prova d’amore che una donna può dare ad un uomo?
— Una sola — rispose Emanuele senza esitare.
Maria tornò a chinare gli occhi.
— E se mi mancasse quest’ultima fede che ancora mi resta, se dovessi dubitare di voi, dell’amore vostro....
— Ebbene? — interruppe Maria.
Un sogghigno alterò la dolce e nobile fisionomia di Emanuele; nelle sue fredde pupille riapparve la durezza dello stoico.
— Più nulla al mondo avrebbe il potere di riscuotermi.
Maria tacque.
Dopo il caffè vi fu una irruzione delle amiche e degli amici di Sofia, che venivano a reclamare la festicciuola promessa. Le signore che stavano vicine di casa, erano scappate come si trovavano, capitanate dalla Guidobelli, che non era malcontenta di far vedere una certa maglia color piccione roseo di un effetto irresistibile, consigliata in un giornale di mode per entrevues intimes.
Sofia andò a riceverle, metà ridendo, metà infuriata, rispondendo «cuoca» ad ogni interrogazione, finchè la Guidobelli esclamò:
— Ma mia cara, dopo tutto che cosa prova una lettera? Essa prova la vanità di un uomo che si crede amato, nient’altro. Bisogna trovare, come è capitato a me, un bambino sotto il coltrone della mia cameriera, e poi, ancora, se essa mi avesse detto che non sapeva da qual parte fosse venuto, che c’è di strano? Si danno al mondo delle cose ben più strane di questa.
Sofia rise; la disinvoltura della Guidobelli, figlia di un lungo esercizio, la pose di buon umore. Dimenticò presto le sue preoccupazioni di massaja, abbandonandosi alla gaja filosofia del piacere, lasciandosi ripetere in un orecchio dal dottore che:
— Se tanto sensibili si mostrano le zitellone di quarant’anni, guercie, con un porro sul sopraciglio, quanto maggiormente deve ascoltare la voce dell’amore una creatura bella, gentile, amabile, amata....
La litania sarebbe continuata ancora; ma Sofia girando gli occhi incontrò gli occhi di Maria che la guardavano con una espressione singolare, che a lei parve di rimprovero.
Qualcuno intanto aveva aperto il piano tasteggiando a caso. Il dottore era un buon dilettante e Sofia lo pregò di suonare alcune romanze, alle quali egli sapeva dare un tocco particolare di sensualismo poetico.
Erano romanze d’amore, calde, vibranti, che sprigionavano nella sala legioni alate di silfidi, attraverso raggi di luna e susurro di zefiri, con cadenze prolungate di baci.
Maria, che aveva cercato un nascondiglio per la sua faccia sbattuta nell’angolo più remoto, si trovò accanto Emanuele, sullo stesso divano, incapace di dominarsi.
Già una volta o due la Guidobelli, co’ suoi occhietti socchiusi, aveva lanciato un’occhiata indagatrice da quella parte, mordendosi le labbra; ma Emanuele nulla vedeva. Egli era sotto l’esaltazione di un progetto ardito, di cui solamente poteva essere capace un uomo al massimo punto dell’ebbrezza.
— Lontano, lontano, lontano.... con te.
Così egli aveva susurrato, colle labbra frementi, a Maria, che non osava nè rispondergli, nè scacciarlo.
Attenta in apparenza alla musica, ella seguiva il passaggio di una visione tentatrice. Vedeva la sua casa al di là dei mari perduta nella verde solitudine delle praterie, sepolta in mezzo ai fiori con una grazia selvaggia e raccolta di nido; e vedeva sè stessa libera e felice in compagnia di Emanuele. Perchè non sarebbe fuggita con lui?
Il fine della sua vita si ricongiungeva al principio, Emanuele era stato il suo primo amore, Emanuele doveva essere l’ultimo; e in questo secondo stadio di una stessa passione si concentravano tutte le scintille d’amore, i fochi fatui, le fiamme passeggiere che le erano apparse nella vita, portando ognuna il suo bagliore, il suo guizzo. Desiderî fluttuanti di vergine, intuizioni segrete, rivelazioni lente e paurose, fino al primo sguardo, alla prima lagrima, al primo bacio; e poi l’amore materiale della donna maritata, e le seduzioni che circondano la vedovanza: un giovane bruno, alto e pallido, cogli occhi divorati da una fiamma interna, che l’aveva seguita un giorno a Buenos-Aires e che adesso le attraversava la mente perchè solamente adesso capiva il significato di quegli occhi: un walzer ballato, non sapeva più quando, con un capitano inglese, sulla tolda di un bastimento illuminato a luce elettrica, con davanti il mare fosforescente e sopra il cielo; la stretta violenta di un povero ragazzo, un mezzo selvaggio al quale ella aveva fatto del bene e che la salvò una notte, da un incendio, portandola di peso nelle braccia e morendo per lei. Tutti palpiti, desiderî, concupiscenze che venivano ora, come vassalli a tributare i loro tesori al signore unico e che le ingrossavano il cuore di un lungo anelito insoddisfatto.
— Ieri....
Ella disse: ieri, avvicinandosi colla spalla alla spalla di Emanuele, volendo raccontargli la storia angosciosa della sua notte; ma si fermò improvvisamente, stringendo i denti.
Egli non insistette; pensava al domani, all’avvenire.
Il dottore chiuse il piano, le signore domandarono i loro mantelli.
— Tu che abito metti? — chiese l’Elvira Bonamore alla padrona di casa.
— Lo sai bene, quello color fragole, colla guernizione di Chantilly.
— Credi che non farò una figura troppo meschina coi mio vecchio foulard chinese?
— Tutt’altro, è originalissimo; e poi siamo tra noi.
— Ma vedrai la Guidobelli.... chi sa che pompa!
Sofia fece spalluccie, sorridendo. Si trovava accanto Maria, che aveva lasciato il divano, e volle infilarle il braccio con un movimento grazioso per metterla a parte di quell’alta discussione femminile; ma trovò Maria così fredda e impacciata che le morirono sul labbro le parole. Accompagnò i suoi ospiti fino all’anticamera, seguita dal professore che disimpegnava macchinalmente i doveri di padrone di casa. Quando rientrarono nel salotto, Maria non c’era più; si era già ritirata nella sua camera.
E nella sua camera si svestiva in fretta, per entrare prontamente nella oscurità e nel silenzio. Un colpo leggero picchiato all’uscio le trasse un grido di spavento; balzò sulla chiave e la girò tenendovi sopra una mano, mentre coll’altra si stringeva sul petto lo scollo della camicia.
— Apri — susurrò, fuori, una voce indistinta.
— No, no — balbettava Maria pazza di terrore.
— Apri, voglio dirti una parola....
Riconobbe la voce di Sofia e aperse, gettandosi sulle spalle un mantello.
Sofia entrò tutta vestita, con un viso compunto, quasi malinconico.
— Perchè non volevi aprire? Chi credevi che fosse?
Maria non rispose; era ancora tutta tremante. Quella domanda così naturale: chi credevi che fosse? le pareva una accusa terribile.
— Forse hai sonno, poverina, scusami....
Alla fine Maria balbettò qualche parola insignificante. Ella rispose:
— Scusami, ma non potevo coricarmi così. Già da qualche giorno ho un peso, qui, come un nodo che mi stringe....
La guardò fissa. Maria, quasi barcollante, chinò gli occhi.
— Tu non sei più la stessa. Tenti invano di nasconderti... io ti leggo nel cuore.
Maria gemette, stremata di forze, appoggiata con tutto il corpo alla sponda del letto. Quel momento le sembrava il più orribile della sua vita. Aveva paura e tremava.
— Non rispondi? Indovino dunque?
Sofia fece un passo verso l’amica.
— Per pietà! — implorò Maria, tendendo avanti le mani, smarrita.
Sofia si arrestò. Quel pallore, quel turbamento la sorprendevano; non è così ch’ella credeva di trovarla.
— Maria, che hai? Sono io che devo implorare la tua indulgenza.
Le si accoccolò ai piedi come una fanciulletta davanti alla madre, e prendendole per forza le mani e baciandogliele:
— Maria, sei in collera con me, lo vedo... lo sento.... I tuoi sdegni silenziosi sono un eloquente rimprovero alla mia leggerezza.... Zitta! Non dir nulla. Capisco. Tu vuoi dirmi che ho mancato alla mia parola, che dopo aver scacciato Bandini non ho avuto la forza di respingere anche il dottore.... Sono una cattiva moglie e una cattiva madre... è questo, non è vero?
Maria la guardava adesso, intensamente, colle pupille febbrili, rispondendo da automa alle sue strette.
— Se sapessi — Sofia le si fece ancor più vicina, passandole un braccio intorno al collo — se sapessi, in certe ore, come mi sento triste! Io non ho il tuo ingegno, non ho il tuo carattere, non ho il tuo cuore, ma qualche cosa ho pure anch’io; un ideale di felicità, un bisogno di tenerezza... infine non chiedo altro che di essere amata. Non posso vivere senza amore. Tu lo puoi, perchè sei una donna forte; io non sono altro che una femminuccia... e voglio amare.
Maria schiuse le labbra per parlare. Sofia non gliene lasciò il tempo, incalzando con una foga sincera che le metteva un tremito nella voce.
— Emanuele non si cura di me; non mi ha mai amata, ma da qualche tempo si direbbe che mi odia. Io speravo, sai, che portando a casa il bambino, i nostri vincoli d’affetto si dovessero stringere maggiormente. Voglio bene a mio figlio, oh Dio, sì, lo idolatro, ma mi trovo sempre sola alla sua culla....
Singhiozzava, adagio, asciugandosi le palpebre colla pezzuola.
— Mi pare che se Emanuele volesse, potrebbe rendermi la casa più bella e i miei doveri più facili.
Sostò un momento, incerta, e poi con uno scatto improvviso:
— Digliene tu qualche cosa.
— Io?... Oh!...
Maria si ritrasse bruscamente; Sofia, interpretando male quell’atto, mormorò con dolcezza umile:
— Mi abbandoni anche tu?...
— No....
Completò con un gesto affettuoso le parole che le uscivano a stento. Quella scena terminava di abbatterla; era scossa fin nel midollo delle ossa.
— Mi comprendi, nevvero? Dimmi che non mi credi poi tanto perversa... e che sono sempre la tua Sofia, la tua povera pazzerella... Abbracciami, tanto che me ne possa tornare consolata... Dammi un bacio.
Le si avvinghiò com’edera, cercando le sue labbra. Maria, pur prestandosi all’amplesso, deviò leggermente il capo, così che il bacio sonoro dell’amica le sfiorò appena la guancia.
Mille progetti attraversavano la mente di Maria, senza che ella si decidesse a metterne in opera uno solo.
Un momento voleva dir tutto a Sofia: un altro momento si lusingava che con belli e saggi ragionamenti Emanuele si sarebbe persuaso a non amarla più. Il suo buon senso però la vinceva su tutti i sofismi sentimentali; Maria sapeva che una mezza misura non avrebbe sanata la ferita.
Si tormentava, e tormentava il suo amante con un contegno rigido, inesplicabile. In pochi giorni era diventata pallida, trasparente come un’ombra; non mangiava più, non dormiva più; moriva lentamente tra l’amore di Emanuele e l’affetto di Sofia.
La sera della festa si sentiva così male che quasi non voleva uscire dalla sua camera. Erano due giorni interi che non parlava da sola a solo con Emanuele.
Sofia andò a prenderla per forza, la fece vestire e le pose colle sue mani una rosa rossa nei capelli, vicino alle guance, per ravvivarne l’eccessivo pallore.
Tutto l’appartamento era aperto, meno le camere da letto. Nello stanzone di guardaroba allestito per la circostanza, con arazzi e fiori che ne mascheravano le pareti, un piano a coda, occupato da un imperterrito musicante, aspettava i ballerini di buona volontà. Sofia aveva voluto che la sua festicciuola fosse semplice e geniale, con poco lusso e molto buon umore. Prima dell’arrivo degli invitati, già bella e vestita col suo abito color fragola, si portò in giro per le sale il bambino, mostrandogli i lumi accesi, i fiori, i bicchieri lucenti sulle guantiere verniciate, facendogli assaggiare qualche chicca.
Il dottore la sorprese in queste espansioni materne e la consigliò, in base all’igiene, di mettere a letto il marmocchio.
Venne seconda la Elvira Bonamore, col cugino e con due o tre giovani reclute; poi Nina Menni, il maggiore in ritiro, scortato da un sottotenente in piena attività; alcuni allievi del professore, senza peli al mento, ma coi garretti a tutta prova; un pajo di ragazze stagionate, una bimba di quindici anni, brutta, con una mamma di trentacinque bellissima. Una quarantina di persone in tutto.
L’elegante Guidobelli fu l’ultima a comparire mettendo in rivoluzione le signore col taglio ardito del suo abito, fatto di broccato color pesca a disegni Pompadour.
Sofia riceveva tutti gentilmente, ringraziando, con un sorriso di donna felice. Non aveva in mente altro che la buona riuscita della sua festicciuola; la prospettiva di divertirsi tutta notte, le faceva dimenticare qualunque preoccupazione.
Emanuele Campo, sempre un po’ impacciato, aveva quella sera un contegno strano; urtava i suoi invitati, pestava gli abiti alle signore, non rispondeva alle domande, oppure rispondeva di traverso. Seguiva Maria di sala in sala guardandola cogli occhi lucenti. Quando incominciarono a ballare, egli che non ballava, sperò di potersi mettere con lei in un cantuccio.
Maria, che vedeva con terrore le sue imprudenze, accettò invece il braccio di un ballerino, trascinandosi con fatica, sentendo un’amarezza che le saliva dal fondo del cuore.
Era una mazurka lenta, graziosa, con note vellutate e morbide come l’ondeggiamento d’una gondola. Maria si lasciava portare di peso. La sala girava davanti al suo sguardo imbambolato, riconducendole per turno il passaggio delle coppie; Sofia, ridente, colla testina che si perdeva sotto la lunga barba del dottore; la Guidobelli, languida, modellata come una Venere nel suo abito chiaro; la Bonamore stretta ardentemente alle spalline del giovane ufficiale; Nina Menni, in posa da sirena, petto a petto con uno studente di filosofia. E tutti giravano, giravano, giravano, sotto il bagliore rossigno delle lampade, nel vortice rotto a ondate dai profumi sottili, battuto dalle gale svolazzanti, tra il rumore dei passi smorzati sul tappeto. Quando Maria passava davanti all’uscio, vedeva Emanuele, ritto, colla faccia bianca.
Lo vide una, due, tre volte; poi la pupilla le divenne torbida.
— È stanca? — le domandò il cavaliere.
— No.... — rispose.
E tornò a girare, senza vedere più nulla, senza sentire la musica; come un automa.
Alla battuta finale della mazurka il ballerino di Maria l’adagiò sopra una poltrona. Aveva un ronzio nelle orecchie e la testa le doleva; continuava a non veder nulla, ma udì la Guidobelli che, parlando con qualcuno, pronunciò il suo nome e quello di Emanuele con una inflessione di voce particolare, ironica, tutta piena di sottintesi — a cui rispose uno scoppio di risa squillanti.
Maria si alzò. A passi brevi ed incerti uscì dalla sala dove si pigiavano ancora i ballerini ringraziando le loro ballerine; attraversò il salotto, quasi vuoto, il tinello, e per un corridojo bujo raggiunse la propria camera. Non si era accorta che Emanuele l’aveva seguita. Nel voltarsi per chiudere l’uscio si trovò fra le sue braccia.
— Che fate? Andate via.... vi vedranno. Già si mormora sul nostro conto.
Così ella disse, con una voce bassa che sembrava di mistero e che era solamente l'effetto di un grande prostramento.
Con una audacia ch’ella non avrebbe mai supposta in lui, Emanuele spense il lume a olio che rischiarava parcamente la camera.
Fu un momento angoscioso, terribile. Maria ripetè: «Andate via...»
Egli non parlava. Nel bujo cadevano fitti i suoi baci, accompagnati da un rantolo ansioso. Allora Maria si fece ancora più umile.
— Va via.... (gli dava del tu, come una volta). Se ci scoprono.... pensa....
Ella fece un movimento per fuggirgli. Emanuele la riprese con violenza.
— No, te ne prego.... in nome di tuo figlio!
Emanuele si irrigidì. Maria ritraendosi si sentiva salva; ma nello stesso momento una tenerezza compassionevole la invadeva, una viltà di amore le faceva mormorare:
— Emanuele.... Emanuele....
— Senti — egli disse, e nell’abbracciarla di nuovo, le sue mani tremavano — giura che sarai mia!
Maria gli abbassò la fronte sulla spalla.
— Domani a quest’ora, lontani di qui e per sempre. Giuralo.
Maria singhiozzava debolmente.
— La mia vita è tua, la mia anima ti appartiene... Mi ami?
— Ti amo — mormorò Maria, con uno schianto di dolore che la fece rabbrividire tutta.
Emanuele si arrese a lasciarla sola; ma prima di partire le disse ancora:
— Giura che sarai mia.
Lei, senza rispondere, gli pose le braccia intorno al collo, come aveva fatto quel giorno sull’orlo dell’abisso, lo baciò lungamente, scivolando con lentezza disperata sul petto di lui, non potendo staccarsene, aspettando che le mancassero le forze — finchè cadde, accasciata sui ginocchi — nel bujo.
Quando dopo pochi momenti potè riaversi si sollevò ritta; stese le braccia, tendendole al di sopra del capo quasi in cerca di ajuto e poi rapidamente, con una foga febbrile riaccese il lume, aperse tutti i cassetti, riunì gli abiti, mettendo da parte un mantello e un cappuccio; chiamò Pablo il suo servitore fedele e gli diede questo ordine:
— Prepara subito le mie valigie; assicurati, a qualunque prezzo, l’ajuto di un uomo per farle uscire di qui senza che nessuno lo sappia. Fra un’ora fammi trovare una carrozza alla porta. Partiamo.
Pablo non fece interrogazioni. Si inchinò e uscì.
Era necessario tornare nella sala da ballo. Maria lo fece, passando prima in camera di Sofia, dove prese del rossetto e se lo stemperò leggermente sulle guancie.
Terminava allora un walzer e le signore uscendo dalle braccia dei ballerini avevano tutte un’aria languida, trasognata; si lasciavano cadere sulle poltrone come sopra un letto, abbandonate, quasi vinte dalla mollezza, cogli occhi che non vedevano. Sofia scuoteva le spalle, sferzate da lievi brividi di piacere, allargando le narici come una giovane cavalla che fiuta il vento. La Guidobelli, enigmatica, teneva le palpebre abbassate, umettandosi delicatamente, colla lingua, le labbra, chiusa in sè stessa, come se volesse assorbire fino all’ultimo la voluttà che svaniva.
Ognuna di quelle signore che nel ballo si era stretta ad un uomo aveva concesso qualche cosa; ognuno di quegli uomini, eccitato dal contatto, si trovava più che mai disposto a vedere una donna in ogni signora. Sedendo, curavano meno di allontanare le sedie; erano già stati così vicini! Parlavano più liberi, accostando i volti e i ginocchi come persone che ebbero già un precedente di intimità; dai seni delle signore cadevano i fiori mezzo avvizziti; gli uomini li raccoglievano, senza renderli, giuocherellando con essi, mordendoli leggermente.
Un fumo sottile d’ebbrezza serpeggiava da coppia a coppia in quella festicciuola alla buona, dove nessun cerimoniale e nessuna etichetta frenavano gli istinti del piacere.
Dopo si combinò la quadriglia. C’era un gran movimento; la preoccupazione delle signore era quella di assicurarsi un cavaliere.
— Lei non balla più? — le chiese la Guidobelli, scrutandola co’ suoi occhietti impertinenti.
Maria, rispose di no e per evitarla diede di capo nella Bonamore, la quale, premurosamente, le fece osservare che aveva l’abito gualcito.
Maria si scusò dicendo che s’era sentita poco bene; e andò a rifugiarsi dietro un paravento, nell’angolo del camino.
In quel momento di calma tornò a passarle nel cervello la visione della casetta solitaria dove avrebbe potuto nascondere agli occhi di tutti il suo amore, dove rotto ogni legame col mondo ella si sarebbe creata un Eden di felicità. Le risuonava all’orecchio la voce pregante di Emanuele: domani a quest’ora lontani di qui....
E guardando diritto innanzi a sè vedeva le coppie che si preparavano per la quadriglia, cinguettanti, allegre; Sofia più allegra di tutte.
Pensava che ad onta dei suoi rapidi pentimenti, Sofia finirebbe col cedere al dottore od a qualche altro. Questa sicurezza le faceva salire alle labbra un sogghigno di amara ironia per sè stessa, per i suoi inutili martirî, per il suo sacrificio incompreso. E profonda, pungente in fondo al cuore un’altra riflessione la torturava: Emanuele l’avrebbe disprezzata, l’avrebbe maledetta. Da quell’ultimo crollo delle sue illusioni, ella lo sentiva, doveva scaturire inflessibile per Emanuele il più cinico scetticismo.
Maria rabbrividì tutta — esitò ancora un momento, l’ultimo. Poi sicura si mosse, facendo il giro della sala per non disturbare la quadriglia. Emanuele era in piedi presso il direttore; ella, nel passargli a tergo, ne fu urtata.
— Perdono — fece egli voltandosi, guardandola lungamente.
Maria sorrise, pallida sotto il rossetto.
Sofia, che aspettava la sua volta per la dame seule, abbandonò il suo cavaliere per venire a chiederle come stava.
— Meglio — rispose Maria, e sorrise anche a lei, attirandola con una pressione dolce.
Si trovavano alle spalle dei ballerini, quasi nel cantuccio della porta. Maria avanzando la bocca la baciò lieve sui capelli, tremando.
— Quanto sei buona! — esclamò Sofia, commossa da quel bacio inaspettato.
— Ricordalo — mormorò Maria a fior di labbra, e tornò a baciarla.
Poco dopo il direttore della quadriglia ordinava: grande chaîne: e nel medesimo istante una carrozza ruzzolava sul deserto selciato di via Monforte, trasportando Maria.
Allo svolto del bastione ella mise la testa allo sportello, fissando intensamente i lumi che brillavano nell’appartamento di Emanuele, con uno sguardo ardente; poi i lumi sparvero — ed ella ricadde sui guanciali, mordendo il fazzoletto, colla disperata sicurezza che questa volta lo perdeva per sempre.
fine.