Il diavolo sulle colline

Cesare Pavese

1949 Indice:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu Romanzi Letteratura Il diavolo sulle colline Intestazione 26 marzo 2023 100% Da definire

La casa in collina Tra donne sole


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Il diavolo sulle colline

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I.

Eravamo molto giovani. Credo che in quell’anno non dormissi mai. Ma avevo un amico che dormiva meno ancora di me, e certe mattine lo si vedeva già passeggiare davanti alla Stazione nell’ora che arrivano e partono i primi treni. L’avevamo lasciato a notte alta, sul portone; Pieretto aveva fatto un altro giro, e visto l’alba addirittura, bevuto il caffè. Adesso studiava le facce assonnate di spazzini e di ciclisti. Nemmeno lui ricordava i discorsi della notte: vegliandoci sopra, li aveva smaltiti, e diceva tranquillo: — Si fa tardi. Vado a letto.

Qualcuno degli altri, che ci trottava dietro, non capiva che cosa facessimo a una cert’ora, finito il cinema, finite le risorse, le osterie, i discorsi. Si sedeva con noi tre sulle panchine, ci ascoltava brontolare o sghignazzare, s’infiammava all’idea di andare a svegliare le ragazze o aspettare l’aurora sulle colline, poi a un nostro cambiamento di umore tentennava e trovava il coraggio di tornarsene a casa. L’indomani costui ci chiedeva: — Che cos’avete poi fatto? — Non era facile rispondergli. Avevamo ascoltato un ubriaco, guardato attaccare i manifesti, fatto il giro dei Mercati, visto passare delle pecore sui corsi. Allora Pieretto diceva: — Abbiamo fatto conoscenza con una donna.

L’altro non ci credeva ma restava interdetto.

— Ci vuole perseveranza, — diceva Pieretto. — Si passa e ripassa sotto il balcone. Tutta la notte: lei lo sa, se ne accorge. Non c’è bisogno di conoscerla, se lo sente nel sangue. Viene il momento che non ne può piú, salta dal letto, e ti spalanca le persiane. Tu appoggi la scala...

Ma fra noi tre non si parlava volentieri di donne. Non, almeno, [p. 136 modifica]sul serio. Né Pieretto né Oreste mi dicevano tutto di sé. Per questo mi piacevano. Le donne, quelle che separano, sarebbero venute piú tardi. Per adesso parlavamo soltanto di questo mondo, della pioggia e del sole, e tanto ci piaceva che andare a dormire ci pareva di perdere davvero tempo.

Una notte di quell’anno eravamo in riva a Po, sulla panchina del viale. Oreste aveva borbottato: — Andiamo a letto.

— Accúcciati lí, — gli avevamo detto, — perché vuoi sprecare l’estate? Non puoi dormire con un occhio solo?

Oreste, appoggiato sulla guancia alla spalliera della panchina, ci guardò di sottecchi.

Io dicevo che in città non si sarebbe mai dovuto dormire. — È sempre acceso, sempre giorno. Bisognerebbe far qualcosa ogni notte.

— È che siete ragazzi, — disse Pieretto, — siete ragazzi e siete ingordi.

— Tu cosa sei? — dissi, — un vecchio?

Oreste saltò su d’improvviso: — I vecchi, dicono, non dormono mai. Noi giriamo di notte. Vorrei sapere chi è che dorme.

Pieretto ghignava.

— Cosa c’è? — dissi cauto.

— Per dormire ci vuol prima la donna, — disse Pieretto. — Ecco perché né voi né i vecchi non dormite.

— Sarà, — borbottò Oreste, — ma casco dal sonno lo stesso.

— Tu non sei di città, — disse Pieretto. — Per la gente come te la notte ha ancora un senso, quello di una volta. Sei come i cani da pagliaio o le galline.

Erano le due passate. La collina, oltre Po, scintillava. Faceva fresco, quasi freddo.

Ci alzammo e risalimmo verso il centro. Io rimuginavo la strana abilità di Pieretto a mettersi sempre con le spalle al sicuro, e farci dire che eravamo degli ingenui. Né Oreste né io, per esempio, perdevamo troppi sonni pensando alle donne. Mi chiesi una ennesima volta che vita poteva avere fatto Pieretto prima di venire a Torino.

Sulle panchine dell’aiuola della Stazione, sotto l’ombra scarsa di quegli alberelli, dormivano a bocca aperta due pezzenti. Scamiciati, capelli e barba ricciuti, sembravano zingari. Ci sono i cessi a pochi passi, e per quanto la notte sapesse di fresco e d’estate, [p. 137 modifica]regnava in quel luogo un tanfo, un fortore, che sentiva della lunga giornata di sole e movimento e frastuono, di sudore e di asfalto consunto, di folla senza pace. Verso sera su quelle panchine — oasi magra nel cuore di Torino — si siedono sempre donnette, solitari, venditori ambulanti, spiantati, e si annoiano, aspettano, invecchiano. Che cosa aspettano? Pieretto diceva che aspettano qualcosa di grosso, il crollo della città, l’apocalissi. Qualche volta un temporale d’estate li scaccia e lava ogni cosa.

I due di quella notte dormivano come morti sgozzati. Sulla piazza deserta qualche insegna luminosa parlava ancora al cielo vuoto, gettando riflessi sui due morti. — Gente a posto, — disse Oreste. — Ci insegnano come si fa.

Si staccò per andarsene.

— Vieni con noi, — disse Pieretto, — a casa non ti aspetta nessuno.

— Nemmeno dove andate voi, — disse Oreste, ma rimase.

Prendemmo per i portici nuovi. — Quei due, — dissi piano. — Dev’essere bello svegliarsi al primo sole in piazza.

Pieretto non disse la sua.

— Dove andiamo? — feci, fermandomi.

Pieretto andò avanti qualche passo, e si fermò.

— Capisco andare in qualche posto, — dissi. — Invece è chiuso dappertutto. Non c’è un’anima. Mi domando a cosa serve questa gran luminaria.

Pieretto non disse al suo solito «E tu, servi a qualcosa?» ma brontolò: — Vuoi che andiamo in collina?

— È lontano, — dissi.

— È lontano ma sa quell’odore, — disse lui.

Ridiscendemmo il grande corso; sul ponte ebbi freddo; poi attaccammo la salita a passo svelto, per uscire dai paraggi noti. Era umido, buio, senza luna; balenavano lucciole. Dopo un po’ rallentammo, in sudore. Mentre andavamo, parlavamo di noi. Ne parlavamo con calore, tiravamo anche Oreste nel discorso; quelle strade le avevamo percorse altre volte scaldati dal vino o dalla compagnia; ma tutto questo non contava, era un pretesto per andare, salire, avere il grosso della collina sotto i piedi. Passavamo fra i campi, i recinti, i cancelli di ville, fiutavamo l’asfalto e il bosco. [p. 138 modifica]

— Per me non c’è differenza da un fiore in un vaso, — disse Pieretto.

Per strano che paia, non eravamo mai saliti fino in cima, almeno per quella strada. Ci doveva essere un punto, un valico, dove la strada pianeggiava, il balzo estremo della costa, ch’io immaginavo come un’ultima siepe, un balcone aperto sul mondo esterno elle pianure. Da altri punti delle colline, da Superga, dal Pino, avevamo già guardato di là, in pieno giorno. Oreste ci aveva additato all’orizzonte di quel mare di bricchi ombre vaghe e selvose, i suoi paesi.

— È proprio tardi, — disse Oreste. — Qui una volta era pieno di locali.

— Chiudono a una cert’ora, — disse Pieretto. — Ma chi è dentro continua a far baldoria.

— Val la pena di venire in collina, d’estate, — dissi, — per divertirsi a porte e persiane chiuse.

— Avranno un giardino, — disse Oreste, — dei prati. Dormiranno nel parco.

— Viene il momento che anche i parchi finiscono, — dissi.

— Viene il bosco e la vigna.

Oreste grugní. Dissi a Pieretto: — Tu non conosci la campagna. Giri tutta la notte ma non conosci la campagna.

Pieretto non rispose. Ogni tanto, abbaiava un cane, chi sa dove.

— Ci fermassimo, — disse Oreste, a una svolta.

Pieretto uscí dai suoi pensieri. — Tanto piú, — disse in fretta, — che le lepri e le bisce sono ridotte sottoterra e hanno paura di chi passa. L’odore che regna è la benzina. Dov’è piú la campagna che piacerebbe a voialtri?

S’attaccò a me selvaggiamente. — Se qualcuno venisse sgozzato nei boschi, — dichiarò con quel suo tono perentorio, — tu davvero credi che sarebbe una cosa leggendaria? che intorno al morto tacerebbero i grilli? che il lago di sangue conterebbe piú che uno sputo?

Oreste, in attesa, sputò con disgusto. Ci disse: — Attenti, viene giú una macchina.

Comparve lenta e silenziosa una grande automobile scoperta, di un pallido verde, e si fermò, senza un sussulto, docile. Una metà rimase in ombra sotto gli alberi. La guardammo interdetti. — Ha i fari spenti, — disse Oreste. [p. 139 modifica]

Pensai che ci fosse dentro una coppia e avrei voluto esser lontano, sul valico, non avere incontrato nessuno. Perché non scattavano su quella loro meraviglia verso Torino, e non ci lasciavano soli, nella nostra campagna? Oreste disse, a capo chino, di muoverci.

Rasentando la macchina, mi aspettavo di udire sussurri e fruscii, magari ridere, e invece intravidi un uomo solo al volante, giovanotto riverso, con la faccia stravolta verso il cielo.

— Sembra morto, — disse Pieretto.

Oreste era già fuori dell’ombra. Andammo sotto la voce dei grilli; e in pochi passi sotto gli alberi pensai molte cose. Non osavo voltarmi. Pieretto taceva al mio fianco. La tensione divenne intollerabile. Mi fermai.

— Impossibile, — dissi. — Quel tale non dorme.

— Di che cosa hai paura? — disse Pieretto.

— L’hai veduto?

— Dormiva.

Uno non si addormenta in quel modo e sulla macchina in movimento, dissi. Avevo ancora nelle orecchie la sfuriata di Pieretto. — Passasse qualcuno — . Ci voltammo a guardare la curva, nera di alberi. Una lucciola attraversò la strada balenando, come una sigaretta che brucia da sola.

— Ascoltiamo se riparte.

Pieretto disse che chi aveva una macchina simile poteva anche fare il suo comodo e guardare le stelle. Tesi attento l’orecchio. — Magari ci ha visti.

— Vediamo se risponde, — disse Oreste, e cacciò un urlo. Lacerante, bestiale, cominciò come un boato e riempí terra e cielo, un muggito di toro, che poi si spense in una risataccia da ubriaco. Oreste evitò con un salto il mio caldo. Tendemmo l’orecchio tutti. Quel cane latrava di nuovo, i grilli tacevano sbigottiti. Nulla. Oreste aprí la bocca per rifare quel verso e Pieretto disse: — Pronti.

Stavolta muggirono insieme, a lungo, con striduli ritorni e riprese. Mi si accapponò la pelle pensando che come il raggio di un faro nella notte una simile voce giungeva dappertutto, sui versanti, in fondo ai sentieri, nei grumi d’ombra, dentro le tane e le radici, e tutto faceva vibrare.

Di nuovo quel cane impazzí. Ascoltammo, fissando la curva. Stavo per dire: — Sarà morto di spavento, — quando s’udí lo [p. 140 modifica]schianto di uno sportello d’auto richiuso di colpo. Oreste mi disse all’orecchio: — Adesso arriva la Volante, — e attendemmo fissando quegli alberi. Ma per un pezzo niente fu. Ormai il cane s’era chetato, e dappertutto era voce di grilli sotto le stelle. Noi fissavamo quella banda d’ombra.

— Andiamo, — dissi, — siamo in tre. [p. 141 modifica]





II.

Lo trovammo sul predellino dell’auto, con la faccia tra le mani. Non si mosse. Stemmo a guardarlo a pochi passi, come una bestia pericolosa.

— Non dici che vomita? — disse Pieretto.

— Facile, — disse Oreste. Gli andò vicino e gli pigliò la fronte come si fa per tastare la febbre. L’altro premeva con la fronte contro la mano, come un cane che gioca. Ebbero l’aria di respingersi e sentii che ridacchiavano. Oreste si voltò.

— È Poli, — disse. — Questa sí. Sono padroni di una villa.

L’altro, seduto, teneva una mano d’Oreste, e scrollò la faccia come chi esce dall’acqua. Era un bel giovanottone di qualche anno piú di noi, con gli occhi pesti e sbigottiti. Attaccato alla mano di Oreste, ci guardò senza dar segno di notarci.

Fu allora che Oreste gli disse: — Non eri a m Milano?

— C’è ancora tempo per i passi, — disse l’altro. — Tu vieni a scoiattoli?

— Credi mica che siamo alle Coste, — disse Oreste e liberò la mano. Poi disse squadrando la macchina: — L’avete cambiata?

«Cosa sta a ragionare con uno che è ubriaco?» pensai. Lo spavento di prima s’era fatto irritazione. «Perché non lo lascia in un fosso?»

Quel tale Poli ci guardava. Sembrava quei malati che fissano dal fondo di un letto, sbigottiti e tristi. Nessuno di noi s’era mai ridotto cosí. Eppure era abbronzato e degno in tutto della macchina. Mi vergognai del nostro urlaccio di prima.

— Non si vede Torino di qui? — disse quello, alzandosi in piedi [p. 142 modifica]con vivacità e guardandosi attorno. — Si dovrebbe. Non vedete Torino?

Non fosse stato per la voce che pareva imbottita, rauca e debole insieme, adesso era quasi normale. Guardava intorno e disse a Oreste: — Sono qui da tre notti. C’è un posto di dove si vede Torino. Non volete venire? È un bel posto.

Adesso facevamo crocchio, e Oreste gli chiese a bruciapelo: — Sei scappato di casa?

— A Torino mi aspettano, — disse. — Gente arricchita, insopportabile — . Ci guardò sorridendo come un bambino vergognoso, con quegli occhi. — Com’è schifosa certa gente che fa tutto coi guanti. Anche i figli e i milioni.

Pieretto, accostato, lo guardava sornione.

L’altro tirò fuori le sigarette e fece il giro. Erano morbide, tostate. Accendemmo.

— Se mi vedessero con te e coi tuoi amici, — disse Poli, — riderebbero. Quella gente mi diverte piantarla.

Pieretto disse forte: — Si diverte con poco.

Disse Poli: — Mi piace scherzare. Non piace anche a lei?

— Per dir male di chi si è arricchito, — disse Pieretto, — bisogna saper fare altrettanto. O vivere senza spendere un soldo.

Allora Poli, con un viso costernato, disse: — Crede? — Lo disse con tanta sollecitudine che anche Oreste non trattenne un sorriso. Subito quello ci raccolse allargando le braccia, con l’aria di prenderci complici, e disse con voce bassissima: — C’è un altro motivo.

— Dillo.

Poli lasciò cader le braccia e sospirò. Ci guardava umilmente, dal fondo degli occhi, e sembrò proprio mal ridotto.

— C’è che mi sento come un dio stanotte, — disse piano.

Nessuno rise. Ci fu un istante di silenzio, e Oreste propose: — Andiamo a vedere Torino.

Scendemmo un pezzetto di strada, fino al terrazzo di una curva dove il bagliore di Torino faceva riverbero. Ci fermammo sul ciglio. Noialtri salendo non c’eravamo mai voltati. Poli, col braccio sulla spalla d’Oreste, guardò il mare di luci. Gettò la sigaretta e guardava.

— Allora. Che si fa? — disse Oreste.

— Quant’è piccolo l’uomo, — disse Poli. — Straducce, cortili, [p. 143 modifica]comignoli. Visto di qui sembra un mare di stelle. Eppure quando uno c’è in mezzo non se n’accorge.

Pieretto si scostò di qualche passo. Bagnando un cespuglio, gridò: — Lei ci sfotte.

E Poli tranquillo: — Mi piace il contrasto. È solamente nei contrasti che uno si sente piú forte, superiore al proprio corpo. Senza contrasti la vita è banale. Non mi faccio illusioni.

— Chi se ne fa? — gli disse Oreste.

L’altro alzò gli occhi e sorrise. — Chi? Ma tutti. Tutti quelli che dormono in quelle case. Credono di essere qualcuno, fanno sogni, si svegliano, fanno all’amore, «sono il tale e il tal altro» e invece...

— Invece cosa? — disse Pieretto riaccostandosi.

Poli, interrotto, aveva perso il filo. Schioccò le dita, cercando la parola.

— Dicevi che la vita è seccante, — disse Oreste.

— La vita è quel che siamo noi, — disse Pieretto.

Poli disse: — Sediamoci — . Non pareva per niente ubriaco. Cominciai a credere che quegli occhi stravolti fossero come la sua camicia di seta, la stretta di mano, la bella automobile: cose abituali e inseparabili da lui.

Chiacchierammo per un po’, cosí seduti sull’erba. Li lasciai dire, ascoltando la voce dei grilli. Poli pareva non badare ai sarcasmi di Pieretto: gli spiegava perché da tre notti fuggiva Torino e l’umana società; nominò alberghi, gente importante, mantenute. Via via che Pieretto s’infervorava e l’accettava, io da quell’altro mi andavo staccando: mi persuadevo che non era che un ingenuo. Mi tornava l’umore di quando l’automobile s’era fermata e immaginavo che dentro ci facessero all’amore.

A un tratto dissi: — Val la pena essere usciti da Torino, per non smettere piú di parlarne.

— Ma sí, — disse Oreste, saltando in piedi. — Andiamo a casa, domani si lavora.

Poli si alzò, e si alzò Pieretto. — Non vieni? — mi dissero.

Mentre andavamo verso l’automobile, rallentai con Oreste e gli chiesi di Poli. Mi disse che avevano terre dalle sue parti, una gran villa, un’intera collina. — Da ragazzo veniva in campagna e siamo stati a caccia insieme. Era già discolo ma a quel tempo non beveva cosí.

Gridò a Poli: — Ci andrete quest’anno al Greppo? [p. 144 modifica]Poli finí la discussione con Pieretto e si voltò.

— Papà mi ci ha chiuso l’altr’anno senza lasciarmi la macchina, — disse senza confondersi. — Strane idee ha la gente. Voleva staccarmi... Da che? Non so se ci torno. Può esser bello passarci una giornata e non di piú. Con qualche amico e qualche disco.

Aprí con garbo gli sportelli. Avrei voluto non salire perché adesso capivo che con lui non si poteva esser noialtri. Si doveva ascoltarlo e accettare il suo mondo rispondendogli a tono. Esser cortesi con lui voleva dire fargli specchio. Non capivo come Oreste fosse riuscito a stargli insieme per giorni.

Poli al volante si voltò e disse: — Allora si va?

— Dove?

— Al Greppo.

Saltò su Oreste. — Siamo matti? Voglio andare a dormire.

Anch’io protestai ch’era un’ora assurda.

— Non è ancor giorno, — disse Poli. — Sono le quattro meno qualcosa. Alle cinque ci siamo.

Gridammo insieme che avevamo una casa. — Portaci giú, — disse Oreste. — L’occasione tornerà.

Gli bisbigliai: — C’è da fidarsi?

Oreste diceva: — Voglio andare a dormire. Lasciaci a Porta Nuova.

Partimmo verso Torino. La macchina filò soffice, sicura di sé. Pieretto al fianco di Poli non aveva parlato.

Eravamo sui viali luminosi e abbandonati. Scese Oreste in via Nizza, davanti ai portici. Sul predellino, disse a Poli arrivederci. In un attimo deposero anche me, sul mio portone. Salutai. Dissi a Pieretto di trovarsi l’indomani. La macchina dileguò con quei due. [p. 145 modifica]





III.

Di giorno sudavamo su certi esami; specie Oreste che studiava medicina. Io e Pieretto preparavamo legge e anzi avevamo rimandato a ottobre lo sforzo piú grosso: si sa che legge s’improvvisa e non comporta laboratorio. Invece Oreste dava dentro e non sempre usciva con noi la sera. Ma nel primo pomeriggio sapevamo dove trovarlo: lui che la casa l’aveva in campagna, a Torino affittava una stanza e mangiava in trattoria.

L’indomani di quella notte passai a cercarlo. Lo trovai in trattoria che rosicchiava una mela, col gomito sulla borsa, appoggiato di schiena alla parete. Mi chiese, nel caldo, se avevo già visto Pieretto.

Riparlammo, facendoci vento, di un progetto che avevamo quell’anno. Andare a far campagna nel paese d’Oreste noi tre; la sua cascina era spaziosa, ci saremmo divertiti. Ma l’idea di Pieretto e mia era di buttarci il sacco in spalla e andarci a piedi. Oreste disse ch’era inutile: di campagna e di caldo ne avremmo visto anche troppo una volta arrivati.

— Cosa dicevi di Pieretto?

— Crederai mica, — disse Oreste, — che stanotte sia andato a dormire?

— Magari studia.

— Facile, — disse Oreste. — Con quell’altro e la sua macchina. Non hai visto come vanno d’accordo?

Allora parlammo della notte passata, di Poli, di tutta quella stranezza. Oreste disse che non c’era da stupirsi. Lui con Poli si dava del tu, benché il padre fosse un uomo straricco, un commendatore di Milano che aveva quella tenuta enorme e non ci veniva [p. 146 modifica]mai. Poli era cresciuto là dentro, d’estate in estate, con dieci balie e la carrozza e i cavalli, e soltanto quando s’era allungato i calzoni aveva potuto dir la sua e uscir fuori e conoscere qualcuno nei paesi. Per due o tre stagioni, al passaggio delle beccacce, era andato con gli altri a tirare. Era un bravo ragazzo e ragionava. Mancava solo di fermezza, questo sí. A metà di una cosa, cambiava idea.

— È la vita che fanno, — dissi. — Diventano come le donne.

— Però capisce, — disse Oreste, — hai sentito cosa dice dei suoi simili?

— Dice per dire. Era ubriaco.

Qui Oreste scosse la testa. Disse che Poli non era ubriaco. Un ubriaco è un’altra cosa. — Forse è ubriaco da tre giorni e ha fatto il porco. Adesso è peggio. A un ubriaco si vuol bene — . Oreste aveva di queste uscite inaspettate.

— Non ce l’aveva coi suoi simili. Ce l’aveva con chi ha fatto i soldi e non sa vivere, — dissi. — Tu sei suo amico. Dovresti conoscerlo.

— Sai com’è, — disse Oreste. — Andare a caccia è come andare insieme a scuola. Mio padre ci teneva.

Finí il suo bicchiere e ce ne andammo. Costeggiando l’isolato, nel sole, accennai che a Poli Pieretto ne aveva dette di tutti i colori. — Pieretto ha quel modo di ridere che sembra che sputi in faccia. Lui non fa caso ma la gente si offende.

— Chi sa, — disse Oreste. — Non ho mai visto Poli offendersi.

La sera non vennero né Pieretto né Oreste. Io, quell’anno, quando restavo solo passavo brutti quarti d’ora. Rientrare in casa per studiare non aveva nessun senso; ero troppo avvezzo a viver e discorrere con Pieretto e girare le strade; c’era nell’aria, nel movimento, nel buio stesso dei viali piú cose che non potessi capire e godermi. Ero sempre sul punto di accostare una ragazza o ficcarmi in una bettola equivoca, oppure decidere di mettermi su un viale e andare andare fino a giorno, per ritrovarmi chi sa dove. Invece giravo le solite strade, passavo e ripassavo i crocicchi e le insegne, rivedevo le facce. A volte mi piantavo irresoluto su un angolo e ci stavo delle mezz’ore, infuriato con me stesso.

Ma quella sera mi andò meglio. L’incontro recente con Poli mi aveva tolto molti scrupoli e mi diceva che nel mondo, di giorno e di notte, c’erano privilegiati piú assurdi di me, gente oziosa che godeva piú di me. Perché questo mi avevano inculcato, senza [p. 147 modifica]perlo, padre e madre, provinciali accasati in città: le pazzie dei poveri ti saranno consentite, quelle dei ricchi mai. S’intende che poveri non vuol dire straccioni.

Passai la sera in un cinema, divertito e inquieto ripensando a Poli. Quand’uscii fuori, non avevo sonno e andai per viuzze deserte, sotto le stelle e l’aria fresca. Sono nato e vissuto a Torino, ma quella sera ripensavo ai viottoli del grosso paese dei miei, aperti in mezzo alla campagna. In un consimile paese Oreste invece era vissuto e ci sarebbe presto tornato. Tornato per starci. Sua ambizione era questa. Se avesse voluto, poteva restare in città. Ma c’era differenza?

Sulla porta di casa, mi sentii chiamare. Era Pieretto che, staccandosi dall’ombra del muro, traversò la strada e mi raggiunse. Voleva stare, chiacchierare, non aveva ancora sonno. Non s’era fatto vedere a prima sera, perch’era stato tutto il giorno con Poli. La notte scorsa l’avevano finita girando in auto le campagne; la mattina s’eran trovati sui laghi, sotto il sole; là Poli era stato male, era caduto come un sacco scendendo di macchina: forse il riflesso abbacinante del sole. Era pieno di cocaina, Poli, avvelenato. Allora Pieretto aveva telefonato a quell’albergo di Torino; qualcuno gli aveva risposto che telefonasse a Milano. — Non ho soldi per farlo, — aveva gridato Pieretto. Allora un prete che sapeva guidare era salito sulla macchina e avevano portato Poli a Novara. Qui un dottore l’aveva svegliato, fatto sudare e vomitare; poi avevano litigato col prete che accusava Pieretto di essere stato la cattiva ispirazione dell’amico. Alla fine Poli aveva aggiustato ogni cosa, pagato il dottore, il telefono e il pranzo; e avevano riportato il prete a casa, facendogli un lungo discorso sui peccati e sull’inferno.

Pieretto era tutto contento. Si era goduto le pazzie di Poli, goduto la gita, goduto la faccia del prete. Poli adesso era andato a fare il bagno e cambiarsi; c’era di mezzo una signora, una specie di furia che l’aveva inseguito da Milano a Torino e lo assediava nell’albergo, voleva un colloquio, gli mandava dei fiori.

— Magari è un po’ scemo, — disse Pieretto, — ma sa prendere in giro. Per i soldi che spende si diverte.

— Passa i limiti, — dissi, — è un incosciente.

Pieretto allora si mise a spiegarmi che Poli non faceva niente peggio di noi. Noi, spiantati e borghesi, passavamo la notte sulle panchine a discorrere, fornicavamo a pagamento, bevevamo del [p. 148 modifica]vino; lui aveva altri mezzi, aveva droghe, libertà, donne di classe. La ricchezza è potenza. Ecco tutto.

— Sei matto, — dissi. — Noi ragioniamo sulle cose. Io voglio capire perché godo andando a spasso. Per esempio, tu cerchi Torino e a me piace salire in collina. Mi piacciono gli odori della terra. Perché? Poli di queste cose se ne sbatte. È un incosciente, lo dice anche Oreste.

— Scemi che siete, — ribattè Pieretto, e mi spiegò che c’è un bisogno d’esperienza, di pericolo, e che i limiti sono posti dall’ambiente in cui si vive. — Può anche darsi che Poli dica e faccia sciocchezze, — disse, — può darsi che ci lasci le ossa. Ma sarebbe piú triste se vivesse come noi.

C’incamminammo discutendo, come sempre. Pieretto sosteneva che Poli faceva benissimo a conoscere la vita secondo i suoi mezzi. — Ma se dice sciocchezze, — obiettavo. — Non importa, — diceva Pieretto, — a modo suo s’arrabatta e tocca cose che voialtri nemmeno sospettate.

— Vuole darti la coca anche a te?

Pieretto, irritato, disse che Poli della droga non faceva una posa. Ne parlava pochissimo. Ma con quel prete aveva detto cose sul peccato, che mostravano occhio profondo e una vera esperienza. Allora risi in faccia a Pieretto, e lui di nuovo s’irritò.

— Ti scandalizza che uno prenda la coca, — mi disse, — e poi ridi se si parla del peccato?

Si fermò davanti a un bar. Disse che andava a telefonare. Dopo un po’ si sporse dalla cabina, voleva sapere se Oreste veniva.

— È mezzanotte. Oreste dorme. I suoi mezzi lo esigono, — dissi.

Pieretto vociò nel telefono. Continuò per un pezzo. Ridacchiava e parlava. Quando uscí disse: — Si va da Poli. [p. 149 modifica]





IV.

L’idea di passare un’altra notte bianca mi atterrí. Mio padre e mia madre non avrebbero detto niente; due parole sul tempo, un’occhiata su dal piatto, caute domande sugli appelli d’esame. Non so come Pieretto se la vedesse coi suoi; a me quei visi inermi facevano pena, e mi chiedevo che sorta di tipo fosse stato mio padre a vent’anni e che ragazza mia madre, e se un bel giorno avrei anch’io avuto dei figli cosí estranei. Probabilmente i miei pensavano al tappeto verde, alle donne, all’anticamera del carcere. Che cosa sapevano delle nostre smanie notturne? O forse avevano ragione: si tratta sempre di un tedio, di un vizio iniziale, e di qui nasce ogni cosa.

Quando fummo davanti all’Albergo con la signora Rosalba che passeggiava in su e in giú e Poli manovrava la macchina per farci salire, borbottai a Pieretto: — Patti chiari, stanotte. È già la mezza.

Era evidente che Poli ci voleva con sé per limitare le espansioni della donna. Su questo, anzi, scherzava. Ci aveva presentati a lei come «il meglio che esiste a Torino»: ascoltasse e imparasse. Nel mondo di Poli si è molto villani: ci si serve della gente con allegra sfrontatezza. Non capivo Pieretto che si prestava al gioco.

La signora Rosalba salí davanti, con Poli. Era una magra — poveretta — occhi rossi, sussiegosa, con un fiore nei capelli. Non poteva stare ferma, e già prima, aspettando, ci dava occhiate affannose, tentava sorrisi, si guardava nello specchio. Aveva un abito da sera rosa, sembrava la mamma di Poli.

Lui scherzava e ci diceva mille cose. Guardava la donna con occhi vispi, rideva e guidava. In un attimo fummo fuori Torino. Pieretto, chinandosi avanti, gli disse qualcosa. [p. 150 modifica]

Poli frenò di colpo. Eravamo nella campagna nera, davanti alle montagne. La Rosalba rideva eccitata.

— Dove si va?

Dissi netto che non intendevo star fuori tutta la notte.

Poli si volse e mi disse: — Desidero che ci tenga compagnia. Si fidi di noi. Non faremo tardi.

La donna disse desolata: — Fermiamoci, Poli. Perché vuoi correre tutta la notte? Sei sempre cosí temerario.

Poli riaccese il motore. Prima di scattare parlottò con la donna. Vedevo le due teste accostate, distinsi l’ansia e l’intimità delle voci, poi il capo di lei che annuiva con forza. Poli si volse e ci sorrise.

Manovrò sulla strada e ripartí verso Torino. Per i viali deserti della periferia accostammo la collina nera nella notte. Poi corremmo lungo il Po sotto le coste. Passò Sassi. Si capiva che Poli e Rosalba erano già venuti da quelle parti. Lei si stringeva alla sua spalla. Che cosa trovava Pieretto in quei due? Volevo chiedermi se lei sapesse delle droghe di Poli, immaginarmeli insieme ubriachi, detestarli. Ma non ci riuscii. La novità di quella corsa, i bruschi balzi nella notte, le acque nere e la nera collina imminente non mi lasciavano pensare ad altro. — Ecco, ecco, — gridò Rosalba, e già Poli rallentava davanti a una villa illuminata. Svoltò sulla ghiaia e fermò in un cortile di automobili. Davanti, contro il vuoto del fiume, c’era in penombra uno spiazzo, con tavolini a paralume discreto. Vidi le giacche bianche di camerieri.

Quando finí l’agitazione e l’imbarazzo di sederci e ordinare la Rosalba cambiò idea varie volte, non stava a sentire, faceva il broncio e parlava forte; Pieretto posò i gomiti sul tavolo mostrando i polsini sfilacciati — io decisi di lasciarli discorrere tra loro e mi dissi: «Dopotutto è un caffè come gli altri». Mi abbandonai contro la sedia e tesi l’orecchio al lato in ombra, se sentivo la voce dell’acqua.

Ma non era un caffè come gli altri. Un’orchestrina attaccò con fragore, smorzandosi subito, e al centro del cerchio dei paralumi comparve una donna e cantava. Questa donna vestiva da sera e aveva un fiore nei capelli. A poco a poco dai tavoli emersero coppie e ballavano tenendosi stretto, nella penombra. La voce della donna portava le coppie, parlava per loro, si piegava e [p. 151 modifica]sultava con loro. Pareva una festa un rito convulso tra fiume e collina, dove al grido della donna rispondessero i gesti di tutti. Perché la donna, una Rosalba in verde oliva, gridava nel canto, si dondolava con le mani sui seni e gridava, invocava qualcosa.

Adesso la nostra Rosalba stringeva con beatitudine la mano di Poli e lui, casuale, discorreva con Pieretto.

— Ciascuno dovrebbe cantare da sé, — disse Pieretto, — ci sono cose che bisogna farle noi, noi soli.

E Poli ridendo: — Chi balla è già occupato. Bisogna scusarlo.

— Chi balla è un tonto, — rispose Pieretto, — cerca in giro quel che ha già tra le braccia.

Rosalba batté le mani, con la gioia convulsa di una bambina. Faceva senso con quegli occhi accesi. In quel momento arrivarono i liquori e il caffè, e lei dovette staccarsi da Poli.

L’orchestrina riprese, ma questa volta senza canto. Le altre voci tacquero e restò il pianoforte solo, che eseguí qualche minuto di variazioni acrobatiche, da battimano. Si stava a sentire anche senza volere. Poi l’orchestra coprí il pianoforte, e lo sommerse. Durante il numero, lampade e riflettori che illuminavano le piante, cambiarono magicamente colore, e fummo verdi, fummo rossi, fummo gialli.

— Un posticino discreto, — disse Poli guardandosi intorno.

— Gente letargica, — disse Pieretto. — Ci vorrebbe lo strillo di Oreste.

Poli levò il mento, occhi sorpresi, e ricordò. — Il nostro amico è andato a letto? — disse subito. — Vorrei fosse qui.

— Smaltisce la nottata di ieri, — disse Pieretto. — Peccato. Certe cose non le sopporta.

Vidi Rosalba come nuda, nel gesto che fece. Ebbe un sussulto. — Voglio ballare, — disse secca a Poli.

— Cara Rosi, — lui disse, — non posso lasciare i miei amici ad annoiarsi. Sarebbe scortese. Siamo a Torino, una città per bene.

Rosalba arrossí, come una fiamma. Mi resi conto in quell’istante ch’era pazza e ch’era goffa. Chi sa, forse aveva anche dei figli, a Milano. Ricordando la storia dei fiori che mandava a Poli, distolsi lo sguardo. Sentii Pieretto che diceva: — Sarei lieto di farla ballare, Rosalba, ma so che non posso sperarlo. Non sono Poli, purtroppo — . Lei ci diede un’occhiata, piú che cattiva, sbalordita. [p. 152 modifica]

Intanto l’orchestra suonava e borbottai qualcosa anch’io. Non sapevo ballare. Poli, impassibile, aspettò che finissi e riprese:

— Desidero dirvi che questi sono giorni per me molto importanti. Ieri ho capito molte cose. Quel grido dell’altra notte mi ha svegliato. È stato come il grido che sveglia un sonnambulo. È stato un segno, la crisi violenta che risolve una malattia...

— Eri malato? — disse Rosalba.

— Ero peggio, — disse Poli. — Ero un vecchio che si crede ragazzo. Adesso so che sono un uomo, un uomo viziato, un uomo debole ma un uomo. Quel grido mi ha mostrato a me stesso. Non mi faccio illusioni.

— Potenza di un grido, — disse Pieretto. Senza volerlo, scrutai gli occhi di Poli, se non fossero pesti.

— La mia vita, — lui continuò, — la vedo come la vita di un altro. So chi sono adesso, di dove vengo, cosa faccio...

— Ma questo grido, — lo interruppi, — lei l’aveva già sentito?

— Sei duro, — disse Pieretto.

— Era il richiamo che si usava a caccia, — disse Poli sorridendo.

— A caccia siete stati! — scattò Rosalba.

— Siamo stati in collina.

Seguí un silenzio imbarazzato, in cui tutti, tranne Poli, ci guardammo le unghie. Di nuovo quella donna cantava, nella cerchia dei tavoli. Sentii che Rosalba affannosa batteva il tempo col tacco. Sulla voce cadenzata e sul fruscio delle coppie pensai al coro dei grilli, nella collina nera.

— Ebbene, — concluse Rosalba, — non hai piú storie? vuoi ballare adesso?

Poli non batté ciglio e non si mosse. Pensava al suo grido.

— È bello svegliarsi e non farsi illusioni, — continuò sorridendo. — Ci si sente liberi e responsabili. Una forza tremenda è in noi, la libertà. Si può toccare l’innocenza. Si è disposti a soffrire.

Rosalba schiacciò la sigaretta nel piattino. Finché taceva, poveretta, cosí magra e divorata, era sopportabile. Almeno per noi che, in quegli anni, non sapevamo ancor bene cosa fosse sazietà. La voce educata di Poli la domò, la contenne. Rosalba si torceva, come nuda.

Infine gli disse sul viso: — Diccelo chiaro cosa pensi. Vuoi scappare da Torino?

Poli, accigliato, le toccò la spalla, le prese l’ascella, come si fa [p. 153 modifica]per sostenere uno che cade. Pieretto si chinò avanti, quasi a non perdere la scena, con un cenno d’incoraggiamento. Rosalba ansimava, con gli occhi socchiusi.

— L’accontento? — disse a noi Poli, dubbioso. — La faccio ballare?

Quando restammo in due al tavolo. Pieretto colse il mio sguardo e ghignava. La voce della donna in oliva riempí la notte. Feci una smorfia e dissi: — Merda.

Pieretto, felice, si versò del liquore. Ne versò a me, ne prese ancora.

— Paese che vai, — dichiarò. — Non ti piacciono?

— Ho detto merda.

— Però il ragazzo non è furbo, — disse Pieretto, — con quella donna si può fare di piú.

— È una stupida, — dissi.

— Una donna innamorata è sempre stupida, — disse Pieretto. Ascoltai qualche parola del canto che guidava le coppie. Diceva di vivere vivere — prendere prendere — senza passione. Per quanto scontenti e seccati, era difficile resistere alla cadenza di quel canto. Mi chiedevo se dalla collina si sentiva la voce.

— Queste notti moderne, — disse Pieretto. — Sono vecchie come il mondo. [p. 154 modifica]





V.

Quella notte ballò anche Pieretto, perché Rosalba tenne testa a Poli e cercava di umiliarlo. Non so quanto liquore s’era bevuto tutti quanti, pareva che la notte non dovesse finir piú, ma l’orchestra aveva smesso da un pezzo e Rosalba chiamò un cameriere e voleva che Poli pagasse e ci portasse tutti quanti a colazione al Valentino. Vedevo agitarsi l’abito rosa nel cerchio del paralume — l’ultimo acceso sullo spiazzo — e dal Po salivano folate notturne di freddo. Siccome Poli, incaponito, riattaccava a discorrere con Pieretto e il cameriere, Rosalba scappò sull’automobile e si mise a strombettare. Allora uscirono il padrone, cameriere, clienti che bevevano l’ultimo al banco; Rosalba saltò a terra e chiamò Poli Poli.

Nel ritorno, Poli guidò cingendo Rosalba col braccio, e Rosalba s’allungava beata, soddisfatta di lui. Di tanto in tanto si voltava e sorrideva, come a rincuorarci, quasi fossimo suoi complici. Pieretto tacque, tutto il tempo. L’automobile non voltò per Torino, filò oltre i ponti, scattò sulla strada di Moncalieri. Nemmeno qui ci fermammo: era evidente che andavamo per andare, per far giorno. Chiusi gli occhi, ubriaco.

Mi risvegliò uno scossone, un sobbalzo come sull’onde di un vortice; quell’incubo durava da un pezzo, e un cielo luminoso, profondo, si apriva in alto e mi pareva di caderci a capofitto. Mi svegliai in una luce fredda e rosa, l’auto sobbalzava sui ciottoli di un paese, era l’alba. Battendo gli occhi alla ventata della corsa vidi che tutti dormivano, e il paese era chiuso e deserto. Soltanto Poli maneggiava il volante, tranquillo.

Fermò quando il sole comparve sul ciglione di un colle. Pieretto [p. 155 modifica]era allegro; Rosalba strizzava gli occhi. In quell’abito rosa scollato era ben vecchia, mio dio. Mi facevano rabbia e insieme pena tutti quanti; Poli si voltò gioviale e ci diede il buon giorno.

— La colpa è mia. Dove siamo? — dissi allora.

— Telefona, — disse Pieretto. — Di’ che ti sei sentito male.

Gli altri due si eran messi a scherzare, a mordersi le orecchie.

Rosalba si tolse il fiore dai capelli e, salvandolo da Poli, me lo diede. — Là, — disse rauca, — non ci guasti la festa.

Per tutto il resto che durò la corsa fiutai quel fiore e ci patii. Era il primo che una donna mi dava, e doveva venirmi da un tipo come Rosalba. Ce l’avevo con Poli, dopo le storie della notte.

Spuntò il campanile di un altro paese. Giungemmo in piazza, per una viuzza porticata, sotto balconi panciuti, e nell’ombra del mattino una ragazza spruzzava sui ciottoli acqua da una bottiglia.

Nel caffè l’impiantito di legno era anch’esso già annaffiato e sapeva un odore di cantina e di pioggia. Ci sedemmo a una finestra contro sole, e chiesi subito del telefono. Non c’era.

— La colpa è tua, — disse Poli a Rosalba. — Se non mi facevi ballare...

— Se tu non bevevi, — scattò lei. — Non capivi piú niente. Sudavi cognac dalla pelle.

— Lascia andare, — disse Poli.

— Chiedi ai tuoi soci i discorsi che hai fatto, — gridò disgustata, — chiedilo a loro. Hanno sentito.

Disse Pieretto: — Discorsi importanti. L’innocenza e la libera scelta.

La donna che ci serviva e sbirciava Rosalba, ci disse che all’ufficio postale esisteva un telefono. Allora feci per alzarmi e chiesi a Pieretto il portafoglio. Si alzò anche Rosalba e mi disse: — Vengo con lei. Cosí mi sveglio. Qui c’è odore di manicomio.

Uscimmo cosí in piazza noi due, lei in rosa, alta e magra, uno spettacolo. Dalle finestre si sporgevano teste, ma la strada era ancora vuota.

— A quest’ora sono tutti nei campi, — dissi, per dir qualcosa.

Rosalba mi chiese una sigaretta. — Comuni macedonia, — dissi. Si fermò, si fece accendere, e mentr’era accostata disse ridendo sottovoce con sforzo: — Lei è piú giovane di Poli.

Buttai vivamente il cerino che mi scottò. Rosalba continuò avvampando: — Piú sincero di Poli. [p. 156 modifica]

Mi scostai, sempre guardandola. — Ci siamo, — disse lei, — è la mia pelle, non ci badi... Adesso mi dica una cosa.

Volle sapere raucamente che cosa avevamo fatto in quei giorni insieme con Poli. Quando cominciai con l’incontro, sbatté gli occhi. — Poli era solo? — voleva sapere. — Ma allora perché proprio a mezzanotte in collina?

— Era solo ma erano le tre.

— E com’è stato fermarvi con lui?

Piú di me, le dissi, conoscevano Poli Oreste e Pieretto. Io ero andato a dormire, ma Pieretto era stato con lui tutto il mattino. Poli sembrava un po’ bevuto. Come sempre, del resto. Chiedesse a Pieretto, che avevano molto parlato.

All’istante capii che Rosalba non aveva perso tempo, e già, ballando, interrogato Pieretto. Mi fissò con quegli occhi. Seccato mi distolsi e riprendemmo a camminare sui ciottoli.

Mentre nell’ufficio aspettavo la via libera, dissi a Rosalba che fumava sulla porta:

— Oreste conosce Poli fin da ragazzo... L’altra notte era con noi. Lei non rispose e guardava la strada. Venni anch’io sulla porta, e scrutai il cielo.

Quand’ebbi parlato e gridato con mia madre nella piccola cabina, tornai sulla porta e Rosalba non s’era mossa. Dissi allegro: — Si va?

— Il suo amico, — lei riprese, scuotendosi, — è un ragazzo molto furbo. Non le ha detto se Poli gli ha detto qualcosa?

— Sono andati sui laghi.

— Lo so.

— Era ubriaco e si è sentito male.

— No, prima, — disse Rosalba impaziente e le tremava la voce.

— Non so. Noi l’abbiamo trovato in collina che guardava le stelle.

Allora Rosalba con un guizzo si appese al mio braccio. Due contadine che passavano, si voltarono a guardarci. — Lei mi capisce, non è vero? — disse Rosalba ansimando. — Lei ha visto come Poli mi tratta. Ieri ho creduto di morire, da tre giorni sono sola in albergo. Non posso neanche uscire a passeggio perché mi conoscono. Sono qui nelle sue mani; a Milano mi credono al mare. Ma Poli mi trascura, Poli è stanco di me, non vuol nemmeno piú saperne di ballare con me... [p. 157 modifica]

Io guardavo i ciottoli e indovinavo le teste ai balconi.

— ... stanotte lei l’ha visto contento. Quand’è ubriaco mi sopporta ancora, ma si ubriaca e fa di peggio per sfuggirmi. Ormai... — qui la voce si fece piú ansante, — noi viviamo alla giornata.

Non mi lasciò il braccio neanche entrando, quando sollevai la portiera di pendagli tintinnanti. Nell’ombra Poli e Pieretto confabulavano, e Pieretto gridò: — Che si mangia?

Vennero uova al tegame e ciliege. Io cercavo di non guardare Rosalba. Poli rompendo il pane continuò il discorso.

— Tanto piú si decide, quanto piú si è caduti. Si tocca il fondo. Quando tutto è perduto si ritrova noi stessi.

Pieretto rideva. — Un ubriaco è un ubriaco, — disse. — Non sceglie piú né la droga né il vino. Ha scelto una volta, milioni di anni prima, quando ha gridato il primo evviva.

— C’è un’innocenza, — disse Poli, — una chiarezza che viene dal fondo...

Rosalba taceva, non osavo guardarla.

— Io ti dico, — interruppe Pieretto, — che se ti sei dimenticato l’ora stanotte, è perché avevi perso la scelta.

— Ma questa innocenza io la cerco, — disse Poli balbettando testardo, — piú la conosco quanto piú mi convinco di esser vile e di esser uomo. Sei o no persuaso che lo stato dell’uomo è debolezza? Come puoi sollevarti se prima non precipiti?

Rosalba mangiucchiava ciliege e taceva. Pieretto scosse il capo varie volte e disse: — No — . Io pensavo al discorso di prima, e non tanto alle parole quanto alla voce e alla stretta del braccio. Gli occhi mi bruciavano dalla stanchezza. Quando ci alzammo per andarcene, le gettai un’occhiata. Mi parve calma, insonnolita. [p. 158 modifica]





VI.

Li lasciammo sulla porta dell’albergo, nello squallore del mattino sprecato. Il riverbero del sole sulle vetrine mi feriva gli occhi. Traversai con Pieretto i giardini e non parlammo; pensavo a Oreste.

— Ci vediamo, — dissi sull’angolo.

Andai a casa e mi buttai sul letto. Sentivo mia madre aggirarsi nel corridoio e rimandavo il momento dell’incontro. Non volevo dormire, soltanto riprendermi. Nella stanchezza mi riusciva facile non pensare alla notte, ai disordini, ai singhiozzi di Rosalba, e sprofondavo in quel cielo che avevo sognato nel dormiveglia sotto la luce fresca, indugiavo nelle viuzze del paese, guardavo all’insú. Li conoscevo questi borghi ammucchiati nelle campagne. Conoscevo l’orto estivo della casa dei vecchi dove i miei mi mandavano a far campagna da ragazzo, un paese in pianura, tra rogge e siepi d’alberi, dai vicoli coi portici bassi e le fette di cielo altissime. Della mia infanzia non mi restava altro che l’estate. Le vie strette che sbucavano nei campi da ogni parte, di giorno e di sera, erano i cancelli della vita e del mondo. Gran meraviglia se un’automobile strombettante, giunta da chi sa dove, traversasse il paese sulla strada maestra e dileguasse chi sa dove verso nuove città, verso il mare, sconvolgendo ragazzi e polvere.

Mi tornò in mente nel buio quel progetto di traversare le colline, sacco in spalla, con Pieretto. Non invidiavo le automobili. Sapevo che in automobile si traversa, non si conosce una terra. «A piedi, — avrei detto a Pieretto, — vai veramente, in campagna, prendi i sentieri, costeggi le vigne, vedi tutto. C’è la stessa differenza che guardare un’acqua o saltarci dentro. Meglio essere pezzente, vagabondo». [p. 159 modifica]

Pieretto rideva nel buio e mi diceva che dappertutto nel mondo è benzina.

«Macché, — borbottavo, — i contadini non sanno che cosa è benzina. Falce e zappa sono l’essenziale per loro. Per lavare una botte o tagliare un albero studiano ancora la luna. Li ho visti. Quando minaccia la grandine, distendono sull’aia due catene...»

«E pagano la polizza, — diceva Pieretto. — E trebbiano a macchina. E dànno il solfato alle viti».

«Si servono, di queste cose, — gridai sottovoce. — I contadini se ne servono, ma vivono diverso. In città ci stanno male».

Pieretto rideva, maligno. «Regala un’auto a un contadino, ghignò. — Vedrai come corre. Non ci carica di sicuro né Rosalba né noi. Fa degli affari, un contadino».

Pensavo a Oreste che studiava da medico. «Ecco un contadino che vive in città, — dissi a Pieretto. — Ha piú scienza di noi, ma tiene duro. Per lui la notte ha un altro senso, lo dici anche tu...»

Il campanello del telefono interruppe il dormiveglia. I miei mi chiamarono. Pensai ch’era Rosalba, che la storia non fosse finita. Invece era la sorella di Pieretto, voleva sapere se l’avevo piú visto — da due giorni era fuori. — Ero con lui mezz’ora fa, — le dissi, — sta rientrando — . Per non far danni, non parlai della notte. Lei disse: — Canaglie che siete. Dove avete dormito?

— Non abbiamo dormito.

— Chi dorme non pecca, — disse lei ridendo.

— E chi si sente di dormire?

A tavola raccontai che avevamo bucato. Mio padre disse che una gomma può provocare una disgrazia, specialmente se chi guida ha bevuto. Poi disse che non bisogna sfruttare gli amici: con chi è molto a mezzi non si può mai sdebitarsi.

Nel pomeriggio decisi di studiare. Ma prima feci un bagno, per rimettermi. Pensai che anche Rosalba e Poli lo facevano e se Rosalba non era troppo vecchia per spogliarsi. Verso sera suonò il telefono. Era Pieretto. — Vieni da Oreste, — disse subito.

— Se studio.

— Vieni che merita, — mi disse. — Quei due si sono sparati.

Sudammo a discutere in trattoria con Oreste, che veniva dall’ospedale e telefonò due volte agli infermieri suoi amici per avere notizie. Poli era moribondo: s’era presa una pallottola in un fianco, sfiorato il polmone; e Rosalba ai camerieri che correvano, gridava: [p. 160 modifica]

— Ammazzatemi, perché non ammazzate anche me? — tanto che avevano dovuto chiuderla nel bagno.

— Quand’è stato? — chiesi.

— È la donna, — disse Oreste, — che dalla rabbia gli ha sparato. Gridava già prima, li sentivano dal bar. Chi sa che porcata c’è sotto.

Era stato a metà pomeriggio, nel caldo. Poli, prima che succedesse, doveva aver preso uno stupefacente, perché rideva sul lettino, beato.

Ne parlammo tutta la sera. Adesso, nell’ospedale e nell’albergo, aspettavano istruzioni da Milano. Rosalba era reclusa in camera; il suo destino dipendeva dalla vita di Poli e anche dall’arrivo del padre di lui: questi era un uomo che, seccandogli lo scandalo, poteva con due parole fermare le indagini e mettere ogni cosa a tacere. C’era sí la rivoltella di Rosalba, un gingillo da signora, in madreperla, ma qualcuno era già pronto a sostituirla con un’arma piú adatta.

— Potenza dei soldi, — disse Pieretto, impassibile, — ti puoi pagare anche un delitto o un’agonia.

Oreste telefonò un’altra volta. — Arriva il vecchio, — disse voltandosi a noi. — Meno male. Chi sa se lui conosce la donna.

Allora gli dicemmo che il colpevole era Poli, che avevamo passato la notte con loro e Poli la trattava già da villano. — Se l’è voluto, — diceva Pieretto. — Una Rosalba come quella è fatta apposta.

— Io torno all’ospedale subito, — disse Oreste. — Gli trasfondono il sangue.

Quella notte passeggiai con Pieretto. Ero esausto dall’agitazione e dal sonno, e lui rimuginava, diceva le sue. Gli confidai che al mattino Rosalba mi aveva chiesto di Poli. — Era chiaro che doveva succedere cosí, — disse Pieretto. — Tutto una donna può accettare ma non che l’uomo abbia una crisi di coscienza. Sai che cosa lei mi ha detto stanotte? Che, con tanto che è giovane. Poli non volta piú la testa a guardare una donna.

— Che cosa facevamo in collina, ha chiesto a me.

— Avrebbe preferito che facesse il porco. Sono cose che una donna capisce.

Allora dissi che, per me, faceva il porco. Che tra la coca e la libera scelta mi sembravano tutte bestialità. Pigliava in giro, ecco cos’era. E bene gli stava la botta.

Pieretto sorrise e mi rispose che, morisse o vivesse Poli, era [p. 161 modifica]sempre un bel caso quello che c’era toccato. — Tu poi non credere, — disse. — Che cos’è che cerchiamo tutte le sere per le strade? Qualcosa che rompa e svari la giornata...

— Vorrei vedere se toccasse a te.

— Ma se tu pensi giorno e notte come uscire dalla gabbia. Perché credi che andiamo oltre Po? Soltanto che sbagli: le cose piú impreviste succedono in una stanza a Torino, in un caffè, sopra un tranvai...

— Non cerco le cose impreviste.

— Be’ — disse lui, — questo mondo è dei Poli. Convinciti.

L’indomani Poli fu ancora tra vita e morte, e gli trasfusero altro sangue e sudava nel lettino. A detta di Oreste, tra che suo padre lo vegliava e che adesso aveva smaltito la droga, sembrava un bambino impaurito che stesse per piangere. Il vecchio era andato subito nella notte da Rosalba; che cosa si fossero detto non si sapeva; ma Rosalba l’avevano chiusa in una casa di suore, e di omicidio non parlava piú nessuno. — Disgrazia, — diceva il primario parlando con gli assistenti. Erano queste le notizie che piacevano a Pieretto, e Oreste lo sapeva.

Povero Oreste, andò sul punto di perdere i suoi esami. Teneva i turni al capezzale di Poli come un infermiere. Parlò col vecchio commendatore e si fece conoscere. Disse che costui discorreva di campagna, delle Coste e dei raccolti, come chi se ne intende. Arrivava all’ospedale sulla macchina verde di Poli, guidandola. Era lui che al mattino mandava Oreste a dormire.

Finalmente venne la notizia che Poli se la cavava. Anche Pieretto andò a trovarlo. Disse: — È sempre lo stesso e legge Nino Salvaneschi — . Io non ci andai, risoluto. Ne parlammo ancora per qualche giorno, poi Oreste ci disse che l’avevano spedito al mare in vagone-letto. [p. 162 modifica]





VII.

In quell’estate andavo in Po, un’ora o due, al mattino. Mi piaceva sudare al remo e poi cacciarmi nell’acqua fredda, ancora buia, che entra negli occhi e li lava. Andavo quasi sempre solo, perché Pieretto a quell’ora se ne dormiva. Se veniva anche lui, mi governava la barca quando io nuotavo. Si risaliva a forza di remo la corrente sotto i ponti, lungo le rive murate, e si sbucava tra gli argini e le piante, sotto il fianco della collina. La collina sovrastante era bella al ritorno, fumando la prima pipa, e per quanto fosse giugno, a quell’ora la velava ancora un’umidità, un fiato fresco di radici. Fu sulle tavole di quella barca che presi gusto all’aria aperta e capii che il piacere dell’acqua e della terra continua di là dall’infanzia, di là da un orto e da un frutteto. Tutta la vita, pensavo in quei mattini, è come un gioco sotto il sole.

Ma non giocavano i sabbiatori che, nell’acqua fino alle cosce, issavano ansando vangate di melma e le rovesciavano nel barcone. Dopo un’ora, due ore, questo scendeva ricolmo, a pelo d’acqua, e l’uomo, magro e annerito, con un panciotto sul torso nudo, governava lentamente col palo. Scaricava la sua sabbia in città, dopo i ponti, e risaliva lentamente, risalivano a gruppi sotto il sole sempre piú alto. Nell’ora che io lasciavo il fiume, avevano già fatto due o tre viaggi. Tutto il giorno, mentre giravo in città, mentre studiavo, discorrevo, mi riposavo, quelli scendevano e risalivano, scaricavano, saltavano in acqua, cuocevano al sole. Ci pensavo specialmente verso sera, quando cominciava la nostra vita notturna, e quelli rientravano in casa, nelle baracche sul fiume, nei quarti piani popolari, e si buttavano a dormire. O all’osteria si scolavano un bicchiere. Certo, anche loro vedevano il sole e la collina. [p. 163 modifica]

Le volte che sudavo sull’acqua, mi restava poi per tutto il giorno il sangue fresco, rinvigorito dall’urto col fiume. Era come se il sole e il peso vivo della corrente mi avessero intriso di una loro virtú, un forza cieca, gioiosa e sorniona, come quella di un tronco o di una bestia dei boschi. Anche Pieretto, quando veniva con me, si godeva la mattinata. Scendendo a Torino sul filo della corrente, gli occhi lavati dal sole e dai tuffi, asciugavamo distesi, e le rive, la collina, le ville, le chiazze d’alberi lontani, s’incidevano nell’aria.

— Uno che facesse tutti i giorni questa vita, — diceva Pieretto, — diventerebbe un animale.

— Basta guardare i sabbiatori...

— Quelli no, — disse lui, — quelli lavorano soltanto. Un animale di salute e di forza... E di egoismo, — aggiunse subito, — di quel dolce egoismo di chi ingrassa.

— Non è una colpa, — brontolai.

— Chi ti accusa? Nessuno ha colpa di esser nato. La colpa è degli altri, sempre degli altri. Noi si va in barca e si fuma la pipa.

— Non siamo abbastanza animali.

Pieretto rideva. — Chi sa cos’è un vero animale, — disse, — un pesce, un merlo, una lucertola... Magari uno scoiattolo... C’è chi dice che dentro a ogni bestia c’è un’anima... un’anima in pena. Questo sarebbe il purgatorio...

— Non c’è niente che sappia di morte, — continuò, — piú del sole d’estate, della gran luce, della natura esuberante. Tu fiuti l’aria e senti il bosco, e ti accorgi che piante e bestie se ne infischiano di te. Tutto vive e si macera in se stesso. La natura è la morte...

— Che cosa c’entra il purgatorio, — dissi.

— Non c’è altro modo di spiegarla, — disse lui. — O non è nulla o ci stanno le anime.

Era un vecchio discorso. Era ciò che m’irritava in Pieretto. Non sono fatto come Oreste che a quelle uscite scrollava le spalle e rideva. Ogni parola che sa di campagna mi tocca e mi scuote. Non riuscivo lí per lí a rispondergli, e tacevo e manovravo la pagaia.

Anche Pieretto si beveva con gli occhi l’acqua gocciolante. Era lui che l’anno prima aveva detto: — Ma che cosa ne fate del Po? Perché non ci andiamo? — e aveva rotto quella nostra timidezza, di me e di Oreste, che non facevamo una cosa soltanto perché non l’avevamo mai fatta. Pieretto era da pochi anni a Torino e aveva [p. 164 modifica]vissuto prima in diverse città, dietro a suo padre ch’era un architetto senza pace e impiantava e spiantava a capriccio la famiglia. Una volta, in Puglia, li aveva perfino sistemati in un convento e lasciate madre e figlia con le monache mentre loro vivevano coi frati in una cella, dove il vecchio sorvegliò certi lavori di restauro. — Mio padre, — diceva Pieretto, — coi preti non sa dirla. Gli fanno soggezione. Non può soffrirli e ci litigava, perché aveva il terrore che mi facessi prete o frate — . Adesso il vecchio, un gigante con la camicia aperta, s’era calmato e s’accontentava di Torino; teneva la famiglia a Torino e lui girava; le poche volte che l’avevo visto, lui e il figlio si canzonavano, si davano consigli, discorrevano come non sapevo che con un padre si può fare. In fondo, quei modi troppo liberi non mi piacevano, e il padre sembrava un nostro inutile coetaneo.

— Tu stavi bene nel convento, — gli diceva Pieretto, — perché ci vivevi come uno scapolo.

— Storie, — diceva il vecchio, — si sta bene dove si tiene l’anima in pace. Vedi come ingrassano i frati.

— Ci sono anche i magri.

— Sono frati sbagliati, gente triste. Brutto segno esser santi. Non sanno stare in compagnia.

— Come viaggiare sulla moto, — disse Pieretto. — È come un frate che vada in moto. Chi ci crede?

Il vecchio lo guardò sospettoso.

— Che male c’è?

— Niente, — disse Pieretto, — adesso un santo è come un frate che vada in moto...

— Un anacronismo, — dissi io.

— La vecchia bottega, — disse il vecchio irritato, — la religione è una vecchia bottega. Lo sanno loro, piú di noi.

Quell’anno il vecchio lavorava a Genova, aveva un appalto, e Pieretto doveva andare a farci i bagni. La sorella partí in quei giorni e Pieretto voleva che ci andassimo noi tre, anche Oreste, per vedere un po’ di gente. Ma c’era quell’altro progetto di andare da Oreste: in casa mia il troppo guastava e il Po mi scusava da mare. Decisi di restarmene solo a Torino, aspettare che in agosto i due tornassero e poi buttarci il sacco in spalla e muoverci.

Non avrei creduto che quel principio d’estate in città mi piacesse tanto. Senza un amico né una faccia per le strade, ripensavo [p. 165 modifica]ai giorni passati, andavo in barca, immaginavo novità. L’ora piú irrequieta era la notte — si capisce, Pieretto mi aveva viziato — , la piú bella il mezzodí verso le due, quando le strade, vuote, non contenevano che una fetta di cielo. Una cosa che facevo sovente era accorgermi di qualche donna alla finestra, annoiata, assorta come soltanto le donne sanno stare, e levavo la testa passando, intravedevo un interno, una stanza, una fetta di specchio, portavo con me quel piacere. Non invidiavo i miei due soci che in quelle ore vivevano sulla spiaggia, nei caffè, tra le bagnanti abbronzate e seminude. Certo si divertivano molto ma sarebbero tornati, e io intanto passavo il mattino, mi abbronzavo, sudavo, godevo la mia parte. Anche sul Po ci venivano ragazze, strillavano dalle barche, sulle rive del Sangone; perfino i sabbiatori levavano il capo e dicevano la loro; io sapevo che un giorno ne avrei conosciuta qualcuna, e qualcosa sarebbe successo, ne immaginavo già gli occhi, le gambe e le spalle, una donna stupenda, e remavo e fumavo la pipa. Era difficile sull’acqua, in piedi, puntando il remo verticale, non atteggiarsi a uomo atletico, primitivo, non scrutare l’orizzonte o la collina. Mi chiedevo se la gente come Poli avrebbe gustato quei piaceri e capito la mia vita.

Una ragazza la portai sul Po, verso la fine di luglio, ma non fu niente di stupendo o di nuovo. La conoscevo, era commessa di libreria, ossuta e miope, ma aveva le mani curate, un fare languido, e mentre guardavo i libri fu lei a chiedermi dove prendevo tanto sole. Promise, felice, che sarebbe venuta quel sabato.

Venne con un costumino bianco sotto la gonna, e la gonna se la tolse voltandomi le spalle e ridendo. Si distese sui cuscini in fondo alla barca lagnandosi del sole e mi guardava remare. Si chiamava Teresina — Resína. Scambiavamo parole sul caldo, sui pescatori, sugli stabilimenti balneari di Moncalieri. Piú che del fiume lei parlava di piscine. Mi chiese se andavo a ballare. Coi suoi occhi socchiusi sembrava distratta.

Fermai la barca sotto gli alberi, e mi misi a nuotare. Lei non si bagnò perché s’era unta d’olio contro il sole e sapeva un odore di toeletta. Quando uscii stillante dall’acqua mi disse ch’ero stato bravo e passeggiò sulla riva. Le gambe lunghe, arrossate, non erano brutte. Non so perché, mi fece pena. Le portai dei cuscini sui sassi e lei mi disse di prenderle la boccetta dell’olio e ungerla dietro, dove non arrivava. Allora, inginocchiato, le sfregai la schiena con [p. 166 modifica]le dita e lei rideva e mi diceva di star bravo, rideva appoggiandomi la nuca alla bocca. Torcendosi, mi baciò sulla bocca. Certo, sapeva il fatto suo. Le dissi: — Perché ti sei data quell’olio?

E Resína, toccandomi il naso col naso: — Che vuoi fare, canaglia? È proibito.

Continuò a ridere, con quegli occhi piccini, e mi chiese perché non mi davo l’olio anch’io. Allora la strinsi corpo a corpo. Si divincolò e disse: — No no, datti l’olio.

Di piú che baciarmi non fece, benché accettasse di venire tra i cespugli. Passato il primo dispetto, non mi dispiacque che la cosa finisse lí. Sotto il sole, sull’erba, quel profumo e i nostri corpi stonavano; sono cose che vanno fatte in città, dentro una stanza. Un corpo nudo non è bello all’aria aperta. Mi dava noia, offendeva quei luoghi. Accettai di portarla alla piscina di uno stabilimento dove Resína felice scrutò le altre bagnanti e prese la gazzosa con la cannuccia. [p. 167 modifica]





VIII.

Da Resína non mi feci piú vedere, perché mi seccava la storia dell’olio, la piscina, il patto implicito nel gioco. Tutto sommato, stavo meglio solo, e non era la prima che mi avesse deluso. Vuol dire che invece di vantare a Pieretto una grossa avventura gli avrei detto che non c’è donna che valga un mattino di acqua e sole. Già sapevo la risposta: — Non un mattino, ma la notte sí.

Oreste al mare con Pieretto non potevo immaginarlo. L’anno prima, che c’ero andato con Pieretto e sua sorella, Oreste non era venuto. Era subito scappato al suo paese nelle colline. — Ma che cosa ci trova, — aveva detto Pieretto, — bisogna che andiamo anche noi — . Cosí era nato il progetto di farcela a piedi, ma già nell’inverno Oreste ce ne aveva dissuaso dicendo ch’era meglio passare un mese nella vigna che non sulle strade. Non aveva tutti i torti, ma Pieretto diceva di no. Non era tipo da star fermo, Pieretto, e l’anno prima con me cercava una nuova spiaggia ogni mattino, ficcava il naso dappertutto, fece amicizie da un capo all’altro della costa. Bettole o grandi alberghi, non aveva preferenze. Non sapendo un dialetto, li parlava tutti. Diceva — Stasera, al Casino da gioco — e si trattasse di un bagnino, del padrone, o di una vecchia affittacamere, trovava il punto di minor resistenza e passava la sera al Casino da gioco. C’era da ridere, a vederlo. Ma con le donne non riusciva. Con le donne il suo fare era inutile. Le subissava di parole, le annegava, poi perdeva la pazienza, le insolentiva, falliva la mossa. Non ero nemmeno sicuro che ci tenesse. — Bisogna essere stupidi, — lo consolai, — per piacere alle donne. — Non è vero, — mi disse, — non basta. Bisogna anche essere stupidi — . Pieretto era basso e ricciuto, scuro di pelle, guance asciutte [p. 168 modifica]— pareva nato per strappare una ragazza a chiunque, sia che ridesse o le piantasse gli occhi addosso. Di fronte a Oreste, grosso e ossuto, e a me, non c’era dubbio chi fosse il piú acceso. Eppure, nemmeno al mare Pieretto non fece nulla. — Sei troppo agitato, — gli dicevo, — non ti lasci conoscere. Una ragazza vuol sapere con chi ha da fare.

Andavamo per la strada di costa, strapiombante sulle rupi scheggiate, cercando una certa spiaggetta.

— Ecco le donne ed ecco il bagno, — disse lui.

Sotto, piccine per la distanza, si spogliavano Linda e Carlotta, la sorella e un’amica, ragazza ben fatta, piú adulta di noi: se l’avessimo incontrata sul passeggio ci saremmo voltati.

— Che pensiero, — disse lui, — ci aspettano.

— L’ha portata Linda per te.

Pieretto levò la mano nel gran sole e fece un urlo. Ma il fruscio del mare che lassú arrivava appena, dovette coprire la voce. Allora buttammo dei sassi. Le ragazze levarono il capo e si agitavano. Dovevano gridare qualcosa ma non le sentimmo.

— Scendiamo, — dissi.

Ci toccò giungere alla spiaggetta dal mare, nuotando nell’acqua verde. Giocammo a lungo con le due ragazze sugli scogli e fra gli spruzzi. Poi mi distesi sotto il peso del sole a scottarmi, guardando le schiume che correvano la sabbia, e Pieretto intratteneva la sorella e l’amica. Ricordo che mangiammo delle pesche.

Parlavano dei nòccioli, dei pezzi di giornale che si trovano sulle spiagge deserte. Pieretto diceva che non c’è piú un cantuccio vergine nel mondo. Diceva che ancora per troppi le nuvole e l’orizzonte marino hanno l’aria illibata e selvaggia. Diceva che la vecchia pretesa dell’uomo di trovare intatta la donna, era un residuo dello stesso gusto — la sciocca mania di arrivare primo. Carlotta, coi capelli negli occhi, gli teneva testa: non capiva lo scherzo e rideva risentita.

Proprio con lei, questo discorso. Carlotta era un tipo che diceva semplicemente: — Mamma mia, quant’è bello — del mare, di un bambino, di un gatto. Aveva sí vari amici per la spiaggia e per il ballo, ma sosteneva che non poteva soffrire di frequentare in città chi l’avesse veduta seminuda ai bagni. Con Linda passeggiavano a braccetto.

Pieretto non badò a queste cose. Linda dalla roccia dov’era [p. 169 modifica]distesa gli disse di smetterla. Pieretto si mise a parlare del sangue. Disse che il gusto dell’intatto e del selvaggio era gusto di spargere il sangue. — Si fa all’amore per ferire, per spargere sangue, — spiegò. — Il borghese che si sposa e pretende una vergine, vuole cavarsi anche lui questa voglia...

— La smetta, — gridò Carlotta.

— Perché? — disse lui. — Tutti speriamo che ci tocchi una volta...

Linda si alzò, si stirò al sole e propose di fare una nuotata.

— Si va in montagna, si va a caccia, per lo stesso motivo, — diceva Pieretto, — la solitudine in campagna mette sete di sangue...

Da quel giorno la bella Carlotta non venne piú nei luoghi intatti. Linda ci disse: — State freschi — . Cosí Pieretto si giocava le ragazze e sosteneva di aver ben manovrato e restare in vantaggio. Poi scopriva luoghi nuovi e gente nuova, e il discorso cambiava. Finiti i bagni, non aveva stretto amicizia se non col padrone di qualche bettola e con vecchi pensionati.

Io di quella spiaggetta nascosta mi ricordai a lungo. In fondo, il mare cosí grande e inafferrabile non mi diceva gran che; mi piacevano i luoghi ristretti che avevano una forma e un senso — insenature, viottoli, terrazze, uliveti. Certe volte, appiattito su uno scoglio, scrutavo una scheggia grande come il pugno, che contro il cielo appariva un’enorme montagna. Queste cose mi piacciono.

Adesso pensavo a Oreste, ch’era il prim’anno che vedeva il mare. Pieretto non l’avrebbe lasciato dormire e insieme li sapevo capaci di qualunque cosa, da fare il bagno nudi a visitare le sette chiese. Poi c’era Linda e le sue amiche, e c’era il padre, persona imprevedibile e violenta. Io rimpiangevo certe levate antelucane e il passeggio furtivo lungo il mare al tepore delle ultime stelle. Certo Oreste non avrebbe avuto bisogno di condimenti per godersi la vacanza. Ma avrei pagato per sentirgli dire a voce, portandolo in barca sul Po, se quel mondo lo convinceva.

Invece né lui né Pieretto tornarono a Torino. Tornò Linda che lavorava in un ufficio e mi telefonò ai primi d’agosto. — Stia a sentire, — mi disse, — gli amici l’aspettano in un paese che non so piú come si chiama. Si faccia vedere e le darò le istruzioni — . Le dissi subito un nome — le colline d’Oreste. Era là. Quegli accidenti eran già andati.

La incontrai prima di cena, davanti al suo caffè. Lí per lí non [p. 170 modifica]la riconobbi, tant’era annerita. Anche stavolta mi parlò ridendo, come si scherza coi ragazzi. — Mi offre il vermut? — mi disse. — È una abitudine di spiaggia.

Si sedette accavallando le gambe. — Brutta cosa rientrare in agosto, — sospirò, — beato lei che non s’è mosso.

Parlammo di quei due. — Cos’abbiano fatto non so, — disse, li ho lasciati sguazzare. Sono grandi abbastanza. Quest’anno avevo i miei amici, gente fatta, troppo fatta per voialtri...

— E Carlotta, la bella Carlotta?

Linda rise, a bocca spalancata. — Pieretto esagera a volte. Siamo tutti cosí, in famiglia. Succede anche a me. Siamo tremendi. Ma con gli anni peggioriamo.

Non le dissi di no e la sbirciavo. Lei se ne accorse e mi fece una smorfia.

— Non avrò piú i vostri vent’anni, — brontolò, — ma nemmeno ne ho tanti.

— Vecchi si nasce, — dissi, — non si diventa mica.

— Quest’è di quelle di Pieretto, — gridò Linda, — quelle autentiche.

Feci anch’io la mia smorfia. — Ne diciamo una al giorno, — brontolai, — fin che basta. [p. 171 modifica]





IX.

La casa d’Oreste era un terrazzo roseo e scabro e dominava nella gran luce un mare di valli e burroni che faceva male agli occhi. Ero corso per tutto il mattino nella pianura, una pianura che conoscevo, e dal finestrino avevo intravisto le rogge alberate della mia infanzia — specchi d’acqua, branchi d’oche, praterie. Ci pensavo ancora quando il treno s’era messo per ripe scoscese dove bisognava guardare in su per vedere il cielo. Dopo una stretta galleria s’era fermato. Nell’afa e nella polvere mi ritrovai sulla piazzetta della Stazione, gli occhi pieni di coste calcinate. Un carrettiere grasso mi mostrò la strada; dovevo salire salire, il paese era in alto. Gettai la valigetta sul carro e al passo lento dei buoi salimmo insieme.

Giungemmo lassú per vigneti e stoppie riarse, e via via che i versanti mi si allargavano ai piedi, distinguevo nuovo paese, nuove vigne, nuove coste. Chiesi al carrettiere chi aveva piantato tante viti e se bastavano le braccia a lavorarle. Lui mi guardò curiosamente; discorreva alla larga e tendeva a sapere chi fossi. Disse: — Le vigne ci son sempre state, non è mica come fare una casa.

Sotto il muraglione che reggeva il paese, stavo per chiedergli che idea di piantare le case lassú, ma quegli occhi strizzati nella faccia scura mi tennero cheto. Respiravo un odore d’aria mossa e di fichi, che cosí su quel versante mi parve un sentore marino. Tirai il fiato e borbottai: — Che buon’aria.

Il paese era una viuzza sassosa, dove si aprivano cortili e qualche villa con balconi. Vidi un giardino tutto pieno di dalie, zinie e gerani — lo scarlatto e il giallo dominavano, e i fiori di fagiolo e di zucca. Tra le case c’eran angoli freschi, e scalette, pollai, vecchie [p. 172 modifica]contadine sedute. La casa d’Oreste era all’angolo della piazza, sul terrazzo dei muraglioni, e aveva un roseo colore marezzato — una vera villetta scolorita dalle rampicanti e dal vento. Perché lassú tirava vento anche a quell’ora: me ne accorsi non appena sbucai sulla piazza e il carrettiere m’indicò la casa. Ero sudato e andai dritto ai tre gradini della porta. Bussai col batacchietto di bronzo.

Mentre aspettavo mi guardavo intorno: l’intonaco scabro nella luce, un ciuffo d’erba sul terrazzo contro il cielo, il gran silenzio meridiano. Nello strepito del carro che s’allontanava, pensai che quelli per Oreste erano luoghi familiari, c’era nato e cresciuto, dovevano dirgli chi sa che. Pensai quanti luoghi ci sono nel mondo che appartengono cosí a qualcuno, che qualcuno ha nel sangue e nessun altro li sa. Ritoccai con mano la porta.

Mi rispose una donna attraverso le persiane accostate. Esclamò, brontolò, s’informava. Né Oreste né il suo amico erano in casa. Mi disse di attendere; chiesi scusa di arrivare a quell’ora; finalmente mi apersero.

Da ogni parte sbucavano donne — vecchie, fantesche, bambine. La mamma d’Oreste, una donnona in grembiule di cucina, mi accolse agitata, s’informò del mio viaggio, mi fece entrare in una stanza in ombra (quando schiuse le persiane mi accorsi ch’era un salotto con chicchere e quadri, fodere ai mobili, un treppiedi di bambú, vasi di fiori), mi chiese se volevo il caffè. C’era un chiuso odore di pane e di frutta. Si sedette anche lei e m’intrattenne, col superiore sorriso d’Oreste sulle labbra. Mi disse che Oreste tornava subito, che gli uomini tornavano subito, si pranzava tra un’ora, e che tutti gli amici d’Oreste erano bravi, non facevano le sue stesse scuole? Poi si alzò e disse: — C’è vento, — e richiuse le persiane. — Lei ci deve scusare; dormirete insieme. Vuole rinfrescarsi?

Quando arrivarono Oreste e Pieretto conoscevo già tutta la casa. La nostra stanza dava nel vuoto, sulle colline lontane, e ci si lavava in un catino, spruzzando le mattonelle rosse. — Non si faccia riguardo se bagna per terra. Scaccia le mosche — . Ero già uscito sul terrazzo, ero sceso in cucina, le donne lavoravano al camino sul fuoco crepitante. Avevo sfogliato almanacchi e vecchi libri di scuola nell’ufficio del padre, dove questi era poi entrato vociando, ma lo conoscevo già dalle fotografie del salotto. [p. 173 modifica]Questo padre aveva i baffi e mi accese la sigaretta e mi parlò di molte cose. Voleva sapere se anch’io venivo dai bagni, se mio padre possedeva campagne, se avevo studiato da prete come il mio amico. Andai cauto e lasciai che dicesse. Dopotutto, era possibile anche questa. — L’ha detto Oreste? — Sa com’è, si discorre, — mi disse, — le donne a queste cose ci credono, ci vogliono credere. Questo Pieretto la sa lunga sui preti, ha studiato, tira fuori il seminario e le regole... Mia cognata vuol parlarne col prevosto.

— Si dice per dire. Non l’hanno ancora conosciuto?

— Per me, — disse l’uomo dei baffi, — son tutte storie di bottega. Ma le donne ci perdono la testa.

— Dice lo stesso anche suo padre — . Gli raccontai come Pieretto era stato in convento, che i preti li aveva capiti, li aveva visti lavorare, e né lui né suo padre ci credevano. — Si diverte, ecco tutto.

— Mi fa piacere, — disse quello, — mi fa proprio piacere. Per carità, non ne parli. Dentro un convento. Guarda un po’.

Arrivarono Oreste e Pieretto, scamiciati, e mi diedero manate sul collo. Erano neri e famelici e andammo a tavola subito. A capo si mise il padre, le donne andavano e venivano, vecchie zie, sorelline. Conobbi la vittima di Pieretto, la cognata Giustina, una vecchia rubizza, all’altro capo della tavola. Le bambine scherzavano, la canzonavano, e parlavano di certi fiori per l’altare, che il sacrestano aveva messo dentro l’acqua benedetta. Venne fuori un’allusione alla Madonna d’agosto. Tenevo d’occhio tutti quanti, ma Pieretto sembrava avvertito: mangiava e taceva.

Niente accadde. Parlammo dei bagni d’Oreste. Io dissi ch’ero stato sul Po a prender sole, che il Po era pieno di bagnanti. Le bambine ascoltavano attente. Il padre lasciò che finissi, poi disse che di sole ce n’era dappertutto ma ai suoi tempi in Riviera non ci andavano che i malati. — Non si va per il sole, — disse Pieretto, — e nemmeno per l’acqua.

— Perché si va? — disse Oreste.

— Per vedere il tuo prossimo nudo come te stesso.

— Anche sul Po, — la madre mi chiese sollecita, — ci sono gli stabilimenti di bagni?

— Altroché, — disse Oreste, — e si canta e si balla.

— Nudi, — disse Pieretto.

La vecchia Giustina grugní dal fondo. — Capisco gli uomini, [p. 174 modifica]— disse con sprezzo, — ma che ci vadano figliole è una vergogna. Dovrebbero lasciarli andare soli.

— Vuol mica che si balli tra uomini, — disse Pieretto, — sarebbe indecente.

— È piú indecente una ragazza che si spoglia all’aperto, — gridò la vecchia. Cosí continuammo a mangiare con foga, e il discorso girava, esitava, correva. Di tanto in tanto eran faccende loro, pettegolezzi del paese, questioni di lavoro, di terre, ma non appena metteva bocca Pieretto, il terreno scottava. Non fosse stato ch’eravamo insieme e il suo contegno diventava il mio, avrei potuto divertirmi. Invece Oreste mi guardava contento, gli ridevano gli occhi, era felice di vedermi in casa sua. Gli feci un segno di minaccia con la mano, poi con due dita il gesto di chi cammina. Lui non capí e diede in giro una comica occhiata. Credeva mi seccassi a stare a tavola.

— Bello scherzo, — gli dissi. — Non dovevamo farla a piedi?

Oreste si strinse nelle spalle. — Vedrai che camminiamo per coste e per vigne, — mi disse, — siamo qui per andare a spasso.

Il padre non aveva capito. Gli spiegammo il progetto di venire a piedi da Torino. Una sorellina d’Oreste fece un verso di stupore e congiunse le mani davanti alla bocca.

Il padre disse: — Ma c’è il treno. Che senso.

Saltò fuori Pieretto. — Diventa bello andare a piedi, quando tutti vanno in treno. È una moda come i bagni di mare. Adesso che tutti hanno un bagno in casa, diventa bello farlo fuori.

— Parla per te che ci sei stato, — dissi.

— Com’è la gente, — disse il padre, — ai miei tempi la moda non comandava che le spose.

Ci alzammo da tavola storditi e assonnati. Le donne non mi avevano lasciato un momento il piatto vuoto, e il padre al mio fianco non smetteva di empirmi il bicchiere. — Vada a dormire, ché fa caldo, — mi dissero.

Salimmo nella stanza torrida noi tre. Per rianimarmi mi lavai la faccia in quel bianco catino e dissi a Oreste: — Quanto dura la festa?

— Che festa?

— Siamo all’ingrasso, a quel che pare. Qui si mangia una vigna per pasto.

Pieretto disse: — Se venivi a piedi. [p. 175 modifica]

Oreste rideva, nella screziatura delle persiane accostate. S’era sfilata dalle spalle la camicia e mostrò i muscoli neri e rotondi. — Si sta bene, — disse, e si tuffò sul letto.

— Oreste ha preso gusto a ballare e toccare, — disse allora Pieretto. — Sul ballo sembrava dentro il mare grosso. Ancora sente odor di mare quando vede una ragazza.

— Queste campagne sanno odore davvero, — dissi facendomi alla persiana. — Guarda laggiú. Sembra un mare.

Pieretto disse: — Il primo giorno ti è concesso. Guarda pure il panorama. Poi domani la smetti.

Li lasciai ridere e parlare un po’, a modo loro. — Siete allegri, — dissi. — Che succede?

— Hai mangiato e bevuto. Cosa chiedi di piú? — disse Pieretto.

E Oreste: — Vuoi fumare la pipa?

Quel tono di congiura nella stanza buia mi metteva a disagio. Dissi a Pieretto: — Hai già spaventato le donne di casa. Sei sempre lo stesso. Finirà che ti cacciano via.

Oreste saltò a sedere dal letto. — Niente scherzi, dico. Starete qui per la vendemmia.

— Che facciamo in tutt’agosto? — brontolai. Mi tirai la maglietta sul capo, per toglierla. Quando ne uscii, sentii Pieretto che diceva: — ... Ma è nero come un gambero anche lui...

— C’è il sole in Po come in Riviera, — brontolavo, e di nuovo quelli a ridere.

— Cosa c’è? Siete sbronzi?

— Facci vedere l’ombelico, — disse Oreste. Scostai per gioco la cinghia dei calzoni, mostrando una striscia di ventre pallido. Quelli sghignazzarono e urlarono: — L’infame! Anche lui! Si capisce!

— Sei ancora segnato, — ghignò Pieretto in quel suo modo sputacchiante. — Verrai nel pantano anche tu. Qui non si hanno riguardi. Al sole non si deve nascondere niente. [p. 176 modifica]





X.

Ci andammo l’indomani. Era un corso d’acqua nel bel mezzo della conca che divideva il nostro poggio da un altopiano accidentato, e si scendeva dai vigneti, fra campi di meliga fino a uno spacco scosceso, pieno di gaggie e ontani. Là dentro, un filo d’acqua formava stagni successivi e uno ce n’era in fondo a un pozzo, da cui non si vedeva che il cielo e il ciglione di rovi. Nelle ore bruciate ci batteva il sole a perpendicolo.

— Che paese, — diceva Pieretto, — per mettersi nudi bisogna entrare sottoterra.

Perché il loro gioco era questo. Partivano da casa sul mezzogiorno, e poi passavano laggiú un’ora o due, nudi come le bisce, a bagnarsi e voltolarsi nel sole dentro la terra screpolata. Lo scopo era arrostirsi anche l’inguine e le natiche, cancellare l’infamia, annerir tutto. Poi risalivano a pranzo. Il giorno del mio arrivo venivano appunto di là.

Adesso capivo il parlare e l’agitazione delle donne. In casa non si sapeva della trovata di Pieretto, ma sia pure tra maschi, sia pure in mutandine, un bagno in mezzo alle melighe colpiva le fantasie.

Quel pomeriggio scopersi altre cose. Il primo giorno che si arriva in un luogo è difficile dormirci, se anche tutti vanno a fare la siesta. Mentre la casa s’assopiva e dappertutto nelle stanze brusivano mosche, discesi la scala di pietra e passai in cucina, donde veniva un tonfo sordo come di culla, e un parlottare. Ci trovai una delle sorelline e la mamma di Oreste, che a maniche rimboccate impastava con vigore sul tavolo aperto. Una vecchia, a una tinozza, lavava dei piatti. Mi sorrisero e dissero che preparavano [p. 177 modifica]cena. — Cosí presto? — esclamai. La vecchia dalla tinozza si voltò con un riso sdentato. — A mangiare si fa presto, — gracchiò.

La mamma d’Oreste disse asciugandosi la fronte: — In questa casa siamo troppe donne. Due uomini o quattro non aumenta il lavoro.

La bambina dalle trecce biondette che vuotava col mestolo acqua sulla farina, restò incantata a guardarmi. — Muoviti, — disse la madre, — sei scema? — e riprese a impastare.

Rimasi a guardarle. Dissi che sonno non ne avevo. Andai al secchio appeso al muro e facevo per bere nel mestolo grondante, quando la madre gridò: — Dina, su dàgli un bicchiere.

— Non occorre, — dissi, — quand’ero ragazzo al paese, si beveva dal secchio.

Cosí parlai delle mie stalle, degli orti irrigui e delle oche. — Meno male, — disse la madre, — ch’è già stato in campagna. Cosí c’è avvezzo, sa cos’è.

Si parlò di Pieretto ch’era abituato a un’altra vita e aveva visto soltanto città. — Macché, non patisce, — dissi ridendo, — non è mai stato cosí bene — . E raccontai di quel suo padre matto che li aveva portati in giro di qua e di là, in conventi, in ville, in soffitte. — Gli piace malignare e cianciare, ma è tutta allegria, — dissi. — A conoscerlo bene, guadagna.

La madre impastava. — Qui dovete contentarvi con Oreste, — disse. — Siamo donne ignoranti.

L’ignoranza era il meno. Non glielo dissi lí per lí, ma ero contento che in casa non ci fossero se non donne mature o bambine. Figurarsi una figliola della nostra età, sorella carnale d’Oreste, e noialtri intorno. O un’amica, una Carlotta qualunque. Invece la bimba piú anziana era Dina undicenne, quella che a tavola si cacciava la mano davanti alla bocca ridendo.

Quando chiesi se non c’era un tabaccaio in paese, la madre disse a Dina di condurmici. Uscimmo insieme nella piazza, rifacemmo la strada del mattino. Il vento adesso era caduto; sul lato in ombra delle case donne e vecchi prendevano il fresco. Ripassammo il giardino delle dalie, e notai che tra una casa e l’altra s’apriva il vuoto della valle e spuntavano alla nostra stessa altezza colline come isole d’aria. La gente ci sbirciava sospettosa; la piccola Dina camminava al mio fianco, ravviata e pulita, e cianciava di sé. Le chiesi dov’erano le vigne del babbo. [p. 178 modifica]

— La cascina è a San Grato, — disse, e m’indicò la schiena gialla del nostro colle, che s’inarcava sulle case oltre la piazza. — Quella è una, — disse, — dove c’è l’uva bianca. Poi c’è il Rossotto col mulino, — e indicò nella valle un declivio di praterie e di macchie. — Laggiú fanno la festa, dietro la Stazione. Quest’anno è già stata. C’erano i fuochi artificiali. Li abbiamo veduti con la mamma dal terrazzo...

Le chiesi chi lavorava la terra. — Chi? — Si fermò stupita. — I contadini, — disse.

— Credevo tu e le tue sorelle col babbo.

Dina fece un ghignetto e mi guardò dubbiosa. — Oh proprio, — disse. — Non abbiamo tempo. Noi dobbiamo pensare se hanno fatto i lavori. Papà li comanda, e poi vende i raccolti.

— E a te piacerebbe lavorare la terra? — dissi.

— Fa venir neri, è un lavoro da uomini.

Quando uscii dal negozio, uno scantinato che sapeva di zolfo e carrube. Dina mi aspettava seria seria.

— Tante donne prendono il sole al mare, — dissi. — È di moda annerirsi. L’hai già veduto il mare?

Dina parlò di queste cose per tutta la strada. Disse che al mare ci sarebbe andata sposandosi, non prima. Il mare è un posto dove soli non si va, e chi poteva portarcela adesso? Oreste no, era un giovanotto.

— La mamma.

La mamma, disse Dina, era troppo all’antica. Diceva che per fare qualcosa bisogna prima sposarsi.

— Andiamo a vedere la chiesa? — dissi allora. La chiesa era in piazza, grande, di pietra bianca, con angeli e santi nelle nicchie. Sollevai la portiera e Dina sgusciò dentro, e si segnò e s’inginocchiò. Ci guardammo intorno un momento, nell’ombra fresca e colorata. In fondo biancheggiava l’altare come un pezzo di torrone, e molti fiori e un lumicino.

— Chi porta i fiori alla Madonna? — bisbigliai.

— Le bambine.

— E raccogliere i fiori in campagna non fa venir neri? — dissi piano.

Mentre uscivamo c’imbattemmo sulla porta in una vecchia, la Giustina. Si scostò contegnosa, mi riconobbe, riconobbe la bimba, e strinse le labbra in un brusco sorriso. Approfittai del suo [p. 179 modifica]stupore per discendere i gradini. Ma la Giustina non stava piú in sé, e si voltò e mi disse dietro:

— Ecco, questo è ben fatto. Prima cosa, Dio. L’ha già veduto l’arciprete?

Balbettai ch’ero passato per semplice curiosità, senza intenzione.

— Cosa sento, — mi disse, — non c’è da vergognarsi. Ha fatto una cosa ben fatta. Niente rispetto umano. Mi ha troppo consolata...

La lasciammo sui gradini, e traversando la piazza Dina mi disse che la vecchia era sempre in canonica, a tutte le ore, e piantava i lavori di casa, un bucato, una pentola, una cottura, pur di non perdere un giro di funzioni. — Se tutte facessero come te, — le diceva la mamma, — dove andrebbe la casa?

— In Paradiso, — rispondeva la Giustina.

Altre cose avvennero quel giorno, altri incontri, e la sera mangiammo e bevemmo e girammo il paese sotto le stelle. Ci pensai l’indomani, disteso nudo nella pozza sotto il sole feroce, mentre Oreste e Pieretto sguazzavano come ragazzi. Nell’afa estuosa della buca vedevo il cielo scolorito dal riverbero, e sentivo la terra tremare e ronzare. Pensavo a quell’idea di Pieretto che la campagna arroventata sotto il sole d’agosto fa pensare alla morte. Non era sbagliato. Quel brivido di starcene nudi e saperlo, di nasconderci a tutti gli sguardi, e bagnarci, annerirci come tronchi, era qualcosa di sinistro: piú bestiale che umano. Scorgevo nell’alta parete dello spacco affiorare radici e filamenti come tentacoli neri: la vita interna, segreta della terra. Oreste e Pieretto, piú avvezzi di me, si voltolavano, saltavano, discorrevano. Presero in giro anche i miei fianchi ancora pallidi, infami.

Nessuno poteva sorprenderci là dentro, perché le melighe scosse fanno uno scroscio rumoroso. Eravamo sicuri. Oreste, disteso nell’acqua, diceva: — Prendete il sole dappertutto. Diventeremo come i tori.

Era strano pensare di laggiú al mondo in alto, alla gente, alla vita. La sera prima eravamo andati per il paese, al muricciolo della piazza, riscaldati dal vino e dal fresco, e avevamo salutato e riso, incontrato gente, sentito cantare. C’era un crocchio di giovani, che gridavano saluti a Oreste; c’era il parroco che passeggiava nell’ombra e ci teneva d’occhio. Parole e scherzi scambiati sotto le [p. 180 modifica]stelle, senza vederci bene in faccia, con una donna, con un vecchio, con qualcuno di noi, mi avevano dato una strana allegria, un senso festoso e irresponsabile, che gli assalti del vento tiepido, il dondolio delle stelle e dei lumi lontani, allargavano a tutto l’avvenire, alla vita. I bambini sulla piazza si rincorrevano assordanti. Avevamo fatto progetti, fatto il nome di borghi disseminati sulle coste e sui ciglioni, parlato dei vini da bere, dei piaceri che ci attendevano, della vendemmia.

— A settembre, — disse Oreste, — andremo a caccia.

Allora mi ero ricordato di Poli. [p. 181 modifica]





XI.

Ne avevamo parlato subito, alla voce dei grilli.

— Il Greppo è laggiú, — diceva Oreste, — dove c’è quel mucchietto di stelle. Affiora appena sull’orlo dell’altopiano. Al primo sole s’intravede la punta dei pini...

— Andiamoci. Avanti, — disse Pieretto.

Ma Oreste disse che di notte non valeva la pena e che Poli era certo ancora in Riviera.

— Se stavolta non ci resta, — disse Pieretto.

— Stava bene. A quest’ora è guarito...

— Gli avrà sparato qualche altra.

— Deve toccare sempre a lui?

— Come, — gridò Pieretto nel vento, — non sai che quello che ti tocca una volta si ripete? che come si è reagito una volta, si reagisce sempre? Non è mica per caso che ti metti nei guai. Poi ci ricaschi. Si chiama il destino.

Di Poli si riparlò a tavola il giorno dopo, quando risalimmo dal pantano. Oreste disse alla cerchia delle facce: — Sapete chi ho visto quest’anno?

Quand’ebbe raccontata la storia del ferimento, e Rosalba, la macchina verde, le corse notturne, in un baccano concitato di avide domande e esclamazioni, la madre disse, nella pausa incredula:

— Un bambino cosí bello. Me lo ricordo quando passavano in carrozza coi parasoli aperti. Lo portava la balia vestita di pizzo, con gli spilloni... Era l’anno che aspettavo Oreste.

— Sei sicuro che è Poli del Greppo? — disse il padre, brusco.

Oreste ricominciò da quella notte in collina. [p. 182 modifica]

— E chi è questa donna? — chiese la madre, pallida.

Le bambine ascoltavano a bocca aperta.

— Mi dispiace per il padre, — disse il padre di Oreste. — Un uomo ch’era il padrone di Milano. Ecco alle volte come finiscono i soldi.

— Macché finire, — disse Pieretto, — ci vuol altro. Il padre ha messo a posto tutto. Sono fatti che succedono nelle buone famiglie.

— Non qui da noi, — disse Oreste.

La vecchia Giustina intervenne. Era stata sin allora in ascolto, pronta come un falchetto, guardando dall’uno all’altro.

— Ha ragione il signore, — disse dardeggiando Pieretto, — dappertutto si fanno questi peccati. Se invece di lasciarli in libertà come i cani, padre e madre comandassero ai figli, gli chiedessero conto...

Continuò un pezzo. Se la prese di nuovo col ballo e coi bagni di mare. Qualche parola della sorella, qualche occhiata in direzione delle bimbe, di Dina, non bastò a fermarla. Ci riuscí invece la vecchia Sabina, non so se serva, nonna o zia, che dal fondo della tavola chiese, battendo le palpebre, di chi si parlava.

Le gridarono qualcosa. Lei disse allora, risentita, con quella voce stridula, che la casa del Greppo era aperta, che il marito della sarta della Stazione aveva visto passare dei bauli, che non sapeva del ragazzo ma donne lassú ce n’eran certo.

Quel pomeriggio salimmo a San Grato, sul dorso della collina dietro il paese, dove il padre, che dall’ora della siesta era sui beni, ci accolse. I suoi contadini stavano spruzzando di solfato i filari; si aggiravano sotto la canicola curvi, con bluse e calzoni induriti e inzaccherati d’azzurro, pompando dallo zaino di ferro l’acqua cilestrina. I pampini grondavano, le pompe cigolavano. Ci fermammo sopra la grande tinozza, piena dell’acqua innocente, fonda e opaca, come un occhio celeste, come un cielo capovolto. Io dissi al padre ch’era strano dover piovere sui grappoli quella rugiada velenosa: i cappellacci che i contadini portavano eran tutti mangiati. — Una volta, — gli dissi, — facevano l’uva senza tanti bagni. — Va’ a sapere, — disse lui, e gridò qualcosa a un ragazzo che posava una bottiglia nell’erba, — va’ a sapere come facevano una volta. Adesso è pieno di malattie — . Guardò il cielo, dubbioso. — Purché non venga il temporale, — brontolò. — Lava la vigna e bisogna ripassare il solfato. [p. 183 modifica]

Oreste e Pieretto mi chiamarono dall’alto; eran sotto una pianta e facevano salti. — Vada, vada a mangiare le prugne, — mi disse. — Se gli uccelli ne hanno lasciate.

Traversai la stoppia riarsa e li raggiunsi sul cocuzzolo. Sembrava di essere nel cielo. Ai nostri piedi, impiccolita, era la piazza del paese e una giungla di tetti, di scalette, di pagliai. Veniva voglia di saltare di collina in collina, di abbracciar tutto con lo sguardo. Guardai dalla parte del mattino dove finiva l’altopiano, cercai le punte di quei pini. La gran luce s’ingolfava laggiú, nel vuoto tra i versanti, e l’orizzonte tremava. Dovetti socchiudere gli occhi e non distinsi che pulviscolo.

Il padre ci raggiunse saltando sulle zolle.

— È un paese magnifico, — disse Pieretto a bocca piena, — tu Oreste sei matto a non viverci.

— La mia idea, — disse il padre, guardando Oreste, — era che questo giovanotto frequentasse la scuola d’agraria. Diventa sempre piú difficile sfruttare la terra.

— Al mio paese, — interruppi, — si dice che un contadino ne sa piú di un agronomo.

— È buon senso, — disse il padre, — prima cosa la pratica. Ma adesso si fa tutto con la chimica e i concimi, e per studiare da medico, che è una cosa che serve agli altri, tanto valeva fare il passo e imparare a sfruttare i suoi beni.

— È un’agraria anche la medicina, — disse Oreste allegro, — il corpo sano è come un campo che dà frutti.

— Ma se non ti fai furbo non li dà mica a te.

— Ci sono molte malattie della vite? — uscí Pieretto.

Il padre si voltò alla cascina in basso, e scorse l’occhio sui filari, donde si levavano le nuvolette innocenti. — Ce n’è sí, — disse. — La terra degenera. Sarà vero, come dice il suo amico, che una volta la campagna era piú sana, ma il fatto è che adesso, se uno si gira un momento, l’indomani c’è già il malanno...

Senza vederlo, sentii che Pieretto ghignava. — ... La terra è come la donna, — continuava il padre, — voi siete giovanotti ma lo saprete a suo tempo. Tutti i giorni la donna ha qualcosa: ha mal di capo, ha mal di schiena, ha le lune. Ma sí, dev’essere l’effetto del mese, la luna che monta e che cala... — Ci strizzò l’occhio, malinconico.

Pieretto ghignò un’altra volta. — Tu però, — mi assalí brusco, [p. 184 modifica]— cosa racconti che la campagna è cambiata. La campagna la fanno gli uomini. La fanno gli aratri, i solfati, il petrolio...

— Si capisce, — disse Oreste.

Il padre approvò. — ... Non c’è niente di misterioso nella campagna, — disse Pieretto. — Anche la zappa è uno strumento scientifico.

— Non ho mai detto che la terra sia cambiata, — esclamai.

— Dio buono, — aggiunse il padre, — si vede quel che conta la zappa, quando un campo va in gerbido. Non si conosce piú. Sembra il deserto.

Fu la mia volta di guardar Pieretto. Non dissi nulla e ridevo.

Parlò lui. Disse: — Il pantano è un’altra cosa.

— Che cosa?

— Da queste vigne, per esempio. Qui regna l’uomo e laggiú il rospo.

— Ma rospi e bisce sono in tutta la campagna. E i grilli, — dissi, — e le talpe. E le piante sono uguali dappertutto. Di giorno e di notte. In un incolto ci sono le stesse radici che qui.

Il padre ci ascoltò soprapensiero. Disse a un tratto voltandosi: — Per vedere cos’è un incolto bisogna andare nelle terre del Greppo. Dio buono, è tutt’oggi che penso a quel ragazzo e a suo padre. Certe cose si capiscono adesso. Una tenuta che, quando il nonno era vivo, compravano soltanto l’olio e il sale. Brutta cosa aver la terra e non starci... [p. 185 modifica]





XII.

Tutti i giorni scendevamo al pantano e soprattutto la mattina avviandoci si discuteva e si rideva. Era bello sotto certi versanti trovare prati ancora fradici di guazza; a volte, nella buca già rovente, la terra sotto la schiena e le gambe sentiva ancora bagnato e notturno. Adesso sapevamo ogni cantuccio della macchia, ogni luce, ogni strepito o fruscio del mattino. C’era il momento nell’afa quando passava un nuvolone bianco, che l’acqua diventava opaca, e le immagini capovolte della parete, di qualche fiore, del cielo, si facevano piú intense sul risalto dell’ombra.

Quel bagno era adesso per noi quasi un vizio, benché fossimo ormai neri dappertutto. La prima domenica che, invece di andarci, facemmo mezzogiorno davanti alla chiesa tra la folla festiva, prendendo la messa sulla soglia, tra il va e vieni dei ragazzotti e dell’organo e delle campane, mi mancò molto di non essere nudo e schiacciato dal sole e sentirmi la terra sotto. Pensai cose che non dissi a nessuno.

A Pieretto che guardava sornione la nuca d’Oreste, bisbigliai: — Te l’immagini questa gente, nuda al sole come noi?

Non batté ciglio, e tornai ai miei pensieri. Con Oreste ebbi una discussione nella vigna (passavamo i pomeriggi a San Grato, e Pieretto quel giorno era in giro): se esiste nelle campagne un cantuccio, una riva, un incolto dove nessuno abbia mai messo piede, dove dal principio dei tempi la pioggia, il sole e le stagioni si succedano all’insaputa dell’uomo. Oreste diceva di no, non c’è un anfratto né un fondo di bosco che la mano o l’occhio dell’uomo non abbiano disturbato. Almeno i cacciatori, e in altri tempi i banditi, sono stati dappertutto. [p. 186 modifica]

Ma i contadini, i contadini, dicevo. I cacciatori non contavano. Il cacciatore fa la vita della sua selvaggina. Volevo sapere se il contadino come tale era arrivato dappertutto, se dappertutto la terra era stata toccata con mano. Violata, via.

Oreste disse: — Chi lo sa, — ma non capiva. Scosse la testa e mi diede l’occhiata maliziosa di sua madre.

Eravamo seduti sull’argine della vigna e alzando gli occhi si vedevano i tralci oscillare. Guardando una vigna dal basso, che sale verso il cielo, sembra d’essere fuori del mondo. Si hanno ai piedi le zolle calcinate, i fusti contorti, e negli occhi la fuga di festoni verdi, le canne uguali che toccano il cielo. Si fiuta e si ascolta.

— Quel carrettiere che ho veduto alla stazione, — dissi a un tratto, — diceva che le vigne ci sono sempre state.

— Facile, — disse Oreste, — quando le legavano con le salsicce e sotto correva il latte.

— Eppure, — dissi, — perfino le città son sempre state. Magari sporche, magari di paglia, tre baracche, una grotta, ma uomo vuol dire città. Bisogna riconoscere che Pieretto ha ragione.

Oreste alzò le spalle. Era il suo modo di discutere e ne valeva un altro.

— Chi sa, — disse a un tratto, — come gli secca a mezzanotte quando la mamma tira l’uscio. Lui che Torino di notte era sua.

— Qualche notte bisogna che facciamo una sortita, — dissi, voglio vedere come sono le colline con la luna. Ieri ce n’era già una fetta.

— L’abbiamo fatto in mare, il bagno sotto la luna, — disse Oreste. — Sembra di bere latte freddo.

A me non l’avevano mai detto. Mi prese una brusca tristezza. Mi sentii spaesato, e geloso.

— Il tempo passa, — dissi, — quest’uva non matura mai. Quand’è che torniamo a Torino?

Oreste non poteva sentirne parlare. Mi disse che cos’altro volevo: mangiavo, bevevo buon vino, facevo niente tutto il giorno...

— Ma è ben questo. E la tua mamma lavora. Tutti lavorano per noi.

— Ti annoi? — disse Oreste. — Dài troppo disturbo? La zia Giustina ti vuol bene. [p. 187 modifica]

(Ero io che avevo voluto che andassimo a messa; per un riguardo alla famiglia, nient’altro).

— Non andiamo al Mulino quest’oggi?

Tutti i giorni scendevamo dal poggio, nella conca dov’era l’altra cascina; giravamo sull’aia, dietro al rustico; il padre sbucava dai portici e ci offriva da bere. Ma il bello del Rossotto era il taglio del fieno, i prati profondi di trifoglio, i branchi d’oche. Verso sera giocavamo una mano alle bocce coi garzoni, Pale e Quinto; e Oreste andava per affari alla stazione.

— Secondo me, — diceva Pieretto, — qui puzza. Da Genova tutti i giorni impostava.

Oreste, a parlargliene, rideva e scuoteva la testa. E lo stesso sorriso ci fece quando, passando davanti a una casa fiorita di gerani, lungo la ferrata, gridò un saluto, e una voce femminile fresca e allegra gli rispose. Lui ci disse di procedere e scantonò.

— Allora, — fece Pieretto, quando Oreste spuntò sull’aia, — è la figlia del capostazione?

Oreste rise ancora, e non disse parola. Ma c’era, in quella conca del Mulino, qualcosa come un cielo propizio. Perfino all’incrocio del passaggio a livello, dove sostavano i carri e le bestie stallavano, si respirava una diversa gentilezza: le casette e l’aiuola della Stazione facevano pensare a una periferia cittadina, alle sere di maggio in fondo ai viali quando le ragazze passeggiano e folate d’odore di fieno investono la città. Anche i garzoni del Rossotto, por quanto scamiciati e scalzi, sentivano l’effetto dei treni e discorrevano di birra e di corse ciclistiche.

Non birra ma vino bevemmo la sera del taglio del fieno. Il padre di Oreste ci aveva detto: — Venite su prima di notte, — e con la giacca sulla spalla aveva preso la salita. C’era un certo movimento festivo alla Stazione, e Oreste aveva da farsi perdonare un’assenza piú lunga. Dalle cantine del Rossotto venne fuori una bottiglia, poi un’altra. Era un vino che lasciava la bocca sempre piú asciutta. Bevemmo noi tre, sotto il portico che dava sui prati. Non capivo se tanta dolcezza passava dal vino nell’aria o viceversa. Sembrava di bere il profumo del fieno.

— È vino di fragola, — disse Oreste, — dei miei cugini di Mombello.

— Noi siamo scemi, — diceva Pieretto, — cerchiamo giorno e notte il segreto della campagna, e il segreto l’abbiamo qui dentro. [p. 188 modifica]

Poi ci chiedemmo perché mai, mentre a Torino ci piaceva l’osteria, da quando eravamo in campagna non s’era piú presa una sbronza.

— Bisogna che usciamo di notte, — dissi, — non si può mica ubriacarci in casa tua.

— Dài dentro, — diceva Oreste, — adesso siamo a casa nostra.

Il discorso voltò sui cavalli. Al Rossotto c’era un biroccino, giusto per tre, e Oreste disse che bastava attaccarlo e partire sul presto.

— Andiamoci dai miei cugini di Mombello, — disse. — Ho voglia di vederli. Quelli sí sono in gamba. Si parte al mattino e si torna la sera.

— Cosí perdiamo il bagno, — brontolai, — stamattina ne ero sperso.

Pieretto muggí. — Chi se ne sbatte. Io sono stufo di vederti nudo.

— Sei tu che ci perdi, — dissi.

— Ma se sei brutto, — gridò. — Solamente ubriaco potrei ancora tollerare di vederti.

Oreste ci riempí il bicchiere.

— Ecco una cosa, — dissi a un tratto, — che non si può fare. Stare nudi in un bosco e riempirsi di vino.

— Perché no? — disse Oreste.

— Neanche far l’amore in un bosco, si può. In un bosco vero bosco. L’amore e il bere sono cose civili. Quand’ero in barca...

Pieretto interruppe. — Tu non hai mai capito niente.

— Quand’eri in barca... — disse Oreste.

— Avevo insieme una ragazza, e ci stava. Ci sarebbe stata. Ebbene, non ho potuto. Non ho potuto io. Mi pareva di offendere qualcosa o qualcuno.

— È che non sai cos’è una donna, — disse Pieretto.

— Ma nudo, — disse Oreste, — nel pantano ci stai?

Confessai che ci stavo, ma col fiato in gola. — Mi sembra di fare un peccato, — ammisi, — forse è bello per questo.

Oreste annuí sorridendo. Capii che eravamo ubriachi. — La prova, — dissi ancora, — è che sono cose che si fanno di nascosto.

Pieretto disse che si fanno di nascosto tante cose e non sono peccato. È questione di usanza e di buone maniere. Peccato è solamente non capire quel che si fa. [p. 189 modifica]

— Prendi Oreste, — disse. — Lui tutti i giorni di nascosto va a trovare la sua ragazza. È qui a due passi. Non fanno niente di osceno. Discorrono nel giardino, forse si tengono per mano. Lei gli chiede quand’è che avrà dato la laurea e l’avrà tutto per sé. Lui le risponde che è questione di un altr’anno, poi c’è il servizio militare, poi trovare la condotta; tre anni, va bene? e scodinzola e le bacia la treccia...

Oreste, rosso scarlatto, scosse il capo e diede mano alla bottiglia.

— ... E tu dici che questo è peccato? — fece Pieretto scansandosi, — questa scenetta, questo gioco di società, è peccato? Però potrebbe anche fidarsi e parlarcene. Non è un vero amico. Dicci qualcosa, Oreste. Almeno il nome, almeno il nome.

Oreste, rosso, sorrideva. — Un altro giorno, — disse. — Stasera beviamo. [p. 190 modifica]





XIII.

Ma io sapevo già tutto da Dina, che un giorno trovai seduta su uno sgabello in terrazzo e cuciva.

— Allora presto ti sposi, — le dissi.

— Prima tocca a lei, — rimbeccò, — che è un giovanotto.

— Ma i giovanotti hanno tempo, — dissi. — Guarda Oreste che non ci pensa nemmeno.

Seguí un giochetto di botta e risposta, e Dina si godeva il mio stupore. A bassa voce, e con malizia, vuotò il sacco. Mi disse che Oreste parlava con Cinta; i suoi di Cinta lo sapevano ma qui in casa nessuno; Cinta era figlia del cantoniere e lavorava con la sarta; era brava, si faceva i vestiti da sé, e girava in bicicletta. Sapeva perfino, Dina, che siccome il padre di Cinta si zappava lui la vigna, Oreste era costretto in paese a far finta di scherzare soltanto.

— È carina? — le dissi, — ti piace?

Dina alzò le spalle. — Per me. Deve sposarsela Oreste.

E fu Dina che s’accorse, la sera del fieno, che eravamo bevuti.

— Stasera con Oreste si è parlato di Cinta, — le fiatai sugli scalini dov’eravamo seduti sotto lo spicchio di luna.

E lei fissandomi con gli occhi grandi: — Avete aperto una bottiglia? Quante?

— Come lo sai?

— Tutto il tempo della cena ha coperto il bicchiere con la mano.

Mi chiedevo che sorta di donna sarebbe diventata la piccola Dina. Guardavo le vecchie, Giustina, le altre, la madre di Oreste; le confrontavo con le ragazze del paese che si vedevano ai lavori, gambe solide, brune, facce tozze, di buon sangue. Era il vento, la collina, il sangue spesso, a farle cosí dure e tarchiate. A volte, [p. 191 modifica]mentre bevevo o mangiavo — minestre, carne, peperoni, pane — mi chiedevo che effetto mi avrebbe fatto dentro il sangue quel cibo ruvido e ricco, quei succhi terrestri ch’eran gli stessi che passavano nel vento. Eppure Dina era bionda, minuta, una vespa. Anche Cinta, pensavo, doveva esser fragile e slanciata, una vite. «Forse mangia soltanto pane e pesche».

Venne un temporale che flagellò la campagna e rose le strade, per fortuna senza grandine. Fu il mattino che dovevamo partire col biroccio. Lo passammo in casa, da una finestra all’altra, fra donne e bambine che correvano e gemevano sotto i lampi. Il padre s’era messo gli stivali ed era subito uscito. Il crepitio dei sarmenti nel camino sbatteva in cucina una luce rossastra, che dava riflessi fantastici ai festoni di carta colorata, alla batteria di rame, alle stampe della Madonna e al ramulivo appesi al muro. Dai pezzi di coniglio sul tagliere insanguinato veniva un odore di basilico e di aglio. Tremavano i vetri. Qualcuno, di sopra, urlava di fermare le finestre. — E Giustina che è fuori! — gridavano sulla scala. — Figurarsi, — udii la voce della madre, — quella il riparo ce l’ha sempre.

Venne un momento di strana solitudine, quasi di pace e silenzio, nel diluvio. Mi fermai sotto la scala dove dal lucernario accecato volavano gocciole e odor d’acqua. Si sentiva la massa dell’acqua, quasi solida, cadere e muggire. Immaginavo le campagne fumanti e inondate, il pantano ribollente, le radici scoperte, e gli anfratti piú gelosi della terra penetrati e violati.

Finí com’era cominciato, d’un tratto. Quando uscimmo sul terrazzo con Dina, con le altre — dappertutto in paese si sentiva vociare — il cemento seminato di foglie aveva già chiazze d’asciutto. Tirava un vento di vallata, schiumoso, e le nuvole galoppavano. Il mare delle colline, quasi nero, pezzato di crete biancastre, pareva piú accosto del solito. Ma non le nuvole, non l’orizzonte mi stupirono. M’investí un sentore folle di fradicio, di frasche, di fiori schiacciati, un odor acre, quasi salso, di fulmine e di radici. Pieretto disse: — Che delizia! — Perfino Oreste respirava e rideva.

Quel mattino non andammo al pantano ma il padre ci chiamò a San Grato, a vedere i danni. C’era stata lassú strage di frutta e qualche tegola rotta. Insieme alle bambine raccogliemmo dal fango grandi cavagni di mele e di pesche inzaccherate. Tirammo su qualche tralcio abbattuto. Era bello vedere certi fiorellini minuti, sulle zolle sfatte della vigna, che al riprendersi del sole già si ergevano [p. 192 modifica]gracili, miracolosi. Il sangue spesso della terra era capace anche di questo. Tutti dicevano che presto i boschi si sarebbero riempiti di funghi.

Non andammo per funghi. Andammo invece l’indomani dai cugini di Oreste. Dalla Stazione, per una strada traversa, il cavallino ci portò sotto una costa quasi piana, di meliga e meliga, qualche boschetto, e ancora meliga. Il sole mattutino aveva già fatto miracoli. Non fosse stato per la durezza scabra della strada e l’odore del vento, nessuno avrebbe detto del giorno avanti. Correvamo tra i campi, per l’insensibile salita, ora sotto l’ombra leggera delle gaggie, ora incassati tra le canne.

La cascina era in fondo all’altopiano, tra basse colline, sperduta tra i canneti e le querce. Ci arrivammo che ogni tanto mi voltavo, perché poco prima, usciti da una strettoia di pietroni, Oreste aveva detto, indicando il cielo: — Ecco il Greppo — . A fiore delle viti che salivano al cielo, vidi un enorme versante boscoso, scuro d’umidità. Sembrava disabitato, non un campo né un tetto.

— Sarebbe quella la tenuta? — borbottai.

— La villa è in cima, nascosta dagli alberi. Di là si vedono i paesi di pianura.

Bastò un avvallamento per nascondere il Greppo e arrivammo alla cascina, che ancora lo cercavo tra gli alberi.

Dapprima non capii l’entusiasmo di Oreste per i due cugini. Erano uomini fatti, uno perfino brizzolato, vestiti con camicia a quadretti e fustagno, dalle mani grosse e villose, che uscirono in cortile e senza stupirsi ci fermarono il cavallo.

— È Oreste, — dissero.

— Davide! Cinto! — gridò Oreste, buttandosi a terra.

Tre cani da caccia ci corsero addosso, un po’ ringhiando un po’ saltando intorno a Oreste. Era un grande cortile di terra bruna, quasi rossa, come le vigne che avevamo attraversato. La casa era di pietra, sfumata di verderame per via di certe viti a spalliera. Una finestra a pianterreno era nera, vuota.

Prima cosa, il cavallo venne condotto all’ombra sotto le querce, e li lasciato a scalpitare e calmarsi.

— Siamo medici? — chiese Davide alzando l’occhio.

Oreste gli spiegò con calore chi eravamo.

— Andiamo al fresco, — disse Cinto incamminandosi.

La giornata finí che bevevamo ancora, e agosto ha i giorni [p. 193 modifica]lughi. Di tanto in tanto uno dei due si alzava, spariva in una specie di grotta e risaliva con un vetro piú nero. Andò che scendemmo in cantina anche noi, e qui Davide ci empiva alla botte il bicchiere appannato, forando il mastice e tappandolo col dito. Ma questo fu nel pomeriggio. Nel frattempo avevamo girato la casa e le vigne, mangiato un pranzo di polenta, salame e poponi, intravisto donne e bambini nel buio. La stanza era bassa, rustica come una stalla; si usciva fuori e si vedevano gli storni a nuvolaglia levarsi sui campi punteggiati di querce.

Di fianco alla stalla c’era un pozzo, e Davide tirò su un secchio d’acqua, ci buttò dentro dei grappoli d’uva bianca, e ci disse di mangiare. Pieretto, seduto su un ceppo di legno, rideva come un bambino; parlava sempre a bocca piena. Cinto, il meno anziano dei due, si aggirava intorno al pozzo, ascoltava i discorsi, guardava compiaciuto il cavallo.

Parlammo di tutto, quel giorno; vale a dire, di raccolti, di caccia, del temporale, dell’annata.

— Sarete chiusi, qui d’inverno, — avevo detto. — State in basso.

— Se fa bisogno, andiamo in su, — disse Davide.

Oreste disse: — Non sai che l’inverno è la loro stagione. Sai quant’è bello andare a caccia sulla neve?

— Per bello è bello tutto l’anno, — aggiunse Davide. — Quando s’imbrocca la giornata.

Sembrò che le cagne capissero. S’eran levate e ci guardavano inquiete.

— Ma qui nessuno vi controlla, — disse Pieretto, — chi sa quante lepri fate fuori in agosto.

— Ditelo a Cinto, — sbottò a ridere Davide, — ditelo a Cinto che tira al fagiano.

Fu allora che Oreste levò il capo come fiutasse. — Ci sono sempre i fagiani alle Coste? — Cercò Cinto con gli occhi e cercò Davide. — Lo sapete che a Poli del Greppo hanno tirato come a un fagiano?

I due ascoltarono pacati. Mentre Oreste raccontava con foga, Davide gli versò da bere. M’accorsi, ascoltando, che la storia, ormai vecchia, aveva un’aria inverosimile, stonata. Che cosa c’era di comune con quel vino, quella terra, quei due?

Quando Oreste ebbe finito, guardò i fratelli e guardò noi. — Non hai detto che prende la coca, — commentò Pieretto.

— Ah sí, — disse Oreste, — non ha mica piú il cervello a posto. [p. 194 modifica]

— Saprà lui quello che fa, — disse Davide, — meno male che adesso è in piedi.

— Non sappiamo se è tornato al Greppo, — disse Oreste.

— C’è sí, — disse Cinto pacato, — vanno a far spesa ai Due Ponti.

— Cosa dice il guardiano? — chiese Oreste scosso.

Cinto mostrò i denti, sornione. Disse Davide per lui: — C’è stata questione per delle canne. Con tanta piuma che gli abbiamo fatto fuori, quello tiene alle canne. Ma sai com’è... Non ci si parla. [p. 195 modifica]





XIV.

Partimmo sotto la luna, nell’aria fresca della sera. Dispiaceva lasciare quell’isola, quell’immensa campagna rossa, le viti magre e nere sotto le querce.

— Andiamo che annotta, — disse Oreste.

Il cavallino partí come un cane da caccia. Mentre filava sotto un albero di mele. Pieretto alzò la mano e ce ne cadde addosso una grandine. — Ehilalà! — gridavamo, schioccando la lingua. — Hai mai bevuto tanto vino, — diceva Pieretto, — e portarlo cosí? — Quando si beve all’aria aperta e sul posto, — disse Oreste, — non c’è verso di ubriacarsi.

Poi strizzarono l’occhio e mi dissero: — Tu che in campagna non vuoi bere o far l’amore... cosa dici?

Scacciai la questione come si scaccia una mosca. — Mi piacciono quei due, — dissi nel vento della corsa.

Allora parlammo di Davide e Cinto, dei vini, dell’uva nel secchio, di com’è bella la vita genuina.

— Quel che è grande, — diceva Pieretto, — è come tengono le donne. Noi fuori a bere e raccontarcela, e quelle e i marmocchi in cucina che non rompano l’anima.

Il sole radeva le vigne, e cavava un rossore, un’ombra ricca, da ogni zolla e da ogni tronco.

— Intanto lavorano, — dissi, — la fanno loro questa terra.

— Tu Oreste sei scemo, — diceva Pieretto. — Che Torino. Che sala anatomica. Devi sposarti quella tale e lavorarti le tue terre in pace...

Oreste, con gli occhi fissi alla nuca del cavallo, seguendo col [p. 196 modifica] mento la curva della strada, disse calmo: — Chi ti dice che non voglio far cosí... Dammi tempo.

— Che gente siete... — osservai. — Avete padri che vi vogliono uno frate e l’altro agronomo. Non volete saperne, li fate dannare; e finirete, tu Pieretto, ateo ma frate, e tu Oreste, medico condotto in campagna.

Pieretto sorrise compiaciuto. — Un padre va sempre aiutato, — disse. — Bisogna insegnargli che la vita è difficile. Se poi, com’è giusto, tu arrivi dove lui voleva, devi convincerlo che aveva torto e che l’hai fatto per suo bene.

— Davvero, — chiesi a Oreste, — sposerai la ragazza?

— Non parla, non parla, — disse Pieretto. — Ha la scusa che siamo ubriachi.

Era bella la luna, tra bianca e gialla nella sera, e cominciavo a pensare al suo raggio notturno sull’immenso paese, sulla terra, sulle siepi. Mi ricordai del versante del Greppo ma lo vidi sparire alle nostre spalle nell’aria pura. «Eran quelle le Coste?» stavo per dire, ma proprio allora Oreste parlò.

— Si chiama Giacinta, — disse senza guardarci. Poi, gridando e agitando la frusta: — Dio buono, quest’anno ammattisco.

La notte prima, lui e Pieretto non potevano dormire e s’eran messi a riandare la vita di spiaggia. Oreste aveva raccontato che le basse colline, tra cui adesso si correva, gli erano parse fin da bimbo un orizzonte marino — un misterioso mare di isole e lontananze dove dall’alto del terrazzo lui si tuffava in fantasia. — Tanta voglia avevo allora di andare, di prendere il treno, di vedere e di fare. Adesso sto bene qui. Non so nemmeno se il mare mi piace.

— Però ci stavi come un grillo, — disse Pieretto.

Arrivammo che cantavamo e, dopo l’ultimo pezzo a piedi, intenzionati di ribere. Queste cose le donne le capiscono e ci misero un tavolino sul terrazzo e una bottiglia. — Ma sí, — disse la madre, — fate la cura della luna. La luna ne ha sentite già tante.

Non c’era vento, il paese dormiva, soltanto i cani abbaiavano chi sa dove. Fu la notte di Oreste, raccontò tutto di Giacinta. Quando la luna tramontò e cantò il gallo. Pieretto disse: — Porco cane. Hai messo voglia anche a me.

L’indomani era domenica. Come passano le settimane. Gironzammo un’altra volta in piazza, tra gli uomini buffi e le ragazze velate che facevano pensare al gran sole e al pantano. Prendemmo [p. 197 modifica]la messa cosí, guardando il cielo. Io mi chiedevo se a Mombello i due cugini taciturni erano gente da far festa, se interrompevano la loro vita — l’aia, la terra, la grotta del vino — per mescolarsi all’altra gente. La loro festa era la caccia, l’attesa paziente, la solitudine dei crepuscoli. Quando la chiesa si vuotò, guardavo le teste a una a una, se ritrovassi un altro sguardo, un altro piglio cosí sornione, cosí pacato e selvatico insieme. Uscirono le nostre donne. La Giustina ci scrutò avidamente, strattonando le bambine, e cominciò la discussione.

Voleva sapere perché venivamo a messa se poi la perdevamo stando fuori sul sagrato.

— Cos’è il sagrato? — disse Oreste.

Pieretto la disse piú grossa. Spiegò che tutto il mondo è la chiesa di Dio e che perfino san Francesco s’inginocchiava nella selva.

— San Francesco era un santo, — ringhiò Giustina, — credeva in Dio.

— In chiesa, — disse Pieretto, — vanno quelli che non credono in Dio. — Non mi dirà che l’arciprete crede in Dio, — dichiarò, — con quella faccia.

Intorno a noi si discuteva di feste e di fiere imminenti, perché il culmine d’agosto è un tempo vuoto, in cui la campagna, tra grano e vendemmia, dà respiro e i contadini si muovono, contrattano, se la godono e lasciano correre. Dappertutto era festa e si parlava di andarci.

— Il culto, — diceva Giustina, — il culto. Se non si rispettano i ministri del culto, non si è cristiani né italiani.

— Religione, — disse il padre di Oreste, — non è soltanto andare in chiesa. Religione è una cosa difficile. Si tratta di allevare dei figli, mantenere una famiglia, vivere d’accordo con tutti...

E Giustina a Pieretto: — Allora, sentiamo da lei, — strillò, cos’è religione?

— La religione, — disse Pieretto fermandosi, — è capire come vanno le cose. Non serve l’acqua benedetta. Parlare con la gente, bisogna, capirli, sapere quel che ognuno vuole. Tutti vogliono qualcosa nella vita, vogliono fare qualcosa che non sanno mai bene. Ebbene, per ognuno in questa voglia c’è Dio. Basta capire e aiutare a capire...

— E quando sei morto, — disse Oreste, — che cosa hai capito? [p. 198 modifica]

— Maledetto becchino, — disse Pieretto. — Quando si è morti non si hanno piú voglie.

Continuarono a tavola e dopo. Pieretto disse che ammetteva i santi, che anzi non c’erano che santi, perché ciascuno nella sua voglia è come un santo, e se solo lo lasciassero fare darebbe dei frutti. Invece i preti si sono attaccati a qualche santo piú famoso e dicono «Si fa come lui. Basta lui per salvarci» e non tengono conto che al mondo non ci sono due gocce d’acqua uguali e che ogni giorno è un altro giorno.

Ormai la Giustina taceva lanciandogli occhiate. Alle quattro eravamo seduti sul terrazzo prendendo il caffè, e dal mare ardente della campagna salivano voci spente, fruscii, guizzi di vento. Dall’ombra dov’eravamo si vedevano i versanti delle valli, grandi fianchi come di mucche accovacciate. Ciascuna collina era un mondo, fatto di luoghi successivi, chine e piane, seminati di vigne, di campi, di selve. C’erano case, ciuffi di bosco, orizzonti. Dopo tanto guardare si scopriva ancor sempre qualcosa — un albero insolito, un giro di sentiero, un’aia, un colore non visto. Il sole, da ponente, dava risalto a ogni minuzia, e anche lo strano corridoio marino, la nube vaga del Greppo, era piú tentante del solito. Dovevamo andarci l’indomani, sul biroccio, e per far notte ogni discorso era buono. [p. 199 modifica]





XV.

Anche la collina del Greppo era un mondo. Ci si veniva per le Coste, per conche e pendii solitari, oltre il paese delle querce. Quando fummo sotto il versante, vedemmo gli alberi neri e luminosi della cresta stagliati contro il sole. Da una svolta a mezz’altezza Oreste ci mostrò, nella campagna che avevamo percorso, fin dove arrivavano le terre di Poli. Eravamo scesi dal biroccio che ci seguiva a passo d’uomo, per una strada molto piú larga del viottolo di prima. Questa larga strada — ancora qua e là asfaltata — tagliava i versanti selvatici, fitti di rovi e tronchi, tutta tufi e strapiombi. Ma quello che stupiva era il groviglio, l’abbandono: dopo qualche vigna deserta, mangiata dall’erba, nella selva s’accavallavano piante da frutto, fichi e ciliegi coperti di rampicanti, salici e gaggie, platani, sambuchi. All’inizio della salita c’era un bosco di grandi càrpini e pioppi tenebrosi, quasi freddi; poi via via che uscimmo nel sole la vegetazione si alleggeriva ma alle forme familiari s’intromisero piante insolite come leandri, magnolie, qualche cipresso, e tronchi strani che non avevo mai visto, in un disordine che dava alle casuali radure l’aria di solitudini esotiche.

— È questo che tuo padre diceva? — chiesi a Oreste.

Mi rispose che il vero incolto l’avevamo già passato, la piana boschiva e arativa dove tutti pascolavano e facevano legna a piacimento. — Qui l’idea era di fare una riserva. Vedi che strada ci han tagliato. Ai tempi del nonno di Poli ci venivano brigate di signori. Ma allora la piana era lavorata, e il vecchio girava col fucile e il frustino giorno e notte. Papà l’ha conosciuto. Era di laggiú.

Mi colpí subito il sentore dell’aria, un misto di fermenti vegetali riarsi, terra e sole, e il fiato ardente dell’asfalto. Era un odore [p. 200 modifica]che sapeva d’automobile, di fuga, di strade costiere e giardini sul mare. Da un ciglione sopra la strada pendevano zucche pallide che riconobbi per pale di ficodindia.

Sbucammo in cima tra i cespugli, e qui la macchia si faceva parco vero, una pineta che chiudeva la villa. Adesso sotto i piedi avevamo ghiaietta, e in mezzo ai tronchi si vedeva il cielo.

— Sembra un’isola, — disse Pieretto.

— Un grattacielo naturale, — aggiunsi.

— Cosí com’è, — disse Oreste, — non serve a nessuno. Ci starebbe una clinica, una clinica moderna, con tutti gli impianti. A due passi da casa, vuoi mettere?

— L’odore di morto c’è già, — disse Pieretto.

Il mucido usciva da una vasca a fior di terra, larga e lunga una decina di metri, con qualche masso nel centro, e un’acqua verde, stagnante, cosparsa di fiorellini bianchi.

— Hai anche la piscina, — dissi a Oreste, — ci butti i morti e li ritrovi vivi.

Tra i pini s’intravedeva il bianco della casa. — Fermiamoci qui, — disse Oreste, — vado a esplorare.

Restammo soli col cavallo, e guardavo, tacendo, lo strano cielo fra i tronchi. La mia speranza era che Poli non ci fosse, non ci fosse nessuno, e fatto un giro per il parco tornassimo a casa. L’odore della vasca mi aveva ricordato il pantano, e messo in cuore nostalgia di paese conosciuto. Se mai, scendendo, avrei voluto dare ancora un’occhiata alla boscaglia, che aveva di bello quel selvatico abbandono.

— Chi cercano? — disse una voce chiara.

S’era accostata fra i tronchi, furtiva, in camicetta e calzoncini bianchi, una ragazza bionda, dagli occhi duri.

Ci guardammo. Era evidente nella voce la signora. In quel momento cavallo e biroccio mi parvero ridicoli.

— Cerchiamo Poli, — disse Pieretto, con un sorriso, — siamo...

— Poli? — la donna alzò le ciglia, quasi offesa. Per non guardarle le gambe, dovetti guardare da parte, e in tutti i modi mi sentivo un villano.

— Siamo amici di Poli, — disse Pieretto, — l’abbiamo conosciuto a Torino. Ci dica come sta.

Neanche questa non piacque alla donna, che cambiò la smorfia in un sorriso seccato e ci guardò impaziente. [p. 201 modifica]

In quel momento piombò Oreste dal viale, esclamando agitato: — C’è Poli e c’è sua moglie. Chi sapeva che aveva una moglie...

Si fermò, vedendo l’altra.

— L’hai trovato? — disse Pieretto con calma.

Oreste, rosso, balbettò che il giardiniere era andato a cercarlo. Guardava da noi alla donna. Esitava.

— Si fa per discorrere, — disse Pieretto.

D’improvviso la bionda si rabboní. Sogguardò con malizia e ci tese la mano. Era tutt’altro che sostenuta. — Gli amici di mio marito sono anche i miei, — disse ridendo. — Ecco Poli che arriva.

Ho ripensato tante volte a quell’incontro, al rossore d’Oreste, alle giornate che seguirono lassú. Mi era subito venuta in mente la ragazza Giacinta, non so perché, ma Giacinta era bruna. Anche l’idea che quel Poli avesse moglie, lí per lí mi disturbò. Tutto il nostro passato con lui diventava proibito, un inciampo. Di che cosa potevamo piú parlare? Nemmeno chiedergli come stava suo padre.

Ma Poli ci accolse con quel calore esagerato, un poco assurdo, che gli era solito. Non pareva gran che cambiato, era grassoccio, sguardo tenero, infantile. Portava la corta camicia fuori dei calzoni, e aveva al collo una catenina. Ci disse subito che dovevamo trattenerci, restare con lui giorno e notte, fargli del bene discorrendo a lungo.

— Ma non sei in luna di miele? — disse Pieretto.

I due sposi si guardarono, e guardarono noi. Poli sorrise, divertito. — Il miele gli dà l’orticaria, — disse la donna compunta. — È acqua passata. Siamo qui per annoiarci. Gli faccio compagnia e un po’ da infermiera.

— La ferita dovrebbe essere chiusa, — disse Oreste. Pieretto sorrise.

Allora Oreste ci capí, si morse il labbro, e balbettò:

— Uomo a posto, tuo padre. Però gli hai fatto i capelli bianchi...

La donna disse: — Avrete sete. Accompagnali, Poli. Verrò subito.

Cosí nell’alta stanza a vetrate, piena di tende e di poltrone. Poli continuò a farci festa e sospirare di piacere, e alla domanda di Pieretto se la moglie era al corrente, disse di sí con semplicità. — C’è stato un tempo che con Gabriella ci dicevamo ogni cosa. Mi ha molto aiutato, povera bambina. Abbiamo fatto i pazzi insieme per [p. 202 modifica]il mondo. Poi la vita ci separò. Ma questa volta siamo stati d’accordo di passare l’estate insieme come i ragazzi che un tempo eravamo. Abbiamo dei comuni ricordi...

Pieretto lo stava a sentire con evidente cortesia. Chi non si tenne fu Oreste che sbottò: — Ma che cosa facevi a Torino, se eri sposato?

Poli lo guardò con disgusto, quasi con paura. Disse soltanto: — Non si fa sempre quel che gli altri vorrebbero.

Ci raggiunse Gabriella e aprí l’armadio dei liquori. Era un armadio imbottito di vetro che aprendolo s’illuminava. Parlammo del Greppo. Io dissi che era molto bello lassú e che capivo passarci la vita girando nella selva.

— Sí, può piacere, — disse lei.

— Che cosa fate, — disse Pieretto, — dal mattino alla sera?

Gabriella si stirò sulla poltrona, cosí com’era, a gambe nude. — Si prende il sole, si dorme, si fa ginnastica... Non si vede nessuno — . Non potevo abituarmi a quella faccia imprevedibile, nera di sole e maliziosa. Era giovanissima, doveva esser giovane piú di Poli, ma aveva a tratti nella voce inflessioni rauche che mi colpirono. Sarà il bere, pensavo, o sarà il resto?

— Noi facciamo una colazione fredda, — ci disse ridendo. — Marmellata, biscotti. Il pranzo serio sarà stasera.

Protestammo che ci aspettavano a casa. Che il cavallo aspettava. Dovevamo rientrare prima di notte.

Poli restò soprapensiero, contrariato. Disse a Pieretto che s’era fatta una festa di averci con lui, e che aveva tante cosa da dirci. Disse alla moglie di dar ordine di prepararci le stanze di sopra.

Discutemmo e tenemmo duro, scherzando. A me quell’insistenza seccava e pensavo, sogguardando Oreste, alla strada del ritorno, alla finestra che l’aspettava alla Stazione, al crepuscolo. Poli disse: — Che importa la casa dove vivete? Perché mi trattate cosí?

Gabriella alzò con garbo il bicchiere, lo guardò costernata e disse: — Tanto v’interessano i polli e i balli pubblici?

Rise anche Poli. Restammo intesi che saremmo tornati l’indomani per fermarci piú a lungo. [p. 203 modifica]





XVI.

Ci vollero due giorni per convincere la famiglia di Oreste a lasciarci tornare lassú. — Non state bene qui da noi? — disse il padre. Le donne — scure in faccia — tennero conciliabolo a tavola. Soltanto la notizia che Poli era sposato rabboní la madre, e allora i discorsi deviarono sul nuovo aspetto che l’avventura di Poli assumeva, e ci si chiese se la moglie non fosse, com’era suo compito, disfatta dal dolore e insieme ferma e risoluta a non mollare.

— Lei se ne infischia. Prende il sole, — disse Oreste.

— Queste cose succedono quando si vive separati.

— Ma se due si separano, — disse il padre, — è perché c’è già qualcosa.

Oreste seccato concluse che la colpa era tutta dei soldi. — Se non hai troppi soldi, allora studi o lavori, e non hai tempo per i grilli. Dunque andiamo o non andiamo?

Partimmo in biroccio e non era deciso se Oreste si sarebbe fermato con noi. Nei commiati di quel primo pomeriggio Gabriella aveva detto ch’era un peccato non poter venire a prenderci in macchina, e Poli, chiotto, che suo padre gliel’aveva sequestrata perché non corresse pericoli e si riposasse davvero. Riattraversammo la campagna, i boschetti di querce, le siepi sfondate. Rividi i càrpini, la selva della costa. Nel mattino tutto era lucido e stillante. La grossa collina di cespugli ci viveva intorno inselvatichita, solitaria in un ronzio d’api, come un monte d’altri tempi. Cercai con gli occhi le radure abbandonate. Pieretto disse ch’era indegno che una intera collina appartenesse a un uomo solo, come nei tempi che una sola famiglia aveva il nome di un paese. Uccelli volavano. — Fanno parte della terra anche loro? — borbottai. [p. 204 modifica]

Sul ripiano dei pini trovammo novità. Sedie a sdraio e bottiglie e cuscini abbandonati sul prato. Il giardiniere si occupò del cavallo, lo condusse nella rimessa; la Pinotta, ragazza rossa e imbronciata, che ci aveva già serviti in tavola una volta, restò sulla porticina della serra e ci osservò senza uscire nel sole.

— Dormono, — rispose puntando il mento in su. Dalla serra veniva un colar d’acqua sullo zinco.

— Quante bottiglie, — disse Pieretto conciliante. — Hanno bevuto come porci. C’è stata festa ieri sera?

— Sono venuti da Milano in tanti, — borbottò la ragazza, respingendosi i capelli col braccio. — Hanno ballato fino a giorno e hanno fatto la battaglia dei cuscini. Che disastro. E loro si fermano?

— I milanesi dove sono? — disse Oreste.

— Sono venuti e ripartiti in automobile. Che gente. Una donna è caduta dalla finestra.

Il mattino era fresco sul bosco dei pini. Fumammo una sigaretta, in attesa. Nessuno in casa si muoveva. Andai ad appoggiarmi a un tronco e mi scrutavo la pianura. Bevemmo il fondo di una bottiglia di liquore ch’era rimasto, e chiedemmo alla Pinotta di aprirci la veranda.

Fu qui che Poli e Gabriella ci trovarono. Si annunciarono con chiasso, la Pinotta corse su per le scale, sentimmo voci, campanelli e sbattere porte. Finalmente scese Poli, in pigiama, balbettante e arruffato. Si lamentò che l’avevamo fatto attendere tre giorni, ci teneva per mano; e discutemmo cosí in piedi se la colpa degli eccessi sia del prossimo o di chi si lascia sedurre. — Buoni amici, diceva Poli, — mi hanno riportato un po’ di vita milanese. Purché non ritornino. Dobbiamo starcene tra noi.

Entrò Gabriella, fresca e vestita. — Su su, volete fare un bagno? — ci disse. — Lasciali vivere. Parlerete poi — . M’ero già scordato il biondo miele di quel capo, e i piedi nudi dentro i sandali, e quell’aria perenne di uscire allora su una spiaggia.

Conducendoci di sopra, nelle stanze, ci disse: — Speriamo che nessuno ci abbia dormito, di quei matti.

Fu allora che Oreste dichiarò risoluto che lui avrebbe dormito a casa sua: lasciava noi al Greppo e sarebbe venuto in bicicletta, se mai.

— Perché? — Gabriella fece una smorfia. — Mammà non vuole [p. 205 modifica]che si perda? — Poi ridendo; — Fate un po’ a zucca vostra. La strada la sa.

Quando discesi in sala, li trovai con Oreste. Pieretto era rimasto a sguazzare nel bagno. Mi aveva gridato qualcosa attraverso la porta.

Rientrando nella sala a vetrate, non ero ancora rassegnato all’avventura. La Pinotta aveva finito allora di raddrizzare vasi di fiori, raccogliere piatti e bicchieri, metter via portacenere, e la sala era un luogo delizioso, coi mobili e le tendine chiare e leggere. Nelle altre stanze s’ammucchiavano dai tempi del nonno cacciatore arredi piú rustici, cassepanche, seggioloni, tavolacci di quercia — un letto aveva addirittura il baldacchino — ma qui in sala si sentiva la mano di Gabriella e di Poli. O di Rosalba? mi chiedevo. Non potevo levarmi di mente Rosalba, le macchie di sangue, la sciocca cattiveria di quei giorni. L’impaccio che provavo a camminare sui tappeti, a comportarmi civilmente, a vedere la sgraziata Pinotta chiamata e comandata con durezza e allegria, era fatto anche di questo, del ricordo di Rosalba, del sospetto che simili cose potessero accadere in mezzo a tanta pulizia e civiltà.

Quel mattino parlammo di boschi. Andò che Oreste raccontava che a me piacevano le campagne, tanto che avevo rinunciato al mare per la gola di venirci, e subito Gabriella disse qualcosa del mare, di una spiaggia con un piccolo porto dove avevano degli amici, e i tronchi degli ulivi arrivavano in acqua. Era un mare privato, una spiaggia cintata, proibita, con la piscina in mezzo al bosco per i giorni di vento e nessuno dei bagnanti della costa poteva entrarci, nessuno che non fosse dei loro. Poli malignò sul buon gusto dei padroni di casa, che a sentir lui mandavano la servitú vestiti da pescatori, con la fascia alla vita e il calzerotto in capo.

— Scemo, l’hanno fatto quella volta della festa, — disse Gabriella con uno scatto che mi spiacque. Colsi un lampo, una smorfia cattiva, come nell’incontro del primo giorno.

Oreste disse: — C’era un bosco che toccava l’acqua?

— C’è ancora. Queste cose non cambiano — . Era tornata disinvolta ma, parlando, teneva d’occhio le mosse di Poli. Lui fumava e sorrideva astratto.

— In quel bosco Gabriella ha danzato Chopin, — disse guardando fatuamente il fumo. — Danze classiche, scalza e col velo, sotto la luna. Non ti ricordi, Gabri? [p. 206 modifica]

— Peccato, — lei disse, — che ieri i tuoi amici non ci fossero.

Chiamò Pinotta e le disse di aprire le vetrate. — C’è ancora puzzo di stanotte, — brontolò. — Gli erotici e gli ubriachi lasciano il sito come bestie. Odiosa quella tua pittrice che fuma l’avana.

— Credevo, — dissi, — che l’orgia l’aveste fatta sotto i pini.

— Sono come le scimmie, — scattò lei, — si sono sparsi dappertutto. Non è escluso che un paio ne rimangano nel bosco.

Poli sorrise, a una sua idea, — Non scende Pieretto? — ci chiese.

Quando Pieretto spuntò in sala, Gabriella aveva già detto a me e a Oreste che al Greppo si viveva in assoluta libertà, si andava e veniva, chi voleva star solo faceva bene a star solo. — Lei scende, io salgo, — disse a Pieretto, — state buoni, ragazzi — . Già l’altra volta era sparita a quell’ora; Poli ci disse che prendeva il sole; ne avevamo parlato sul biroccio e Pieretto aveva detto: — Eccone un’altra che è segnata... Le diciamo di venire al pantano?

Adesso avrei voluto andarmene solo, girare a modo mio la collina fino all’ora di colazione. Invece presi Oreste a braccetto e ci muovemmo sotto i pini. Poli e Pieretto dietro a noi s’erano messi a discutere. [p. 207 modifica]





XVII.

All’imbrunire Oreste se ne partí seccato in biroccio, e fu notte sul Greppo. Riuscii a ritrovarmi solo, sotto i pini, in attesa dell’ora della cena. Pieretto e Poli discorrevano accanto alla vasca. Poli che tutto il giorno aveva girato col viso gonfio e affaticato, parlava sommesso — mi pareva quella notte in collina, la notte degli urli d’Oreste. Sentivo di là dalla siepe gli scatti di Pieretto, le sue uscite perentorie. Poli si lamentava, parlava di sé, del suo corpo. — Quando ho capito che dovevo guarire, che dovevo rifarmi come un bambino... Certe cose non si sanno mai bene. Morire non mi ha fatto paura. È difficile vivere... Sono grato a quella poveretta che me l’ha insegnato...

Parlava adagio, infervorato, con quella voce bassa e chiara.

— ... In fondo a noi c’è una gran pace, una gioia... Tutto di noi nasce da qui. Ho capito che il male, la morte... non vengono da noi, non siamo noi che li facciamo... Io Rosalba la perdono, mi ha voluto aiutare... Adesso tutto è piú facile, anche Gabriella...

Pieretto l’aveva interrotto con un ringhio. Gli disse: — Storie — credo in faccia. Le due voci si urtarono un istante, e vinse quella di Pieretto.

— Faccia tosta, — diceva. — Con me non attacca. Né Rosalba ha voluto aiutarti, né tu hai diritto di compiangerla. Eravate due porci... Lasciala stare l’innocenza.

Poli parlava a voce bassa. — ... Era tutto deciso. Non siamo noi che ci diamo la morte...

Le voci si allontanarono sotto la luna. Fiutai l’odore dei pini, nell’aria ancora tiepida. Sapeva quasi di marino, pungeva. Tutto quel giorno avevamo vagabondato nelle macchie, scendendo a [p. 208 modifica]mezza costa. Gabriella ci aveva condotti a una piccola grotta sotto il tufo, cigliata di capelvenere, dove stagnava un po’ d’acqua. A un alberello in una conca avevamo trovato delle pesche, mature come miele. Oreste era cupamente gaio. Lanciava quei suoi urli selvaggi, per spaventare Gabriella. Verso sera m’ero accorto che dal Greppo non si sentivano voci di cascina — chioccolii, canti di galli, latrati. Di lassú si dominava la pianura come da una nuvola.

Andammo a cena ch’era buio, alla tavola smagliante, preparata in sala dalla Pinotta. Pinotta temeva le occhiate di Gabriella, e accorreva. — La tavola è sacra, — aveva detto Gabriella, — fin che si può bisogna fare di ogni boccone una festa — . Esigeva anche fiori qua e là, gettati con garbo sulla tovaglia. Scese in sandali ma rivestita, e ci disse amabilmente: — Sedetevi — . Cercai di non guardare i polsini di Pieretto.

Parlammo di Oreste, del suo umore ombroso, di quando lui e Poli battevano i boschi. Parlammo del vivere cittadino e di quello campagnolo. Parlammo di Poli ragazzo e del bisogno di solitudine che presto o tardi prende tutti. Gabriella chiacchierò di viaggi, delle noie mondane, di strani incontri in alberghi di montagna. Era nata a Venezia. Noi confessammo di esser solo due studenti.

La Pinotta ci serví, tutto il tempo, con quel passo che sembrava scalza. Capii che in qualche posto, in cucina, doveva essercene un’altra, una cuoca, la vera padrona della casa. Guardavo i fiori, la tovaglia candida, inghiottivo senza rumore, tenevo d’occhio Gabriella. Non ero ancora ben convinto d’esser là, che una simile casa sorgesse come un’isola su quella terra di contadini. Pensavo ancora ai festoni di carta colorata del camino d’Oreste, alle melighe gialle sull’aia, alle vigne, ai visi sugli usci. Gabriella mangiava compunta. Poli era chino sopra il piatto, e ascoltavamo Pieretto che parlava parlava del suo gusto di girare di notte.

Tenevo d’occhio Gabriella e mi chiedevo se Oreste non fosse stato piú in gamba di noi. Con bella maniera Oreste se n’era tornato a casa, a dormirsene, a starsene solo, a ripensarci da lontano. Lui conosceva meglio Poli, sapeva altre cose, ma era chiaro che sul Greppo non ci stava volentieri. Non era scappato soltanto per correre da Giacinta. Giorni innanzi per strada, discutendo se Gabriella era degna di venire con noi al pantano, avevamo parlato. Ma che fanno in campagna, questi due? c’eravamo chiesto. Se sono venuti per starsene soli e far pace, allora perché vogliono noi? E [p. 209 modifica]di Rosalba, dicevamo, che cosa sa Gabriella? Certo sembrava un tipo sveglio. Che di notte prendessero insieme la coca?

— Credete a me, — ci diceva Pieretto, — quei due si detestano.

— E perché allora stanno insieme?

— Lo saprò.

Meno male che a tavola Poli non smetteva di versarci da bere. Anche Gabriella beveva, a gustose sorsate, scrollando il capo alla fine come un uccello. Io pensavo: chi sa, se si beve abbastanza diventeranno piú sinceri, piú ragazzi, e Gabriella ci dirà che, malgrado tutto, vuole bene al suo Poli, lui Poli dirà che Rosalba era brutta, era un vizio, una pazzia, e ch’è stato il nostro incontro a guarirlo, il nostro incontro e l’urlaccio d’Oreste. Basterà questo, mi dicevo, saremmo subito piú amici, lasceremmo in libertà la Pinotta e ce ne andremmo a passeggio o a dormire contenti. La vita sul Greppo sarebbe cambiata.

— V’annoierete, — disse a un tratto Gabriella, — qui di notte non abbiamo che i grilli. Ha fatto bene il vostro amico a salvarsi...

— I grilli e la luna, — disse Poli. — E noialtri.

— Purché si contentino, — disse Gabriella, giocherellando con la rosa che aveva davanti. Alzò gli occhi, intenta. — Sento che a Torino con Poli frequentavate locali notturni?

Ci guardò un istante e scoppiò a ridere.

— Su su, chi è morto? — esclamò. — Siamo tutti peccatori. Gli infortuni ringiovaniscono e nessuno è colpevole. Avevamo perduto un figliolo e questo figlio ci è ridato. Ammazziamo il vitello.

Poli guardò di sotto in su, sbuffando. — Signora, — gridò Pieretto, — brindo al vitello.

— Macché signora, — disse lei, — possiamo anche chiamarci per nome. Abbiamo abbastanza conoscenze comuni.

Poli le disse rabbuiato: — Senti, Gabri. Qui va a finire come ieri sera.

Gabriella sorrise appena, cattiva. — Manca la musica, — disse, e nessuno è ubriaco stasera. Tanto meglio, possiamo parlarci sinceri.

Pieretto disse: — Si può bere dopo.

— Se vuoi la musica, — disse Poli alzandosi, — posso mettere un disco.

Vidi la mano sottile serrare la rosa che aveva lasciato cadere, e non osai guardarla in faccia.

Poli era già seduto, e non aveva messo il disco. — La musica [p. 210 modifica]vuole allegria, — disse. — Prima beviamo un altro poco — . Allungò il braccio al bicchiere di lei, facendole cenno.

Gabriella accettò il vino e lo bevve. Bevemmo tutti. Pensavo a Oreste e alla sua vigna.

Mentre nel silenzio accendevamo la sigaretta, Gabriella aspirò il fumo e ci guardò e si mise a ridere. — Non ci siamo capiti, — disse canzonatoria. — Sincerità non è delitto. Odio i delitti passionali. Vorrei soltanto che qualcuno mi dicesse se Poli era molto buffo quella notte in automobile, quando ha scoperto la vita sincera... [p. 211 modifica]





XVIII.

— Lasciatemi dire, — brontolò Gabriella. — In due si parla cosí poco e si sanno già le risposte. In due è come essere soli... Vorrei soltanto che qualcuno mi dicesse se quella notte... c’eravate anche voialtri... se Poli ha spiegato alla compagnia la sua vita innocente... L’ha scoperta a Torino, questo lo so. Ma le facce vorrei vedere, le facce di quanti eravate a sentirlo. Perché Poli è sincero, — disse Gabriella convinta, — Poli è ingenuo e sincero come un uomo deve essere, e non sempre capisce che le crisi di coscienza non convengono a tutti. È il suo bello, — e sorrise, — quest’essere ingenuo. Ma ditemi la faccia che hanno fatto gli altri.

E ci piantò quegli occhi addosso, dura e ridente, maliziosa.

A questa piega del discorso Poli non si scompose. Aveva l’aria di aspettare ben altro. Fu Pieretto che disse; — Furore bianco con la schiuma. Si è sentito stridore di denti. Qualcuno aveva sette diavoli in corpo.

Non mi piacque la faccia di Poli. ci guardava stirato, con gli occhi gonfi e socchiusi.

— Quos Deus vult perdere, — disse ancora Pieretto. — Succede — . Gabriella lo guardò affascinata un istante, e rise appena, un riso sciocco. Cambiò tono di colpo e propose; — Vogliamo uscire a prendere aria?

Ci alzammo in silenzio e scendemmo i gradini. C’investí la canzone dei grilli, e l’odore del cielo.

— Andiamo a veder la luna sui boschi, — disse Gabriella. — Poi ci facciamo portare il caffè.

Quella notte Pieretto venne a trovarmi nella stanza. A me l’idea di dormire in quella casa e di svegliarmici domani, e poi [p. 212 modifica]scendere, ritrovare quei due, parlare con loro, metterci a tavola e far notte un’altra volta, quest’idea mi metteva caldo. La seduta sotto i pini e la luna era durata fino tardi; Gabriella non aveva piú alluso al passato; disinvolta, ci aveva fatto parlare di noi. Ma proprio questo mi restava in gola: la tensione, il sospetto, le cose non dette. Ormai sapevo ch’eran tutti gli stessi, anche Poli, anche lei Gabriella, tutti disposti a scatenarsi per passare una serata. La notte prima, quei tronchi e la luna dovevano aver visto cose nere. Perché tanti discorsi ambigui, buttati come l’edera a nascondere un pozzo, quando tutti sapevamo di che pozzo si trattava?

Lo dissi a Pieretto nella stanza, fumando l’ultima sigaretta. — Mi sai spiegare che cosa facciamo in questa casa? — gli dissi. Non è gente per noi. Loro hanno i soldi, hanno gli amici, hanno buon tempo. Si è mai visto mangiare coi fiori nel piatto? Era meglio la vigna d’Oreste, meglio il pantano. Oreste sí che l’ha capita...

— Però Gabriella ti piace, — m’interruppe impassibile.

— Gabriella? Se litiga sempre. Ci ha già capiti dalla testa ai piedi. Non sa che farsene di noi. Guarda Oreste...

— Oreste vedrai che ritorna, — interruppe Pieretto.

— Spero bene. Domani...

— Non gridare, — osservò Pieretto. — Io di qui non mi muovo neanche se mi mettono fuori. È una commedia troppo bella... Fin che dura.

Allora parlammo di Poli, del suo strano destino — quel dono che aveva di esasperare le donne.

— È un tipone, — diceva Pieretto. — Dovrebbe fare l’eremita. È nato per vivere in una cella e non lo sa.

— Non si direbbe. Le donne sa sceglierle.

— Che vuol dire? È ben questo. Gli vanno addosso come furie.

— Però ci sta. Gabriella è sua moglie. Non sei tu che ci dormi.

Fu allora che Pieretto mi guardò in quel suo modo tra scemo e divertito.

— Quanto sei stupido, — mi disse, — Gabriella non dorme con Poli. Chiunque lo capirebbe. Basta aver gli occhi nella testa.

Si godé il mio stupore e continuò; — Né l’uno né l’altro ci pensa. Non so nemmeno perché stiano insieme.

— Del resto, — riprese, — può darsi che nemmeno se lo chiedano perché stanno insieme.

Dormii bene in quel letto soffice, dal piumino di seta. [p. 213 modifica]Starmene solo, dopo giorni e settimane che dormivamo in una stanza a tre, mi rifece fresco e riposato come quel cielo che salutai l’indomani mattina alla finestra. Tutto era sveglio e vivo e stillante, e il sole che riempiva la pianura oltre i pini mi capacitò che l’orizzonte era vasto e che tante cose avremmo fatto sul Greppo, goduto i boschi e la compagnia, chiacchierato, giocato, assorbito con tutto il corpo quel regno. C’erano anfratti, radure, tanti lunghi pomeriggi, c’era quella grotta di Gabriella. S’era già parlato di tornarci.

A mezza mattina arrivò Oreste scampanellando in bicicletta, come un postino. S’accompagnava con Pinotta ch’era andata a far la spesa ai Due Ponti. Il bello è che ci portò veramente la posta, cartoline arrivate per noi; e Gabriella gli gridò dalla finestra: — Se per averla qui con noi è necessario, dirò a tutti i miei amici di scrivermi.

Entrammo con lei e ci sedemmo in attesa di Poli. Oreste, di buon umore, ci raccontò che aveva visto certi voli sulla campagna, e sentito frulli e pigolii che promettevano un anticipo di caccia.

— Tanto le piace sparger sangue, Oreste? — esclamò Gabriella. — Sentite, — disse. — Non è meglio che ci chiamiamo per nome? Si viene in campagna per star liberi, vero?

Oreste ritornò sulla caccia e diceva che Poli non doveva dormire cosí tardi. L’ora estiva di caccia è addirittura avanti l’alba, e quanto prima ci si avvezza...

— Non coi cani, — gridò Gabriella, — i cani patiscono. La rugiada gli offende l’olfatto — . Rise alla faccia stupita d’Oreste. — Non lo sa... non sapete che da ragazza villeggiavo sul Brenta in mezzo ai cacciatori d’allodole? Non si sentiva che sparare e abbaiare di cani...

— Dov’è il vecchio cane di Rocco? — uscí Oreste.

— Dev’essere morto, — disse lei. — L’ha chiesto a Poli? A proposito, Poli non vuole piú uccidere. Gliel’ha detto?

Oreste la guardò, interrogativo.

— Non ci trova piú gusto, — spiegò Gabriella. — Non si confà alla nuova vita — . Sorrise. — Però le bistecche le mangia.

— Lo sospettavo, — mugolò Pieretto.

Oreste non capiva la nostra allegria, e ci guardava inquieto, di faccia in faccia. [p. 214 modifica]

— Ieri sera si è parlato di Poli, — spiegò Gabriella. — Bisogna proprio che si fermi con noi. Qui ogni cosa succede di notte.

Piú tardi Gabriella scomparve. Noi gironzammo le stanze intorno alla veranda — c’erano libri, vecchi libri rilegati, tavolini da gioco, un biliardo. Mi piaceva la luce verde dei pini alle finestre. In un cantuccio trovai romanzi, riviste illustrate e il cestino da lavoro di Gabriella. Dalla cucina giungevano tonfi attutiti. Non avevo ancora visto il giardiniere.

— Con tanta terra che possiedi, — disse Pieretto a Poli, — perché non ti metti a zapparla?

Al sorriso vago di Poli, Oreste disse: — Ci vuol altro che lui. Finirà che suo padre vende tutto. Non l’adopera nemmeno per la caccia.

— Perché dovrebbe zappare la terra? — chiesi a Pieretto, alzando gli occhi dalla rivista.

— Un uomo in crisi zappa sempre la terra, — disse Pieretto. È la madre comune, che non inganna i suoi figli. Tu dovresti saperlo.

— Però, — disse Poli, — a settembre potete farla una battuta...

Nessuno disse nulla. Io pensavo che settembre era vicino, una decina di giorni, e se sarebbe stato lecito fermarci tanto tempo. Pareva inteso che saremmo rimasti. Non dissi nulla e riaprii la rivista.

A colazione Gabriella scese in vestaglia e sapeva di sole. Ridendo nell’ombra delle persiane, rimise Oreste sul discorso della caccia. [p. 215 modifica]





XIX.

Cosí anche Oreste rimase a vivere sul Greppo. Scappava a volte in bicicletta e poi tornava. La collina sembrava cuocere al sole d’agosto; caprifoglio e mentastro le facevano intorno una parete invisibile, ed era bello aggirarcisi e, giunti sul punto di sbucarne fuori, nel sottostante bosco di càrpini, tornare indietro nella macchia, come un insetto o un uccello. Pareva d’averci le zampe invischiate, in quel profumo e in quel sole. Al pomeriggio scendemmo in gruppo, i primi giorni, per le coste ripide, fino alle viti soffocate d’erba; e una volta aggirammo tutta la collina, giungendo tra i rovi a un piccolo chiosco nero, per le cui crepe si vedeva il cielo. Ma né di siepi né di viottolo d’accesso c’era piú traccia; il versante era tutto sodaglia, per quanto un tempo fosse stato giardino, e la baracca un padiglione. Oreste e Poli la chiamavano la pagoda cinese e ricordavano quand’era ancora vestita di gelsomini. Adesso, accostandoci, sentimmo fra le ortiche uno strepito di topi o ramarri — la collina se l’era mangiata. Ma il contrasto non metteva tristezza, la macchia appariva tanto piú vergine e selvatica. Le nostre voci tra i cespugli non bastavano a violarla. Quell’idea che nei boschi il gran sole d’estate sappia di morte, era vera. Qui nessuno rompeva la terra per cavarne qualcosa, nessuno ci viveva: un tempo avevano provato e poi smesso.

Pieretto disse a Gabriella: — Non capisco perché voi due non ci passiate l’inverno in questo chiosco. Mangereste radici. Trovereste la pace dei sensi... D’estate la campagna è disgustosa, è un’orgia sessuale di polpe e di succhi. Soltanto l’inverno è la stagione dell’anima...

— Che ti piglia? — disse Oreste. [p. 216 modifica]

E Gabriella inviperita: — Oh matto.

Poli sorrise. E Pieretto continuò: — Siamo sinceri. La campagna in agosto è indecente. Che ci fanno tanti sacchi di semi? C’è un tanfo di coito e di morte. E i fiori, le bestie in calore, le polpe che cascano?

Poli rideva. — L’inverno, l’inverno, — gridò Pieretto, — la terra almeno è sepolta. Si può pensare alle cose dell’anima.

Gabriella guardò lui e guardò Poli, e sorrise fugacemente. — L’inverno so come passarlo, — brontolò, — e mi piace quest’odore indecente.

Nei primi giorni che Poli e Pieretto stettero molto insieme, noi s’andò qualche sera con Gabriella a mezza costa, e fumavamo una sigaretta seduti sul ciglione guardando gli alberi minuscoli nella pianura.

Diversamente da Poli che non disse mai una parola sui luoghi, Gabriella cercava e si faceva indicare da Oreste i paesi, le strade, le chiesette. Voleva sapere come vivevano i contadini, e dove Oreste era stato ragazzo, dove andavano a caccia. A me piaceva soprattutto vedere dall’alto il paese delle querce, quel Mombello terra rossa, dove vivevano i fratelli. Ne parlammo una volta che Gabriella, incuriosita, mi chiese se là ci stava la ragazza d’Oreste. Le risposi che c’era di meglio: due uomini in gamba, che lavoravano le loro vigne e bastavano a sé. Oreste taceva. A me pareva, facendo l’elogio di Davide e Cinto, di parlare di lui. Aveva detto Gabriella: — Ma perché ci lavorano se sono loro i padroni? — Mi misi a spiegarle che questo era il bello, che soltanto lavorando la propria terra si è degni di viverci, e tutto il resto è servitú. La vidi ironica schiudere le labbra, che parevano rosee tanto le guance eran bruciate. Disse appena: — Si vede che è gente cosí.

Passeggiando con loro nel sentore di mentastri e di terra riarsa, non potevo levarmi di mente che rispetto alla vigna di San Grato noi eravamo un orizzonte, un’isola in un cielo marino. Non so se Oreste ci pensasse ancora, non era tipo da pensarci. Gli dissi scherzando: — Se nascevi sul Greppo, il tuo orizzonte era quest’altro — . Mostrai col dito la pianura dove biancheggiavano le borgate. — Non hai piú voglia d’imbarcarti, di girare il pianeta?

— Laggiú ci sono soltanto risaie, — disse Oreste, — e poi Milano...

— Oh Milano, non ditene male, — mugolò Gabriella, — dovrò tornarci un giorno o l’altro. [p. 217 modifica]

In quei primi giorni avevo ancora in mente che Gabriella mi piacesse, che non ci fosse nessun male a starle vicino. Soli, con Oreste e con lei, potevamo discorrere senza che l’ombra di Poli ci mettesse a disagio. Non ci venivano in mente né lui né Rosalba, e se cadeva qualche accenno a quei giorni di Torino Gabriella era la prima a sorriderne. Ma il piú del tempo parlavamo poco: Oreste al solito taceva, io del tutto non mi fidavo, sentivo in lei come un distacco, un giocare superfluo; anche quando rideva battendo le mani. Forse Pieretto le poteva tener testa, ma anche Pieretto andava cauto. In fondo, a me piaceva piú che altro pensarci, pensare che vivevamo sul Greppo e anche lei ci viveva, che respirava come noi l’odore della macchia. La cosa piú bella era quando scendevamo alla grotta o alle vigne — mangiare la frutta selvatica, buttarci sull’erba, cuocerci al sole. C’era sempre una costa, un cantuccio, un groviglio di piante, che non avevo ancora visto, toccato, assorbito. C’era quel vago odor d’agosto, di salmastro terrestre, piú forte che altrove. C’era il piacere di pensarci di notte, sotto la grande luna che diradava le stelle, e sentire ai nostri piedi, da ogni parte, la collina segreta che viveva la sua vita.

Oreste ci nominò gli animali del Greppo. C’erano gazze, ghiandaie, scoiattoli, e c’era qualche ghiro. C’eran lepri e fagiani. Per me, già i grilli e le cicale mi cantavano giorno e notte nel sangue, davano voce all’estate, vivevano. Certe volte il loro frastuono era tale che mi faceva rabbrividire — doveva giungere alle serpi, alle radici sotterra. Mi chiedevo se i padroni del Greppo, non tanto Poli e Gabriella che non erano niente, ma l’antenato cacciatore e i guardiani di un tempo avevano amato questa terra, questo monte selvaggio, cosí come a me pareva di amarlo. Certo, meglio di noi l’avevano posseduto.

Una cosa la presenza di Gabriella mi aiutò a capire. Gliene parlai dentro di me, come a volte discutevo a voce bassa con Pieretto. Quell’abbandono, quella solitudine del Greppo, era un simbolo della vita sbagliata di lei e di Poli. Non facevano nulla per la loro collina; la collina non faceva nulla per loro. Lo spreco selvaggio di tanta terra e tanta vita non poteva dar frutto che non fosse inquietudine e futilità. Ripensavo alle vigne di Mombello, al volto brusco del padre di Oreste. Per amare una terra bisogna lavorarla e sudarla.

Eravamo tornati il giorno dopo a quel chiosco, e qui l’idea di [p. 218 modifica]Pieretto che la campagna sa di coito e di morte, mi fece sorridere. Perfino il ronzio degli insetti stordiva. E il fresco estuoso dell’edera, il lagno chioccolante di una pernice. Li lasciai, lei e Oreste, che nella saletta sfondata scalpitavano e vociavano per far levare la pernice, e uscii fuori nel sole. [p. 219 modifica]





XX.

La notte si vegliava in veranda, bevendo, ascoltando dischi, giocando.

— Chi piú inutile di me, — diceva Gabriella. — Non basto nemmeno a divertirvi quanti siete.

Ballava un giro con uno di noi, poi tornava a sedersi. Le prime sere tacevamo in ascolto, e seguivamo con gli occhi i passetti, la gonna celeste.

— Chi piú inutile di me, — disse una notte allungandosi. — Sono stanca di vivere.

— Dice sul serio, a quanto pare, — osservò Pieretto.

— Stanca di tutto, — disse lei. — Di svegliarmi al mattino, di vestirmi per scendere, dei discorsi intelligenti che fate. Vorrei andare all’osteria e ubriacarmi coi facchini.

— È masochismo, — disse Poli.

— Ma sí, — disse lei, — vorrei che un uomo mi strozzasse. Non merito altro.

— Oh oh siamo in crisi.

— Già, — Gabriella tagliò freddamente. — Siamo in crisi. È di moda, quassú. Lei Oreste stia attento o finirà per cascarci come noi.

— Soltanto lui? — disse Pieretto.

Gabriella storse la bocca. — Di fronte a lui siamo carogne, — disse. Comprese nell’occhiata anche me. — È il solo di noi che sia sincero e sano.

Oreste la guardò cosí brusco che ci fece ridere. Sorrise anche Gabriella. — Vero che lei non ha crisi di sincerità? — gli disse. Ha mai mentito nella vita, Oreste?

— C’è crisi e crisi... — cominciò Poli. [p. 220 modifica]

— Altroché, — disse Oreste contento. — Chi non racconta qualche frottola?

Allora Poli cominciò a lagnarsi e accusare tutti noi, Gabriella, la gente, di fermarci alla superficie delle cose, di ridurre la vita a un futile dramma, a una serie di gesti e di etichette senza senso. La gente si agitava in fregola e si giocava la coscienza nelle cose piú materiali e piú sciocche. Chi pensava all’impiego, chi ai vizi meschini, chi al domani. Tutti si dibattevano e riempivano la giornata di parole e di vanità. — Ma se vogliamo esser sinceri, — disse, — che cosa c’importa di queste sciocchezze? Certamente siamo tutti carogne. E allora che cos’è che si chiama crisi? Non certo ubriacarsi coi facchini, che non valgono un dito piú di noi. Non c’è che scendere in noi stessi e scoprire chi siamo.

— È una parola, — disse Pieretto.

— Serve a qualcosa tutto il resto? — disse Poli testardo. — Tutto il resto si compra, possono farlo gli altri per te...

— Non tutti hanno i mezzi, — interruppe Oreste.

— E con questo? Ho detto possono, non che lo facciano. Son sempre cose che non dipendono da noi. Solamente chi sei, non può dirtelo nessuno...

— Ma siamo carogne, — scattò Gabriella. — Oh Poli, non eri d’accordo che siamo carogne?

— Poli sostiene un’altra cosa, — osservò Pieretto. — Che tutti tendiamo a contentarci dell’etichetta, del giudizio corrente. Non basta sapere che siamo carogne, è troppo poco. Bisogna chiederci perché, bisogna capire che potremmo non esserlo, che anche noi siamo fatti a somiglianza di Dio. Cosí c’è piú gusto.

Gabriella andò a rimettere un disco. Alle prime note si volse, tese le braccia e mugolò implorando: — Chi mi vuole?

Si alzò Oreste, e noi tre continuammo a farci fronte. Adesso Poli aveva preso a dire, sogguardando, che se Dio era dentro di noi, non si vedeva il motivo di cercarlo nel mondo, nell’azione, nelle opere. — Se ci è dato di somigliargli, — mormorò, — a chi tocca se non all’uomo interiore?

Io seguivo con gli occhi la gonna celeste, e pensavo a Rosalba. Fui per dire «È già successa questa scena», ma intravidi uno strano sorriso illuminare la faccia di Pieretto.

— Sei sicuro che non sia una vecchia eresia? — brontolò.

— Non m’interessa, — disse Poli brusco. — Mi basta che sia vero. [p. 221 modifica]

— Tanto ci tieni, — disse Pieretto, — a somigliare al Padre Eterno?

— Che altro c’è? — disse Poli convinto. — Ti fanno paura le parole? Dagli il nome che vuoi. Io chiamo Dio l’assoluta libertà e certezza. Non mi chiedo se Dio esiste: mi basta esser libero, certo e felice, come Lui. E per arrivarci, per essere Dio, basta che un uomo tocchi il fondo, si conosca fino in fondo.

— Smettetela, — gridò Oreste sulla spalla di Gabriella.

Non gli badammo. Pieretto disse allegro: — E tu questo fondo lo tocchi? Ci scendi spesso?

Poli annuí, senza sorridere.

— Credevo, — riprese Pieretto, — che il miglior modo di conoscersi fosse pagare di persona. Tu hai pensato che cosa faresti se venisse il diluvio?

— Niente, — disse Poli.

— Non mi hai capito. Non quel che vorresti ma quel che faresti. Quel che le gambe ti farebbero fare. Scappare? Cadere in ginocchio? Ballare in santa letizia? Chi può dire di conoscersi se non è stato nella stretta? La coscienza è soltanto una fogna; la salute è all’aria aperta, tra la gente.

— Ci sono stato tra la gente, — disse Poli a fronte bassa, — è da ragazzo che ci sto. Prima il collegio, poi Milano, poi la vita con lei. Mi sono divertito, non dico di no. Suppongo che succeda a tutti. Mi conosco. E conosco la gente... Non è questa la strada.

— A me, — disse Gabriella passando, — dispiace morire perché non vedrò piú nessuno.

— Lei balli, — gridò Pieretto.

— Però ha ragione, — disse a Poli. — Tu invece vedi Dio nello specchio?

— Cioè? — disse Poli.

— A filo di logica. Se il mondo non t’interessa e porti Dio dentro gli occhi, fin che sei vivo tu lo vedi nello specchio.

— Perché no? — disse Poli. — La propria faccia non la conosce nessuno — . Parlò con un’aria tranquilla che mi fece restare.

La musica s’era fermata. Nel silenzio, per le vetrate s’udivano i grilli.

— Ci riprende l’angoscia, — disse Gabriella a braccetto d’Oreste. — Siamo stufi di voi.

Uscimmo tutti quanti sotto la luna, che spuntava allora enorme, [p. 222 modifica]e scendemmo la strada. — Ci vorrebbe un locale laggiú, — disse Pieretto, — per avere una mèta — . Gabriella che ci precedeva con Oreste, gli disse; — Villano. Guai a voi se riparlate del diluvio.

Io camminai tra i due gruppetti, e fiutavo la terra, la luna, il caprifoglio. Passammo sotto il ciglione dei fichidindia. I cespugli e i tronchi sulle coste scoperte facevano mille giochi di luna. C’era un fiato leggero che pareva il respiro della notte.

Oreste, avanti, cianciava d’una volta ch’era stato a cavallo. E Poli, dietro, discuteva con Pieretto. — C’è un valore nella vita del senso, nel peccato. Pochi uomini sanno i confini della propria sensualità... sanno che è un mare. Ci vuole coraggio, e uno può liberarsi soltanto toccandone il fondo...

— Ma non ha fondo.

— È qualcosa che trasporta oltre la morte, — diceva Poli. [p. 223 modifica]





XXI.

Presi in giro Oreste che da tre giorni non tornava piú al paese, e dormiva in una stanza a pianterreno vicino a quella della cuoca. — Di lui mi fido, — aveva detto Gabriella.

Oreste saliva la mattina a svegliarmi e fumavamo alla finestra...

— È da stanotte che giro nei boschi, — mi disse.

— Perché non hai fischiato? venivo anch’io.

— Volevo stare solo.

Feci la faccia che avrebbe fatto Pieretto, e subito mi dispiacque. Oreste abbassò gli occhi come un cane.

— C’entra qualcuno in questa storia?

Oreste non rispose, e guardava la sigaretta.

— Andiamo sul terrazzo, — dissi.

Al terrazzo si arrivava per una scaletta di legno che finiva a botola. Non c’eravamo mai saliti. A mezzogiorno Gabriella prendeva il sole lassú.

Traversammo il corridoio in punta di piedi. La scaletta scricchiolò maledettamente al nostro peso. Oreste sbucò per primo.

Era una specie di loggetta scoperta sotto il cielo, e il sole fresco la riempiva tutta. Un muricciolo di mattoni la chiudeva, e colonnine tutt’intorno reggevano travi di legno posate a pergola. Sul muricciolo c’erano vasi di gerani scarlatti, e le punte scure dei pini affioravano intorno.

— Mica male. Questa donna sa vivere.

Oreste guardava, perplesso. Sgabelli e accappatoi di spugna e uno sdraio eran piegati contro il muro. Pensai che dallo sdraio aperto non si doveva veder altro che il cielo e i gerani. [p. 224 modifica]

— Caro mio, — dissi a Oreste. — Non c’è bisogno di portarla al pantano. Quest’è già nera piú di noi.

— Dici che prende il sole cosí? — balbettò.

— Ti ha invitato a venirci anche te? — Sorrisi, e di nuovo mi dispiacque. Oreste non staccava gli occhi dagli accappatoi.

— Felici le formiche e i calabroni, — dissi. — Scendiamo.

Di chi la colpa, quel mattino? Di me che scherzavo? Oggi ancora pensandoci do la colpa al Greppo, alla luna, ai discorsi di Poli. Avrei dovuto dire a Oreste: — Andiamo a casa — . O parlarne con Pieretto. Forse Pieretto avrebbe ancora potuto salvarlo. Ma Pieretto che capisce tutto, in quei giorni non si accorse di nulla.

Del resto il gioco piaceva anche a me. S’avvicinava mezzogiorno e Gabriella che per tutta la mattina aveva passeggiato per casa in calzoncini, chiacchierato, sbattuto porte, fatto correre Pinotta, Gabriella spariva d’improvviso, lasciandoci sotto i pini assolati o nella tranquilla veranda a leggere o ascoltarci a vicenda. Oreste ed io ci davamo una rapida occhiata, era un nostro segreto, e quell’ora di sole trascorreva sospesa, ronzante, troppo lenta. Un mattino che Poli andò di sopra e per un po’ non lo vedemmo, sentii che Oreste impallidiva. Non ero geloso d’Oreste; io non pensavo seriamente a Gabriella; ma nemmeno mi chiedevo se lui ci pensasse. Mi godevo quel gioco, ecco tutto; era un po’ come un altro segreto del pantano, altrettanto innocuo, e tuttavia stavo attento che Pieretto non capisse. Pieretto era tipo da parlarcene a tavola.

Quando pensai di dire a Oreste: «Ma non ti aspetta Giacinta?», capii ch’era tardi. Fu la mattina che al mio solito ammicco Oreste non rispose: non era piú lui. Gabriella gli aveva parlato. Erano usciti al primo sole, insieme, dopo il temporale della notte, e dalla finestra li vidi tornare ridendo sull’erba. Proprio quel mattino Poli non era uscito dalla stanza; trovai Pieretto e la Pinotta abbasso che parlottavano, e la Pinotta mi guardò malamente. Pieretto disse ch’eravamo alle solite. — Quel cretino ha fiutato — . Pinotta raccontò ch’era stata chiamata a pulire la vomitura dalle coperte. — È successo altre volte? — disse Pieretto. — Tutte le volte che bevono troppo, — disse lei.

La sera prima non avevamo bevuto che aranciate; anzi l’aria pesante e i primi lampi ci avevano dato un’inquietudine, un malumore, che in me si era fatto disagio, vero senso di colpa e, vertendo il discorso sulla nostra permanenza al Greppo, avevo detto [p. 225 modifica]ch’era ormai tempo di andarcene. Mi eran saltati tutti addosso — anche lei — a spiegarmi che si stava benissimo e dovevamo ancora fare tante cose. — La sola che potrebbe lagnarsi, — disse Poli, — è Pinotta. Ma Pinotta non può lagnarsi — . Allora (il bagliore dei lampi rischiarava i pini) avevo detto che non capivo perché venissero a star soli sul Greppo, se poi avevano bisogno della nostra compagnia. — Oh presuntuoso, — aveva detto Gabriella, ma un colpo di tuono ci aveva decisi a rientrare e non se n’era piú parlato.

Adesso Pieretto mi seguí nella camera e discutemmo la ricaduta di Poli.

— Me l’aspettavo. Quel cretino fa sul serio, — diceva Pieretto. — Ha voglia il padre di tenerlo in campagna.

— Fra un’ora si rialza, — continuò. — Pericolo non c’è. Questo succede a esser figli di Dio.

— In caso c’è Oreste, — osservai.

Pieretto storse la bocca. Pensava a Poli. — È un ragazzo viziato, — disse. — La colpa è di questo mondo dove i padri fanno troppi milioni. Cosí invece di partire da riva come tutte le bestie, i figli già si trovano nell’acqua profonda quando ancora non sanno nuotare. E allora bevono. Lo sai che vita gli hanno fatta da ragazzo?

Mi raccontò una brutta storia di serve, di governanti, che padre e madre gli avevano tenuto intorno sul Greppo fino ai tredici ai quattordici anni. Gli avevano insegnato ogni sorta di sciocchezze di cui la principale era che ricchi si nasce e ch’era giusto che le donne facessero la riverenza alla mamma. Davanti a Dio, beninteso, erano tutti suoi figli. Difatti una serva se l’era preso nel letto non ancora dodicenne, e gli aveva succhiato il midollo per mesi. Poi non contenta lo portava dentro il bosco e ci giocavano a pigliarsi, tanto che Poli era già libertino prima ancora di esser uomo. — Per lui la vita è queste cose, — diceva Pieretto. — Rubava i sonniferi a sua madre per darsi la droga. Masticava il tabacco. Schiaffeggiava le serve per avere il pretesto di abbracciarle e farsi stringere...

— Il porco è lui, — dissi impaziente. — Cosa c’entrano i soldi? Non tutti i suoi pari gli somigliano.

— Gli somigliano sí, — disse Pieretto. — Ma lui ha questo, checché dica la moglie, che è piú ingenuo degli altri. E fa sul serio, sai. Vedrai che se non muore diventa buddista. [p. 226 modifica]

Fu allora che intravidi per la finestra Gabriella e Oreste arrivare ridendo. Scivolavano sull’erba ripida e ridevano.

Dissi a Pieretto; — E Gabriella? Lei non prende la coca?

— Gabriella ci prende in giro tutti, — disse. — La diverte.

— Ma perché stanno insieme?

— Sono abituati a litigare.

— Non può darsi che si vogliano bene?

Pieretto rise, a modo suo, e fischiettò. — Questa gente, — disse, — non ha tempo da perdere. I suoi problemi sono piú semplici. Casca sempre dalla parte dei soldi.

Poi scendemmo in veranda, e vidi Oreste e vidi lei. Gabriella era già stata da Poli, che aveva stanza separata dalla sua, e aveva detto al ritorno: — Il malato è risorto — . Nessuno parlò della droga. Sia a lei che a Oreste ridevano gli occhi, tanto che ci dimenticammo di Poli. Continuammo a discutere un progetto di andare l’indomani a una festa di paese, a ballare, un paese famoso per la fiera di fine agosto. Quando Gabriella s’eclissò a mezzogiorno, diedi un rapido sguardo a Oreste, e m’accorsi allora che non volle rispondermi. Stava seduto abbandonato, e rimuginava tra sé. Ma ancora gli splendevano gli occhi. Allora pensai sul serio a Giacinta. [p. 227 modifica]





XXII.

Per portarci alla festa, Oreste andò a casa a prendere il biroccio, ma non ci si stava in piú di tre, e Poli aveva il mal di capo, e laggiú bisognava ballare. Allora dissi che restavo al Greppo anch’io, perché ormai c’ero affezionato e anche un giorno di permesso ha il suo bello.

— Villani che siete, — disse Gabriella già seduta tra Oreste e Pieretto, — però è un peccato.

Partirono salutandoci e ridendo. Passai la mattina al grottino del capelvenere. In quel punto il ciglione dava nel cielo, e un canneto nascondeva la pianura. Era un ricordo d’altri tempi, forse lassú c’era stata una vigna. Sulla bocca della grotta mi misi nudo e presi il sole. Dai giorni del pantano non l’avevo piú fatto. Mi stupí di trovarmi cosí nero, quasi nero come gli steli del capelvenere. Pensai molte cose vagando con gli occhi qua e là. Dalla macchia che chiudeva e riparava la radura poteva sbucare qualcuno, ma chi? Non le cuoche, non Poli. Gli spiriti delle rupi e dei boschi, forse, o una bestiola del Greppo — esseri nudi e selvaggi come me. Nel cielo chiaro, sulle canne, la falce bianca della luna dava un’aria magica, emblematica, al giorno. Perché c’è un rapporto tra i corpi nudi, la luna e la terra? Perfino il padre di Oreste ci aveva scherzato.

A mezzogiorno tornai alla villa tra i pini, vecchia e bianca come la luna. Gironzolai dietro la casa presso la serra; vidi per la finestretta la testa rossa di Pinotta che stirava su un asse. Mentre guardavo per la porta aperta quei ricchi vasi di fiori screziati, uscí fuori il vecchio Rocco, e brontolò qualcosa. Attaccammo discorso; trovò che avevo bella cera. [p. 228 modifica]

Dissi che sul Greppo si respirava aria buona; se Poli era un signore cosí sano e vivace non lo doveva forse agli anni che aveva passato sul Greppo? La Pinotta si mise in ascolto, con quei suoi sguardi corrucciati.

— Sí sí, — disse Rocco, — aria ce n’è.

«Sarebbe bella, — pensavo, — se Poli facesse all’amore anche con questa».

Dovetti sorridere perché Rocco mi guardò per traverso. Poi si sputò la cicca in mano, una grossa mano annerita, e borbottò qualcos’altro.

Si lagnò della stagione. Disse che l’acqua della vasca non bastava e bisognava trasportarla a braccia. Un tempo c’era stata una pompa ma adesso era rotta.

Allora chiesi di dov’era l’acqua che bevevamo. — Acqua di pozzo, — disse Pinotta dalla finestra. — E chi la tira? — La testa rossa si agitò selvaggiamente. — Io, la tiro.

Io volevo parlare con Rocco, farmi descrivere la selva, la vita d’un tempo, ma gli occhi tondi di Pinotta non mi lasciavano un momento.

Allora chiesi se qualcuno faceva il bagno sul terrazzo e con che acqua. Pinotta sogghignò a modo suo. — In terrazzo la signora fa il bagno di sole, — disse.

— Credevo che l’acqua la portasse lei.

— Non ho ancora ammazzato nessuno.

S’era fatta coraggio e mi chiese perché non ero andato alla festa. Quest’argomento interessò anche Rocco. Mi guardarono speranzosi, come origliassero.

— Non ci stavamo sul biroccio, — tagliai.

Il vecchio Rocco scosse il capo. — Troppa gente, — borbottò, — troppa.

Poli, che aveva ancora dal giorno prima il viso pesto, scese un momento per colazione, poi tornò su e ricomparve soltanto all’imbrunire. In tutto il giorno non avevamo scambiato dieci frasi; non sapevamo cosa dirci; lui sorrideva quel sorriso stanco e gironzava. Sfogliai tutto il pomeriggio i vecchi libri nella stanza da gioco, album ingialliti, vecchie enciclopedie e raccolte illustrate. Quando al crepuscolo entrò Poli, levai il capo e gli dissi:

— Rientreranno per cena? [p. 229 modifica]

Poli alzò gli occhi e si schiari. — Direi di bere intanto un liquorino, — propose.

Allora bevemmo seduti sotto i pini.

— Il tempo passa, — osservai. — Anche quassú dove tutto sembra fermo. Lei in fondo sta bene da solo.

Sorrise. Era in maniche di camicia e catenina, abbronzato.

— Perché, — cominciò, — non ci diamo del tu? Noi due siamo amici di Oreste.

Ci demmo del tu. S’informò educatamente della mia vita di Torino, di quel che avrei fatto tornando a Torino. Parlammo di Pieretto; gli raccontai che le donne d’Oreste l’avevano creduto un teologo, e lui rise animandosi, disse che Pieretto valeva di piú, ma che aveva un difetto, non credeva nelle forze profonde, nell’inconscia innocenza che è in noi.

Gli chiesi se quell’inverno lo passava al Greppo. Annuí taciturno, con gli occhi intenti.

— Penso sempre, — gli dissi, — che vederti in questo luogo dove sei stato bambino, deve farti un certo senso. Per te, qui tutto deve avere una voce, una vita sua. Specialmente adesso.

Poli taceva e ascoltava con gli occhi.

— ...Arrivandoci ha commosso anche me. — dissi. — Figúrati. Non c’ero mai stato. Ma questo misto di abbandono e di radici — non semplice campagna, è qualcosa di piú — m’interessava quanto mai. Quando ci stavi, era già cosí?

Lui mi guardava, testardo.

— La casa era questa, — disse, — c’era piú gente, piú servizi, ma non l’hanno cambiata.

— Non dico la casa. Parlo dei boschi, delle vigne incolte, di quest’aria selvatica. Stamattina prendevo il sole alla grotta, e mi pareva che la collina avesse un sangue una voce, vivesse...

Lo vidi raccogliersi.

— ...Tu che ci sei da tanto tempo hai mai pensato a queste cose sul Greppo?

Parlavo, e dentro mi dicevo: «Se tu sei matto, eccone un altro. Chi sa che una volta non si vada d’accordo».

Ma Poli disse, tormentando il bicchiere: — Come tutti i ragazzi ero pazzo per le bestie. Avevamo dei cani, dei cavalli, dei gattini. Avevo Bub un irlandese da trotto, che poi s’è rotta la schiena... Nelle bestie mi piace l’indolenza, sono piú libere di noi... [p. 230 modifica]

— Forse, quello che dico della collina tu lo trovavi nelle bestie. Ti piacevano quelle selvatiche, le lepri, le volpi?

— Non mi piacevano, — disse Poli risoluto. — Io con le bestie discorrevo, come discorro con voi. Non si può discorrere con delle bestie selvatiche. Mi piaceva Bub perché si lasciava frustare. Mi piacevano i gattini perché li tenevo sulle ginocchia. Capisci? — disse rischiarandosi, — come con una donna, come stare con mamma...

— Mamma è un’altra cosa, — riprese. — Poveretta, mi ha fatto soffrire. Ci fu l’inverno che andò a Milano, e passai Natale solo, coi domestici e la neve. Stavo a guardare la neve dalla finestra nel buio, e se le donne mi cercavano non rispondevo, per farle ammattire...

— Ecco un ricordo per l’inverno, — dissi.

— Mamma non c’è piú, — disse Poli. — Hai ragione. Per me in campagna è sempre inverno.

Cosí passò quella sera, e a mezzanotte si dovette cenare. Pinotta ci guardava, noi due a quel tavolo, e aveva l’aria di divertirsi assai. Andava e veniva ciabattando. Una cert’ansia la sentivo, piú di Poli. Bevemmo a lungo e a un certo momento, non so come, gli parlai di Rosalba. Gli chiesi dov’era, come fosse finita.

— Oh, — disse Poli malinconico, — è morta. [p. 231 modifica]





XXIII.

Quando a mezza mattina arrivarono i tre sul biroccio, ero rauco e sbalordito. Tutta la notte avevamo parlato della morte di Rosalba. Poli non ne sapeva gran che. Si era uccisa in quella pensione di suore — veleno, un narcotico — quando lui era partito per il mare. Avevamo passeggiato sotto i pini, contornato la vasca, e parlato parlato a voce bassa fino a giorno. Poli diceva che la morte non è nulla, non siamo noi che la facciamo, dentro di noi c’è gioia e pace e nient’altro.

Gli chiesi allora se la coca faceva parte della pace dell’anima. Mi rispose che tutti adoperiamo qualche droga, dal vino ai sonniferi, dal nudismo alle crudeltà della caccia. — Cosa c’entra il nudismo? — C’entrava sí: c’è chi esce nudo tra la gente per il gusto di abbrutirsi e violare una norma umana.

Non bastò la notte a fargli ammettere che tra un suicidio e la morte per malattia o per disgrazia c’è un salto. Poli parlava di Rosalba con la voce esitante di un ragazzo commosso; parlava intenerito di quando era stato lui per morire; nessuno aveva colpa di niente; Rosalba era morta; stavano bene tutti e due.

Tutta la notte, quasi a dargli ragione, bevemmo, litigammo e fumammo. Il primo sole ci trovò in poltrona, e la Pinotta scarmigliata ci faceva il caffè. Tra gli aghi dei pini traspariva la luna. Adesso parlavamo di caccia, delle povere bestie: Poli diceva che di tutte le droghe non capiva il sangue sparso; era questo che Rosalba gli aveva insegnato, il sangue ha qualcosa di diabolico. — Adesso Oreste vuole andare a caccia. Non capisce che un uomo può avere ripugnanze. Ci vada, e lasci gli altri tranquilli...

La luce del giorno mi calmò un poco, ma la tensione, la [p. 232 modifica]stanchezza, l’ira sorda non mi lasciarono dormire. Quando sentii sullo spiazzo le voci allegre, mi prese un’ira contro Pieretto che certo sapeva e non mi aveva detto nulla; e non scesi subito; fissavo vagamente il soffitto e pensavo che Rosalba, la coca, il sangue sparso, la collina, fossero un sogno, una beffa, che tutti si erano accordati a giocarmi. Bastava scendere, far finta di nulla, non lasciarsi afferrare nel giro. Ridergli in faccia, questo sí...

Un fragore, uno scoppio, mi fece saltare sul letto. Corsi alla finestra e li vidi che calavano ridendo dal biroccio. Oreste brandiva un fucile fumante, Gabriella s’era impigliata col vestito nella serpa e strillava, capelli al vento, — Fatemi scendere.

Corsero fuori la Pinotta e la cuoca; uscí Poli. Discussioni e saluti cominciarono. Il vino, la fiera, i fossati. — Quant’abbiamo riso, — dicevano, — siamo passati dal paese di Oreste — . Il cavallo scalpitava a testa bassa.

Discesi anch’io, e fu mezzogiorno prima che il subbuglio si sedasse. Buttati sulle poltrone, sospiravano e vociavano d’una cosa e dell’altra. Regnava tra loro un’intesa, il riflusso della comune baldoria. Gente che sanno divertirsi, dicevano, che paesi; e Pieretto era stato in un fosso, s’era picchiato con un oste; poi avevano suonato le campane, fatto uscire il sacrestano; rubato l’uva in una vigna.

— E cosí, — disse Pieretto, seduto sul bracciolo della poltrona di Gabriella, — li hai preparati i tuoi fucili, Poli? Noialtri vi faremo da cani.

A mezzogiorno ritornò la calma. Gabriella salí per mettersi in ordine. Guardai Oreste, era pacato e felice. La sua accresciuta intimità con Gabriella gli covava negli occhi. Non c’era bisogno di chiedergli nulla.

Non capivo Pieretto, che s’era rimesso a scherzare con Poli. Parlavano di un contadino che aveva conosciuto suo nonno e raccontava quante spose il vecchio avesse ingravidato in quei paesi.

— È un vecchio gusto di famiglia, — disse Poli. — Le campagne ci stavano.

— Peccato, — disse allora Pieretto, — che Gabriella ti voglia bene. Potrebbe sdebitare la famiglia. Devi mandarla piú sovente a queste feste.

Qualunque cosa avesse in mente Pieretto, fu Oreste che esplose con uno scatto inarticolato. Poli alzò un occhio perplesso. [p. 233 modifica]

Oreste era in piedi davanti a Pieretto, e non diceva parola. Si fissarono un attimo, scarlatti, ma già Pieretto era tornato in sé.

— Che ti piglia? — disse brusco. — T’ha fatto male il tiro a segno?

Oreste squadrò lui, squadrò Poli, poi se ne uscí senza dir nulla.

Non appena fummo soli sulle scale, chiesi a Pieretto se sapeva di Rosalba. Mi rispose pacato che lo sapeva da un pezzo, e fin dai giorni di Torino se l’era aspettato. — Che vuoi che facesse una donna in quella situazione? Una donna non ha scappatoie. Sono incapaci di pensiero astratto...

— Poli è un bastardo e un incosciente...

— Non lo sapevi? — disse lui. — Dove vivi?

L’avrei pestato. Mi morsi la lingua. In quel momento Gabriella passò in corridoio svolazzando; ci gettò un saluto e corse abbasso.

— Cos’è questo nuovo pasticcio? — borbottai. — Chi l’ha sedotta, di voi due?

— Chi crede d’averla sedotta, vuoi dire. Non è ancor nato quel fringuello.

— Qualcuno però fa sul serio.

— Tutto può darsi, — sogghignò Pieretto. — Gli hai dato tu questo consiglio?

Capii allora che Pieretto era piú innocente di me. Gli presi il braccio — una cosa che non avevo mai fatto — e ci accostammo alla finestra. — Sono tre giorni che va avanti, — gli dissi, — e può succedere un pasticcio. Lo dicevo ch’era meglio andar via. Per me, potrebbero anche ammazzarsi. Non m’importa di Poli... Ma m’importa di Oreste.

— Cos’è che ti spaventa? il fucile? — disse Pieretto, pronto a ridere.

— Intanto ci hai pensato anche tu. Mi spaventa che a Oreste non si può piú parlare...

— Tutto qui?

— Non mi piace la faccia di Poli. Non mi piacciono i discorsi che fa. Non mi piace questa storia di Rosalba...

— Però Gabriella ti piace.

— Non quando si sbronza nei fossi. Questa gente non è come noi...

— Ma è il suo bello, — esclamò Pieretto, — è il suo bello.

— L’hai detto tu che si detestano. [p. 234 modifica]

— Scemo, — disse Pieretto, — almeno la gente che si detesta è sincera. Non ti piace la gente sincera?

— Ma Oreste ha da sposare Giacinta...

Continuammo fin che di sotto non ci chiamarono a colazione. Trovammo Poli perplesso e annoiato, Oreste scontroso, e Gabriella coi capelli lavati, che cicalava sulle nappine rosse dei buoi e sul fetore abominevole dell’acetilene.

— A me piace l’odore dell’acetilene, — disse Pieretto. — Mi ricorda le bancarelle d’inverno e le trombette. [p. 235 modifica]





XXIV.

Volli parlare con Oreste. Non che lui mi sfuggisse, ma aveva un’aria tra sarcastica e offesa che scoraggiava. Lo fermai sulla scala e gli chiesi di farmi vedere il fucile.

— A caccia con te, — gli dissi, — potremo venire?

Fucile e carniere li avevano buttati su un divano nella stanza del biliardo.

Presi nel sacco una cartuccia rossa, e gli dissi: — È con una di queste che vuoi uccidere Poli?

Me la tolse di mano e borbottò: — Che c’entra?

Allora gli chiesi se mi lasciava parlare. A bassa voce (gli altri stavano in veranda) gli dissi che adesso che con Poli ci davamo tutti del tu, non potevamo non trattarlo come un amico. Gli pareva di trattarlo da amico? Quindici giorni prima, se Poli si fosse messo intorno a Giacinta, che pure non aveva sposato nessuno, che cosa sarebbe successo? Almeno sapessero non farsene accorgere. Un bel momento anche Poli, per quanto stufo, per quanto matto, per quanto incosciente, non avrebbe piú potuto chiuder gli occhi. Non era meglio che ce ne andassimo subito? tornarcene a casa, conservare un buon ricordo? Dove sperava d’arrivare?

Oreste mi ascoltò rosso in faccia e fu piú volte per interrompermi. Ma quando smisi di parlare, sorrideva un sorriso testardo e tacque guardandomi di sotto in su.

— Non è la stessa cosa, — balbettò in fine. — Non rubo niente io. E neanche vogliamo nasconderci. Anche lei è d’accordo.

— Si capisce che lei è d’accordo. È una donna. Ma come andrete a finire, lo sai?

Mi guardò un’altra volta, con una smorfia contratta. — È piú di un anno che si sono lasciati, — disse. — Lei non voleva piú [p. 236 modifica]vederlo. È stato il padre di Poli a mandargliela qui. Perché cercasse di tenerlo a posto, che non facesse piú disordini. Hai visto come Poli la tratta...

Non gli risposi che non si cura un malato facendolo bere, facendogli rabbia, facendogli l’amore sotto gli occhi. Era inutile, perché Oreste parlava indignato, con quel testardo rossore che vuol dire «Stavolta o mai piú».

— ... È una ragazza straordinaria, — disse Oreste. — Dovevi vederla ballare, ridere alla festa, scherzare coi musicanti... Sa stare con tutti...

— E ti ha detto che sei tu il suo uomo?

Oreste fece uno sforzo e mi guardò. Mi guardò di soppiatto, con aria di compatimento. Gli brillavano gli occhi. Giorni dopo, quando fu chiaro che quel gioco era piú grosso di noi, capii che l’occhiata era stata un tentativo di non essere insolente, di non offendermi con la sua felicità. Perché queste cose ci facevano vergogna. Non sapevamo parlarne.

— Del resto, — disse Oreste, — lo sa anche Poli. Dopo la storia di Torino... Lei viveva già da sola...

— Lei, te l’ha detto? E allora, che cosa ci fanno qui insieme?

Continuammo cosí fin che non vennero a interromperci. Non mi riuscí d’inquietarlo, di togliergli quel suo accanimento. Gabriella dovette capire che si parlava di lei perché venne, ci prese a braccetto, ci disse: — Su su, chiacchieroni, — e tutto il tempo mi scrutò.

Quel pomeriggio andammo a caccia. Venne anche Poli. — Noi discorriamo, loro sparano, — gli disse Pieretto. A me pareva che Poli guardasse Oreste e la moglie con aria divertita. Ogni tanto si soffermava, tratteneva Pieretto, tratteneva me, ci diceva quant’era bello che di tante conoscenze che aveva fatto in quegli anni nessuno lo capisse come noi due. Io lasciavo parlare Pieretto; un bel momento m’impazientii e svoltai dietro un macchione. Sapevo che Oreste e Gabriella dovevano scendere fino alle vigne per trovare i fagiani, sapevo che Gabriella non pensava ai fagiani, nemmeno Oreste ci pensava, nemmeno Poli. Allora decisi di starmene solo, di cercarmi una riva, delle canne, e l’orizzonte. Cosí feci e mi misi a fumare.

Certo, era duro non vedere Gabriella, non sentirla discorrere, non essere al posto d’Oreste. Mi chiesi se in quell’ultimo colloquio [p. 237 modifica]con lui c’era stato da parte mia del dispetto, del rancore. Il pensiero che uno di noi se ne andasse con lei compiacente per la selva, magari nel chiosco, e che insieme, alla luce del giorno... Ricordavo il Po, ricordavo il pantano. Dov’era piú l’odor di morte dell’estate? e tante chiacchiere, tanti discorsi tra noi?

Rintronò una botta di fucile. Tesi l’orecchio. Seguirono voci allegre, distinsi quella di Pieretto. Un’altra botta. In piedi, cercai con gli occhi tra le vigne la nuvoletta di fumo. Erano in basso, quasi tra i càrpini. Sono scemi quei due, borbottai, davvero tirano ai fagiani. E ributtatomi sull’erba, ascoltavo il brusio delle cose, la vibrazione di quei colpi, la vita del Greppo che adesso potevo godere tranquillo in tutti i suoi avvallamenti e la sua pace.

Risalimmo quando l’ombra del Greppo già riempiva la pianura. Avevano ucciso una diecina di passerotti, che mi mostrarono imbrattati di sangue, nel carniere, in mezzo alle cartucce. Gabriella dava il braccio a Oreste e Pieretto, e a me fece il broncio; mi chiesero dove diavolo fossi rimasto. — Un’altra volta ti sparano addosso. Sta’ attento, — mi disse Poli calmo calmo.

A tavola riparlammo di caccia, dei fagiani, delle possibili battute. Oreste discuteva eccitato, convinto, come da un pezzo non faceva piú. Gabriella lo covava con gli occhi, con un’aria perplessa e distante. — Davide e Cinto hanno fatto fuori la riserva, — diceva Oreste. — Perché non cambi il guardaboschi?

— Tanto meglio, — diceva Poli, — la caccia è un gioco da ragazzi.

— Da principi, — disse Pieretto, — da signori feudali. Quel che ci vuole sul Greppo.

Poi Gabriella si raggomitolò sulla poltrona, e ci ascoltò discorrere e non chiese né le carte né la musica. Fumava e ascoltava, ci guardava a uno a uno e sembrava sorridere. Venne da bere e non ne volle. Io guardavo la faccia di Poli e mi chiedevo cosa fossero state le sere del Greppo quando lui e Gabriella ci stavano soli. Dovevamo pure andarcene un giorno. E anche loro dovevano andare. Che cos’era questa villa nelle sere d’inverno? Mi prese una pena improvvisa, uno sconforto, all’idea che l’estate sul Greppo, l’amore d’Oreste, quelle parole e quei silenzi, e noi stessi, tutto sarebbe passato, tra poco, finito.

Ma Gabriella saltò in piedi, si stirò gemendo come una bambina, e disse senza nemmeno guardarci: — Spegnete la luce. Vero, Oreste, che per vedere i pipistrelli bisogna spegnere la luce? [p. 238 modifica]

Andarono a sedersi sugli scalini, e noi dietro. C’erano piú stelle che voci di grilli. Discorremmo di stelle e di stagioni. — L’ultima stella del mattino compare laggiú, — disse Oreste. Andarono, lui e Gabriella, fra i tronchi; passeggiarono accostati, a guancia a guancia; li sentivamo frusciare. Era strano pensare che Poli fosse seduto in mezzo a noi. Per un attimo mi parve che l’unico sano fosse lui: tutti noialtri tacevamo, ansiosi. E Poli ci disse: — Pare la notte che si guardava Torino.

— Manca qualcosa, — borbottai.

— Manca la voce.

Allora Pieretto — sentii che ansimò — cacciò quell’urlo, squarciandolo a modo suo e sghignazzando. Seguí un trepestio nella casa, cigolarono porte, e lontano la voce già fioca di Oreste rispose.

— Speriamo che Gabriella non prenda freddo, — disse Poli.

— Non bevete qualcosa? — disse Pieretto. [p. 239 modifica]





XXV.

— Che voglia di entrare in un bar, — disse Pieretto quando tornammo sugli scalini con la bottiglia, — passare davanti a un cine, far notte a Torino. Voi no?

— A volte, — disse Poli, — mi chiedo se le donne capiscono. Se capiscono che cos’è un uomo... Le donne o gli corrono addosso o scappano per farsi rincorrere. Nessuna donna sa stare sola.

— All’una di notte ne incontri, — disse Pieretto.

— C’è stato un tempo che le credevo sensuali, — disse Poli guardando a terra, — credevo sapessero almeno questo; Macché. Non vanno oltre la pelle. Nessuna donna vale un pizzico di droga.

— Ma non dipende anche dall’uomo? — brontolai.

— Il fatto, — disse Poli, — è che mancano di vita interiore. Mancano di libertà. Per questo, rincorrono sempre qualcuno, che non trovano. Le piú interessanti sono le disperate, quelle che non sanno godere... Non le soddisfa nessun uomo. Ci sono vere femmes damnées.

— Dans les couvents, — disse Pieretto.

— Macché, — disse Poli, — sui treni, negli alberghi, per il mondo. Nelle migliori famiglie. Le donne chiuse in convento e in prigione sono donne che han trovato un amante... Il dio che pregano o l’uomo che hanno ucciso non le lascia un momento, e stanno in pace...

Tesi l’orecchio a un cigolio sulla ghiaia. Sperai che Oreste e Gabriella tornassero e fosse finita. Ma era una pigna o una lucertola.

— Questo discorso non riguarda te, — disse Pieretto. — O vuoi uccidere qualcuno?

Poli accese la sigaretta, e comparve il suo viso, con occhi [p. 240 modifica]socchiusi. Mi sembrò colpito. Disse dal buio: — Non sono abbastanza altruista per farlo. Non è un piacere che mi attiri.

— Lui lascia che la gente si ammazzi da sé, — dissi a Pieretto.

Tacemmo a lungo e contemplammo le stelle. Dalla collina nel fresco dei pini saliva un odore dolce, quasi di fiori. Mi ricordai quei gelsomini del chiosco, che un tempo sotto l’ombra del boschetto dovevano esser parsi tante stelle. Ci aveva mai vissuto qualcuno in quel chiosco?

— Le bestie, — disse Poli, — capiscono l’uomo. Sanno star sole, piú di noi...

Come Dio volle, ritornò Gabriella correndo. — Non mi prendi, — gridava. Giunse Oreste, piú calmo. — Il tuo fiore, — le disse.

— Oreste vede al buio come i gatti, — rise lei. — Al buio mi dà anche del tu.

— Sentite, — ci fece. — Datemi tutti del tu e sia finita.

Quando rientrammo e accendemmo, eravamo disinvolti. Ci disperdemmo per la sala e Gabriella canterellando cercò un disco. Aveva un fiore di leandro nei capelli. S’abbandonò su una poltrona e ascoltò la canzone. Era un blues molle, sincopato, un contralto squillante. Oreste taceva in piedi, presso il grammofono.

— È bello, — disse Pieretto. — Non l’avevamo mai sentito.

Gabriella sorrideva, in ascolto.

— È dei dischi di Maura? — disse Poli.

Cosí fini quella serata, e andammo a letto. Dormii male, d’un sonno pesante. Mi svegliò Pieretto che m’entrò nella stanza, a sole alto.

— Ho mal di capo, — gli dissi.

— Non sei il solo, — disse lui. — Sentili, dànno già dentro.

La voce del disco, il contralto, riempiva la casa. — Sono pazzi, a quest’ora?

— È Oreste che saluta la bella, — disse Pieretto. — Gli altri dormono.

Cacciai la faccia nel catino e sbuffavo. — Non esagera Oreste?

— Sciocchezze, — disse Pieretto. — Chi non capisco bene è Poli. Non mi aspettavo di sentirlo lamentarsi. Si direbbe che non vuole le corna.

Mi pettinavo, e mi fermai. — Se ho ben capito, — gli dissi, Poli è stanco di donne. Ha detto che gli levano il fiato. Preferisce le bestie o noialtri. [p. 241 modifica]

— Nemmeno per sogno. Non ti accorgi che parlando delle donne ci soffre? Quello è uno scemo, innamorato...

Quando scendemmo la canzone era finita da un pezzo. La Pinotta che spolverava, ci disse che Oreste, appena messo su il disco, era partito sul biroccio, dicendo che sarebbe tornato per mezzogiorno.

— Non ha piú pace, — disse Pieretto, — ci siamo.

— Tornerà in bicicletta.

Pieretto se la rise, e anche Pinotta mi guardò impertinente.

Non mi tenni. — Chi sa, — brontolai, — che effetto gli farà la Stazione.

— Gli farà bene alla salute, gli farà bene alla salute, — e Pieretto si fregò le mani. Poi disse a Pinotta: — Si è ricordata delle sigarette?

Alle undici, non potendone piú, salii a bussare alla stanza di Poli. Volevo chiedergli dell’aspirina. — Avanti, — mi disse. Era a letto sotto il baldacchino con un bel pigiama granata, e seduta alla finestra, già in calzoncini, stava Gabriella.

— Scusate.

Mi guardò divertita.

— Questo è il giorno delle visite, — disse.

C’era qualcosa d’impacciato. Non mi piacquero le facce.

Lei stessa si alzò per andarmi a prendere il calmante. Attraversò la stanza, di pianelle rosse lucidissime, e frugò in un cassetto. — Purché non mi sbagli, — disse ridendo nello specchio.

— È nel bagno, — disse Poli.

Gabriella sgusciò fuori.

— Mi dispiace, — balbettai. — L’altra notte non abbiamo dormito.

Poli mi guardava, senza sorridere, annoiato. Ebbi l’impressione che non mi vedesse. Mosse la mano e soltanto allora mi accorsi che fumava.

Tornò Gabriella e mi tese il tubetto. — Scendiamo subito, — disse.

Passai la mattina alla grotta, col mio mal di capo. Mi chiedevo se dalla loggia di Gabriella si vedevano le canne dov’ero. Pensavo alla vecchia Giustina, alla madre di Oreste, e che cosa avrebbero detto sapendo quel che succedeva sul Greppo. Ma quel mattino mi sentivo piú tranquillo, mi pareva che la cosa piú difficile fosse stata accettata, che tutto potesse ancora aggiustarsi. [p. 242 modifica]Quell’accidenti, mi dicevo, lui che ha già una ragazza. Si vede che è fatto cosí.

Risalito, non trovai nessuno, e mi fermai sotto i pini. Chi sa se Oreste era tornato. La pianura vaporava fra i tronchi, nella luce. Ogni volta che rientravo da quelle gite pensavo che poteva esser l’ultima. Ma fin che Poli non ci cacciava voleva dire che riusciva a sopportarci; se Pieretto avesse avuto ragione. Poli ci avrebbe già spediti. Era sempre lo stesso, Poli: sopportava Oreste pur di avere Pieretto, e anche me, sotto mano, per discorrere, per indolenza. Per la consueta villania.

Oreste purtroppo era arrivato. Me lo disse Pieretto: — Prendono il sole sul terrazzo, — con un’aria innocente, e Poli al suo fianco sembrò non farci caso. Non aveva la faccia d’aver molto dormito. Fumava e gli vidi la mano malferma.

— Prendono il sole di sopra? — balbettai.

Mi guardarono come si guarda un seccatore. Si rimisero a parlare di Dio.

Ma a colazione Poli disse qualcosa. Si lagnò con chi di noi s’era messo a suonare un disco alle sette. Se la prese anzi con Gabriella che l’aveva svegliato. Disse con astio: — Ogni cosa a suo tempo.

Gabriella lo guardava feroce. Ma fu Oreste che, compunto, scherzando dichiarò d’essere lui il colpevole.

Si ebbe il silenzio di noi tutti, e da lei un’occhiata. Gabriella era davvero infuriata. — Dover vivere tra i matti e i bambocci, — disse cattiva, con disgusto.

Allora Oreste, rosso in faccia, buttò il tovagliolo e uscí tra i pini. [p. 243 modifica]





XXVI.

Seguí un penoso pomeriggio di silenzi. L’assenza di Oreste mandava a monte la partita di caccia; Gabriella si ritirò a scriver lettere; Pieretto disse: — Quell’idiota, — e andò a dormire. L’unico equanime mi parve Poli, che rimase in sala a sfogliare riviste e aveva accanto la bottiglia del cognac. Vedendomi dalla finestra passare come un’anima in pena mi chiese perché non venivo a bere e non chiamavo Pieretto. Allora indietreggiai sullo spiazzo, gridai il nome di Pieretto e me ne andai.

Scesi fino ai càrpini e oltre. Sinora non l’avevo mai fatto. Mi ritrovai sulla straducola rossa dell’altopiano, polverosa, segnata di sterchi di buoi. Uno sciame di farfalline gialle ci volteggiavano sopra. Quel caldo odore di trifoglio e di stalla mi piacque, mi disse che il mondo non finiva sul Greppo. Raccolsi tutta la mia stizza e decisi di annunciare quella sera che tornavo a Torino.

Risalendo la strada, guardai per l’ultima volta la collina. Dal basso non si vedevano che i pini e le coste scheggiate, sterpose. Era davvero come un’isola il Greppo, un luogo inutile e selvaggio. In quel momento avrei voluto esser già lontano, ripensarci dalla mia vita consueta. Tanto ormai l’avevo nel sangue quel monte.

Incontrai Rocco che scendeva adagio. Mi disse che lassú mi cercavano. — Chi mi cerca? — A quanto disse, tutti e quattro, calmi calmi. Prendevano il tè sotto i pini. — Anche il dottore? — Anche il dottore.

Sono pazzi, pensai; e giunsi sulla cima guardingo. Gabriella, in gonna rosa, gridò quando mi vide, gridò che non dovevo tradirla, non dovevo disertare come ieri. Alzai le spalle e sorbii il tè. Oreste, come niente fosse stato (teneva già il fucile sulle ginocchia), [p. 244 modifica]si rimise a spiegare certe astuzie di tiro. Come Dio volle, ce ne andammo.

Stavolta tutti scendemmo in gruppo. Toccai il gomito a Pieretto e con gli occhi lo interrogai. Pieretto si chiuse nelle spalle e guardò il cielo. — Ma non erano in rotta? — bisbigliai. — È andata lei nella sua stanza, — mi rispose.

Allora mi misi alle costole di Oreste e gli chiesi dov’era questa lepre che dovevamo ammazzare. Andò che Poli gli disse qualcosa e lui si volse, e Gabriella mi guardò di sfuggita con una smorfia di sorriso. Siccome avevamo già lasciato la strada, bastò un cespuglio per trovarci soli. Col cuore che mi batteva (le davo del tu) balbettai: — Posso parlarti?

— Pardon? — disse lei, sempre ridendo.

— Questo non va, Gabriella, — le dissi. — Volevo parlarti di Oreste.

C’eravamo fermati. Le vidi gli occhi da vicino. Era seria eppure rideva.

— Oreste ci fa disperare, — mugolò. — Oreste è cattivo.

Alla mia occhiata alzò le spalle, scostandosi. Parlò con durezza. — Devi dirglielo anche tu, se ti ascolta. Credo che siate buoni amici. Non deve piú farli, i capricci. Dei tipi come voi non ho paura...

Camminavamo fra i tronchi e i cespugli. Ci seguiva a pochi passi il trepestio degli altri. Scostando le frasche, Gabriella mi afferrò il polso e susurrò: — Tu non sai quanto mi è caro... Nessuno lo sa. Cosí serio, cosí buffo, cosí giovane... Guai a te se gli parli di questo... Ma deve obbedirmi e non fare i capricci...

Sbucammo nel sole e sbucarono gli altri. Guizzò qualcosa sul mio capo e rintronò una fucilata. Sentii Pieretto vociare. Gridò anche lei. Gridammo tutti. Oreste aveva tirato a un’anatra — un germano reale, ci disse — e l’aveva mancato.

— Che criterio. Tirarci nella nuca, — disse Gabriella. — Potevi stenderci.

Ma Oreste era felice: — Sono soltanto pallini, — disse. — Per uccidere un uomo ci vuole un colpo a bruciapelo.

— Da’ a me il fucile, — disse lei. — Voglio sparare.

Poli era rimasto sull’orlo della radura, quasi a non prendere parte a quel gioco. Aspettammo che passasse un altro uccello; Gabriella teneva l’arma a braccetto; Oreste guardava da lei al cielo, [p. 245 modifica]irrequieto e felice. Dopo un po’ che nulla avveniva, Poli propose di muoverci, di arrivare al chiosco.

Quella sera, a tavola, si parlò e si scherzò sul germano reale. — Ci vorrebbe un cane, — diceva Oreste. — Prima ci vuole un cacciatore, — disse Pieretto. Parlavano a bocca piena, con foga.

— L’appetito non l’hai perduto, — dissi a Oreste.

— Perché non dovrebbe aver fame? — disse Poli. — È un cacciatore.

— Deve crescere, — disse Pieretto.

— Che cosa avete contro Oreste? — scattò Gabriella. — Lasciatelo stare. È il mio uomo.

Oreste ci guardava, tra confuso e gaio.

— Sta’ attento, — gli disse Poli, — Gabriella è una donna.

— Ti sei accorto che Gabriella è una donna? — continuò con leggerezza, beffardo.

— Non è difficile, — rise lei, — sono la sola.

— L’unica, — disse Poli, e strizzò l’occhio e sorrise.

Pieretto aveva l’aria di capir tutto e divertirsi. Vidi Oreste chinare il capo e mangiare. Mi parve che volesse nascondersi. E Gabriella lo guardò un momento, senza smettere quel sorriso pungente.

Per quanti giorni Gabriella gli sorrise cosí? Sorrideva anche a me; perfino a Poli. Parevano tornati i primi tempi del Greppo. Lei e Oreste sparivano, s’eclissavano insieme sul terrazzo, nel bosco. Pareva giocassero; di nascondersi non c’era bisogno. Io credo che avrebbero potuto incontrarsi e parlare sotto i nostri occhi, sotto gli occhi di Poli: Gabriella era tipo di farlo. Qualche volta avrei detto che rideva di noi, che Oreste serviva a sfogarla di tutti quanti. Quando la sera ci ritrovavamo intorno al tavolo, la faccia d’Oreste era sorpresa, sovente imbambolata. Né a me né a Pieretto riuscí piú di scuoterlo, neanche mettendolo sul discorso di Poli. Del resto, cos’importava? Per Gabriella era soltanto un passatempo. Glielo dissi una sera che lo vidi accigliato, e Oreste crollò il capo, come a dire «Tu non sai».

Di tanto in tanto litigavano, a silenzi, a occhiate. Le mattine, quando Poli tardava a scendere e Gabriella dappertutto si trovava Oreste nei piedi, lei gli diceva di tenerci compagnia, di andare per fiori, di accompagnare la Pinotta ai Due Ponti. — Bamboccio, — gli diceva, — vai via — . Glielo diceva infastidita, con un rapido sorriso, [p. 246 modifica]entrando e uscendo dalle stanze. Oreste andava sotto i pini, disperato. Ma poi Poli scendeva, scendeva Pieretto, e allora Gabriella lo chiamava con durezza, voleva che ci fosse anche lui, lo prendeva a braccetto. Oreste ubbidiva, sotto lo sguardo sarcastico di Poli. [p. 247 modifica]





XXVII.

— Mi piace poco questa pineta, — disse una sera Pieretto avvicinandosi con Poli fra i tronchi. — È un paese troppo poco selvatico. Rospi e bisce non se ne trovano.

— Che ti piglia? — gli dissi.

— Scommetto, — disse lui, — che ti contenti — . Sogghignò. — Era meglio il pantano. Qui nemmeno ci si può mettere nudi. Troppa civiltà.

— Non mi sembra, — disse Poli. — Viviamo come contadini.

Sbucò Gabriella fra i tronchi e ci guardò sospettosa.

— Complottate? — chiese.

— Magari, — disse Pieretto. — C’è Poli ch’è convinto di vivere alla contadina. A me pare che mangiamo e beviamo come porci. Come signori, via.

— Signori? — disse Gabriella imbronciata.

Allora Pieretto le rise sul naso. — Strane idee ha la gente, — disse. — Vi pare di guadagnarvi la vita?

Ma Poli disse: — Se vuoi metterti nudo, puoi farlo.

— Impossibile, — disse Pieretto. — Qui ci si sente troppo civili.

— Volete mettervi nudi? — disse Gabriella. — Perché no? Ma queste cose i contadini non le fanno.

Pieretto allora mi guardò. — L’hai sentita? Ha le tue idee la signora.

— Non chiamarmi signora.

— Il fatto è, — disse incaponito Pieretto, — che star nudo come stanno le bestie, non ci riesce nessuno. Mi domando perché...

Gabriella sorrise appena.

— Intendiamoci. Vivere nudi, — disse Pieretto. — Non spogliarsi per gioco. [p. 248 modifica]

Tra le piante comparve Oreste, con quell’aria offesa.

— Per me, — disse Poli, — siamo tutti nudi senza saperlo. La vita è debolezza e peccato. La nudità è debolezza, è come avere una ferita aperta... Le donne lo sanno quando perdono sangue...

— Il tuo Dio dev’essere nudo, — borbottò Pieretto, — se ti somiglia dev’essere nudo...

A tavola ci sedemmo imbarazzati. Nemmeno Pieretto scherzava quella sera. Il piú innocente mi pareva Oreste, che guardava Gabriella tristissimo. Qualcosa era rimasto nell’aria da quel colloquio sotto i pini, qualcosa che ci faceva vergognare. D’un tratto m’accorsi che tra Poli e Gabriella correvano occhiate, occhiate dure, quasi ansiose, vere. Mi riprese la vecchia impazienza, la volontà di esser solo. Fu Pieretto questa volta che parlò.

— I piaceri del Greppo sono agli sgoccioli, — uscí brusco. — Tu Oreste che cosa ne dici?

Oreste, colto in uno sguardo intenerito, alzò la testa. Ma nessuno sorrise. Né Poli né Gabriella obbiettarono nulla. Era evidente che qualcosa accadeva. Ripensai a Rosalba.

— Cacciatori, la stagione è finita, — disse allora Pieretto.

Oreste sorrise timidamente. — C’è ancora la stagione di passo, — disse a un tratto Gabriella con inattesa vivacità. — Le beccacce, le starne — . S’imbronciò. — Prima dovete vendemmiare.

Riparlammo di questo, la spina d’Oreste. C’era l’intesa con suo padre che dovevamo esser presenti alla vendemmia a San Grato. A suo tempo l’avevamo discusso, e come sempre a quell’accenno Oreste si rabbuiò.

— È un peccato che le vigne del Greppo le vendemmino soltanto i tordi, — disse Poli sbirciandolo. — Consòlati, Oreste. Tu vai laggiú e noi ti aspettiamo.

Ma, strano a dirsi, proprio il disagio che pesava sulla cena toglieva malizia alle occhiate. Nel silenzio che seguí scoppiò l’urlo di un clacson. Una luce repentina investi i vetri, e Gabriella era già in piedi, animata, esclamando: — Sono loro. Sono tornati — . Si udí vociare e gridare. L’urlo del clacson parve quello di Oreste. Poli si alzò di malavoglia. La Pinotta attraversò la sala, per scappare in cucina. A un certo punto mi trovai solo, in piedi, con Oreste, e ricordo che mi versai da bere, non so perché, mentre fuori risate e baccano aumentavano. Posai la mano sulla spalla d’Oreste e gli dissi: «Coraggio». [p. 249 modifica]

Cominciò cosí quella notte, che doveva essere l’ultima. Fuori nell’aria sottile, stellata, regnava un odore di pini e di campagna matura. La luce brutale dei fari delle due macchine dava uno spicco magico alla ghiaia, ai tronchi neri, al vuoto della pianura. Da ogni parte sbucavano i milanesi. Gabriella, a casaccio, mi presentò di qua e di là; accecato, strinsi mani, ne strinse Pieretto; quando rientrammo per sederci non conoscevo nessuno.

La nostra cena fu travolta. Pinotta, che di solito ci serviva in grembialino, ricomparve con la cuffia. Spalancarono il mobile dei liquori. Ragazze e uomini si buttarono sulle poltrone, protestando e ridendo, qualcuno aveva già mangiato, qualcuno bevuto, dalle macchine arrivarono ceste, un diluvio di cose, di bottiglie, di dolci; saltarono tappi. Contai tre donne e cinque uomini.

Le donne vestivano da viaggio, con scialli intorno al viso, un arabesco di colori e di gambe nude. Nessuna valeva Gabriella. Vociavano, chiedevano fuoco, ci guardavano dritto in faccia. I nomi s’incrociavano, sentii quello di Mara. Tra gli uomini c’era un giovane scarno, dal viso spiritato, dalla strana giacchetta che gli finiva alla vita. Lo chiamavano Cilli e diede entrando un’occhiataccia alla Pinotta che fece ridere tutti. Un altro prese Gabriella sottobraccio e si lasciarono cadere su un divano. Qualcuno assisteva al tumulto, in disparte, compíto, e gridava saluti.

Mentre sfogavano quel primo ritrovarsi, fu impossibile parlare d’altro. I richiami a Milano, le botte risposte, la comune eccitazione, travolsero anche Poli, che fece festa alle donne, ammiccava, volubilmente rispondeva. Gabriella, accesa in viso, teneva testa ai piú vicini. L’argomento di tutti era una protesta, quasi un coro, contro la vita nascosta dei due, l’immorale egoismo dell’amore in campagna, la noia deliberatamente cercata. Un uomo dall’abito chiaro, dal viso forte e sarcastico — certo Dodo quarantenne, seppi poi — colse un momento di silenzio e dichiarò freddamente che le avventure si corrono con le mogli degli altri, non mai con la propria.

Pieretto, come un cane da caccia, fiutava l’ambiente. M’accorsi che Oreste era sparito. Era sparita Gabriella. Rientrarono subito, trasportando un tavolino. Venne Pinotta, occhi bassi, con del ghiaccio pesto. Gabriella ridendo batté le mani — m’accorsi che s’era cambiato vestito, era in celeste — e invitò, chi voleva, a salire e ripulirsi. Restammo sulla veranda in quattro o cinque, e una magra donna seduta accanto a Poli. [p. 250 modifica]





XXVIII.

La magra disse a Poli: — Voglio subito che mi racconti perché vive quassú.

— Non lo sa? — disse Poli. — Papà mi tiene prigioniero.

La magra fece una smorfia. Non era poi cosí ragazza. Tese la mano col bicchiere e disse: — Datemi — . Aveva una voce secca e dura, e le dita coperte d’anelli.

— Papà o Gabriella? — disse ridendo scioccamente.

— È lo stesso, — disse un giovane dai capelli arruffati, buttato sul bracciolo della poltrona. — Son sempre impegni di famiglia.

Allora Pieretto aprí bocca. Disse: — Non basta una sera per cavargli questo segreto.

Nessuno gli badò. Quel giovanotto disse ancora: — Ma noi vogliamo divertirci. Abbiamo detto: forse da solo non beve abbastanza. Siamo venuti a darti pista. Dodo scommetteva che non sai neanche che cosa si balla quest’anno a Milano.

— Questa, — disse Poli serio, e alzando il dito batté il tempo.

— No, — risero e urlarono tutti. La magra tossí sul bicchiere tintinnante. Rientrò nella sala quel Dodo, dal viso sarcastico sui denti d’oro.

— Sei indietro di un anno, — disse il giovanotto, quando potè farsi udire.

— Non piú di tre mesi, — disse impassibile Dodo, come il discorso fosse suo. — Poli ha un arresto di sviluppo che gli dura da tre mesi.

Questo Dodo era un uomo abbronzato, occhi freddi, che parlava noncurante e sicuro di sé. Io ripensavo al malumore di Poli quando li avevamo sentiti arrivare, ripensavo alle occhiate di prima. Adesso [p. 251 modifica]tutto era travolto e gli amici sbucavano, irrompevano dalla scala, rivedevo le facce compite. Gabriella rientrò ultima, mentre il grammofono cominciava a raschiare.

Ero in piedi, quasi appoggiato a un davanzale, e avevo voglia di sparire, di scappare nei boschi. Pieretto, imperterrito, s’era già messo a chiacchierare nel gruppo. Nessuno ballava ancora. Il magro Cilli si divertiva tutto solo trangugiando i panini con grandi sussulti del pomo d’adamo. Oreste era di nuovo scomparso. Guardai Gabriella per lui. Stava dicendo una parola a Poli, e il giovanotto arruffato la tirava per il polso. Lei rideva e parlava e si lasciava trascinare. Era bella in quell’abito. Mi chiesi quanti di quegli uomini l’avevano toccata, quanti sapevano di lei come Oreste.

Le altre donne non mi piacquero. Erano tante Rosalbe. Abbandonate, bionde e brune, sulle poltrone, ridevano freddamente e scambiavano brindisi. La magra, inanellata e truccata piú di tutte, non s’era ancora mossa. Ascoltava il discorso degli uomini, con un piccolo viso innocente e corrotto. Sedeva, raggomitolata nel divano, sulle gambe raccolte.

Poi, d’un tratto, vidi tutti ballare. La voce di contralto cantava quel blues. Oreste mancava sempre. Gabriella era abbracciata con Dodo, che anche ballando non perdeva la sua calma. Mi parve evidente ch’era l’uomo per lei. Stempiato e sarcastico, le susurrava qualcosa e Gabriella gli rideva sulla guancia.

Traversai, per versarmi da bere. Trovai Pieretto che mangiava il ghiaccio. — Sei a piedi? — gli dissi.

Mi guardò tollerante.

Lo strano Cilli si accostò in mezzo alle coppie. Mi aspettavo uno scherzo — le boccacce o la voce del gallo. Invece ci tese la mano. — Felicissimo, — disse con voce fessa.

— Simpatico ambiente, — ammiccò.

— È la prima volta che viene qui? — chiese Pieretto.

— Non lo so bene dove siamo, — disse lui con quella voce. — Stavamo al circolo e si faceva un poker, sono passati gli amici a pigliata. Credevo si andasse al casino, poi ho visto Mara che mi ha detto: «Si va da Poli». E chi si ricorda piú di Poli? Mi hanno detto che è matto — . Strabuzzò gli occhi come un matto. — Com’è la serva? — bisbigliò. — Quella rossa... Potabile?

— Come l’acqua, — disse Pieretto.

— Cosa si dice di Poli a Milano? — gli chiesi. [p. 252 modifica]

— E chi sapeva ch’era ancora al mondo? Serve giusto per farci una gita.

S’era voltato alla porta, con quei gesti da uccello. Si strinse la giacchetta sui fianchi e partí.

— Elegante e sincero, — borbottai a Pieretto.

Pieretto scosse il capo e guardò il tavolo e le coppie. — Sono tutti sinceri, — disse convinto. — Mangiano, bevono e si vanno addosso. Che cosa pretendi? Che t’insegnino come si fa?

— Dov’è Oreste? — gli chiesi.

— Se fossi dei loro, tu faresti altrettanto...

Buttai giu un altro liquore e me ne andai.

Fu bello uscire nella notte e fermarmi sul ciglione. La musica e il baccano attutiti alle mie spalle, m’isolarono davanti al vuoto della campagna. Pareva di galleggiare fra le stelle.

Quando rientrai, presi Gabriella in disparte. — Oreste è fuori che aspetta, — le dissi.

— Se quello è pazzo...

— Non so chi di voi sia piú pazzo, — dissi. — Me, nessuno mi aspetta.

Allora rise e scappò fuori.

Di tanto in tanto si formava un crocchio, e Pieretto perorava, rideva, solleticava le donne. Nessuno aveva ancora proposto di uscire in massa sotto i pini. Il grammofono instancabile cantava. In fondo, era facile mescolarsi a quella gente. Né le donne né Dodo volevan altro che godere. Bastava godere con loro. Il mattino era ancora lontano.

I piú assidui a ballare erano Poli e quella magra dagli anelli. Venne un momento (Gabriella era uscita da non so quanto) che il grammofono tacque. Poli e la magra si fermarono abbracciati, stringendosi. Gli altri facevano crocchio intorno a Cilli che, inginocchiato sul tappeto, si prosternava uggiolando davanti a un ritrattino di Poli puntellato per terra. Pieretto assisteva, non ancora soddisfatto.

A un tratto Cilli cominciò le litanie. Mara, l’amica bionda di Dodo, si asciugò gli occhi che piangevano e supplicò di smetterla. Gli altri acclamavano Cilli. Poli s’accostò barcollando e rideva anche lui.

Ma Pieretto disse qualcosa. Disse che un dio che si rispetti porta [p. 253 modifica]la piaga nel costato. — Che l’imputato si denudi, — dichiarò. — Che ci mostri la piaga.

Si sentí ancora qualche risatina, poi tutti tacquero e non risero piú. La magra, ch’era fuori dal crocchio, ansimava: — Che c’è? cosa fanno? — Io non osai guardare Poli; mi bastò l’altra faccia scarlatta.

Qualcuno mise un disco; le coppie si formarono subito. Mi trovai a bere con Dodo, che si voltava intorno cercando. — Non c’è, — gli dissi, — torna subito — . Alzò il bicchiere con un mezzo ammicco. Gli feci un cenno serio serio. C’eravamo capiti.

Ero molto ubriaco. Il baccano e il ronzio cominciavano ad annebbiarmi la sala. In fondo, vidi Poli seduto. Qualcuno gli parlava — c’era anche Pieretto — e lui sembrava tranquillo, un po’ svanito. Era pallido, ma tutto ormai sembrava pallido.

Entrarono Gabriella e Oreste. [p. 254 modifica]





XXIX.

Adesso molti erano usciti sotto i pini. Si parlava di darsi la caccia giú per la collina. Cercavano qualcuno, credo Poli e quella degli anelli. Il grammofono taceva. Andai a bere un altro gin.

Oreste mi passò accanto e mi diede una spallata. Era felice, chi sa come.

— Vanno bene le cose?

Aveva i capelli arruffati anche lui.

— Questi bischeri, — disse. — Se ne andassero.

— Cosa dice Gabriella?

— Non vede l’ora di mandarli via.

Gabriella era uscita in quel momento con Dodo. — Bene, — gli dissi, — devi bere.

Per la finestra entrava fresco, quasi freddo (ormai sera e mattino la pianura si velava di nebbie). La Pinotta passò davanti alle magnolie con un vassoio, e nell’ombra qualcuno la prese; era cilli. Lei fuggí con un brusco strattone, buttando i bicchieri. Al rovinio scoppiarono degli evviva tra i pini.

— Vedi, — dissi a Oreste, — stanotte fanno a volontà. Dov’è Pieretto?

— Andassero, — disse lui.

Eravamo soli, in veranda. — Questa notte puoi dirmelo, — mormorai dietro il bicchiere, — ci sei stato sul terrazzo con lei? Ce l’hai fatta?

Oreste mi guardò con franchezza, e mosse appena le labbra. Mi sporsi innanzi. Scosse il capo sorridendo e se ne andò.

Sentii qualcuno scatarrare sulla scala e voci sommesse. Di lí si andava alle stanze da letto. Magari nella mia. Non mi tenni e mi [p. 255 modifica]feci sulla porta. Non c’era nessuno. Allora m’inoltrai su per la scala, pronto a sorridere casualmente. Le luci accese dappertutto davano un senso di solitudine. Nessuno, neanche di sopra. Allora entrai nella mia stanza, mi chiusi alle spalle la porta, accesi e spensi. Non c’era nessuno. Mi sedetti a fumare davanti alla finestra nel buio. Sentivo grida, voci vaghe, brusii, da sotto i pini. Pensavo al Greppo non piú vergine.

Un trepestio dal corridoio mi riscosse. Uscii e vidi la gonna celeste che svoltava per scendere. La raggiunsi a mezza scala.

Scendemmo insieme e Gabriella mi fece soltanto una smorfia. Le dissi: — Stanca? — Alzò le spalle. Non le chiesi di Dodo.

Uscii anch’io sotto i pini. Sentii strilli femminili e la risata raschiante di Pieretto. — Si divertono, — dissi.

Lasciandosi cadere sui gradini, Gabriella mi prese la mano e con forza mi tirò giú. — Stai qui un momento, — mi disse, con un tono di congiura.

— Se arriva Oreste, — borbottai.

— Ti dispiace? — sorrise. — Vuoi bere?

— Senti, — le dissi. — Cos’hai fatto con Oreste?

Non mi rispose e teneva sempre la mia mano. Sentivo il suo fiato e sentivo il profumo. Posai la guancia sulla sua e la baciai.

Mi scostò. Non disse nulla e mi scostò. Non le avevo toccato la bocca. Non mi aveva risposto. Adesso il cuore mi batteva, lo sentiva anche lei.

— Stupido, — disse freddamente. — Hai visto? Ho fatto questo con Oreste.

Ero avvilito e disperato. L’ascoltai a testa bassa.

— Voi siete ragazzi, — mi disse, — anche Oreste, anche quell’altro. Che cosa volete? Siamo amici, e poi? Finisce qui. Quest’inverno tornate a Torino. Anche Oreste deve tornare. Devi dirglielo. Oreste ha una ragazza, se la sposi. Io non c’entro.

Tacque. Dopo un po’, borbottai: — Sei gelosa?

— Oh smettetela. Ci manca questa.

— Allora è Poli che è geloso...

— Non dire sciocchezze. Devi soltanto dire a Oreste che non posso disporre di me. Glielo dici?

— Cos’hai? piangi?

La sua voce era tesa. — Sí, digli che piango. Deve capire che Poli è malato, voglio soltanto che guarisca. [p. 256 modifica]

— Ma Oreste dice che di Poli non sapevi che fartene. Vi siete separati. Quando Poli era in clinica tu dov’eri?

Mi vergognai di averlo detto. Gabriella taceva. Di nuovo il cuore mi pulsava forte.

— Senti, — mi disse, — tu mi credi?

Aspettai.

— Mi credi o no?

Alzai la testa.

— Io a Poli, — susurrò Gabriella, — voglio bene.

— Ti sembra assurdo? — insisteva.

— E lui? ti vuol bene?

Gabriella si alzò e mi disse: — Pensaci. Devi dirglielo a Oreste. Quando andrete via, devi dirglielo tutti i momenti... Sei caro.

Se ne andò, sotto i pini. Mi girava la testa. Quando mi alzai, sarei corso giú dal Greppo, avrei voluto camminare camminare fino all’alba, fino a Milano o chi sa dove, come facevo a Torino nelle notti di smanie. Invece rientrai in sala, per bere dell’altro.

Usciva allora, dalle scale. Poli. Aveva due giacche sulle spalle, nessuna infilata, e gli occhi come cenere, come brace nella cenere. Che fosse ubriaco me l’aspettavo, ma non in quel modo. Mi disse di stare con lui, di sedermi e fumare con lui. Lo disse piano, con voce insistente.

Gli chiesi, per creanza, se quegli amici li conosceva da un pezzo. E in quel momento mi accorsi che non era ubriaco. Non d’alcol, almeno. Aveva gli occhi di quella notte che l’avevamo incontrato in collina.

— Poli, — gli dissi, — non stai bene?

Lui mi guardò di sotto in su e con le mani stringeva i braccioli della poltrona.

— Comincia a far freddo, — disse. — Almeno nevicasse. Oreste potrebbe uccidere qualcosa...

— Ce l’hai con Oreste?

Scosse il capo, senza sorridere.

— Vorrei che steste sempre qui. Non ti diverti questa sera? Non vuoi mica andar via?

— I tuoi amici di Milano vanno domattina.

— Mi annoiano, — disse. — È gente vecchia che non sa parlare — . Ebbe un sussulto come di vomito e strinse le labbra. Abbassò gli occhi e si riprese. — È incredibile, — disse, — come l’anima piú [p. 257 modifica]vecchia che hai dentro è quella di quand’eri ragazzo. A me sembra di esser sempre un ragazzo. È l’abitudine piú antica che abbiamo...

Qualche idiota, di fuori, suonò il clacson di una delle macchine, e quell’urlo rauco, strozzato, fece trasalire Poli.

— Le trombe del giudizio, — disse cupo.

In quel momento entrò Dodo. Ci vide e si fermò. — Quella bestia di Cilli, — esclamò. — Deve aver tolto le mutandine a qualcuna. Le fa fiutare e ti dice: «Se indovini di chi sono, la donna è tua». Domando io...

Poli lo guardava, con l’occhio spento.

— Sei ubriaco? — disse Dodo. — È ubriaco? — Riprese la sua smorfia sarcastica. Si stropicciò le mani e andò al tavolo. — Fa freschetto, — annunciò. — Non so che voglia abbia preso le ragazze — . Vuotò il biccherino e schioccò la lingua. — C’è nessuno di sopra? Poli lo guardava, sempre in quel modo. — Avete visto Gabriella?

Quando Dodo se ne fu andato. Poli riprese: — È bello gridare in quel modo, nella notte. Sembra una voce sotterranea. Sembra che venga dalla terra, o dal sangue... Mi piace Oreste. [p. 258 modifica]





XXX.

L’alba ci trovò tutti quanti nella sala, a due, a tre, isolati, buttati qua e là. Cilli e un altro dormivano. Chi fissava le finestre, chi parlottava. Pieretto e Dodo centellinavano grappa.

Eravamo tornati alla spicciolata, dalla macchia, dai boschi, dal ciglione. La Pinotta, che andai a svegliare bussando alla porticina, ci bolliva il caffè.

I visi terrei nell’alba, si fecero lividi, poi rosa, e la luce elettrica impallidiva. Quando la spegnemmo ci guardammo intorno, sgomenti. Le donne furono le prime a rianimarsi.

Ripartirono a giorno chiaro, sulla ghiaia umida che quasi non scricchiolò. Il vecchio Rocco li guardò partire, presso la vasca dove immergeva un tubo.

— Torneremo, — vociavano. — Sull’autostrada si fa presto.

— Verremo a Milano, — gridò Gabriella dal ciglione.

Poli era già rientrato. Bighellonammo sulla ghiaia guardandoci intorno. Da un ramo basso di pino pendeva una sciarpa a scacchi. Urtai col piede un bicchiere sulla ghiaia, intatto. Adesso, nel mattino, alla luce consueta, non osavo cogliere gli occhi di Gabriella. Anche Oreste taceva, con le mani dietro la schiena.

— Gente stupida, — disse Pieretto. — Milanesi.

Gabriella sorrise straccamente. — Sei banale. Forse dicono lo stesso di noi.

— Colpa degli uomini, — disse Pieretto. — L’uomo si conosce dalle donne che sopporta.

Disse Oreste: — Tu non ne sopporti.

— Sentite, — disse Gabriella, — decidetelo tra voi. Me ne vado al restauro. Pace. [p. 259 modifica]

S’allontanò nell’aria chiara. Noi rientrammo nella sala. Mi pareva impossibile che avremmo ripresa la vita di prima. Qualcosa era cambiato. Chi avrebbe detto la parola? Era come se anche noi ci fossimo già accommiatati.

Nel disordine della sala stagnava quell’odore di chiuso e di fiori. Sentii il puzzo della cera. Dentro un piatto una sigaretta finiva di bruciare.

— La Pinotta, — disse Oreste, — la trovo stanotte in cucina che piange perché nessuno la fa mai ballare.

Restammo lí sulle poltrone. Io mi aspettavo il mal di capo e lo covavo. — Bevici sopra, — disse Pieretto, — ci vuole —. Si versò un bicchierino.

Allora parlammo di andare ai Due Ponti, a far la spesa. L’idea ci piacque. — Cosí aiutiamo la Pinotta.

Salii per prendere la giacca nella mia camera. Mentre passavo in corridoio — quell’odore leggero di tendine e di sole — sentii tossire, scatarrare, rantolare. Veniva dalla stanza di Poli. Posai la mano sulla maniglia, e la porta cedette. Poli, seduto sul letto, in pigiama, sollevò gli occhi ansante. Teneva in mano un fazzoletto tutto pieno di sangue. Se lo portò alla bocca.

M’ero fermato irresoluto e Poli mi guardava con quegli occhi gonfi, inermi...

— Non capisco, — balbettò, ansando.

Fece un gesto come per nascondere la mano, poi invece l’aprí. Anche la mano era sporca di sangue. — Non è vomito, — disse. — Gabriella...

La trovai nella sua stanza. Corse infilandosi la vestaglia. Poli l’accolse sorpreso, con un broncio da bambino punito. Disse: — Non mi fa male. Ho soltanto sputato.

Chiamammo Oreste, chiamammo Pieretto. Gabriella s’aggirava a scatti nella stanza, intorno a Poli. Tutte le occhiate, le parole, i sussulti di quei giorni le bruciavano negli occhi come febbre. Quella durezza non la smise piú.

Oreste, volenteroso e taciturno, auscultò Poli mordendosi il labbro. — Noi andiamo, — dissi a Pieretto, — li lasciamo tranquilli.

— Tu lo sapevi ch’era tisico? — ci dicemmo in veranda.

— Con la vita che ha fatto, non c’è da stupirsi, — dissi. — Probabilmente lo sapeva...

— Macché, — disse Pieretto, — in questi casi ci si cura. [p. 260 modifica]

Qualche volta era ingenuo, Pieretto. Gli dissi allora che non basta avere in mente la salute, per fare o non fare una cosa. Gli dissi che Poli, per pazzo che fosse, era un uomo malinconico, un uomo solo, di quelli che a forza di pensarci sanno già prima quel che gli deve toccare. — Di Gabriella lo sapevi? — Che cosa? — Che è innamorata come un gatto.

Questo l’ammise. Ma poi disse: — Chi è il topo?

Discesero tutti, anche Poli. Aveva un’aria piú che altro infastidita, gli occhi cavi nella faccia smorta. Ci disse con la solita voce che non c’era ragione di cambiare abitudini, che il mondo è pieno di gente che perde sangue dal naso, che chi ha voglia di vivere vive.

Oreste spiegò, freddo freddo, che la cosa doveva esser vecchia, e non capiva come all’ospedale non se ne fossero accorti. Parlava senza guardare Gabriella. — Devi subito farti vedere, — gli disse. — Devi andare a Milano.

Allora Gabriella ci disse che scendeva ai Due Ponti per telefonare. — Vado io in bicicletta, — proposi. — Porta anche me, — disse Gabriella, — voglio parlare con suo padre.

Ma io non sapevo portare un altro in discesa, e allora toccò a Oreste, com’era giusto. Partirono, e Oreste se la teneva fra le braccia, con la gota sulla spalla.

— Ci beviamo sopra? — disse Poli, rientrando in casa. — Tanto vale.

Centellinò il suo bicchierino. Era terreo e sorrideva. Io pensavo a quella notte in collina, quando la macchina verde era sbucata tra le piante.

— Ci mancava anche mio padre, — disse Poli. — Meno male che presto sarà finita.

Pieretto brontolò di non dire sciocchezze.

— Cambia qualcosa? — disse Poli sommesso. Diede un colpo di tosse e si toccò la bocca. Tirò fuori una sigaretta.

— Smettila, — disse Pieretto.

— Anche tu, — disse Poli, ma non accese e la posò. — Sono i piccoli peccati che fanno la giornata. Giocarsi la vita in un vizietto, in cose da nulla. È tutto un mondo da scoprire.

— Il mondo è grande, — disse Pieretto, e trangugiò il suo bicchiere.

Quando Oreste e Gabriella tornarono, eravamo un po’ brilli e [p. 261 modifica] Poli balbettava che vivere è facile quando si sa liberarsi dalle illusioni.

Oreste gli consigliò di riposarsi per resistere poi al viaggio. Gabriella gli tolse di mano il bicchiere e gli disse di stendersi. Poi cominciarono a girare per casa, lei e Pinotta, e mandarci qua e là, vuotare cassetti, impacchettare. Oreste la seguiva a denti stretti.

Poco dopo mezzogiorno arrivò l’automobile, la macchina verde, condotta da un giovanotto in livrea. Il signor commendatore — disse rispettosamente — era fuori Milano. Gabriella gli fece caricare le valige.

Mangiammo, in silenzio. Gabriella dovette alzarsi per parlare col vecchio Rocco. Da solo, andai a sedermi sul ciglione e guardai la pianura, le coste selvagge. Era un giorno di grandi nuvole bianche nel cielo dolce che sapeva di frutta.

Salimmo sulla macchina. Noi tre passammo dietro. Poli non disse una parola e mi stupí che non prendesse il volante. Oreste aveva a tracolla il suo fucile da caccia e sosteneva la bicicletta sul montatoio.

Ai piedi del Greppo non pensai di voltarmi. Ci fu una discussione per mostrare la strada all’autista. In pochi minuti di sobbalzi fummo alla Stazione, tra le case fiorite, davanti alle colline familiari. Mi parve di averle sempre conosciute. Smontammo al passaggio a livello. Di là c’era la strada provinciale, coi paracarri e le siepi basse, asfaltata e bianca. Scambiammo parole, scherzammo, la faccia dura di Gabriella sorrise un attimo. Poli agitò la mano.

Poi partirono e noi andammo a bere al Mulino.