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Ma i contadini, i contadini, dicevo. I cacciatori non contavano. Il cacciatore fa la vita della sua selvaggina. Volevo sapere se il contadino come tale era arrivato dappertutto, se dappertutto la terra era stata toccata con mano. Violata, via.

Oreste disse: — Chi lo sa, — ma non capiva. Scosse la testa e mi diede l’occhiata maliziosa di sua madre.

Eravamo seduti sull’argine della vigna e alzando gli occhi si vedevano i tralci oscillare. Guardando una vigna dal basso, che sale verso il cielo, sembra d’essere fuori del mondo. Si hanno ai piedi le zolle calcinate, i fusti contorti, e negli occhi la fuga di festoni verdi, le canne uguali che toccano il cielo. Si fiuta e si ascolta.

— Quel carrettiere che ho veduto alla stazione, — dissi a un tratto, — diceva che le vigne ci sono sempre state.

— Facile, — disse Oreste, — quando le legavano con le salsicce e sotto correva il latte.

— Eppure, — dissi, — perfino le città son sempre state. Magari sporche, magari di paglia, tre baracche, una grotta, ma uomo vuol dire città. Bisogna riconoscere che Pieretto ha ragione.

Oreste alzò le spalle. Era il suo modo di discutere e ne valeva un altro.

— Chi sa, — disse a un tratto, — come gli secca a mezzanotte quando la mamma tira l’uscio. Lui che Torino di notte era sua.

— Qualche notte bisogna che facciamo una sortita, — dissi, voglio vedere come sono le colline con la luna. Ieri ce n’era già una fetta.

— L’abbiamo fatto in mare, il bagno sotto la luna, — disse Oreste. — Sembra di bere latte freddo.

A me non l’avevano mai detto. Mi prese una brusca tristezza. Mi sentii spaesato, e geloso.

— Il tempo passa, — dissi, — quest’uva non matura mai. Quand’è che torniamo a Torino?

Oreste non poteva sentirne parlare. Mi disse che cos’altro volevo: mangiavo, bevevo buon vino, facevo niente tutto il giorno...

— Ma è ben questo. E la tua mamma lavora. Tutti lavorano per noi.

— Ti annoi? — disse Oreste. — Dài troppo disturbo? La zia Giustina ti vuol bene.


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