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— La cascina è a San Grato, — disse, e m’indicò la schiena gialla del nostro colle, che s’inarcava sulle case oltre la piazza. — Quella è una, — disse, — dove c’è l’uva bianca. Poi c’è il Rossotto col mulino, — e indicò nella valle un declivio di praterie e di macchie. — Laggiú fanno la festa, dietro la Stazione. Quest’anno è già stata. C’erano i fuochi artificiali. Li abbiamo veduti con la mamma dal terrazzo...

Le chiesi chi lavorava la terra. — Chi? — Si fermò stupita. — I contadini, — disse.

— Credevo tu e le tue sorelle col babbo.

Dina fece un ghignetto e mi guardò dubbiosa. — Oh proprio, — disse. — Non abbiamo tempo. Noi dobbiamo pensare se hanno fatto i lavori. Papà li comanda, e poi vende i raccolti.

— E a te piacerebbe lavorare la terra? — dissi.

— Fa venir neri, è un lavoro da uomini.

Quando uscii dal negozio, uno scantinato che sapeva di zolfo e carrube. Dina mi aspettava seria seria.

— Tante donne prendono il sole al mare, — dissi. — È di moda annerirsi. L’hai già veduto il mare?

Dina parlò di queste cose per tutta la strada. Disse che al mare ci sarebbe andata sposandosi, non prima. Il mare è un posto dove soli non si va, e chi poteva portarcela adesso? Oreste no, era un giovanotto.

— La mamma.

La mamma, disse Dina, era troppo all’antica. Diceva che per fare qualcosa bisogna prima sposarsi.

— Andiamo a vedere la chiesa? — dissi allora. La chiesa era in piazza, grande, di pietra bianca, con angeli e santi nelle nicchie. Sollevai la portiera e Dina sgusciò dentro, e si segnò e s’inginocchiò. Ci guardammo intorno un momento, nell’ombra fresca e colorata. In fondo biancheggiava l’altare come un pezzo di torrone, e molti fiori e un lumicino.

— Chi porta i fiori alla Madonna? — bisbigliai.

— Le bambine.

— E raccogliere i fiori in campagna non fa venir neri? — dissi piano.

Mentre uscivamo c’imbattemmo sulla porta in una vecchia, la Giustina. Si scostò contegnosa, mi riconobbe, riconobbe la bimba, e strinse le labbra in un brusco sorriso. Approfittai del suo stu-


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