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XVI.
Ci vollero due giorni per convincere la famiglia di Oreste a lasciarci tornare lassú. — Non state bene qui da noi? — disse il padre. Le donne — scure in faccia — tennero conciliabolo a tavola. Soltanto la notizia che Poli era sposato rabboní la madre, e allora i discorsi deviarono sul nuovo aspetto che l’avventura di Poli assumeva, e ci si chiese se la moglie non fosse, com’era suo compito, disfatta dal dolore e insieme ferma e risoluta a non mollare.
— Lei se ne infischia. Prende il sole, — disse Oreste.
— Queste cose succedono quando si vive separati.
— Ma se due si separano, — disse il padre, — è perché c’è già qualcosa.
Oreste seccato concluse che la colpa era tutta dei soldi. — Se non hai troppi soldi, allora studi o lavori, e non hai tempo per i grilli. Dunque andiamo o non andiamo?
Partimmo in biroccio e non era deciso se Oreste si sarebbe fermato con noi. Nei commiati di quel primo pomeriggio Gabriella aveva detto ch’era un peccato non poter venire a prenderci in macchina, e Poli, chiotto, che suo padre gliel’aveva sequestrata perché non corresse pericoli e si riposasse davvero. Riattraversammo la campagna, i boschetti di querce, le siepi sfondate. Rividi i càrpini, la selva della costa. Nel mattino tutto era lucido e stillante. La grossa collina di cespugli ci viveva intorno inselvatichita, solitaria in un ronzio d’api, come un monte d’altri tempi. Cercai con gli occhi le radure abbandonate. Pieretto disse ch’era indegno che una intera collina appartenesse a un uomo solo, come nei tempi che una sola famiglia aveva il nome di un paese. Uccelli volavano. — Fanno parte della terra anche loro? — borbottai.
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