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XIV.

Partimmo sotto la luna, nell’aria fresca della sera. Dispiaceva lasciare quell’isola, quell’immensa campagna rossa, le viti magre e nere sotto le querce.

— Andiamo che annotta, — disse Oreste.

Il cavallino partí come un cane da caccia. Mentre filava sotto un albero di mele. Pieretto alzò la mano e ce ne cadde addosso una grandine. — Ehilalà! — gridavamo, schioccando la lingua. — Hai mai bevuto tanto vino, — diceva Pieretto, — e portarlo cosí? — Quando si beve all’aria aperta e sul posto, — disse Oreste, — non c’è verso di ubriacarsi.

Poi strizzarono l’occhio e mi dissero: — Tu che in campagna non vuoi bere o far l’amore... cosa dici?

Scacciai la questione come si scaccia una mosca. — Mi piacciono quei due, — dissi nel vento della corsa.

Allora parlammo di Davide e Cinto, dei vini, dell’uva nel secchio, di com’è bella la vita genuina.

— Quel che è grande, — diceva Pieretto, — è come tengono le donne. Noi fuori a bere e raccontarcela, e quelle e i marmocchi in cucina che non rompano l’anima.

Il sole radeva le vigne, e cavava un rossore, un’ombra ricca, da ogni zolla e da ogni tronco.

— Intanto lavorano, — dissi, — la fanno loro questa terra.

— Tu Oreste sei scemo, — diceva Pieretto. — Che Torino. Che sala anatomica. Devi sposarti quella tale e lavorarti le tue terre in pace...

Oreste, con gli occhi fissi alla nuca del cavallo, seguendo col


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