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Poli alzò gli occhi e si schiari. — Direi di bere intanto un liquorino, — propose.

Allora bevemmo seduti sotto i pini.

— Il tempo passa, — osservai. — Anche quassú dove tutto sembra fermo. Lei in fondo sta bene da solo.

Sorrise. Era in maniche di camicia e catenina, abbronzato.

— Perché, — cominciò, — non ci diamo del tu? Noi due siamo amici di Oreste.

Ci demmo del tu. S’informò educatamente della mia vita di Torino, di quel che avrei fatto tornando a Torino. Parlammo di Pieretto; gli raccontai che le donne d’Oreste l’avevano creduto un teologo, e lui rise animandosi, disse che Pieretto valeva di piú, ma che aveva un difetto, non credeva nelle forze profonde, nell’inconscia innocenza che è in noi.

Gli chiesi se quell’inverno lo passava al Greppo. Annuí taciturno, con gli occhi intenti.

— Penso sempre, — gli dissi, — che vederti in questo luogo dove sei stato bambino, deve farti un certo senso. Per te, qui tutto deve avere una voce, una vita sua. Specialmente adesso.

Poli taceva e ascoltava con gli occhi.

— ...Arrivandoci ha commosso anche me. — dissi. — Figúrati. Non c’ero mai stato. Ma questo misto di abbandono e di radici — non semplice campagna, è qualcosa di piú — m’interessava quanto mai. Quando ci stavi, era già cosí?

Lui mi guardava, testardo.

— La casa era questa, — disse, — c’era piú gente, piú servizi, ma non l’hanno cambiata.

— Non dico la casa. Parlo dei boschi, delle vigne incolte, di quest’aria selvatica. Stamattina prendevo il sole alla grotta, e mi pareva che la collina avesse un sangue una voce, vivesse...

Lo vidi raccogliersi.

— ...Tu che ci sei da tanto tempo hai mai pensato a queste cose sul Greppo?

Parlavo, e dentro mi dicevo: «Se tu sei matto, eccone un altro. Chi sa che una volta non si vada d’accordo».

Ma Poli disse, tormentando il bicchiere: — Come tutti i ragazzi ero pazzo per le bestie. Avevamo dei cani, dei cavalli, dei gattini. Avevo Bub un irlandese da trotto, che poi s’è rotta la schiena... Nelle bestie mi piace l’indolenza, sono piú libere di noi...


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