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denti, mi dicevo, lui che ha già una ragazza. Si vede che è fatto cosí.

Risalito, non trovai nessuno, e mi fermai sotto i pini. Chi sa se Oreste era tornato. La pianura vaporava fra i tronchi, nella luce. Ogni volta che rientravo da quelle gite pensavo che poteva esser l’ultima. Ma fin che Poli non ci cacciava voleva dire che riusciva a sopportarci; se Pieretto avesse avuto ragione. Poli ci avrebbe già spediti. Era sempre lo stesso, Poli: sopportava Oreste pur di avere Pieretto, e anche me, sotto mano, per discorrere, per indolenza. Per la consueta villania.

Oreste purtroppo era arrivato. Me lo disse Pieretto: — Prendono il sole sul terrazzo, — con un’aria innocente, e Poli al suo fianco sembrò non farci caso. Non aveva la faccia d’aver molto dormito. Fumava e gli vidi la mano malferma.

— Prendono il sole di sopra? — balbettai.

Mi guardarono come si guarda un seccatore. Si rimisero a parlare di Dio.

Ma a colazione Poli disse qualcosa. Si lagnò con chi di noi s’era messo a suonare un disco alle sette. Se la prese anzi con Gabriella che l’aveva svegliato. Disse con astio: — Ogni cosa a suo tempo.

Gabriella lo guardava feroce. Ma fu Oreste che, compunto, scherzando dichiarò d’essere lui il colpevole.

Si ebbe il silenzio di noi tutti, e da lei un’occhiata. Gabriella era davvero infuriata. — Dover vivere tra i matti e i bambocci, — disse cattiva, con disgusto.

Allora Oreste, rosso in faccia, buttò il tovagliolo e uscí tra i pini.


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