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XXVIII.

La magra disse a Poli: — Voglio subito che mi racconti perché vive quassú.

— Non lo sa? — disse Poli. — Papà mi tiene prigioniero.

La magra fece una smorfia. Non era poi cosí ragazza. Tese la mano col bicchiere e disse: — Datemi — . Aveva una voce secca e dura, e le dita coperte d’anelli.

— Papà o Gabriella? — disse ridendo scioccamente.

— È lo stesso, — disse un giovane dai capelli arruffati, buttato sul bracciolo della poltrona. — Son sempre impegni di famiglia.

Allora Pieretto aprí bocca. Disse: — Non basta una sera per cavargli questo segreto.

Nessuno gli badò. Quel giovanotto disse ancora: — Ma noi vogliamo divertirci. Abbiamo detto: forse da solo non beve abbastanza. Siamo venuti a darti pista. Dodo scommetteva che non sai neanche che cosa si balla quest’anno a Milano.

— Questa, — disse Poli serio, e alzando il dito batté il tempo.

— No, — risero e urlarono tutti. La magra tossí sul bicchiere tintinnante. Rientrò nella sala quel Dodo, dal viso sarcastico sui denti d’oro.

— Sei indietro di un anno, — disse il giovanotto, quando potè farsi udire.

— Non piú di tre mesi, — disse impassibile Dodo, come il discorso fosse suo. — Poli ha un arresto di sviluppo che gli dura da tre mesi.

Questo Dodo era un uomo abbronzato, occhi freddi, che parlava noncurante e sicuro di sé. Io ripensavo al malumore di Poli quando li avevamo sentiti arrivare, ripensavo alle occhiate di prima. Adesso


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