Cesare Pavese

1949 Indice:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu romanzi Letteratura Tra donne sole Intestazione 31 marzo 2023 100% Da definire

Il diavolo sulle colline La luna e i falò
Questo testo fa parte della raccolta Romanzi (Pavese)
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Tra donne sole

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I.

Arrivai a Torino sotto l’ultima neve di gennaio, come succede ai saltimbanchi e ai venditori di torrone. Mi ricordai ch’era carnevale vedendo sotto i portici le bancarelle e i becchi incandescenti dell’acetilene, ma non era ancor buio e camminai dalla stazione all’albergo sbirciando fuori dei portici sopra le teste della gente. L’aria cruda mi mordeva alle gambe e, stanca com’ero, indugiavo davanti alle vetrine, lasciavo che la gente mi urtasse, e mi guardavo intorno stringendomi nella pelliccia. Pensavo che ormai le giornate s’allungavano, e che presto un po’ di sole avrebbe sciolto quella fanghiglia e aperto la primavera.

Rividi cosí Torino, nella penombra dei portici. Quando entrai nell’albergo non sognavo che il bagno scottante e distendermi e una notte lunga. Tanto, a Torino ci dovevo stare un pezzo.

Non telefonai a nessuno e nessuno sapeva ch’ero scesa a quell’albergo. Nemmeno un mazzo di fiori mi attendeva. La cameriera che mi preparò il bagno mi parlò, china sulla vasca, mentr’io giravo nella stanza. Sono cose che un uomo, un cameriere, non farebbe. Le dissi di andarsene, che bastavo da sola. La ragazza balbettò qualcosa, fronteggiandomi, scrollando le mani. Allora le chiesi di dov’era. Lei arrossí vivacemente e mi rispose ch’era veneta. — Si sente, — le dissi, — e io sono torinese. Ti farebbe piacere tornare a casa?

Annuí con uno sguardo furbo.

— Fa’ conto allora ch’io qui torno a casa, — le dissi, — non guastarmi il piacere.

— Chiedo scusa, — mi disse. — Posso andare? [p. 266 modifica]

Quando fui sola, dentro l’acqua tiepida, chiusi gli occhi irritata perché avevo parlato troppo e non ne valeva la pena. Piú mi convinco che far parole non serve, piú mi succede di parlare. Specialmente fra donne. Ma la stanchezza e quel po’ di febbre si disciolsero presto nell’acqua e ripensai l’ultima volta ch’ero stata a Torino — durante la guerra — l’indomani di un’incursione: tutti i tubi eran saltati, niente bagno. Ci ripensai con gratitudine: finché la vita aveva un bagno, valeva la pena di vivere.

Un bagno e una sigaretta. Mentre fumavo con la mano a fior d’acqua, confrontai lo sciacquio, che mi cullava, coi giorni agitati che avevo veduto, col tumulto di tante parole, con le mie smanie, coi progetti che avevo sempre realizzato eppure stasera si riducevano a quella vasca e quel tepore. Ero stata ambiziosa? Rividi le facce ambiziose: facce pallide, segnate, convulse — ce n’era qualcuna che si fosse distesa in un’ora di pace? Nemmeno morendo quella passione s’allentava. A me pareva di non essermi mai rilassata un momento. Forse vent’anni prima, quand’ero ancora una bambina, quando giocavo per le strade e aspettavo col batticuore la stagione dei coriandoli, dei baracconi e delle maschere, forse allora mi ero potuta abbandonare. Ma in quegli anni per me carnevale non voleva dir altro se non giostre, torrone e nasi di cartapesta. Poi, con la smania di uscire, di vedere, di correre per Torino, con le prime scappate nei vicoli insieme a Carlotta e alle altre, col batticuore di sentirci per la prima volta inseguite, anche quest’innocenza era finita. Strana cosa. La sera del giovedí grasso, quando papà s’era aggravato, per poi morire, io piansi di rabbia e l’odiai pensando alla festa che perdevo. Soltanto la mamma mi capí quella sera, e mi prese in giro e mi disse di levarmi dai piedi, di andare a piangere in cortile da Carlotta. Ma io piangevo perché il fatto che papà fosse per morire mi spaventava e m’impediva dentro di abbandonarmi al carnevale.

Squillò il telefono. Non mi mossi dalla vasca, perch’ero felice con la mia sigaretta e pensavo che probabilmente proprio in quella sera lontana m’ero detto la prima volta che se volevo far qualcosa, ottenere qualcosa dalla vita, non dovevo legarmi a nessuno, dipendere da nessuno, com’ero legata a quell’importuno papà. E c’ero riuscita e adesso tutto il mio piacere era disciogliermi in quell’acqua e non rispondere al telefono. [p. 267 modifica]

Questo riprese, dopo un poco, e pareva irritato. Non ci andai ma uscii dall’acqua. M’asciugai lentamente, seduta nell’accappatoio, e stavo spalmandomi una crema intorno alla bocca quando bussarono. — Chi è?

— Un biglietto per la signora.

— Ho detto che non ci sono.

— Il signore insiste.

Mi toccò alzarmi e girare la chiave. La veneta impertinente mi tese il biglietto. Lo scorsi e dissi alla ragazza;

— Non voglio vederlo. Ritorni domani.

— La signora non scende?

Mi sentivo la faccia impiastrata, non potevo nemmeno farle una smorfia. Dissi: — Non scendo. Voglio un tè. Digli domani a mezzogiorno.

Quando fui sola, staccai il telefono, ma subito dall’ufficio risposero. La voce raschiava sul tavolino, impotente come un pesce fuor d’acqua. Allora gridai qualcosa nel telefono, dovetti dire ch’ero io, che volevo dormire. Mi augurarono la buona notte.

Mezz’ora dopo, la cameriera non era ancora tornata. «Questo succede soltanto a Torino», pensai. Feci una cosa che non avevo mai fatto, come se fossi una ragazza sciocca. M’infilai la vestaglia e socchiusi la porta.

Nel corridoio discreto, varie persone, camerieri, signori, la mia impertinente, s’accalcavano davanti a una porta. Qualcuno, sottovoce, esclamava qualcosa.

Poi la porta si spalancò, e piano, con molti riguardi, due camici bianchi portarono fuori una barella. Tutti tacquero e fecero largo. Sulla barella era distesa una ragazza — viso gonfio e capelli in disordine — , vestita da sera di tulle celeste, senza scarpe. Benché avesse le palpebre e le labbra morte, s’indovinava una smorfia ch’era stata spiritosa. Guardai d’istinto sotto la barella, se gocciava sangue. Cercai le facce — erano le solite, chi sporgeva le labbra, chi pareva ghignasse. Colsi l’occhio della mia cameriera — stava correndo dietro la barella. Sulle voci sommesse del crocchio (c’era pure una signora in pelliccia e si torceva le mani) si levò quella di un dottore — uscí dalla porta asciugandosi le mani — , e dichiarò ch’era finito, si levassero dai piedi.

La barella sparí per le scale, sentii esclamare: — Fa’ piano — . [p. 268 modifica]Guardai di nuovo la mia cameriera. Era già corsa a una sedia in fondo al corridoio, e tornava col vassoio del tè.

— S’era sentita male, che disgrazia, — disse entrandomi nella stanza. Ma le brillavano gli occhi e non si tenne. Mi disse ogni cosa. La ragazza era entrata in albergo al mattino — veniva sola da una festa, da un ballo. S’era chiusa nella stanza; non s’era mossa tutto il giorno. Qualcuno aveva telefonato, l’avevano cercata; un questurino aveva aperto. La ragazza era sul letto, moribonda.

La cameriera continuava. — Prendere il veleno a carnevale, che peccato. E i suoi sono cosí ricchi... Hanno una bella villa in piazza d’Armi. Se si salva è un miracolo...

Le dissi che volevo dell’altr’acqua per il tè. E che non si fermasse piú sulle scale.

Ma quella notte non dormii come avevo sperato e girandomi nel letto mi sarei data dei pugni per aver messo il naso nel corridoio. [p. 269 modifica]





II.

L’indomani mi portarono un mazzo di fiori, i primi narcisi. Sorrisi pensando che a Torino non avevo mai ricevuto fiori. Ma non era Torino che me li mandava. L’ordinazione veniva da quello scemo di Maurizio che aveva pensato di farmi l’improvvisata all’arrivo. Invece gli era andata male. «Succede anche a Roma», pensai. Vidi Maurizio sconsolato bighellonare per via Veneto dopo gli addii, e tra l’ultimo caffè e il primo aperitivo riempire il modulo della Fleurop.

Mi chiesi se la ragazza di ieri aveva avuto fiori nella stanza. C’è gente che per morire si circonda di fiori? Forse è un modo di darsi coraggio. La cameriera andò a cercarmi un vaso, e mentre mi aiutava a disporre i narcisi mi raccontò che sui giornali non parlavano del tentato suicidio. — Chi sa quanto spendono per tenerlo nascosto. L’hanno portata in una clinica privata... Ieri notte hanno fatto l’inchiesta. Dev’esserci un uomo di mezzo... La prigione ci vorrebbe, per chi riduce una ragazza...

Le dissi che una ragazza che fa la nottata alle veglie e invece che a casa rientra in albergo, è tenuta a sapersi guardare.

— Ah sí, — disse l’altra, indignata, — la colpa è delle madri. Perché non accompagnano le figlie?

— Che madri? — dissi. — Queste ragazze son sempre state con la madre, sono cresciute sul velluto, hanno visto il mondo dietro i vetri. Quando si tratta di cavarsela, non sanno e cascano male.

Adesso Mariuccia rideva, come a dirmi che lei sapeva cavarsela. La misi fuori e mi vestii. Per le strade era freddo e sereno, nella notte aveva piovuto sulla fanghiglia, e adesso il sole entrava sotto i portici. Sembrava una città nuova, Torino, una città finita allora, [p. 270 modifica]e la gente ci correva ci si ritrovava casualmente come occupata a darle gli ultimi tocchi e riconoscersi. Passeggiai sotto i palazzi del centro, guardando i grandi negozi che aspettavano il primo cliente. Nessuna di quelle vetrine e quelle insegne era dimessa e familiare come la ricordavo, non i caffè non le cassiere non le facce. Soltanto il sole obliquo e l’aria gocciolante non erano cambiati.

E nessuno andava a spasso, tutti sembravano occupati. Per strada la gente non viveva, scappava soltanto. Pensare che un tempo quelle strade del centro m’erano parse, passandoci col mio scatolone al braccio, un regno di gente in ferie e spensierata, come allora immaginavo le stazioni climatiche. Quando si ha voglia di una cosa, la si vede dappertutto. E tutto questo solamente per soffrire, per darmi calci nelle caviglie. «Di che cosa aveva voglia, — mi chiesi, quella stupida che ieri ha preso il veronal?» Un uomo di mezzo... Da ragazze si è sciocche. La mia veneta aveva ragione.

Rientrai all’albergo e mi vidi davanti la faccia inaspettata del magro Morelli, quello del biglietto. Me l’ero scordato.

— Come ha fatto a trovarmi? — gli dissi ridendo.

— Non è nulla. Ho aspettato.

— Tutta la notte.

— Tutto l’inverno.

— Vuol dire che ha tempo.

Io quest’uomo l’avevo sempre veduto in costume da bagno, sulle spiagge romane. Aveva il pelo sul torace magro, un pelo grigio, quasi bianco. Adesso la cravatta di seta e il panciotto chiaro ne facevano un altro.

— Lo sa che è giovane. Morelli? — gli dissi.

S’inchinò e m’invitò a colazione.

— Gliel’hanno detto ieri sera che non esco?

— Pranziamo qui allora, — disse lui.

Quei tipi che scherzano senza mai ridere, non mi dispiacciono. Dànno un po’ di soggezione e proprio per questo con loro ci si sente sicure.

— Accetto, — gli dissi. — A patto che mi racconti qualcosa di divertente. Come va il carnevale?

Quando fummo seduti, non mi parlò del carnevale. Non parlò nemmeno di sé. Parlò, senza sorridere, di un salotto di Torino — disse il nome, nobiltà — , dov’era successo che certi signori [p. 271 modifica]importanti, in attesa della padrona di casa, s’erano spogliati in mutandine e poi riseduti in poltrona, fumando e discorrendo. La padrona, stupita, s’era dovuta convincere che questo gioco era adesso di moda, una prova di spirito, e ci aveva scherzato a lungo con gli ospiti.

— Vede, Clelia, — mi disse Morelli, — Torino è una vecchia città. Dovunque, questa trovata l’avrebbero avuta ragazzi, studenti, prime nomine. Qui invece tocca a gente anziana, commendatori e colonnelli. È un’allegra città...

Sempre impassibile, si chinò mormorando: — La testa pelata laggiú è uno...

— Non mi prende per quella contessa? — gli dissi felice. — Sono anch’io di Torino.

— Oh lei non è di questo giro, lo sa bene.

Non era tutto un complimento. Me lo rividi nei suoi peli grigi. — Si è spogliato anche lei? — dissi.

— Cara Clelia, se vuol essere presentata in quel salotto...

— Che ci farebbe un’altra donna?

— Insegnerebbe alla padrona a fare lei lo spogliarello... Chi conosce a Torino?

— Ficcanaso... Gli unici fiori che ho avuto a Torino, sono venuti da Roma.

— L’aspettano a Roma?

Alzai le spalle. Quel furbo Morelli conosceva Maurizio. Sapeva pure che scherzavo volentieri ma le spese di spiaggia le pagavo da me.

— Sono libera, — dissi. — Non conosco che un obbligo, quello che mettono un figlio o una figlia. E per disgrazia non ho figli.

— Ma lei potrebbe esser mia figlia... O mi fa troppo vecchio?

— Son io troppo vecchia.

Finalmente s’aprí e sorrise, con quei grigi occhi vivi. Senza muovere la bocca, senza fare una smorfia, si riempi d’allegria e mi squadrò con gusto. Conoscevo anche questa. Non era tipo da attaccarsi a una bambina.

— Lei che sa tutto di quest’albergo, — dissi, — mi racconti dello scandalo di ieri. Conosce la ragazza?

Mi squadrò ancora e scosse il capo.

— Conosco il padre, — dichiarò, — un uomo duro. Volitivo. [p. 272 modifica]Una specie di bufalo. Costruisce motociclette e gira per la fabbrica in tuta.

— Ho veduto la madre.

— Non conosco la madre. Brava gente. Ma la figliola è pazza.

— Pazza secca?

Morelli si rabbuiò. — Chi ha provato una volta ci ricasca.

— Cosa dice la gente?

— Non lo so, — disse lui. — Questi discorsi non li ascolto. Sono come i discorsi del tempo di guerra. Tutto può darsi. Può essere un uomo, un dispetto, un’ubbia. Ma la causa vera è una sola.

Si toccò la tempia col dito. Tornò a sorridere, con gli occhi. Tese la mano sulle arance e mi disse: — L’ho sempre vista mangiar frutta, Clelia. Quest’è la vera gioventú. Lasci i fiori ai romani.

Quel tale calvo della storiella muggí qualcosa al cameriere, buttò il tovagliolo e se ne andò, grasso e solenne. Ci fece un inchino. Io gli risi in faccia; Morelli, impassibile, gli fece un cenno con la mano.

— L’uomo è il solo animale, — osservò, — che guadagna a vestirsi.

Quando venne il caffè, non mi aveva ancora chiesto che cosa facevo a Torino. Probabilmente lo sapeva e non c’era bisogno di dirglielo. Ma nemmeno mi chiese se mi fermavo poco o molto. Questo mi piace nella gente. Lasciar vivere.

— Vuole uscire stasera? — mi disse. — Torino di notte.

— Devo prima dare un’occhiata a Torino di giorno. Mi lasci sistemare. Lei è qui in quest’albergo?

— Perché non viene a casa mia?

Doveva pur dirmelo. Lasciai cadere la proposta come se fosse un prezzo assurdo. Gli dissi di passare, se mai, a prendermi alle nove.

Lui ripeté: — Posso ospitarla a casa mia.

— Sciocco, — gli dissi, — non siamo ragazzi. Verrò a farle visita un giorno.

Quel pomeriggio me ne andai per conto mio, e lui la sera mi accompagnò a un veglione. [p. 273 modifica]





III.

La sera, quando rientrai, Morelli che mi aspettava in sala notò ch’ero uscita in soprabito, senza pelliccia. Lo feci salire e, mentre mi preparavo, gli chiesi se passava le giornate in albergo.

— Le notti le passo in casa, — mi disse.

— Davvero? — Parlavo nello specchio, voltandogli le spalle. Nelle sue terre ci passa mai?

— Ci passo in treno quando vado a Genova. Mia moglie ci vive. Per certi sacrifici non ci sono che le donne.

— Anche sposate? — borbottai.

Sentii che rideva.

— Non soltanto quelle, — sospirò. — Mi fa pena che lei Clelia vada in giro vestita in tuta, a sorvegliare gli imbianchini... Però quel sito in via Po non mi piace. Che credete di venderci?

— Torino è proprio una portieria, — dissi.

— Le città invecchiano come le donne...

— Per me non ha piú di trent’anni. Trentaquattro, via... Ma non l’ho scelta io via Po. L’hanno scelta da Roma.

— Si vede.

Ce ne andammo. Mi fece piacere che Morelli, che capiva tutto, non avesse capito perché quel giorno ero uscita in soprabito. Ci pensavo mentre salimmo nel tassi, e ci pensai dopo. Credo che in quella baraonda del veglione, quando a forza di cherry, di kummel e di presentazioni mi ebbe ridotta a sentirmi smaniosa e infelice, glielo dissi. Invece che in via Po, ero andata dal parrucchiere. Un piccolo parrucchiere, a due passi dall’albergo, e mentre mi asciugava i capelli, sentivo la voce acuta della manicurista dietro la tramezza a vetri raccontare come quel mattino era stata svegliata [p. 274 modifica]dall’odore del latte versato sul gas. — Che roba. Nemmeno il gatto lo sopporta. Stasera mi tocca lavare il fornello — . Mi bastò questo per vedere una cucina con un letto disfatto, i vetri sporchi sul balcone, le scale buie, come scavate nei muri. Lasciando il parrucchiere non pensavo che al vecchio cortile, e rientrai in albergo, deposi la pelliccia, mi misi il soprabito. Bisognava che tornassi in quella via della Basilica, e magari qualcuno poteva riconoscermi; non volevo avere l’aria superba.

C’ero andata; avevo prima girato i paraggi. Conoscevo le case, conoscevo i negozi. Fingevo di fermarmi a guardare le vetrine, ma in realtà esitavo, mi pareva impossibile d’essere stata bambina su quegli angoli e insieme provavo come paura di non essere piú io. Il quartiere era molto piú sporco di come lo ricordavo. Sotto il portico della piazzetta vidi la bottega della vecchia erborista; c’era adesso un ometto magro, ma i sacchetti di seme e i mazzi d’erbe eran gli stessi. Di lí, nei pomeriggi d’estate veniva un profumo intenso, di campagna e di droghe. Piú in là, le bombe avevano diroccato un vicolo. Chi sa Carlotta, le ragazze, il Lungo? Chi sa i figli di Pia? Se le bombe avessero fatto un solo spiazzo di quel rione, sarebbe stato meno difficile passeggiarci coi ricordi. Mi infilai nella viuzza proibita, passai gli usci a mattonelle. Quante volte eravamo fuggite di corsa davanti a quegli usci. Quel pomeriggio che avevo fissato in faccia un soldato che usciva di là con l’aria scura: com’era stato? E quand’era venuta l’età che avrei osato anche parlarne, e che piú che paura quel luogo mi fece rabbia e ribrezzo, ormai andavo all’atelier da un’altra parte e avevo amici e sapevo perché lavoravo.

Ero arrivata in via della Basilica e non ebbi il coraggio. Passai davanti a quel cortile, levai gli occhi, intravidi la volta bassa e i balconi. Ero già in via Milano. Impossibile tornare. Il materassaio sulla porta mi guardava.

Qualcosa dissi, di tutto questo, a Morelli, nell’orgasmo della veglia quand’era quasi mattino e si beveva e discorreva stracchi, per tener duro ancora un poco. Dicevo: — Morelli, questa gente che balla e che s’ubriaca, è nata bene. Hanno avuto servitori, balie, domestici. Hanno avuto villeggiature, favori. Bella forza. Chi di loro avrebbe saputo dal niente, da un cortile che è un buco, arrivare fino a questo veglione? [p. 275 modifica]

E Morelli mi batteva la mano sul braccio e diceva: — Coraggio. Ci siamo arrivati. Se sarà necessario arriveremo fino a casa.

— È facile, — dicevo, — per le figlie e le signore di famiglia vestirsi come sono vestite. Non hanno che da chiedere. Non hanno nemmeno da far becco l’amico. Parola che preferisco vestire le vere puttane. Quelle almeno sanno che cos’è lavorare.

— Si vestono ancora le puttane? — diceva Morelli.

Avevamo cenato e ballato. Avevamo conosciuto molta gente.

Morelli aveva sempre qualcuno alle spalle che gli gridava: — Poi ci vediamo — . Qualche faccia e qualche nome li riconobbi: erano gente passata da Roma nel nostro salotto di prova. Riconobbi qualche vestito: un abito lungo a paniere di una contessa che aveva da noi il suo mannequin. Io stessa l’avevo spedito giorni prima. Una piccola signora in volants mi fece perfino un sorrisetto; si voltò il cavaliere; riconobbi anche lui; s’erano sposati l’anno prima a Roma. Questo si divincolò in segno di saluto — era un lungo biondo diplomatico — , poi subí uno strattone: suppongo che la moglie lo richiamasse al dovere ricordandogli ch’ero la sarta. Fu cosí che il sangue cominciò a bollirmi. Poi venne una colletta per i poveri ciechi: un signore in smoking con un berretto rosso di carta fece un discorso a barzellette sui ciechi e sui sordi, e due signore bendate corsero per la sala, acchiappando gli uomini, che pagavano un tanto e poi potevano baciarle. Morelli pagò. Poi l’orchestra tornò a suonare e qualche crocchio cominciò a far baccano, a cantare e rincorrersi. Morelli tornò al tavolino con una grossa signora in lamé rosa — la pancia d’un pesce — , e un giovanotto e una signora piú fresca che finivano allora di ballare e si lasciarono cadere di schianto sul divano. Subito l’uomo rimbalzò.

— La mia amica Clelia Oitana, — diceva Morelli.

La grossa signora si sedette e mi guardò facendosi vento. La seconda, in scollato viola aderente, mi aveva già tutta frugata con gli occhi e sorrise a Morelli che le accese la sigaretta.

Non ricordo i loro primi discorsi. Tenevo d’occhio quel sorriso della giovane. Aveva l’aria di avermi sempre conosciuta, di prendermi in giro me e Morelli, tutti, eppure adesso non guardava che il suo fumo. L’altra rideva e cianciava sciocchezze. Il giovanotto m’invitò a ballare. Ballammo. Si chiamava Fefé. Mi disse qualcosa di Roma, tentò d’incollarsi e di stringermi, mi chiese se proprio Morelli era il mio cavaliere. Gli dissi che non ero un cavallo. Lui [p. 276 modifica]allora ridendo si strinse di piú. Doveva aver bevuto piú di me.

Quando tornammo non c’era che la grassa signora, e si faceva ancora vento. Morelli era in giro. La pancia di pesce spedí il giovanotto, seccato, a cercare qualcosa, poi mi batté sul ginocchio con la manuccia e mi guardò maliziosa. Di nuovo il sangue mi bollí.

— Lei era in albergo, — bisbigliò, — quando la povera Rosetta Mola si sentí male ieri notte?

— Oh la conosce? come sta? — dissi subito.

— Si dice ch’è fuori pericolo, — e scosse il capo e sospirò. — E mi dica, ha davvero dormito in quell’albergo? Che ragazzate. È stata chiusa tutto il giorno? Davvero era sola?

Gli occhi grassi e vivaci foravano come due aghi. Voleva contenersi e non ci riusciva.

— ... Si figuri che noi l’abbiamo veduta ancora la notte del ballo. Sembrava tranquilla... Gente cosí distinta. Ha ballato molto...

Vidi Morelli avvicinarsi.

— ... E senta, l’ha vista, dopo? Era ancora vestita da sera, dicono.

Borbottai qualcosa: che non avevo visto niente. C’era un fare furtivo nel tono della vecchia che m’indusse a tacere. Anche soltanto per dispetto. Arrivavano tutti. Morelli, la bruna in viola, quell’antipatico Fefé. Ma la vecchia, sgranando gli occhi furbi e grossi, disse invece: — Speravo proprio che l’avesse veduta... Conosco i suoi... Che disgrazia. Volersi ammazzare. Che giornata ha passato... Quello che è certo, non ha detto le orazioni in quel letto.

La bruna fumava raggomitolata sul divano e mi disse guardandoci beffarda: — Adele vede dappertutto il sesso — . Aspirò la boccata. — Ma non è piú di moda... Solamente le serve o le sartine vogliono uccidersi dopo una notte d’amore...

— Una notte e un giorno, — disse Fefé.

— Sciocchezze. Non sarebbero bastati tre mesi... Per me era sbronza e s’è sbagliata nella dose...

— Probabile, — disse Morelli. — Anzi, è certo — . S’inchinò alla grassona. Piú che abbracciarla le toccò la spalla, e partirono, lui scherzando, la vecchia saltando.

La bruna si girò dentro il fumo, mi diede un’occhiata e lodò la fantasia del mio abito. Disse che a Roma era piú facile vestirsi. Disse: — C’è un’altra società. C’è piú esclusione. Se l’è fatto lei?

Me lo chiese cosí, con quell’aria scontenta e beffarda. [p. 277 modifica]

— Non ho tempo di farmi i vestiti, — scattai. — Sono sempre occupata.

— Vede gente? — mi disse. — Vede questo? vede quello? — non la finiva piú coi nomi.

— Questo e quello, — le dissi, — non pagano di giorno i debiti che fanno di notte. La tale, — le dissi, — quando le scadono troppe fatture, scompare e va a Capri...

— Stupendo, — gridò la bruna, — che simpatici.

La chiamarono dalla folla, qualcuno era arrivato, lei si alzò, scenerò, e corse via.

Rimasi sola con Fefé, che mi guardava imbambolato. Gli dissi: — Lei ha sete, giovanotto. Perché non fa il giro?

Mi aveva già spiegato che il suo sistema di bere era girare ai vari tavoli, riconoscere dappertutto qualcuno e accettare un bicchierino. — Si mescolano gli alcol ma pazienza, — diceva ghignando. — Ballando si sbatte il cocktail.

Lo spedii. Tornò Morelli e mi fece quel magro sorriso.

— Piaciute le dame? — mi disse.

Fu allora che mi accorsi che non m’importava gran che della festa, e mi misi a sfogarmi con lui. [p. 278 modifica]





IV.

Ma prima di lasciarmi, quella notte, Morelli mi disse qualcosa. Mi disse che avevo dei pregiudizi — uno solo, ma grosso: credevo che lavorare e farsi strada, o anche soltanto lavorare per vivere, valesse le qualità — qualcuna scema, d’accordo — della gente che nasce bene. Mi disse che parlando con astio di certe fortune, avevo l’aria di pigliarmela col piacere stesso di vivere. — In fondo, — mi disse, — lei Clelia non vedrebbe di buon occhio nemmeno una vincita alla Sisal.

— Perché no? — gli dissi.

— Ma sarebbe lo stesso che nascere bene. Sarebbe un caso, un privilegio...

Non risposi: ero stanca, gli tirai il braccio.

Morelli disse: — C’è poi questa gran differenza tra fare nulla perché si è troppo ricchi e fare nulla perché si è troppo poveri?

— Ma uno che arrivi da sé...

— Ecco, — disse Morelli, — arrivare. Un programma sportivo — . Storse appena la bocca. — Lo sport vuol dire rinunciare e morir presto. Perché, chi può, non dovrebbe fermarsi per strada e godersi la giornata? È sempre necessario aver patito e uscire da un buco?

Non rispondevo e gli tiravo il braccio.

— Lei odia il piacere degli altri, Clelia, questo è il fatto. Lei Clelia fa male. Lei odia se stessa. E pensare che è nata di razza. Faccia allegria intorno a sé, smetta il broncio. Il piacere degli altri è anche il suo...

L’indomani andai in via Po, senza annunciarmi, senza telefonare agli impresari. Non sapevano ch’ero già a Torino; volevo avere un’impressione schietta di quel ch’era fatto e di come era fatto. [p. 279 modifica] Quando imboccai la larga strada e vidi in fondo la collina pezzata di neve e la chiesa della Gran Madre, mi ricordai ch’era carnevale. Anche qui, bancarelle di torrone, di trombette, di maschere e stelle filanti riempivano le arcate dei portici. Era fresco mattino ma già la gente formicolava verso la piazza in fondo, dove ci sono i baracconi.

La via era ancora piú larga di come la ricordavo. La guerra aveva aperto una buca paurosa, sventrando tre o quattro palazzi. Sembrava un piazzale, un avvallamento di terra e di pietre, dove cresceva qualche ciuffo d’erba, e si pensava al camposanto. Il nostro negozio era qui, sull’orlo del vuoto, bianco di calce e senza infissi, in costruzione.

Ci trovai due decoratori, seduti per terra, col bianco berrettino di carta. Uno scioglieva della biacca in un bidone; l’altro si lavava le mani in una vaschetta di fortuna, sporca di calce. Mi guardarono entrare senza scomporsi. Il secondo aveva la sigaretta infilata sull’orecchio.

— Il geometra, — dissero, — non viene a quest’ora.

— Quando viene?

— Prima di sera non viene. Ha un lavoro alla Madonna di Campagna.

Chiesi se loro erano tutta la squadra. Mi guardarono i fianchi con qualche interesse, senza levare troppo gli occhi.

Battei il piede. — Di voialtri chi è il capo?

— Era qui, — disse il primo. — Sarà in piazza — . Tornò a guardare nel bidone. — Va’ a chiamarle Becuccio.

Becuccio arrivò, un giovanotto in maglione, coi calzoni militari. Capí subito il gioco, era sveglio. Gridò a quei due di finire il pavimento. Mi portò in giro per le sale, mi spiegò il lavoro fatto. Mi disse che avevano perso del tempo perché da giorni aspettavano gli elettricisti, era inutile finire i palchetti se non si sapeva dove passavano i fili. Il geometra li voleva coperti; l’Azienda consigliava di no. Mentre parlava, io lo guardavo: era spesso, ricciuto, mostrava i denti sorridendo. Portava al polso un bracciale di cuoio.

— Dove si può telefonare al geometra?

— Faccio io, — disse subito.

Ero in soprabito, non in pelliccia. Traversammo via Po. Mi portò in un caffè dove la cassiera lo accolse con un evidente sorriso. Quando al telefono risposero, diede a me il ricevitore. La voce [p. 280 modifica]grossa e ringhiosa del geometra s’abbassò subito quando dissi chi ero. Si lamentò che da Roma non gli avevano risposto a una lettera, tirò fuori anche il Genio Civile; tagliai corto e gli dissi di venire entro mezz’ora. Becuccio sorrise e mi tenne la porta.

Passai tutto il giorno nell’odore della calce. Rividi i progetti e le lettere che il geometra squadernò da una borsaccia di pelle. Con due casse Becuccio ci aveva fatto una saletta al primo piano. Presi nota dei lavori imminenti, preventivai le scadenze, parlai con l’uomo degli impianti. Si era perduto piú di un mese.

— Fin che dura carnevale... — diceva il geometra.

Tagliai che alla fine del mese volevamo il negozio.

Ripassammo le scadenze. Avevo prima interrogato Becuccio e mi ero fatta la mia idea. Anche con l’uomo degli impianti mi ero messa d’accordo. Il geometra dovette impegnarsi.

Tra una discussione e l’altra giravo le stanze vuote, dove adesso gli imbianchini lavoravano in piedi. Ne era sbucato un altro paio dal cortile. Scendevo e salivo una fredda scala senza ringhiera, ingombra di scope e di barattoli, e l’odore della calce — un odor vivo, di montagna — , mi dava alla testa, quasi che questo fosse un mio palazzo. Da una vuota finestra dell’ammezzato intravidi via Po, festosa e affollata in quell’ora. Era quasi il crepuscolo. Mi ricordai la finestretta del mio primo atelier, da cui si spiava la sera dando gli ultimi punti, con la smania che venisse quell’ora e uscir fuori felici. «Il mondo è grande», mi dissi forte, senza saper bene il perché. Becuccio aspettava discreto nell’ombra.

Avevo fame. Ero stanca del veglione di ieri e Morelli probabilmente mi aspettava all’albergo.

Senza dir nulla per l’indomani, me ne andai. Passai mezz’ora tra la folla. Non camminai verso piazza Vittorio, fragorosa di orchestre e di giostre. Il carnevale mi è sempre piaciuto fiutarlo dalle viuzze e nella penombra. Mi ricordai molte feste romane, molte cose sepolte, molte sciocchezze. Di tutto questo non restava che Maurizio, quel matto Maurizio, un equilibrio e quella pace. Restava ch’ero cosí a zonzo, padrona di me, padrona di girare Torino e fermarmi e disporre per l’indomani.

M’accorsi, camminando, che ripensavo a quella sera diciassette anni prima, quando avevo lasciato Torino, quando avevo deciso che una persona può amarne un’altra piú di sé, eppure io stessa sapevo bene che volevo soltanto uscir fuori, metter piede nel mondo, [p. 281 modifica]e mi occorreva quella scusa, quel pretesto, per fare il passo. La sciocchezza, l’allegra incoscienza di Guido quando aveva creduto di portarmi con sé e mantenermi — sapevo già tutto fin da principio. Lo lasciai fare, provare, dibattersi. L’aiutavo persino, uscivo prima dal lavoro per tenergli compagnia. Quello il mio broncio e malvolere, secondo Morelli. Avevo riso e fatto ridere tre mesi il mio Guido: era servito a qualcosa? Nemmeno di piantarmi lui era stato capace. Non si può amare un altro piú di se stessi. Chi non si salva da sé, non lo salva nessuno.

Ma — qui Morelli non aveva torto — , nonostante tutto, ero tenuta a ringraziare quei giorni. Dovunque fosse, morto o vivo che fosse, dovevo a Guido la mia fortuna e lui nemmeno lo sapeva. Avevo riso alle sue frasi stravaganti, a quel modo che aveva d’inginocchiarsi sul tappeto e ringraziarmi di esser tutta per lui e di volergli bene, e gli dicevo: — Non lo faccio apposta — . Lui disse una volta: — I favori piú grossi si fanno senza saperlo.

— Tu non li meriti, — dissi.

— Nessuno merita qualcosa, — mi aveva risposto.

Diciassette anni. Me ne restavano almeno altrettanti. Non ero piú giovane e sapevo quel che un uomo — anche il migliore — può valere. Riuscii tra i portici e guardai le vetrine. [p. 282 modifica]





V.

La sera, Morelli mi portò in un salotto. Mi stupirono i molti ragazzi che ci trovai: si dice sempre che Torino è una città di gente vecchia. È vero che giovanotti e ragazze facevano crocchio da parte come fossero tanti bambini, e noi grandi, seduti intorno a un sofà, ascoltavamo una vecchia permalosa, col nastro al collo e la mantellina di velluto, raccontare non so che storia di una carrozza e di Mirafiori. Tutti tacevano davanti alla vecchia, qualcuno fumava come di nascosto. La vocetta irritata si fermava quando entrava qualcuno, lasciava che si scambiassero i convenevoli, e alla prima pausa riprendeva il suo discorso. Morelli, con le gambe accavallate, ascoltava attentissimo, e qualche altro signore fissava accigliato il tappeto. Ma poco alla volta mi accorsi che non era necessario badare alla vecchia. Nessuno pensava a risponderle. Semivoltata sulla sedia, qualche donna chiacchierava sottovoce, o si alzava e parlava con altri attraverso la sala.

Questa sala era bella, coi lampadari a brillanti, e un pavimento veneziano che fuori del tappeto si sentiva sotto il piede. Era anche acceso il caminetto, di fianco al sofà. Io senza muovermi guardavo le pareti, le stoffe, le bomboniere. Ce n’era un po’ troppe, ma tutta la stanza era fatta cosí, come un cofano, e i cortinaggi coprivano le finestre.

Mi sentii toccare la spalla, chiamare a nome, e mi vidi davanti, lunga e allegra, la figlia della padrona di casa. Scambiò con me qualche parola e poi mi chiese se conoscevo questo e quello.

A bassa voce risposi di no.

— Lo sappiamo che viene da Roma, — gridò ridendo nel silenzio [p. 283 modifica]improvviso, — ma ieri sera ha conosciuto una mia amica. Perché la rinnega?

— Che amica?

Quelle due del veglione — l’avevo capita. Ma l’invadenza mi dà noia.

— Non ha conosciuto nemmeno Fefé?

— Mi chiedo se ha potuto ricordarsene. Era ubriaco come un carrettiere.

Questa risposta me la conquistò. Dovetti alzarmi e seguirla nel crocchio dei giovani, sulla soglia della sala. Mi fece dei nomi, Pupé, Carletto, Teresina. Mi diedero la mano seri seri o seccati, e attendevano che qualcuno parlasse. Il profluvio di parole con cui la bionda mi aveva strappata al sofà, non m’impedí di sentirmi anche qui un’intrusa, eppure sapevo da un pezzo che in questi casi c’è sempre chi sta peggio. Dentro di me maledissi Morelli e mi sentii cadere il cuore; rividi la vita di Roma, rividi il veglione e la mia faccia nello specchio quel mattino. Mi consolai con via della Basilica e che al mondo ci potevo star sola, e che insomma questa era gente che non avrei mai piú visto.

La bionda stessa ci guardava imbambolata e, mi parve, delusa. Poi disse: — Su, ditevi qualcosa — . Per vent’anni che aveva e tanta voglia di ridere era poco. Ma non conoscevo Mariella e la sua tenacia — era nipote della vecchia del sofà. Si guardò intorno ed esclamò: — Dov’è Loris? Cercate Loris. Voglio subito Loris — . Qualcuno andò a cercare Loris. Gli altri ripresero a parlare, chi inginocchiata contro la sedia, chi seduta; un giovanotto con la barba a mosca teneva il campo e difendeva dalle ragazze un loro amico assente, un certo Pegi, che quell’inverno aveva spalato la neve sui viali — per ingaggiarsi diceva lui, per eccentricità dicevano loro.

«Ingaggiarsi, che vuol dire?» pensavo, quando arrivò Loris, a testa bassa. Aveva al collo la farfalla nera, faceva il pittore. Mi venne il sospetto che la sua importanza tra quella gente nascesse tutta dalla farfalla e dalle sopracciglia pelose. Guardava male, come un toro.

Fece un breve sorriso. Mariella piombò su una sedia e ci disse: — Su su, parliamo dei costumi.

Quando alla fine ebbi capito di che cosa si trattava — una ragazza strillando piú forte degli altri si mise a spiegarmelo — , feci finta di nulla e sorrisi impassibile. Ormai Mariella e gli altri parlavano loro.

— Senza costumi e senza scene non si può. [p. 284 modifica]

— Gigionate. Allora è preferibile la Carmen.

— È meglio che facciamo un ballo in costume.

— La parola poetica deve echeggiare nel vuoto.

— Ma di voialtri chi l’ha letto?

Diedi un’occhiata all’altro lato della sala dove la vecchia, irritata, parlava parlava al suo cerchio di gente, e i signori nel riflesso del camino fissavano il tappeto, le donne si agitavano, e tra le mani erano comparse le prime tazze di tè.

Da noi Loris disse, adagio: — Non si tratta di rifare il vecchio teatro. Non siamo tanto civili. Si tratta di dare la nuda parola di un testo, ma senza messa in scena non possiamo perché anche adesso in questa stanza, cosí vestiti, tra queste pareti, facciamo parte di una messa in scena, che dobbiamo accettare o respingere. Qualunque ambiente è messa in scena. Anche la luce...

— E allora recitiamola al buio, — strillò una ragazza.

Mentre Loris parlava in quel modo, Mariella si alzò e scappò a sorvegliare il servizio, poi chiamò le ragazze. Rimasi sola con pochi e quel Loris che adesso taceva e sorrideva disgustato.

— C’è qualcosa nell’idea del buio, — disse uno.

Guardammo Loris che guardava a terra. — Sciocchezze, — disse una piccola signora seduta, foderata in un vestito di raso che valeva piú di molte parole, — si va a teatro per vedere. Date o non date uno spettacolo? — Aveva occhietti di libidine, che ridevano in faccia ai ragazzi.

Il pittore non degnò quel discorso e cambiando espressione disse villanamente che il tè non lo voleva, voleva invece un bicchierino. Arrivavano intanto le tazze anche da noi, e Mariella posò una bottiglia di cognac sul caminetto. Mi chiese se avevamo risolto qualcosa.

— Dovevo risolvere? — dissi. — Non so mica.

Mariella gridò: — Ma lei deve aiutarci. Lei che s’intende di mode.

Un movimento generale dal sofà segnalò che qualcosa accadeva. Tutti si alzavano, facevano largo, Mariella corse sul posto. La vecchia se ne andava. Non sentii quel che disse, ma una bella cameriera la prese a braccetto, lei picchiò in terra col bastone, si guardò intorno a fatica, con gli occhi vivi, e tra gli inchini le due partirono, piano, a saltelli.

— La nonna vuole che teniamo aperte le porte, cosí ci sente dal [p. 285 modifica]suo letto, — disse Mariella ritornando fresca fresca, — vuol sentire i dischi, la conversazione, la gente. È cosí innamorata dei nostri amici...

Alla prima occasione, bloccai Morelli in un cantuccio e gli chiesi che idea avesse avuto. — Già imbronciata? — disse lui.

— Meno di lei che si è sorbito la vecchia... Comunque...

— Non dica male della vecchia, — osservò Morelli. — Di donne Clementine se ne vedono poche. Sono morte da un pezzo. Lo sa che donna Clementina è figlia di una portinaia; è stata attrice, ballerina, mantenuta, e dei tre figli che ha fatto al vecchio conte uno è scappato in America, l’altro è arcivescovo? Per non parlare delle figlie...

— Poveretta. E perché non si ritira in campagna?

— Ma perché è spiritosa. Perché le piace comandare in casa sua. Lei Clelia dovrebbe conoscerla.

— È cosí vecchia... fa paura.

— Per questo bisogna conoscerla. Se ha paura dei vecchi, ha paura di vivere.

— Credevo mi avesse portata a conoscere quegli altri...

Morelli guardò nella sala i gruppetti seduti, le coppie che confabulavano in fondo.

Fece una smorfia e brontolò: — Si beve già? [p. 286 modifica]





VI.

Quella sera non si parlò piú della messa in scena. Vedevo svolazzare la farfalla nera di Loris, ma giravo al largo, e anche Mariella doveva averla capita, perché mi tirò in mezzo a certe signore dov’era sua madre e ci fece parlare di mode. Credeva di farmi piacere? Ritornò sul discorso della sua amica del veglione, disse che avrebbe voluto venirci anche lei ma si sentiva ancor troppo ragazza. Mi tornò in mente la barella e il vestito di tulle. — O potevi venirci, — disse la bassotta foderata di raso, — nessuno ha trasmodato. Conosco gente che a metà festa per divertirsi ha cambiato locale.

— Quattro salti in famiglia? — disse Mariella ghignando.

— Davvero, — disse un’altra.

— Quattro salti nel buio, — finí Mariella guardandosi intorno. Le signore sorrisero, scandalizzate e contente. Non era mica una sciocca Mariella, era lei che teneva salotto, e in quei discorsi c’era nata. Mi chiesi se avrebbe saputo cavarsela cominciando dal basso come sua nonna aveva fatto in gioventú. Mi tornò in mente quel discorso di Morelli e mi fermai.

Parlammo appunto di Morelli e della vita che faceva. Con Roma, e le ville romane e qualche gran nome detto a proposito, misi a tacere le piú schifiltose del crocchio. Lasciai capire che Morelli era di casa in certe case, e che Roma è la sola città da cui non c’è bisogno di uscire. Sono gli altri che vengono a Roma. Mariella batté le mani e disse che si divertiva tanto e che un giorno sarebbe passata da Roma. Qualcuna parlò dell’Anno santo.

— Quei disgraziati. Cosa fanno? — disse a un tratto Mariella.

— Vogliamo sentirli?

Cosí si sciolse il nostro crocchio e i vari gruppi si confusero [p. 287 modifica]intorno alla nera farfalla di Loris che discuteva assalito da tre o quattro ragazze. Cosí per gioco, lui e gli altri s’erano bevuto tutto il cognac, e adesso vociavano come tori su non so che questione se nella vita si è se stessi o se si deva recitare. Mi stupí di sentire una magra ragazza — capelli a frangia, grosse labbra e sigaretta gridare il nome della bruna del veglione, Momina. — Momina l’ha detto, Momina l’ha detto, — diceva. Quando Mariella si cacciò nel gruppo, e intorno s’eran raccolti quei signori distinti, una voce malferma diceva: — chi fa all’amore si toglie la maschera. Si mette nudo — . Mentre Mariella provvedeva, mi volsi a Morelli. Aveva l’aria soddisfatta, guardava come portasse il monocolo. Gli sorrisi d’intesa, e quando mi fu vicino gli chiesi sottovoce perché non mandavano in giardino i piú cotti. — Starebbero al fresco e non darebbero noia.

— Non si può, — disse lui. — Se sconcezze si devono dire, bisogna che le signore e i padroni di casa le sentano. È piú regolare.

Gli chiesi chi fossero questi ragazzacci. Mi disse dei nomi, lasciò intendere che non era tutta gente per bene, che la gioventú s’era inquinata e s’inquinava — non faccio questione di ceto, perbacco — ma dopo la guerra, e anche prima, chi ci capiva piú niente? Secondo lui, ci si poteva mescolare alla gente soltanto sapendo bene chi fossimo noi. — E questi ormai non sanno piú chi sono né cosa vogliono, — disse. — Non si divertono nemmeno. Non sanno discorrere: gridano. Hanno i vizi dei vecchi ma non l’esperienza...

Io pensavo al vestito di tulle e fui per parlarne, per chiedergli se aveva piú sentito dir nulla della ragazza. Non lo feci, capii che in queste cose era testardo, che con tutti i suoi modi aveva il pelo sullo stomaco, era grigio, invecchiava. «Hai l’età di mio padre, — pensai, — sai tante cose e non sai niente. Lui almeno stava zitto e ci lasciava far noi...»

Morelli adesso litigava nel mucchio. Diceva a quello della barbetta a mosca che imparassero a trattare le signore invece di discutere tra loro di scemenze, che imparassero a vivere e finissero di crescere, e quello, si capisce, voleva convincerlo e portarlo a riconoscere che nella vita tutti recitiamo. Non avevo mai visto Morelli cosí seccato. Le signore si divertivano.

Colsi al volo Mariella che sorrideva disinvolta a un signore preoccupato, e la presi in disparte e le dissi che noi — cioè io — , avrei voluto salutarla e ringraziare della serata. Si stupí e mi disse [p. 288 modifica]che però voleva rivedermi, che voleva parlarmi di molte cose, convincermi a far qualcosa per loro e Momina le aveva già detto quant’ero brava. — Non è venuta stasera, — dissi per dire.

Mariella si animò e la scusò. Disse che s’erano telefonato, che Momina non sapeva, che voleva far visita ai Mola.

— Lei sa?... — e abbassò la voce alzando gli occhi.

— Sí, — dissi. — Come sta Rosetta?

Allora Mariella cambiò colore e, costernata, disse che se conoscevo Rosetta dovevamo parlarne, era una povera ragazza che i suoi non capivano e le facevano la vita impossibile, era forte e piena di sensibilità, aveva assoluto bisogno di vita, di cose, era piú matura dei suoi anni, e lei adesso aveva paura che la loro amicizia non sopravvivesse a quella terribile esperienza.

— Ma lei, la ragazza, come sta?

— Sí sí, si è rimessa, ma non vuole vederci, non vuole vedere nessuno. Chiede soltanto di Momina e non vede che lei...

— Se non è che questo, — dissi, — purché stia bene.

— Si capisce, ma ho paura che mi odi...

La guardai. Quella smorfietta costernata non era per me.

— Sarà la nausea del veronal, — dissi allora. — Quand’una sta male di stomaco, le ripugna veder gente...

— Ma vede Momina, — ribattè subito Mariella, — mi fa rabbia.

«Hai da crescere, cara, — pensai, — al tuo posto saprei meglio dominarmi».

— Rosetta, — dissi, — non ha bevuto il veronal per farle dispetto — . Dissi questo con un sorriso e una faccia di commiato. Mariella subito riprese il sorriso e mi tese la mano.

Salutai i piú vicini. Lasciai Morelli nel suo crocchio tra la farfalla e le donnette, e me ne andai. Fuori piovigginava e presi un tram sul viale. [p. 289 modifica]





VII.

Non passarono due giorni che un mattino Mariella mi cercò al telefono. Non avevo piú veduto nessuno e passavo tutto il tempo in via Po. La voce della ragazza rideva, insisteva, sospirava con volubilità. Voleva che vedessi i suoi amici, che lo facessi per lei, li aiutassi. Potevo trovarmi da lei quel pomeriggio a prendere una tazza di tè? O meglio, volevamo passare un momento nello studio di Loris?

— Cosí li incoraggeremo, — mi disse. — Sapesse come sono bravi.

Passò a prendermi in via Po, vestita di un allegro pellicciotto alla cosacca. La casa era oltre Po. Seguimmo i portici intorno alla piazza e Mariella scansandosi non gettò una sola occhiata ai baracconi. Io pensavo come pochi giorni mi avevano ormai staccata da Roma, come a Torino trovavo già gli impegni e le compagnie di chi c’è sempre vissuto. Anche Maurizio, da quel mattino dell’arrivo, non mi aveva piú mandato narcisi.

Chiacchierando Mariella mi diceva molte cose della vita di Torino e dei negozi. Per averli sempre visti dalla parte del cliente, li conosceva bene. Giudicare un negozio dalla vetrina, è difficile per chi non fa le vetrine. Mariella invece li capiva. Mi raccontava della nonna che ancora adesso era il terrore delle sarte.

Arrivammo in cima a una scala sporca e mi dispiacque. Avrei voluto continuare a discorrere. Mariella suonò.

Tutti gli studi dei pittori sono uguali. Ci regna il disordine di certi negozi, ma fatto apposta e studiato. Non si capisce quand’è che lavorino, sembrano sempre disgustati della luce. Ci trovammo Loris sul letto sfatto — senza farfalla stavolta — e la ragazza dai capelli a frangetta ci aperse. Era vestita di un soprabito spelato e [p. 290 modifica]guardò male Mariella. Fumava. Anche Loris fumava, una pipa, e tutti e due immusoniti. Mariella rise, con calore, e disse: — Dov’è il mio sgabello? — Loris dal letto non si mosse.

Ci sedemmo con l’aria di ridere. Mariella cominciò le sue ciance, chiese notizie, si stupí, andò alla finestra. Loris, nero, taciturno, rispondeva appena. L’altra, la magra, che si chiamava Nene, mi studiava. Era una strana ragazza dalle grosse labbra, che poteva avere venticinque anni. Fumava con gesti impazienti e si mordeva le unghie. Sorrideva bene, come una bambina, ma il suo fare scattante dava noia. Era chiaro che, tra sé, riteneva Mariella una scema.

Io, come andò, me l’aspettavo. Cominciarono a parlare di fatti loro, di gente che non conoscevo, della storia di un quadro ch’era stato venduto prima ancora di finirlo ma poi il pittore s’era accorto ch’era già bell’e finito e non voleva piú toccarlo e il cliente lo voleva finito davvero, e l’altro non voleva saperne e non c’era verso. Quella Nene si scaldò e s’indignò e s’agitava, mordeva la sigaretta, levava la parola di bocca a Mariella. Io capisco che, secondo il mestiere che fa, la gente parli; ma come i pittori e tutti quelli che si sentono discutere nelle trattorie non c’è nessuno. Capirei se dicessero i pennelli, i colori, l’acquaragia — le cose che adoperano — , ma no, questa gente parla difficile solo per gusto, e succede che di certe parole nessuno sa il senso, c’è sempre un altro che un bel momento si mette a litigare, dice che no, vuol dir cosí, cambia tutto. Sono parole come quelle dei giornali quando parlano di quadri. Io mi aspettavo che anche la Nene esagerasse. Invece no. Discorreva con sveltezza e con rabbia ma non perdeva quell’aria di bambina: spiegava a Mariella che non si smette mai troppo presto di dipingere un quadro. Si davano del tu. Loris taceva, succhiando la pipa. Mariella a cui non importava niente dei quadri, scappò fuori un bel momento: perché non discutevamo la messa in scena? Loris si rivoltò sul letto, la Nene ci guardò tutti e due malamente. Se ne accorse da sé e scoppiò a ridere. Mi colpí che rideva in dialetto, come ridono le commesse, come rido qualche volta anch’io.

Disse la Nene: — Ma è tutto per aria. Dopo la storia di Rosetta non si può mettere in scena un suicidio...

— Sciocchezze, — gridò Mariella, — chi ci aveva pensato?

La Nene di nuovo ci guardava, provocante e felice.

— Sono storie di donne, — disse Loris sprezzante, — interessa ai padroni di casa. Per me, figuratevi. Ma abbiamo da fare con le [p. 291 modifica]Martelli, con gente che paga. Io non so cos’abbia fatto Rosetta... Mi piace anzi, questa fantasia della realtà, per cui le situazioni dell’arte perdono quota e diventano vita. Dove cominci il fatto personale non m’interessa... Ma sarebbe troppo bello se davvero Rosetta avesse agito per suggestione... Comunque le Martelli non ci stanno.

— Che c’entra? — disse Mariella. — L’arte è un’altra cosa...

— Ne siete sicure? — ragionava Loris. — È un altro modo di guardar la cosa, se volete, non è un’altra cosa. Per me, vorrei mettere in scena proprio il fatto della suggestione drammatica, sono sicuro che sarebbe fantastico... un papié collé di cronaca teatrale... considerare questi vestiti che portate, questa stanza, questo letto, come le robe del teatro di Maria Maddalena... Un teatro esistenziale... Si dice cosí?

Guardava me, proprio me, da quel letto, con gli occhi pelosi. Io non posso soffrire i furbastri e già stavo per dirgliene due quando la Nene saltò su, fresca: — Se Rosetta fosse morta davvero, si potrebbe fare. Un hommage à Rosette...

Mariella disse: — Chi è che non vuole?

— Momina, — rispose l’altra. — Le Martelli, il presidente, Carla e Mizi. Con Momina erano amiche...

— Quella stupida doveva restarci, era meglio... — brontolò Mariella.

Sono avvezza a sentirne, nel nostro negozio, scandali e pettegolezzi di tutta Roma, ma questo battibecco di amiche perché una terza non era riuscita a farsi fuori, mi colpí. Quasi quasi pensai che la recita fosse già cominciata e tutto si svolgesse per finta, come in un teatro, come voleva Loris. Arrivando a Torino, ero entrata sulla scena e adesso recitavo anch’io. «È carnevale, — pensavo tra me, sta’ a vedere che a Torino fanno tutti gli anni questi scherzi».

— Per me, — disse Loris rimordendo la pipa. — Mettetevi d’accordo voi.

Io studiavo la frangetta, le labbra grosse della Nene, quel soprabito stinto. La gente vive in modi strani. A sentirli parlare del loro mestiere e del diritto che avevano di vendere la roba non finita, era chiaro che piú che i soldi difendevano la loro arroganza. «Tu fai la fame, cara te, — volevo dirle, — e hai tante storie. Dove dormi la notte? Ti mantiene qualcuno? Mariella che non fa i quadri è nata bene e ha la pelliccia». S’eran rimesse a litigare sul dramma e dicevano che non c’era piú tempo a trovarne un altro, e va bene, [p. 292 modifica]per quest’anno non si faceva piú niente. — Quella stupida! — diceva Mariella, e — Leggiamo un atto unico, senz’azione e senza scena, diceva la Nene, e allora saltava su Loris, le guardava con disgusto, come matte che erano, e diceva: — Va bene. Ma non venite a cercar me, allora.

Guardai di nuovo un certo quadro senza cornice, ch’era appoggiato a terra sotto la finestra. Pareva sporco, non finito: da quand’ero arrivata mi chiedevo cosa fosse. Non volevo farmi accorgere, perché Mariella non dicesse: — Su su, mostratele i quadri — . Ma quel pasticcio di colori viola e nerastri m’incantava; non volevo guardarlo e ci tornavo sempre, pensavo tra me ch’era come tutta la stanza e la faccia di Loris.

Dissi qualcosa. Chiesi per quando fosse la recita. — Chi lo sa? — disse la Nene. — Nessuno ha messo un soldo finora.

— Non avete chi paga?

— Chi paga, — disse Mariella cattiva, — pretende d’imporre i suoi gusti anche a noi... Ecco perché.

Loris disse: — Sarei felice se a me qualcuno m’imponesse un gusto... Ma non si trova piú nessuno che abbia un gusto. Non sanno quello che vogliono...

Mariella rise soddisfatta, nella pelliccia. La Nene agitandosi disse: — ci sono troppe Martelli e troppe Mizi in questa storia. Troppe femmine isteriche... Momina...

— Quella esagera, — disse Mariella.

— Momina sa quello che vuole. Lasciatela fare.

— E allora chi viene a sentirci? — disse secca Mariella. — Chi recita? le femmine isteriche?

— Recitare è escluso. Basta leggere.

— Storie, — disse Loris, — volevamo colorire un ambiente...

Continuarono un pezzo. Era chiaro che il pittore ci teneva a sporcare dei teloni, per pigliare qualcosa. E che Mariella ci teneva a far l’attrice. Soltanto la Nene non aveva pretese, ma qualcosa c’era sotto, anche per lei.

Fu allora che arrivò Momina. [p. 293 modifica]






VIII.

Entrò con quell’aria malcontenta, da padrona, ch’era sua. I suoi guanti valevano da soli tutto lo studio. La Nene, che le aprí l’uscio, sembrava la serva. Si salutarono ridendo.

— Ma lei frequenta tutti, — disse vedendomi.

— Non è difficile, a Torino, — risposi.

Girò qua e là, s’accostò ai quadri, e capii che era miope. Meno male. Tenni d’occhio Mariella.

— Accendete, — ci disse, — non vedete che è notte?

Con la luce la finestra sparí, e il quadro divenne una poltiglia di facce scorticate.

— Nessuno ci sta, — disse la Nene. — Non ci sto neanch’io. Si perde tempo per delle stupide storie e ancora non sappiamo che cosa si farà. Ha ragione Clara, reciteremo al buio, come una radiotrasmissione...

Momina sorrise, in quel suo modo scontento. Non le rispose, e disse invece a Loris che aveva parlato con un tale che aveva detto questo e quello, e Loris seduto sul letto brontolò qualcosa, e si teneva la caviglia; Mariella intervenne a voce alta e chiacchierarono e risero, e la Nene disse: — Roba da matti, — e del teatro non parlarono piú. Adesso Momina portava lei il discorso e venne fuori la storia di un Gegé di Piovà che incontrando un’amica d’infanzia nel bar di un grande albergo — non si vedevano da anni — l’aveva accostata: — Ciao — Ciao — Mi hanno detto che ti sei sviluppata, e cacciandole la mano nel seno ne aveva estratta una mammella, e ci avevano riso entrambi insieme al barman Filippo e agli astanti. Risero Momina e la Nene; Mariella fece una smorfia; Loris saltando giú dal letto disse: — È vero. Ha le poppe magnifiche. [p. 294 modifica]

— Maligni, — disse Mariella. — Vanna non è proprio cosí.

— Non sono magnifiche? — disse Loris.

Continuarono cosí, e Momina saltava di palo in frasca, mi sogguardava con quel suo modo minuzioso, m’interpellava, voleva incantarmi. Mi piacque che non tornassero piú sulla faccenda del dramma. Chi non stava a suo agio era Mariella, si capiva che l’altra le portava via il posto. Momina era piú giovane di me, ma non molto: vestiva benissimo, un tailleur grigio sotto la pelliccia di castoro, e aveva pelle massaggiata, il viso fresco; sfruttava la sua miopia per darsi un’aria staccata. Mi ricordai l’abito viola del veglione, e le guardai l’anulare, ch’era vuoto.

— Noi andiamo, — disse Mariella a un tratto.

Momina ci disse di aspettarla, che aveva la macchina sotto. Riempimmo in tre la topolino verde: mi aspettavo di meglio. Mariella volle montare di dietro. Accendendo, Momina mi disse: — È tutto quanto mi passa mio marito.

— Ah, — dissi.

— Vivo sola, — osservò Momina partendo, — è meglio per lui e per me.

Volevo scendere in via Po, dare un’ultima occhiata; Momina disse: — Resti con me, stasera.

Mariella, dietro, non parlava. La posammo davanti al cancello, sul suo viale. Per farla scendere, scendemmo anche noi ribaltando i sedili. All’ultimo momento s’era messa a riparlare del dramma, di Maria Maddalena, e si lagnava di Momina, di noi, ci accusava di mandare a monte le cose. Momina le rispose freddamente, si urtarono, io guardavo le piante. Adesso stavano zitte. — Domani ti racconto, — disse Momina. Risalimmo noi due.

Mi riportò al centro, non disse nulla di Mariella. Parlò della Nene invece, e disse che faceva delle cosí belle sculture, — Non si capisce perché perda il tempo con quel Loris, — sorrise: — È cosí intelligente. Una donna che vale piú dell’uomo che le tocca è una grossa disgraziata.

Le chiesi di portarmi in via Po.

Quando uscii dal portico e mi riaccostai alla macchina, Momina fumava una sigaretta e guardava innanzi nel buio. Mi aprí lei lo sportello.

Andammo a prendere l’aperitivo in piazza San Carlo. Ci sedemmo in due poltroncine in fondo a un nuovo caffè dorato, [p. 295 modifica]dall’ingresso ancora ingombro di steccati e di macerie. Un posto elegante. Momina rovesciò la pelliccia e mi guardò. — Lei ormai conosce tutti i miei amici, — mi disse. — Da Roma a Torino è un bel salto. Dev’essere bello lavorare come fa lei...

«Che cosa cerchi? un impiego?» pensai.

— ...Non si spaventi, — continuava, — è cosí piccolo il giro qui a Torino... Non voglio chiederle consigli. Lei ha gusto ma la mia sarta mi basta... È un piacere parlare con chi vive un’altra vita.

Parlammo un poco di Torino e di Roma — mi guardava stringendo gli occhi nel fumo — , delle case che non si trovano, di quel nuovo caffè; disse che a Roma non c’era mai stata ma era stata a Parigi, e se non pensavo che sarei andata a Parigi per il mio lavoro: dovevo assolutamente: viaggiare per lavoro era il solo viaggiare possibile, e perché mi accontentavo di Torino?

Allora dissi che a Torino mi ci avevano mandato. — Sono nata, a Torino.

Anche lei era nata a Torino, mi disse, ma cresciuta in Svizzera e sposata a Firenze. — Mi hanno allevata da signora, — disse. — Ma che cos’è una signora che non può prendere il treno domattina e andare in Spagna, andare a Londra, andare dove le pare?

Aprii bocca, ma lei disse che dopo la guerra soltanto chi lavorava come me poteva prendersi il lusso.

— Ma chi lavora non ha tempo, — dissi.

E lei tranquilla: — Non val la pena di lavorare, soltanto per venire a Torino.

Credetti di averla capita, e le dissi che da Torino io mancavo da quasi vent’anni, e c’ero venuta anche per rivedere casa mia.

— Lei è sola, mi pare.

— La casa dove stavo, il quartiere...

Mi guardò con quel sorriso scontento. — Non le capisco queste cose, — disse fredda. — Probabilmente lei non ha piú nulla a che fare con la ragazza ch’è nata a Torino. La sua famiglia...

— Morti.

— ... se non fossero morti, adesso la farebbero ridere. Che cos’ha piú di comune con loro?

Era cosí fredda e staccata che la vampa di sangue mi rimase in faccia e non seppi che dire. Mi sentii sciocca. «Dopotutto, è un complimento che t’ha fatto». Lei mi guardò canzonatoria, come se avesse capito. [p. 296 modifica]

— Non mi dirà, come qualcuno che conosco, che è bello nascere in un cortile...

Le dissi che il bello è pensare al cortile, facendo il confronto.

— Lo sapevo, — disse lei ridendo, — vivere è una cosa tanto sciocca che ci si attacca persino alla sciocchezza di esser nati...

Sapeva parlare, non c’era questione. Girai gli occhi sulle dorature, sulle specchiere, sulle stampe appese ai muri. — Questo caffè, — disse Momina, — l’ha messo in piedi un uomo come lei, volitivo...

Era riuscita a farmi sorridere. «Sei in gamba perché sei stata a Parigi, — pensavo, — o sei stata a Parigi perché sei in gamba?» Ma lei mi disse brusca:

— Si è divertita al veglione l’altra sera?

— Era un veglione? — mormorai delusa. — Non me ne sono accorta.

— Dicono che è carnevale, — fece Momina a bassa voce, ridendo, — queste cose succedono.

— E la bella Mariella, — dissi, — perché non va a questi balli?

— Le ha già detto anche questo? — sorrise Momina. — Ma allora siete proprio amiche.

— Non mi ha ancora chiesto di rivoltarle l’abito...

— Lo farà, lo farà, — disse Momina. — A Torino siamo tutte cosí... [p. 297 modifica]





IX.

Io sono una sciocca. Quella sera mi dispiacque di aver detto male di Mariella, mentre lei aveva difeso, nello studio di Loris, quella ragazza Vanna. Mi restò l’amaro in bocca. Sapevo bene ch’eran solo parole, che quella gente — tutti quanti, compreso Morelli — vivevano come i gatti, sempre pronti a portarsi via l’osso, ma insomma mi dispiacque e dicevo «Ecco che sono come loro». Non durò molto comunque, e quando Momina mi chiese che cosa facevo la sera, accettai di tenerle compagnia. Tornammo all’albergo a cenare, e naturalmente spuntò Morelli che venne a discorrere al nostro tavolo, senza stupirsi di vederci insieme. A metà cena arrivò la chiamata che aspettavo da Roma. Per qualche minuto nella cabina discussi via Po, feci progetti, respirai l’aria solita. Al ritorno in sala. Morelli e Momina mi dissero di smetterla, s’era deciso di godere, saremmo andati insieme in qualche posto e poi a casa di Morelli.

Quella sera Morelli volle condurre lui la macchina e passammo persino dalla Fiera dei vini; cercò di farci bere come si fa con le ragazze inesperte ma finí che bevve lui piú di noi e, come un gioco, girammo per infiniti locali, scendemmo e salimmo, toglievo e rimettevo la pelliccia, un ballo e via, tante facce mi pareva di conoscerle, un bel momento perdemmo Momina e la ritrovammo sulla porta della sala successiva che discorreva e rideva col portiere. Non credevo che a Torino ci fosse tanto movimento. Momina smise con me quell’aria assente, rise in faccia a Morelli, propose persino di fare un giro nelle bettole di Porta Palazzo dove si beve vino rosso e ci battono prostitute comuni. — Non è mica Parigi, — disse Morelli, — contentiamoci di questi quattro pederasti — . In un locale [p. 298 modifica]sotto via Roma, vicino alla piazzetta delle Chiese, Morelli finse di contrattare cocaina col batterista, erano grandi amici, bevemmo un cocktail che ci offrirono; quel batterista s’era messo a raccontare di quando suonava a Palazzo reale; — Sua Altezza... perché per me è ancora Sua Altezza... — , per liberarcene ballai con Momina. È una cosa che mi fa senso ballare con una donna, ma volevo levarmi un sospetto, e questa è ancora la strada piú spiccia. Nessuno fece caso a noi; Momina ballò parlandomi all’orecchio, mi abbracciò che scottava, si strusciò e rise e mi soffiava nei capelli, ma non mi parve che cercasse altro; non fece nessun gesto; era soltanto un poco matta, ubriaca. Meno male. Sarebbe stata una lagna che proprio non volevo.

E arrivammo finalmente sotto il portone di Morelli. C’introdusse un po’ malfermo nell’ascensore e parlava parlava a tutte e due. Entrammo in casa che diceva: — Con queste ciance s’allunga la vita... Sono contento che non sono ancora vecchio, se fossi vecchio cercherei la compagnia di bambine... Voi non siete bambine, siete vere donne... Viziose, maligne, ma donne... Sapete discorrere... No no, non sono vecchio...

Entrammo ridendo e la casa mi piacque subito. Era evidente ch’era vuota e molto grande. Puntammo al salotto, dalle grandi poltrone, pieno d’azalee e di tappeti. La vetrata sul corso doveva esser bella nell’estate.

Con in mano un bicchiere a boccia, facemmo progetti. Momina mi chiese se andavo in montagna. Neve ce n’era ancora. Morelli, testardo, parlava di Capri, della pineta di Fregene, cercava di ricordarsi se per quell’anno aveva affari a Roma che scusassero una vacanza, un viaggio qualunque. Io gli dissi ch’era strano che proprio gli uomini tenessero tanto alle apparenze. — Se non fosse per gli uomini, — dissi, — in Italia ci sarebbe già il divorzio.

— Non ce n’è bisogno, — osservò Momina tranquilla, — con un marito ci s’intende sempre.

— Ammiro Clelia, — disse lui, — che non ha nemmeno voluto provare...

Poi balbettò: — Sentite. Non è meglio che ci diamo del tu? Tu Momina una volta me ne davi...

— Non mi pare ma è lo stesso, — disse Momina. — Non per sapere i fatti tuoi, — disse guardandomi, — ma se tu ti sposassi, vorresti fare dei figli? [p. 299 modifica]

— Tu ne hai fatti? — dissi ridendo. — La gente si sposa per questo.

Ma lei non rise. — Chi fa figli, — disse fissando il bicchiere, accetta la vita. Tu l’accetti la vita?

— Se uno vive l’accetta, — dissi, — no? I figli non cambiano la questione.

— Però non ne hai fatti... — disse alzando la faccia dal bicchiere e scrutandomi.

— I figli sono grossi pasticci, — disse Morelli, — ma le donne ci tengono tutte.

— Noi no, — disse Momina, di scatto.

— Ho sempre visto che chi non ha voluto figli, gli toccano quelli degli altri...

— Non è questo, — lo interruppe Momina. — La questione è che una donna se fa un figlio non è piú lei. Deve accettare tante cose, deve dire di sí. E vale la pena di dir di sí?

— Clelia non vuole dir di sí, — disse Morelli.

Allora dissi che discutere di queste cose non aveva senso, perché a tutti piacerebbe un bambino ma non sempre si può fare come si vuole. Chi vuol fare un bambino lo faccia, ma bisogna stare attenti a provvedergli prima una casa, dei mezzi, ché non debba poi maledire sua madre.

Momina, che aveva acceso una sigaretta, mi squadrò con gli occhi socchiusi nel fumo. Tornò a chiedermi se accettavo la vita. Disse che per far un figlio bisognava portarselo dentro, diventare come cagne, sanguinare e morire — dir di sí a tante cose. Questo voleva sapere. Se accettavo la vita.

— Adesso smettetela, — disse Morelli, — nessuna di voi è incinta.

Bevemmo ancora un po’ di cognac. Morelli volle farci sentire dei dischi, disse che tanto la sua domestica dormiva della grossa. Dal piano di sopra veniva un rimbombo di piedi e un gran fracasso. — Fanno anche loro carnevale, — disse con un’aria cosí seria che mi scappò da ridere. Ma dentro mi aveva colpito quella storia del dir di sí; Momina fumava raggomitolata senza scarpe sulla poltrona, discorrevamo di sciocchezze, lei mi studiava con quell’aria scontenta, come una gatta, ascoltando; io parlavo ma dentro stavo male, molto male. Non avevo mai pensato in quel modo alle cose che Momina aveva detto, eran tutte parole, lo sapevo, «siamo qui per divertirci», ma intanto era vero che non aver figli vuol dire aver [p. 300 modifica]paura di vivere. Mi venne in mente la ragazza dell’albergo, nel suo tulle celeste, e mi dicevo «Sta’ a vedere che quella aspettava un bambino». Ero anche un po’ ubriaca, avevo sonno, e invece Morelli piú il tempo passava piú diventava giovanotto, camminava per la stanza, c’intratteneva, parlava di far colazione. Quando uscimmo — volle venire a ogni costo anche lui — m’accompagnarono in macchina all’albergo; e cosí per quella volta non parlammo piú di queste cose. [p. 301 modifica]





X.

In uno di quei giorni — piovigginava — dovetti tornare prima di sera dalle parti della Consolata. Cercavo un elettricista e mi faceva un certo effetto rivedere le vecchie botteghe, i grandi portoni nelle viuzze, e leggere i nomi — delle Orfane, di Corte d’Appello, Tre Galline — riconoscendo le insegne. Nemmeno i ciottoli delle strade erano cambiati. Non avevo l’ombrello e, sotto le strisce strette di cielo in mezzo ai tetti, ritrovavo l’odore dei muri. «Nessuno lo sa, — mi dicevo, — che sei tu quella Clelia». Non osavo soffermarmi e mettere il naso nelle vecchie vetrine.

Ma quando fui per ritornare, non mi tenni. Ero in via Santa Chiara e riconobbi l’angolo, le finestre inferriate, il vetro sporco e appannato. Varcai decisa la piccola soglia che scampanellò, come allora, e passandomi la mano sulla pelliccia me la sentii bagnata. Nell’aria chiusa gli scaffaletti con le mostre di bottoni, il piccolo banco, l’odore di biancheria, eran gli stessi.

C’era di nuovo una lampada verde, che illuminava il registratore di cassa. All’ultimo momento sperai che il negozio fosse stato ceduto, ma la donna magra, dalla faccia ossuta e risentita, che si alzò dietro il banco, era proprio Gisella. Credo che cambiai colore e mi augurai di essere anch’io cosí invecchiata. Gisella mi squadrava, sospettosa, con un mezzo sorriso d’invito sulla bocca sottile. Era grigia, ma in ordine.

Allora mi disse, con un tono che un tempo ci avrebbe fatte ridere tutte e due, se volevo comprare. Le risposi strizzandole l’occhio. Non mi capí e ricominciava la stessa frase. Io la interruppi con la mano. — Possibile? — dissi.

Dopo la prima contentezza e la sorpresa, che non bastarono a [p. 302 modifica]darle colore (era uscita dal banco, e ci eravamo portate sull’uscio, per meglio vederci), discorremmo cosí, festeggiandoci, e lei mi guardava la pelliccia e le calze con l’occhio intrigato, come fossi sua figlia. Non le dissi tutto quel che avevo fatto e perché ero a Torino; lasciai che pensasse ciò che voleva; accennai vagamente che stavo a Roma e che avevo lavoro. Quand’eravamo due bambine, Gisella era tenuta stretta stretta, tanto che con me si lagnava di non poter nemmeno andare al cinema, e io allora le dicevo di venirci lo stesso.

Mi aveva già chiesto se m’ero sposata, e alla mia alzata di spalle impaziente aveva fatto un sospiro, non so se per me o su se stessa. — Sono vedova, — mi disse, — Giulio è morto — . Giulio era il figlio della merciaia, la prozia che aveva allevato nel negozietto Gisella rimasta orfana, e già ai miei tempi si sapeva che voleva farsene una nuora. Giulio era un tisico ragazzo lungo lungo che portava un mantello invece del soprabito o del maglione, e d’inverno andava sempre a sedersi sui gradini del duomo per prendere il sole. Gisella non parlava mai di Giulio: era la sola a non voler credere che la vecchia la teneva in casa per farle sposare quel malato, e diceva che non era malato. Gisella allora era svelta, giudiziosa — in casa sovente ce la portavano a esempio.

— E Carlotta? — le dissi. — Che fa? balla sempre?

Ma Gisella parlava ormai del negozio e mi fece la solita lagna — era felice di avermi e potersi sfogare. Mi colpí il tono astioso con cui disse che Carlotta aveva fatto la sua strada — era stata ballerina in Germania durante la guerra, piú nessuno l’aveva vista. Tornò a parlare del negozio, del salasso ch’era stata la morte di Giulio — in sanatorio, sulle spese fino a tre anni fa — , della morte della vecchia e dei tempi cattivi prima ancora della guerra. Le figlie — ne aveva due, Rosa e Lina: una tossiva, era anemica, l’altra no, quindici anni, tutte e due studiavano — erano un grosso guaio, la vita costava, e il negozio non rendeva piú come ai tempi di una volta.

— Ma state bene, avete sempre quell’alloggio...

Miserie, mi disse, piú nessuno pagava l’affitto: lei adesso li aveva sfrattati e affittava a un atelier di ragazze. — Rende di piú, noi ci siamo ristrette, viviamo di sopra — . Alzai la testa, rividi le due stanze in alto, la scaletta, la piccola cucina. Ai tempi della vecchia salire quella scala era un rischio, la vecchia era sempre di [p. 303 modifica]mezzo, chiamava lei Gisella, le diceva di non uscire sulla strada. Mi colpí che adesso Gisella si comportava come la vecchia padrona, sospirava, socchiudeva gli occhi; anche il sorriso risentito che gettava alla mia pelliccia e alle calze aveva un’ombra di quell’astio con cui la vecchia giudicava noialtre.

Chiamò le figlie. Avrei voluto andarmene. Quello era tutto il mio passato, insopportabile eppure cosí diverso, cosí morto. M’ero detta tante volte in quegli anni — e poi piú avanti, ripensandoci — , che lo scopo della mia vita era proprio di riuscire, di diventare qualcuna, per tornare un giorno in quelle viuzze dov’ero stata bambina e godermi il calore, lo stupore, l’ammirazione di quei visi familiari, di quella piccola gente. E c’ero riuscita, tornavo; e le facce la piccola gente eran tutti scomparsi. Carlotta era andata, e il Lungo, Giulio, la Pia, le vecchie. Anche Guido era andato. Chi restava, come Gisella, non le importava piú di noi, né di allora. Maurizio dice sempre che le cose si ottengono, ma quando non servono piú.

Rosa non c’era, era andata dai vicini. Ma la Lina, quella sana, corse giú dalla scaletta, saltò nel negozio, si fermò guardinga e contegnosa fuori del cono di luce. Era vestita di flanella, non male, e ben sviluppata. Gisella parlava di farmi il caffè, di portarmi sopra; io le dissi ch’era meglio se non lasciavamo il negozio. Infatti, il sonaglio squillò, entrò un cliente.

— Eh già, — disse Gisella quando la porta si fu richiusa, — eravamo ragazze che si lavorava, allora... Altri tempi. La zia sapeva comandare...

Guardava Lina, con una smorfia di piacere. Era evidente che s’era scelta la parte della madre che si ammazza di lavoro e non permette alle figlie di sporcarsi le mani. Nemmeno il caffè lasciò fare alla Lina. Corse lei di sopra e lo mise su. Io scambiai qualche parola con la figlia — mi guardava compiaciuta — , le chiesi della sorella. Entrò una donna scampanellando e da sopra Gisella gridò: — Vengo subito.

Avevo detto decisa ch’ero a Torino di passaggio, che ripartivo l’indomani: non volevo servitú. Ma Gisella non insistette; mise ancora il discorso sulla vecchia, me ne fece chiacchierare davanti alla figlia: di come la vecchia comandava e dava consigli anche alle ragazze degli altri. Succede cosí sempre. Con la scusa di allevarla, di darle una casa e un marito, la vecchia aveva fatto di Gisella un’altra se stessa — e lei adesso lavorava sulle figlie. Pensavo a mia [p. 304 modifica]madre se era stata cosí — se è mai possibile vivere con qualcuno e comandarlo, senza lasciargli il segno. Io dalla mamma ero scappata in tempo. O no? La mamma borbottava sempre che un uomo, un marito, era un povero affare, che i maschi non sono cattivi ma scemi — ed ecco che l’avevo ubbidita anch’io. Persino la mia ambizione, la smania di far da sola, di bastarmi, non veniva da lei?

Prima che me ne andassi la Lina chiacchierò, come succede, di qualche sua compagna di scuola e trovò il tempo di dirne male, di chiedersi dove le famiglie trovassero i mezzi per mandarcele. Io cercavo di ricordarmi com’ero a quell’età, che cosa avrei detto in un caso come questo. Ma io a scuola non ero andata, io non prendevo il caffè con la mamma. Ero certa che fra poco, alle mie spalle. Lina avrebbe parlato di me con sua madre come parlava delle compagne di scuola. [p. 305 modifica]





XI.

Soltanto le ore che passavo in via Po non mi parevano perdute. Mi toccava anche girare in cerca di questo e quello; qualcuno lo vedevo in albergo. Col mercoledí delle Ceneri, muratori e imbianchini avevano finito: restava il lavoro piú difficile, l’arredamento. Fui sul punto di rimettermi in treno e andare a ridiscutere tutto; al telefono, con Roma non ci si poteva intendere. Mi dicevano: — Ci fidiamo; fai tu — e il giorno dopo telegrafavano che aspettassi una lettera. L’architetto ambientatore venne a cena con me in albergo: tornava adesso da Roma e aveva una cartella piena di bozzetti. Ma era giovane e tergiversava; non volendo compromettersi, mi diede ragione: a guardarli di qua, tutti i bei progetti di Roma crollavano. Bisognava fare i conti con la luce dei portici e tenere presenti gli altri negozi di piazza Castello e di via Po. Mi convinsi che aveva ragione Morelli: il sito era impossibile — un quartiere come a Roma non ce ne sono piú, forse soltanto fuori porta. La gente passeggia in via Po soltanto la domenica.

Quest’architetto era rosso, testardo e peloso, un ragazzo: parlava sempre di ville in montagna; cosí scherzando, mi schizzò il progetto di una casetta di vetro per prendere il sole d’inverno. Mi raccontò che lui viveva molto in giro, come me; ma diversamente da me che potevo indossare anche domani un modello che mi piacesse, nelle sue ville ci stavano soltanto quei bestioni che avevano i mezzi, quasi sempre rubati. Lo misi sul discorso dei pittori di Torino, di quel Loris. Lui si montò, prese fuoco, disse che preferiva gli imbianchini. — Un imbianchino conosce il colore, — disse, un imbianchino potrebbe domani, studiando, diventare affrescatore o mosaicista. Chi non ha cominciato a dar la calce a una parete non sa cos’è decorazione. Questi pittori di Torino per chi [p. 306 modifica]dipingono e che cosa dipingono? Non hanno ambiente. Quello che fanno non serve a nessuno. Lei lo farebbe un vestito che non sia da portare, ma da tenere sotto vetro?

Gli dissi che non facevano soltanto quadri o statuine, ma parlavano di mettere su uno spettacolo. Ne parlavano molto. Gli dissi dei nomi. — Bella roba, — m’interruppe sarcastico, — bella roba. Lei che cosa direbbe se quella gente mettesse insieme una sfilata di modelli e invitasse Clelia Oitana a vederla?

Allora seguitammo a scherzare e si concluse che soltanto noi vetrinisti, architetti e sarte eravamo artisti veri. Finí, come prevedevo, che m’invitò a venir con lui in montagna a vedere un rifugio che aveva progettato. Gli chiesi se aveva niente di piú comodo da propormi. Magari un palazzo a Torino. Mi guardò con un occhio solo, ridendo.

— Il mio studio... — disse.

Ero stufa di studi e di chiacchiere. Quasi preferivo Becuccio e il suo bracciale di cuoio. Quest’altro si chiamava Febo — cosí era scritto in fondo a tutti i suoi progetti. Gli risi in faccia, con la stessa impertinenza sua, e lo mandai a letto come un ragazzo troppo furbo.

Ma Febo era rosso, testardo e peloso, e doveva aver deciso che facevo per lui. Riuscí a sapere esattamente come stavo con Mariella, con la Nene e con Momina, di Morelli e del suo cognac, della mia visita allo studio di Loris. L’indomani venne a dirmi che voleva accompagnarmi a una mostra. Gli chiesi se non era meglio che decidessimo quelle tendine. Mi rispose che l’ambiente piú adatto era la mostra, si beveva un liquore e si studiava l’arredamento del locale: una cosa di gusto. Ci andammo, e già salendo le scale sentii ridere la Nene.

Quelle sale erano un misto di montagna e di bar novecento. Ci servivano certe ragazze in grembiale a quadretti. Siccome anche le poltrone e le maioliche facevano mostra, ci si stava a disagio, ci si sentiva come esposti in una vetrina. Febo non disse se ci aveva avuto mano anche lui. Alle pareti si vedevano quadri e statuine; non le guardai. Guardai la Nene che, nel solito abituccio, rideva rideva, buttata su una poltrona, divincolando le gambe, e da dietro un cameriere in nero le accendeva la sigaretta. C’era Momina, e altre donne e ragazze. C’era un vecchietto con la barba da cinese, che seduto davanti alla Nene le schizzava il ritratto. Alle porte [p. 307 modifica]della sala, gente faceva capolino, pochi — il pubblico che guardava gli artisti.

Ma la Nene s’accorse presto di me, e venne a chiedermi se avevo già visto i suoi lavori. Era allegra, eccitata, mi soffiò il fumo in faccia. Davvero le grosse labbra e la frangetta ne facevano una bambina. Mi portò davanti alle sue statue — dei piccoli nudi sformati che parevano di fango. Li guardai piegando il capo da una parte; pensai — non lo dissi — , che dal ventre della Nene potevano ben nascere figli cosí. Nene guardava me avidamente, a bocca aperta, come se fossi un bel giovane; io aspettavo che qualcuno parlasse, piegai il capo dall’altra parte. Febo, abbracciandoci tutt’e due alla vita, disse: — Qui siamo in cielo o sottoterra. Ci voleva una piccola donna come te Nene per mostrarci queste cose terribili...

Nacque una discussione, cui prese parte anche Momina. Non ci badai. Sono avvezza ai pittori. Guardavo la faccia della Nene, che seguiva accigliandosi o trasalendo le parole degli altri, come se tutto dipendesse da loro. Aveva davvero perduta la baldanza o anche questa era la sua parte? Il piú incredibile di tutti era Febo. Soltanto l’altro giorno diceva forca della Nene e dei suoi.

Parlavano di lei con buonumore, e lei faceva la bambina, la confusa. Già prima, quel gesto di mostrarmi le statuine mi aveva seccata. Non poteva lasciare che le vedessi da me? Ma la Nene coltivava una fama di ragazza maleducata e impulsiva. Forse aveva ragione. «Qui manca soltanto Mariella, — pensai. — Che cosa direbbe Becuccio di queste matte?»

All’idea di Becuccio mi scappò da ridere. Febo mi si voltò improvvisamente con buonumore, mi venne vicino e bisbigliò sulla guancia: — Lei Clelia è un tesoro. Lei li fa meglio i bambini, scommetto?

— Credevo dicesse sul serio prima, — gli risposi. — La piú sincera qui dentro è ancora la Nene...

— Quest’arte viscerale mi ha messo appetito, — bisbigliò lui. Ce le facciamo due salsicce?

Bevendo grappa e mangiando salsicce, si riparlò della montagna. Persino il vecchio pittore dalla barbetta era un competente alpinista. Combinarono una gita in quel rifugio, si distribuirono le parti, bisognava entro domani telefonare a destra e a sinistra.

— Andateci voi, — disse Momina. — Io non vengo al rifugio. Io e Clelia ci fermeremo per strada... Mai stata a Montalto? [p. 308 modifica]





XII.

Fermammo la topolino a una villa davanti alle montagne. Eravamo noi due sole. Le altre macchine proseguirono, ci aspettavano a Saint-Vincent, Quei pochi giorni di bel tempo erano bastati a far fiorire le piantine dentro le serre, ma gli alberi del giardino erano ancora secchi. Non ebbi il tempo di guardarmi attorno, che Momina gridò: — Eccoci qua.

Stavolta Rosetta non portava il vestito celeste. Ci venne incontro in sottana e scarpette da tennis, i capelli fasciati da un nastro, come se fossimo al mare. Mi diede la mano con forza, diede l’altra a Momina ma non sorrise: aveva gli occhi grigi e scrutatori.

Spuntò anche la madre, in ciabatte, grassa e asmatica, vestita di velluto. “Rosetta, — gridò Momina, — puoi tornare. Non ci sono piú balli a Torino...

Le informò degli amici, della gita, della comitiva. Mi stupí che Rosetta accettasse il tono scherzoso e parlasse, come lei, disinvolta; mi chiesi se proprio l’avevo vista su quella barella — quanti giorni fa? quindici, venti? Ma forse Momina chiacchierava cosí per aiutarla, per levare lei e noi d’imbarazzo. Dovevano conoscersi bene.

Chi aveva gli occhi spaventati e acquosi, poveretta, era la madre, che davanti a Momina si agitava, e guardava me con apprensione. Era cosí donnetta che si lagnò della vita in campagna, del disagio di stare fuori stagione nella villa. Ma Rosetta e Momina non rincoraggiarono. Finí che Momina le rise in faccia. — Quel cattivo papà, — esclamò, — condannarvi cosí alla prigione. Bisogna evadere, Rosetta. D’accordo?

— Io ci sto, — disse Rosetta a mezza voce. [p. 309 modifica]

La madre temeva che non fosse ben fatto. — Non hai gli sci, non hai niente, — disse. — Papà non sa...

— chi parla di sci? — disse Momina. — Che ci vadano quei matti. Noi ce ne andiamo a Saint-Vincent. Nemmeno Clelia è venuta per sciare...

Ma prima la madre volle darci il tè, preparare dei thermos, equipaggiarci. Rosetta era già corsa a vestirsi, senza perdere tempo.

Rimaste noi con la madre, Momina mormorò sul gradino: — Come sta?

La madre si voltò, col pugno sulla guancia. Me la rividi, impellicciata, correre in quel corridoio. Balbettò: — Per carità. Purché niente succeda...

— È necessario che ritorniate, — tagliò Momina, — Non deve nascondersi. A Torino le amiche sparlano...

Arrivammo a Saint-Vincent, sempre correndo fra le montagne. Anche qui c’era il sole sulla neve, e non molte piante. Mi stupí il numero delle macchine nel parcheggio del Casinò.

— Non c’è mai stata? — mi chiese Rosetta sulla spalla. S’era voluta seder dietro, nella sua giacchetta di pelliccia, e con Momina durante la corsa avevano parlato senza guardarsi.

— È comodo, — dissi. — A tre ore di macchina.

— Lei gioca?

— Non credo alla fortuna.

— Che altro c’è nella vita, — disse Momina rallentando. — La gente sogna l’automobile per venire a guadagnarsi l’automobile, che poi le serve per tornarci... Questo è il mondo.

Parlò con un tono definitivo che mi parve di canzonatura. Ma non risero né l’una né l’altra. Scendemmo.

I nostri amici, per fortuna, s’erano da un pezzo dispersi nelle sale da gioco e fu possibile sederci al bar noi tre sole. Era pieno di gente, faceva un caldo da serra. Rosetta prese l’aranciata, e se la sorbiva cheta, guardandoci. I suoi occhi grigi infossati ridevano poco. Sembrava una ragazza tranquilla e sportiva, con quello sweater giallo e i calzettoni arrotolati. Chiese chi c’era con noi oltre a Pegi e alle ragazze.

Il discorso voltò sulle amiche, sugli ultimi fatti di Torino. Momina disse a un certo punto che la recita era in alto mare (stava fumando, socchiudeva gli occhi nel fumo). — Perché? — chiese freddamente Rosetta. [p. 310 modifica]

— Non vogliono farti uno sgarbo... — accennò Momina. — ... Sai, il dramma finisce male...

— Sciocchezze, — tagliò Rosetta, — che c’entra?

— Sai chi difende il vecchio dramma? — disse l’altra. — ... Mariella. Mariella ci tiene alla recita e non ci vede nessuna allusione. Dice che a te non importa...

Rosetta mi diede una rapida occhiata. Io dissi alzandomi: — Scusate. Cerco la toeletta.

Tutte e due mi guardarono, Momina con la faccia divertita.

Mi restò l’impressione di aver detta una cosa di quelle che non si dicono. Mentre giravo nei corridoi, per calmarmi mi ripetevo: «Brutta stupida. Cosí impari a voler essere un’altra». Credo che fossi anche arrossita.

Mi fermai davanti a uno specchio, e intravidi Febo che usciva da una saletta da gioco. Non mi voltai fin che non fu rientrato.

Tornata, dissi: — Scusate — . E Rosetta, con quegli occhi fermi:

— Ma lei può restare. Non ci dà nessuna noia. Non mi vergogno di quello che ho fatto.

Momina disse: — Tu che hai visto Rosetta quella notte. Dicci com’è stato. Non l’avranno spogliata i camerieri, spero?

Rosetta fece una smorfia, come cercando di ridere. Arrossiva anche lei. Se ne accorse e indurí gli occhi, fissandomi.

Dissi qualcosa, non so, che le stavano intorno la madre e un dottore. — No no, com’era Rosetta, — disse Momina con accanimento. — L’effetto che faceva a un’estranea. Allora tu eri un’estranea. Se era brutta, stravolta, se era un’altra. Come siamo da morte. In fondo lei non voleva saper altro.

Dovevano conoscersi bene, per parlarsi cosí. Rosetta mi guardava dal fondo degli occhi, attenta. Dissi ch’era stato soltanto un attimo, ma mi era parsa gonfia in faccia, vestita da sera di celeste, e non aveva le scarpe. Di questo ero certa. Tanto era in ordine e poco stravolta, dissi, che avevo guardato sotto la barella se gocciava sangue. Pareva una disgrazia, una comune disgrazia. In fondo, chi è svenuto è come uno che dorme.

Rosetta respirò forte, non cercò di sorridere. Momina disse: — A che ora avevi preso il sonnifero?

Ma Rosetta non rispose a questo. Si scrollò le spalle, guardò in giro e poi chiese a voce bassa, esitando: — Davvero ha creduto che mi fossi sparata? [p. 311 modifica]

— Se proprio ci tenevi, — disse Momina, — era meglio spararsi. Ti è andata male.

Rosetta mi guardava intimidita, dal fondo degli occhi — mi parve un’altra in quel momento — e bisbigliò: — Dopo si sta peggio che prima. È questo che spaventa. [p. 312 modifica]





XIII.

Non ci fu piú tempo di parlarne. Le ragazze ci videro, ci vennero intorno, e spuntarono altre facce di comuni conoscenti, persino qualcuno del mio albergo. Adesso che ci seppero nel bar, Febo, la Nene e quel Pegi, che giocavano e perdevano con insolenza, ricomparvero piú volte a bere cicchetti su cicchetti. Finí che la Nene e il ragazzo Pegi si litigarono mezzo ubriachi, tanto che il vecchio pittore e Momina s’intromisero perché ripartissimo. — Anche noi veniamo, — disse Momina.

Io intanto giravo per le sale, ma la gente affollata intorno ai tavoli da gioco mi dà i nervi, e c’erano grandi quadri alle pareti, paesaggi e donne nude, quasi a dire che lo scopo di tutti i giocatori è star bene e mantenere donne nude in pelliccia. Quel che fa rabbia è dover riconoscere che tutto si riduce proprio a questo e i giocatori hanno ragione. Hanno ragione tutti quanti, anche quelli che ci vivono, anche le vecchie decadute che covano con gli occhi le puntate degli altri. Per lo meno, giocando non c’è differenza nati bene o nati male, puttane, borsaioli, fessi o furbi, tutti vogliono la stessa cosa.

Venne il momento che la Nene disperata si buttò su una sedia e gridava: — Portatemi via, portatemi via — . Allora c’incamminammo alle macchine e caricammo gli altri. La Nene che soltanto allora s’accorse di Rosetta, cominciò a invocarla e volerla baciare. Rosetta compiacente le fece smettere il capriccio accendendole la sigaretta dal finestrino.

Partirono. Adesso toccava a noi. Ma guardandoci in faccia, ci venne da ridere. — Andiamo a cena a Ivrea, — disse Momina sollevata, — poi torniamo a Montalto. [p. 313 modifica]

Rientrammo nelle sale per dare un’ultima occhiata. Momina disse che voleva guadagnarsi la gita, adesso che i iettatori se n’erano andati. — Stammi vicina, — disse a Rosetta, — tu sei piena di fortuna, sei come la corda dell’impiccato — . Si misero a un tavolo, serie serie. Stetti a guardare. In pochi colpi Momina perse diecimila lire. — Prova tu, — disse a Rosetta. Rosetta ne perse altre cinque. — Andiamo al bar, — disse Momina.

«Ci siamo, — pensai, — si comincia». — Sentite, — dissi bevendo il caffè, — vi offro la cena ma smettetela.

— Imprestami ancora mille lire, — disse Momina.

— Andiamo, — disse Rosetta, — non serve a niente.

Diedi le mille lire e perdemmo anche quelle. Mentre nel guardaroba Momina almanaccava sulla disdetta e infilavamo le nostre pellicce, ci compare davanti sornione quel testardo di Febo.

— Dove vanno le belle signore? — ghignò.

Non era partito. Nessuno ci aveva pensato. Se n’era stato nella sala durante le nostre giocate. — Ecco, — disse Momina, — è colpa sua. Se ne vada, se ne vada...

Salimmo invece in topolino, schiacciati, in quattro. Non era facile liberarsi di lui, tanto piú che scherzava inviperito sulla iella comune e diceva: — Mi dovete un compenso. Stanotte la passiamo insieme.

Febo era di casa anche a Ivrea, e ci portò in un suo locale da carrettieri. — Bello, — disse Momina entrando. Passammo in una specie di retrobottega dove c’era una gran stufa rovente di terracotta, e l’oste, un omaccio coi peli nelle orecchie e il grembialone, ci si mise d’attorno a svestirci, riguardoso. — Mi raccomando, disse Febo.

Io guardavo Rosetta che si toglieva la giacca di leopardo. — Tutte le vostre pellicce insieme non fanno il pelo di quest’uomo, — bisbigliò Febo.

— Anche il nostro ingegnere sta bene, — disse Momina.

— Non sono il solo, — lui ribattè. — Che ne dite di Loris che non ci vede piú, dal pelo?... Come mai non è venuto anche lui?

Momina si voltò a Rosetta: — Un tempo Loris ti piaceva. Era cosí divertente.

— Per me, — disse Febo, — il pelo è una gran cosa. Me lo dite che cosa farebbe Loris se non avesse che il vizio? Avrebbe da [p. 314 modifica]tempo dovuto smettere il mestiere. Invece cosí può continuare impunito...

— Non è divertente, — disse Rosetta a mezza voce. — Non è divertente e non è generoso. Un tempo eravate amici.

— Facciamola bere, facciamola bere, — gridò Febo. — Poi Rosetta ci racconta di quando tutti erano amici con tutti...

Mangiammo come si mangia in questi posti, e bevemmo altrettanto. L’oste ci suggeriva misteriosi vini vecchi di quelle parti; con Febo si strizzavano l’occhio; dopo ogni piatto s’informava se era stato di nostro gradimento. Persino Rosetta s’animò e scherzava; di Loris non si parlò piú. Scherzammo invece sui gitanti, che a quell’ora mangiavano freddo e carne in scatola nel rifugio progettato da Febo, e Febo disse a bocca piena: — Almeno si trovano in un ambiente di gusto.

— Ci fosse Morelli con noi, — disse Momina. — Queste cose gli piacciono.

— Chi è Morelli? — disse Rosetta.

— È un vecchio signore che con Clelia si parlano, — disse Momina allegramente. — Ma sí, lo conosci...

— Oh insomma, — gridò Febo, — tutti i piú belli non ci sono. Prendete chi avete.

Venne l’ora che dovevano chiudere e l’oste, con molti sorrisi, ci mise fuori. Ci fu di buono che lasciammo a Febo di pagarlo a parole. Volevo far io ma Momina mi disse: — Niente affatto. Ci costa già troppi soldi, costui.

Portammo Rosetta a Montalto. La madre era ancora in piedi che l’aspettava. Ci accolse lacrimosa e, mentre Febo nell’automobile continuava a tirarmi indietro, Momina fuori parlamentava e si fece promettere che l’indomani sarebbero tornate a Torino. Salutai Rosetta che mi diede la mano per lo sportello e un’occhiata scontrosa, riconoscente. Ripartimmo.

— Perché, — disse Febo, sporgendo la testa fra le nostre spalle, — perché non ci hanno invitato a dormire alla villa?

— Troppe donne per un uomo solo, — disse Momina.

— Spilorce, — lui disse. — Almeno fermiamoci a Ivrea. Conosco un albergo...

Non me l’aspettavo, ma Momina accettò. — Domani torniamo a Montalto, — mi disse. — Se andavamo al rifugio, stavamo fuori, no? [p. 315 modifica]

Quando si trattò delle camere, Febo disse: — Peccato che non ce ne dànno una in tre.

Momina disse: — Per me e Clelia ce la dànno.

Ma c’eravamo appena tolta la pelliccia e bagnate le mani (Momina nella borsetta portava crema e profumo) che s’aprí la porta e Febo entrò con un vassoio di liquore.

— Servizio, — disse. — Offre la casa.

— Metta lí, — disse Momina. — Buona notte.

Non fu possibile cacciarlo via. Dopo un poco Momina si sedette sul letto, io mi distesi dall’altra parte e mi avvolsi nelle coperte. Febo, seduto accanto a Momina, chiacchierava. Chiacchieravano di donne, di locali di Torino. Ne dissero di tutti i colori, con una libertà ch’era strana fra due che si davano ancora il lei e soltanto il giorno prima non si conoscevano. Febo facendo grandi risate s’era già rovesciato due o tre volte sul letto, e finí che ci rimase. Anche Momina si distese accanto a lui. M’assopii rassegnata, diverse volte, e sempre svegliandomi di soprassalto li ritrovavo li distesi a confabulare. Poi m’accorsi che s’erano avvolti nella stessa coperta. A un certo punto, a un improvviso sussulto di Febo, menai un calcio che mi fu impedito dalle coperte. Allora mi sedetti sul letto e mi misi a fumare. Momina era corsa nel bagno, Febo scarmigliato mi tese un bicchierino dalla bottiglia quasi vuota.

L’ebbi addosso come un diavolo e strappò le coperte. S’agitò poco e fu subito fatto. Momina non era ancora rientrata che Febo era già in piedi accanto al letto coi peli dritti come un cane e si ravviava la testa. — Adesso ci lascia dormire? — borbottai.

Quando fu uscito, mi sfilai l’abito (non mi tolsi nient’altro) e mi riavvolsi nella coperta. M’assopii prima che Momina tornasse. [p. 316 modifica]





XIV.

La mattina ero già sotto che bevevo il caffè quando Momina scese. L’avevo lasciata con la faccia affondata nel cuscino tra i capelli corti, e la schiena nuda come la prima sera che l’avevo veduta. Mi comparve davanti tutta in ordine, ma gli occhi li aveva scuri. Venne a sedersi sorridente, posò la borsetta e disse piano: — Come siamo mattiniere.

Prese il caffè e mi guardava. — Vogliamo andarcene? — disse posando la tazza.

— Non è meglio pagare?

— Sarebbe carino, ma tocca a noi? — Mi sbirciò, staccata. — È un bel pensiero per il suo risveglio. Ragazzaccio.

Cosí ce ne andammo. Non disse altro. Salimmo in macchina nella rimessa e fummo subito in campagna.

— È presto per passare dai Mola. Respiriamo un po’ d’aria. Lo conosci il Canavese?

Cosí girammo il Canavese, ch’era tutto velato di banchi di nebbia, e attraversammo due o tre paesi.

Attenta alla strada, lei disse a un tratto: — Simpatica, vero. Rosetta?

— Che cos’è questa storia di Loris?

— Un anno fa, — disse Momina, — quando Rosetta dipingeva. Prendeva lezioni da lui. Poi ha smesso. Avevano sempre Loris in casa... Tu sai com’è Loris.

— Come l’amico di stanotte, — dissi.

Momina sorrise. — Non proprio.

— Non è mica...? — dissi a un tratto, e mi fermai. [p. 317 modifica]

— Che cosa? — esclamò Momina scrutandomi. — Che... Ma no. Storie vecchie. Lo saprei.

— Una ragazza difficile... Metti che le sia toccato uno scherzo come stanotte.

— Ma all’albergo c’era andata da sola, — disse Momina, — e me l’ha detto. Con me non finge. È soltanto Adele che dappertutto vede amore... Rosetta capisce queste cose.

— E allora perché si è avvelenata? — dissi. — Alla sua età?

— Non per amore, sono certa, — disse Momina corrugandosi. Lei fa la vita che ho fatto io, che fanno tutte... Sappiamo bene cos’è il cazzo...

Tacque un poco, attenta alla strada.

— Non so, — dissi, — ma fa succedere dei grossi guai. Sarebbe meglio se non ci fosse.

— Può darsi, — chiacchierò Momina. — Ma a me mancherebbe. A te no? Figurati. Tutti carini e dignitosi, tutti per bene. Non ci sarebbero piú momenti di verità. Piú nessuno sarebbe costretto a uscire dalla sua tana, e mostrarsi com’è, brutto e porco com’è. Come faresti a conoscere gli uomini?

— Credevo che ti piacesse goderli — . Dissi questo e mi fermai. Capii ch’ero sciocca. Capii che Momina era peggio di me, e di queste cose rideva.

Ma non rise. Fece un fischio, un leggero fischio di disprezzo. — Vogliamo tornare? — disse.

Il ronzio del motore m’assopiva e pensavo alla notte, ai peli rossi di Febo. La nebbiolina sotto il sole mi dava un senso di fresco, e m’accorsi a un tratto che rivedevo la latteria a mattonelle dove tante mattine ero entrata sola, prima di correre all’atelier, e Guido dormiva sazio, nel mio letto.

— Tu perché credi che Rosetta l’abbia fatto? — chiese Momina d’improvviso.

— Non lo so, — dissi. — Può darsi...

— Non si riesce a saperlo, — disse lei bruscamente. — Ti fa quegli occhi spaventati... si difende... Non ne aveva mai parlato con noi. Tu sai che cosa voglio dire...

Arrivammo a Montalto che le persiane erano ancora chiuse ma un sole fresco riempiva il giardino. Momina che mi stava raccontando quanto forte la prendesse a volte il disgusto — non la nausea di questo o di quello, di una serata o di una stagione, ma lo schifo [p. 318 modifica]di vivere, di tutto e di tutti, del tempo che va cosí presto eppure non passa mai — Momina accese una sigaretta e suonò il clacson.

— Ne riparliamo, — disse ridendo.

Il giardiniere ci apriva il cancello. Entrammo sulla ghiaia. Quando uscimmo davanti agli scalini, la madre impaurita sbucò sulla porta.

— È tutto quanto che non ha senso, — disse ancora Momina.

Ripartimmo per Torino in carovana. Rosetta con noi; la madre con la cameriera e l’autista sulla grossa automobile venuta apposta da Torino. Tutta la mattina, in attesa della macchina, avevamo gironzolato per la villa e il giardino discorrendo, guardando le montagne. Ero stata sola con Rosetta una volta; m’aveva condotta di sopra, su un terrazzo, dove — mi disse — da bambina si confinava ore e ore per leggere e guardare le cime degli alberi. Laggiú c’era Torino — mi disse — e nelle sere d’estate da quel cantuccio lei pensava ai paesi di mare dov’era stata, a Torino, all’inverno, ai visi nuovi che un giorno avrebbe conosciuto.

— Sovente ingannano, — le dissi, — non crede?

Lei disse: — Basta guardarli dentro gli occhi. Negli occhi c’è tutto.

— C’è un altro modo, — risposi, — lavorare con loro. La gente lavorando si tradisce. È difficile ingannare, sul lavoro.

— Che lavoro? — lei disse.

Cosí viaggiammo verso Torino e io pensavo che né lei né Momina sapevano cos’è lavoro; non s’erano mai guadagnata la cena, né le calze, né i viaggi che avevano fatto e facevano. Pensavo com’è il mondo, che tutti lavoriamo per non piú lavorare ma se qualcuno non lavora ci fa rabbia. Pensavo alla vecchia Mola, la signora, che s’era trovato il lavoro di agitarsi su quella figlia, di correrle dietro, di non lasciarle mancar nulla, e la figlia la ripagava con quegli spaventi. Mi tornarono in mente Gisella e le figlie; il negozietto, «ci siamo ristrette», e tutto per tenerle a far niente, nel velluto. Divenni cattiva. Rividi la faccia di Febo. Mi misi a pensare a via Po.

Ci andai prima di sera, dopo un bagno che feci all’albergo. Nessuno era stato a cercarmi, neanche Morelli. C’era però sul tavolino un mazzo di lilla, con un telegramma di Maurizio. «Anche questa», pensai. Facendo niente tutto il giorno, aveva tempo di pensare a queste cose. Era un mese giusto che mancavo da Roma.

Trovai Becuccio che sorvegliava l’arrivo dei cristalli. Non [p. 319 modifica]indossava piú i calzoni grigioverdi né il maglione, ma una giacca a vento con sciarpa gialla. Il bracciale l’aveva sempre. La sua testa ricciuta e i denti bianchi mi fecero un curioso effetto. Quasi quasi mentre parlavo fui sul punto di allungare la mano e toccargli l’orecchio. «È l’aria della montagna», pensai spaventata.

Invece gli feci una scena fredda sui ritardi delle consegne. L’architetto... — lui disse. — L’architetto non c’entra, — tagliai. — È questione di stare voi dietro ai fornitori...

Facemmo insieme il controllo dei cristalli e mi piaceva come le sue mani grosse cercavano nella paglia i peducci, le bocche iridate. Nello stanzone fresco di calcina, alla lampada cruda, quei vetri brillavano come la pioggia alla luce dei fari. Li guardavamo controluce, lui disse: — Sembra quando si tagliano le rotaie — . Aveva fatto il manovale — storia vecchia — nella squadra notturna del servizio tranviario. Un bel momento mi sentii prendere la mano nella paglia. Gli dissi di fare attenzione. — È una merce che costa — . Mi rispose: — Lo so.

— Niente, — gli dissi. — Finiamo le casse. [p. 320 modifica]





XV.

A sentire quelli di Roma il negozio doveva esser pronto alla metà di marzo, e mancavano ancora le volte del primo piano. Lavorare con Febo divenne difficile; si mise a dire che a Roma non capivano niente e che, se io non sapevo impormi, lui sí. Era tornato da Ivrea con un’aria sorniona; non arrivò a parlare del conto dell’albergo ma mi diede del tu. Gli dissi che a Roma prendevo ordini ma a Torino li davo, e quanto voleva per il suo disturbo. Senza alzare la voce, ce la feci. L’indomani mi arrivò un mazzo di fiori che regalai a Mariuccia.

Ma Roma era un guaio. In una lunga telefonata notturna mi diedero la notizia: negozio e vetrine restavano, ma al primo piano i salotti di prova e il gran salone cambiavano arredamento, prendevano un nome e uno stile. Bisognava trovare specchiere, stoffe, lampadari, stampe, non sapevano ancora se barocco o che cosa. Dovevo dirlo all’architetto, far progetti, fotografie, mandare a Roma qualcuno. Sospendere tutto. Anche i tappeti e le tendine.

— Per il quindici? — dissi.

Non facevano questione di tempo. Meglio presto, si capisce. Comunque, entro il mese.

— Troppo poco, — dissi.

— Mandi qui l’architetto.

Non lo mandai, ci andai io. La sera dopo, avevo fatto il bagno in casa mia e, dato aria alle stanze, camminavo sui ciottoli soliti. Seguirono due giornate infernali di scirocco in cui rividi le solite facce annoiate e non si veniva mai al dunque. Quella era Roma, lo sapevo. A metà di una discussione, entrava un tale, una tale, attaccava a parlar lui, ci si alzava, si diceva: — Bisogna tenerne [p. 321 modifica]conto — . Mancava sempre qualcuno, quello che aveva cominciato. Madame fu li lí per convocare anche Febo, poi smise l’idea. Il discorso piú filato lo facemmo a tavola al Columbia, mentre gli altri ballavano. Non la convinsi che tanto valeva aprire addirittura a maggio coi modelli d’estate, ma mi feci un’idea di quello che avevano in mente. Qualcuno aveva detto che Torino è una città cosí difficile. Spiegai che anche a Torino ci sono dei limiti.

Maurizio anche lui si seccò dell’improvvisata. Credette suo dovere aspettarmi, starmi accanto, venirmi dietro. Ostentatamente non mi parlò di Torino. Io non gli parlai di Morelli. M’accorsi che ero molto piú sola a Roma, arrampicandomi per quelle strade o entrando a prendere il caffè da Gigi, che non a Torino nel mio letto d’albergo o in via Po. L’ultima sera rientrammo tardi sotto un vento che muoveva i lampioni e faceva scricchiolare le persiane. Non gli dissi che da certe mezze parole e silenzi di Madame c’era caso che mi affidassero Torino e di là non mi dovessi piú muovere. Gli dissi di starsene a letto l’indomani e non venire alla stazione.

A Torino piovigginava. Tutto era fresco, malinconico e nebbioso; se non fosse stato marzo avrei detto novembre. Quando Febo sentí che rientravo da Roma, riprese subito a ghignare sulla sigaretta tanto che il fumo gli andò per traverso, ma non era troppo sicuro di sé. Quando gli dissi quella storia del barocco, mi guardò divertito.

— E adesso, Clelia, — disse piano, — come farà? — Mi cercherò un arredatore che s’intenda di barocco, — dissi.

— Torino è piena di barocco. Ce n’è dappertutto, ma nessuno è barocco abbastanza...

— Questo a Roma si sa, — dissi, — ma non sanno che cos’è il barocco...

— Facciamo cosí, — disse lui, e cominciò a buttar giú schizzi sulla carta.

Schizzò e fumò tutta la sera. Era in gamba. Io guardavo quella mano rossa e ossuta, senza pensare ch’era sua. Mi faceva rabbia che sapesse tante cose, giovane com’era, che ci scherzasse cosí, che per lui fossero come dei denari che si era trovato in tasca senza averceli messi. Tempo prima mi aveva raccontato che lui alla scuola d’architettura era entrato soltanto in certi giorni che sapeva di trovarci una collega. Che il mestiere l’aveva imparato girando il mondo con sua madre, vecchia pazza, che montava e smontava le [p. 322 modifica]case come ombrelloni da spiaggia. Cosí scherzando, mi spiegò che non c’era bisogno di cambiar niente ai salottini. Bastava trovare dei pezzi d’antiquaria, e neanche tutti barocchi — qualcuno magari provinciale, di gusto perfido — e metterli bene, al posto giusto, dargli luce come al teatro. Se la rideva e cercò di baciarmi. Eravamo nella sala dell’albergo. Alzai la mano e baciò questa.

L’indomani, ecco Morelli, agitato, che mi chiede dov’ero stata in quei giorni. Gli dissi che doveva aiutarmi perché la gioventú di Torino era davvero scombinata e noi vecchi dovevamo difenderci. Gli chiesi se conosceva antiquari, se s’intendeva di musei.

Quando capí quel che volevo, mi chiese se mettevo su casa a Torino.

Allora andammo in via Po e gli mostrai i salotti.

— I suoi pittori cosa dicono? — mi chiese.

— S’intendessero almeno di quadri...

— Qui i quadri saranno gli specchi, — disse lui serio. — Non bisogna far scomparire le clienti. Non c’è quadro che valga una bella donna che si spoglia.

Mi accompagnò dagli antiquari delle parti di via Mazzini e intanto parlavamo di Roma. — A Roma sarebbe piú facile, — dicevo. — Roma è piena di vecchi palazzi in liquidazione...

Non scherzavano neanche a Torino. Quei negozi erano il miele e noi le mosche. Ci si muoveva appena in mezzo alle montagne di roba — pezzi d’avorio, quadri scrostati, pendoli, statuine, fiori finti, collane, ventagli. Tutto a prima vista sembrava vecchio decrepito, ma dopo un po’ non c’era un pezzo — non una miniatura, non un manico d’ombrello — che non facesse gola di metterselo attorno o averci una casa e dargli un posto. Morelli diceva: — Il meglio non ce lo fanno vedere. Non sanno chi siamo, — e mi guardava giudizioso e diceva: — Ci vorrebbe mia moglie.

— Lei ci crede a tutta questa roba? — mi disse, tra un marciapiede e l’altro.

— Fa pena, — gli dissi, — pensare che, morendo, le tue cose finiscono cosí in mano agli altri...

— È peggio quando ci vanno prima che uno sia morto, — disse Morelli. — Se ci fosse qui la nostra bella amica, direbbe che anche noi passiamo di mano in mano a chi ci desidera... Quel che salva la gente sono soltanto i quattrini... che passano in mano a tutti.

Allora il discorso piegò sulle donne e sulle case e sulla nonna [p. 323 modifica]Clementina, ch’era già al mondo quando qualcuno di quei parasoli, di quelle chitarre, di quegli specchi arrugginiti, era nuovo. — Quella ha saputo mettersi a posto. Nessuno può dire di averla avuta in sua mano... Mi fanno ridere questi ragazzi, queste amiche di Mariella che hanno i vizi e non l’esperienza... Credono basti parlare. Voglio vederli fra vent’anni... La vecchia, dove voleva c’è arrivata...

Entrammo in un altro negozio. Del barocco non si parlava. Dissi a Morelli ch’era meglio vedere un palazzo, una casa, farsi un’idea al naturale. — Andiamo da donna Clementina, — disse lui. — Quella sera c’era troppa gente, ma già soltanto le porcellane meritano... [p. 324 modifica]





XVI.

Arrivammo che delle signore uscivano; mi guardarono. Vent’anni fa in quel quartiere di Torino non ci passava la mia strada. Trovammo Mariella e la madre che avevano preso il tè allora; la nonna — peccato — era assopita, si preparava per la sera, perché un certo violinista rumeno sarebbe venuto a suonare e lei voleva assistere. Aspettavano pochi amici, volevamo prender parte anche noi?

Mariella mi faceva gli occhiacci e mentre passavamo nel salotto delle porcellane mi sgridò a bassa voce per non averle detto in tempo della gita a Saint-Vincent. — Venga stasera, — mi disse, — ci sarà Rosetta, tutti i nostri.

— Non vedo piò nessuno. Che fate?

— Non si sa, — disse lei misteriosa. — Provare per credere.

Feci in tempo a tirar la giacca a Morelli perché non raccontasse a quelle pettegole la storia dei miei salotti. La madre accese le luci nella vetrina delle porcellane, e di ogni pezzo ci raccontò qualcosa. Parlò del bisnonno, di nozze, di zie, della rivoluzione francese. Di certe miniature appese al muro — donne rosee, in parrucca — Morelli sapeva i nomi e ce li disse. Raccontò lui la storia di una certa Giuditta — anche lei di famiglia — che s’era stesa sotto un albero, nei giardini reali, e il re d’allora tra i rami le tirava in bocca le ciliege. Io guardavo e cercavo di capire la materia e il segreto — come si fa per un modello — ma era piú che difficile inutile. Quell’eleganza delle statue e delle testine dipinte era fatta di niente, e senza i nomi i discorsi le storielle di famiglia non bastava a far ambiente. Dovevo proprio accontentarmi di Febo.

Cosí quella sera tornammo per sentire il violinista. Rividi la [p. 325 modifica]vecchia grifagna col nastro al collo e il mantelluccio, rividi il cerchio di signori accigliati, i lampadari, il tappeto. Di gioventú ce n’era meno dell’altra volta, stavano compunti sulle sedie imbottite, Loris mancava. Tra le donne Rosetta e Momina mi sorrisero.

Il violinista suonò bene, come suonano i violinisti in questi casi. Era un ometto grasso, dai capelli bianchi, che baciò la mano a tutte; non si capiva se veniva a pagamento o come amico. Rideva con la lingua nella guancia e ci guardava le gambe. Al piano l’accompagnava una dama linfatica con gli occhiali e una rosa rossa sulla spalla. Le signore esclamarono: «Bravo». Tutto sommato, mi annoiai.

Morelli batteva le mani convinto. Quando venne il tè, cercai Rosetta e Momina. — Appena si alza la vecchia, — dicemmo, — ce ne andiamo anche noi.

Mariella mi prese in un angolo. — Vengo anch’io, — disse, aspettatemi.

Finí che ci tirò dietro tutti quanti, anche il violinista. Sotto il portone la dama dagli occhiali si mise a gridare: — Il maestro vuole regalarsi con noi — . Tutti parlavano in francese.

Nella macchina mi trovai accanto Rosetta. Le dissi al buio, nella confusione: — C’è andata male. Meglio Ivrea.

— Non è ancora mattino — disse Momina, salendo.

Per il violinista che stava con le signore e con Morelli nella grossa macchina di Mariella, regalarsi con noi voleva dire fare il giro del centro, fermarsi davanti ai caffè, metter fuori la testa discutendo e poi far segno di ripartire. Dopo tre o quattro di questi giochi, Momina disse: — Vada al diavolo, — e ripartí per conto suo.

— Dove andiamo?

— Al tuo albergo, — mi disse.

Entrammo gloriose nella sala dell’albergo. Qualcuno levò la testa.

— Non ti fa senso? — disse a Rosetta che camminava tra noi, coi pugni tesi.

Rosetta sorrise appena. Disse: — C’è rischio che nessuno abbia pagato il conto. Purché non ci caccino via...

— Non ci sei piú tornata? — chiese Momina.

Rosetta alzò le spalle. — Dove sediamo? — dissi.

Il cameriere ci serví i tre cognac. Dietro il banco Luis mi strizzò l’occhio. [p. 326 modifica]

— Speriamo che Mariella non ci ritrovi, — dissi. — Ho paura che il rumeno non li regali troppo.

— Sono in molti, — disse Rosetta. — Qualcuno offrirà...

Allora dissi che a Torino mi succedeva questo fatto, di evitare la gente. Tanti pittori, palloni gonfiati, musicisti — dappertutto uno nuovo, nemmeno a Roma la gente era in festa cosí di continuo. E Mariella che voleva recitare a tutti i costi. Sembrava che la guerra non ci fosse stata...

Rosetta, coccolando il suo cognac, sorrideva dalla poltrona. — Dice anche a noi, — brontolò, — perché facciamo questa vita?

— Non so, — dissi, — mi pare che tanto chiasso non valga la pena.

Momina, che non s’era ancor seduta, camminò inquieta tra il banco e noi due. — Non c’è niente che valga la pena, — disse. Prima almeno si poteva viaggiare.

Poi si buttò sulla poltrona e fece il gesto di levarsi la scarpa. — Ho paura che non si faccia, — disse. — Non ce l’hai una poltrona, di sopra?

Salimmo nell’ascensore. Tenevo d’occhio i movimenti di Rosetta. Uscimmo nel corridoio e mi guardò di sfuggita; le feci un cenno come a dire ch’era stato qui.

— Son tutti uguali questi corridoi, — disse lei, fissando la guida.

— Come i giorni dell’anno, — disse Momina. — Tutte le porte sono uguali, e i letti, le finestre, la gente che ci dorme una notte... Bisogna avere il coraggio di Clelia, per viverci...

— O il suo, — dissi mostrando Rosetta.

— Senti, — disse Momina senza voltarsi, — adesso che portano su il nostro cognac, se vuoi spegnamo la luce e tu ci racconti com’è che sei finita qui e hai sbagliato dose... Non credo ancora...

D’improvviso Rosetta si fermò pallidissima, strinse i pugni e le labbra. Ma eravamo sulla porta e dissi: — Entriamo — . Rosetta entrò, senza dir nulla. Nel tempo che ci sedemmo sulle poltrone (Momina buttò via le scarpe) e il cameriere depose il vassoio sul tavolino, nessuno parlò e io sentivo che gli occhi ossuti di Rosetta si empivano di lacrime. Momina non s’era accorta di nulla.

— Non ti siedi, Rosetta? — le disse.

Rosetta scosse il capo con furia, andò alla porta, spense la luce, e rispose con voce rauca: — Ecco fatto.

Per qualche istante nel buio non ci fu che la punta rossa della [p. 327 modifica]sigaretta di Momina. Si sentiva il lontano stridore di un tram. Indovinai l’ombra piú chiara della finestra.

— Ce l’avevi con me? — disse Momina canzonatoria.

Sentii lo sforzo di Rosetta per domare la voce. Non ci riuscí. Balbettò adagio:

— Non devi ridere...

— Lo faccio per darti coraggio, — disse l’altra freddamente. — Lo faccio per te. Cerca d’essere intelligente, lo sei. Che cosa è successo? Da parte mia, niente. Ti ho forse offesa? Ti ho detto di fare o non fare questo o quello? Ti ho soltanto aiutata a veder chiaro nei tuoi pasticci... Hai paura di questo? Io capisco ammazzarsi... ci pensano tutti... ma farlo bene, farlo che sia una cosa vera... Farlo senza polemica... Tu invece mi hai l’aria di una sartina abbandonata...

— Io... ti odio, — balbettò Rosetta, ansante.

— Ma perché? — disse Momina seria, — di che cosa mi rimproveri? di essere stata troppo per te, o troppo poco? Che c’entra, siamo amiche.

Rosetta non rispose, e Momina non continuò. Le sentivo respirare. Posai alla cieca il bicchiere che avevo in mano. Mormorai: — Si sieda.

Si sedette. Capii che potevo parlare. Allora dissi che, benché io non c’entrassi, visto che eravamo insieme potevo dire una parola anch’io. Ne avevo sentite di tutti i colori su quel fatto, e nessuna vera. — Se è una questione tra voi due, — dissi, — parlate chiaro e sia finita.

Momina si contorse nella poltrona per cercare una sigaretta. La luce del cerino mi accecò, le intravidi i capelli corti sugli occhi.

— Cos’è? avete fatto l’amore insieme?

Né l’una né l’altra rispose. Momina si mise a ridere e tossire. [p. 328 modifica]





XVII.

— Nemmeno questo si può dire, — ricominciò Momina lamentosa, quando ormai dentro il buio travedevo le facce vagamente, — meno male che hai spento, cara. Ti capaciti che di una cosa che poteva esser bella e avere un senso, hai fatto un caso personale, un dramma isterico?... Hai sentito quel che dice Clelia?

Aveva sentito, e doveva esser rossa come il fuoco. Non credo che piangesse piú né che avesse paura. — Voi due in questo non c’entrate, — disse cattiva, con la sua voce angolosa. — Ho ventitré anni, conosco la vita. Non ce l’ho con nessuno. Parliamo d’altro, vi dispiace?

— Dicci almeno che cosa si prova. A chi si pensa in quel momento. Ti sei guardata nello specchio?

Non parlava canzonando ma con voce bambina come se adesso recitasse. Anche prima, quando avevano spento, mi era parsa una scena di teatro. Di nuovo mi venne il sospetto che quel giorno sulla barella non ci fosse addirittura stato nessuno.

Rosetta disse che non s’era guardata allo specchio. Non ricordava se nella stanza c’erano specchi. Anche allora aveva spento la luce. Non voleva veder niente, nessuno, soltanto dormire. Aveva un grosso un terribile mal di testa. Che a un tratto era passato, guarito, lasciandola distesa e felice. Com’era felice, le pareva un miracolo. Poi s’era svegliata, all’ospedale, sotto una lampada che le faceva male agli occhi.

— Seccata? — mormorò Momina.

— Uh, — disse Rosetta, — svegliarsi è orribile...

— Ho conosciuto una cassiera a Roma, — dissi, — che a forza [p. 329 modifica]di vedersi allo specchio, lo specchio dietro il banco, diventò pazza... Credeva di essere un’altra.

Momina disse: — Bisognerebbe vedersi allo specchio... Tu Rosetta non hai avuto il coraggio...

Chiacchierammo cosí, dello specchio e degli occhi di chi si uccide. Venne il momento che, tornando il cameriere con un nuovo vassoio, riaccendemmo la luce. La faccia di Rosetta era tranquilla, dura.

Suonò il telefono. Era Mariella e voleva sapere che cos’era successo. Non capiva le mie parole perché dov’era strepitava un’orchestra. Interrogai con gli occhi le due. Gridai nel telefono ch’ero rientrata perché stanca. Che ballasse e si divertisse. Che la serata era stata simpatica.

Poi telefonò Rosetta. Chiamò casa sua. Disse: — Mamma, adesso ritorno — . Momina si rimise le scarpe e se ne andarono.

L’indomani ebbi una visita di Rosetta in via Po. Entrò con un sorriso incerto, nel suo leopardo. Di sopra Febo con Becuccio prendevano certe misure. — Non vuol mica incontrare il nostro amico, — le dissi. — M’accompagna a far compere? — M’aspettò nello stanzone, mentre gridavo sulla scala che uscivo. La vidi cosí giovane, accanto alla vetrina, che pensai: «Mariella al suo posto farebbe un’ottima cassiera».

Andando, sotto i portici, le dissi che avevo pensato di darle lavoro. Lei sorrise, in quel modo. — M’è venuta un’idea, — le dissi. — Un negozio servito dalle sue amiche piú distinte. Lei ci starebbe? I piú bei nomi di Torino... Chi alla cassa, chi alle vetrine e ai salotti...

Stette allo scherzo. Mi disse: — Chi verrebbe piú a comprare? Non resterebbero nomi disponibili.

— Le vostre cameriere magari... I brutti nomi.

— Non sapremmo fare niente...

— Chi lo sa... Come alle feste di beneficenza...

— Oitana, la invidio, — mi disse. — È bello lavorare come lei.

— Certe volte è una rabbia... C’è sempre un padrone.

— Forse è questo il lavoro. Avere chi ti dice che cosa fare o non fare... È una salvezza.

— Provi a chiederlo alla sua cameriera.

Esitò. — Ieri, — disse, — sono stata sciocca...

Non la interruppi. — ... Si dicono e si fanno molte cose false... [p. 330 modifica]Lei capisce. Vorrei essere un’altra, come quella cassiera di Roma... Magari pazza come lei. Non deve credere a quel che dice Momina... Momina a volte è esasperante...

— Momina è stata in fondo piú discreta di me... — borbottai, tenendola d’occhio.

— Lei Oitana conosce molto la vita... — Cercava le parole. — A due donne che fanno i discorsi che abbiamo fatto noi ieri, lei toglierebbe la sua stima, vero?...

S’era fermata, testarda, mi mangiava con gli occhi. Ieri, al buio, doveva essere rossa cosí.

La feci muovere. Le dissi che fin che una donna arrossisce non è ancora il caso di parlare di stima. (Lei si scusò. Disse; — Arrossisco per niente — ). Le dissi che tutto va bene finché non fa male alla salute e non mette brutte idee in testa. Le chiesi se era per questo che aveva preso il veronal.

C’eravamo fermate davanti alla fioraia di via Pietro Micca. Era piú facile parlare. Le dissi: — Mandiamo dei fiori a Mariella, per ieri?

— Mandiamoli, — disse.

Scegliemmo i mughetti. Mentre la donna disponeva il verde, dissi a Rosetta: — Alla sua età non sono vizi, i vizi vengono piú tardi.

— Non credo d’averne, — disse lei con una smorfia. — Sarebbe meglio se ne avessi.

Tornate sotto i portici, le chiesi a che gioco giocavamo. Non s’era ammazzata per questo?

Rosetta, stupita, mi disse che non sapeva nemmeno lei perché era entrata nell’albergo quel mattino. C’era anzi entrata contenta. Dopo il veglione si sentiva sollevata. Da molto tempo la notte le faceva ribrezzo, l’idea di aver finito un altro giorno, di essere sola col suo disgusto, di attendere distesa nel letto il mattino, le riusciva insopportabile. Quella notte almeno era già passata. Ma poi proprio perché non aveva dormito e gironzava nella stanza pensando alla notte, pensando a tutte le cose sciocche che nella notte le erano successe e adesso era di nuovo sola e non poteva far nulla, a poco a poco s’era disperata e trovandosi nella borsetta il veronal...

— Momina non c’era al veglione?

No. Momina non c’era, ma all’albergo lei, distesa sul letto, ci aveva molto pensato, aveva pensato a tante cose che Momina [p. 331 modifica]diceva, ai loro discorsi, al coraggio di Momina ch’era disgustata della vita piú di lei ma rideva e diceva: «Per uccidermi aspetto la bella stagione, non voglio esser sepolta con la pioggia». — Io, — disse Rosetta, — non ho avuto piú pazienza di aspettare...

— Ma non avete litigato con Momina?

— No, discutiamo a volte, come ieri sera, ma siamo buone amiche. Momina è la sola amica che ho.

Tanto valeva. Dissi brusca: — Soltanto un’amica?

Mi guardò, magra, con quegli occhi da gatto. Cominciò appena ad arrossire, poi si dominò nervosamente.

— Che cosa mi fa dire. Oitana, — balbettò. — È necessario? Ma non mi vergogno. Sa com’è tra ragazze. Momina è stata il mio primo amore. Tanti anni fa, prima che si sposasse... Adesso siamo amiche, mi creda... [p. 332 modifica]





XVIII.

Dovetti crederle. Le chiesi perché non pensava piuttosto a sposarsi. Alzò le spalle. Disse che conosceva gli uomini. — Forse non tutti, — osservai.

— Non è necessario, — disse.

— Non mi dirà come Momina che ha paura di fare bambini.

— I bambini mi piacciono, — disse. — Ma dovrebbero restar sempre bambini. Se penso che poi crescono e saranno persone come noi, mi fa rabbia... Non crede?

— Non ne ho, — dissi.

Ci lasciammo, con la promessa di rivederci, ma ero convinta che non sarebbe tornata. Rosetta era venuta a cercarmi per ingenuità o per dispetto, ma ormai doveva essersi accorta che con me era impossibile ristabilire le distanze. Si ricascava sempre nello stesso discorso.

Andai a Milano a vedere certi mobili di vetro, con Febo che trovò un’automobile e mi ci portò. Tutto andò bene, soltanto al ritorno sull’autostrada ci fermammo per accendere una sigaretta e Febo, con la faccia di quella notte a Ivrea, mi cacciò addosso le mani. Gli feci un livido in un occhio che credevo di averlo accecato, ma riprendendo la corsa stette buono e gli spiegai che il mondo è grande e non si deve fare l’amore coi compagni di lavoro. Lui guardava la strada, mogio. Gli chiesi perché non riprovava con Momina, o addirittura non si cercava una moglie tra le amiche di Momina. Gente ricca e istruita, che sapeva dipingere e fare il teatro. Allora mi guardò con un occhio divertito. Fermò la macchina. «Ci risiamo», pensai. — Clelia Clelia, — mi disse ma senza toccarmi, — vuole essere mia moglie stasera? [p. 333 modifica]

— È una proposta seria?

— Noi siamo già marito e moglie. Lei mi picchia.

— Posso farle da mamma, se vuole.

— Sí sí, — disse lui, e batté le mani, — sí, mamma. Mi ci porti nei prati a raccogliere le lumachine?

Invece ci fermammo su un ballo a palchetto di un paese fuori Torino, e Febo, di buonumore, attaccò lite con una coppia di giovanotti che ballavano insieme e ci tagliavano la strada. Lo minacciarono di fargli un altr’occhio. Era da stupire come Febo, biondo e ossuto, s’arrischiava in quell’ambiente paesano, e non sapeva nemmeno il dialetto. Gli dissi di smetterla e dovetti tirarlo via. Allora pensò di fermarci a cena in una bettola, e mi chiese se non piaceva anche a me scappar da casa e far pazzie.

— Non è mica difficile, — dissi. — Brutto è starci di casa in una bettola.

— Ma sí, — disse lui, — facciamo le brutte cose.

Trovammo un’osteria in fondo a corso Giulio Cesare. In principio Febo si calmò e pensammo a mangiare. Ma l’oste non era piú quello peloso d’Ivrea e in cucina non aveva gran che. Ci portò i piatti una servetta in ciabatte, con gli occhi rossi, che mi guardava le calze, e anche ci guardavano gli altri avventori, una vecchia e certi autisti. La stanza era fredda, fresca d’intonaco e già sporca; pensai che ai miei tempi qui era campagna, strade aperte e campagna. — Le cose che facciamo sono proprio brutte, — dissi a Febo.

Lui cercava d’eccitarsi e trovar buono il vino. La ragazza, coi suoi occhi rossi, ci guardava dal banco. Gli altri adesso giocavano a carte, fumando e sputando.

Finita la frittata, gli dissi d’andarcene. — Eppure dev’esserci un posto... — diceva lui. Uscimmo ch’era buio. Sulle insegne rosse al neon sparse per il corso tirava vento. — Questa città ha il suo bello, — disse Febo. — Lei non capisce, lei vive troppo coi signori.

Salii sulla macchina con una rabbia da strozzarlo. — Siete voialtri e quelle stupide, le Martelli e le Momine, che vi piace far le cose da signori, — gli dissi. — Io ci son nata a Torino. So che cosa vuol dire vedere un’altra con le calze di seta e non avercele...

Mentre litigavamo e lui ridacchiava, si fermò un’altra volta, davanti a un caffè col giardinetto illuminato.

— Qui di notte scorre il sangue, — disse.

La luce veniva dai vetri di uno stanzone a lampadine nude. [p. 334 modifica]Non c’era orchestra, suonava una radio, e varie coppie ballavano vociando sulla pista di cemento. Conoscevo quei posti.

— Se la sala comune non ti piace, — mi disse Febo nell’orecchio, — c’è posto di sopra...

Gli dissi che prendevo il caffè ma non volevo fermarmi. Né per me né per lui la compagnia dell’altro era adatta in quel posto. — C’è rischio che pianto lei, — gli dissi, — e mi metto con quel tipo dal foulard.

Febo guardò il ragazzo dal foulard che chiacchierava a un tavolo con due donne dal rossetto sporco. Alzò un sopracciglio. Non rispose e si appoggiò contro il banco, di schiena.

— Quel ragazzo, — gli dissi, — non si sogna di venire da lei o da me per passare la sera. Fin che vive come vive non ha bisogno di cambiare ambiente. Per lui l’eleganza sono i profumi che si comprano in tabaccheria e le cravatte rosse e verdi. Lui ci lavora con quelle donnette... Perché divertirsi alle sue spalle?

Febo, coi gomiti all’indietro sul banco, lo guardava. Non essendo ancora ubriaco, borbottò: — Parla la donna o la compagna di lavoro?

Gli dissi buffone e che parlavo sul serio.

E lui allora alzando un occhio mi chiese in che ambiente ero nata.

— Piú o meno in questo, — dissi secca.

Il giovanotto dal foulard s’era accorto che Febo l’aveva fissato e adesso guardava noi. — E lei, — disse Febo, sempre guardando impertinente la sala, — lei è uscita dal suo ambiente, si è messa le calze di seta e con noi gente per bene e istruita si diverte, alle nostre spalle si diverte. Chi l’ha cercata?

Parlando fissava il foulard che ormai s’era mosso e gli veniva incontro. Sentii qualcosa che si tendeva nella sala, e la rabbia la paura l’istinto di fermare quell’altro mi accecarono. Piantai con tutte le forze uno schiaffo in faccia a Febo, gridai qualcosa, lo afferrai per un braccio. Nella sala ridevano e fecero largo. Arrivammo all’automobile che dalla porta del locale uscivano insolenze e risate.

Gli dissi: — Parti, disgraziato.

Partí a denti stretti e passò la Dora come se il ponte dovesse crollargli dietro. — Adesso voglio scendere, — dissi.

Lui mi guardò, con quella faccia spiritata. — E io voglio bere, [p. 335 modifica]— gridò. — Mi trattano come un uomo ubriaco. Che almeno lo sia.

Mi tremavano ancora le mani e stetti zitta. Lasciai che corresse. Ma quello schiaffo mi pareva di averlo preso io, e non mi calmavo. Mi dicevo: «Non è peggio degli altri. Nel suo ambiente sono tutti cosí». Me lo dicevo e ridicevo, e mi chiedevo se val la pena di darsi da fare per arrivare dov’ero arrivata, e non essere piú niente, essere peggio di Momina che almeno viveva tra i suoi. Le altre volte in questi casi mi ero consolata pensando che la mia vita non valeva per le cose che avevo ottenuto, per il posto che mi ero fatto, ma perché me l’ero fatto, perché le avevo ottenute. «Quest’è un destino come un altro, — dicevo, — e me lo sono fatto io». Ma le mani mi tremavano e non riuscivo a calmarmi.

Finalmente dissi secca che volevo scendere. Aprii lo sportello. Allora Febo mi baciò a casaccio mugolando e fermò. Saltai a terra e me ne andai. [p. 336 modifica]





XIX.

Non è facile sfuggite alla gente sfaccendata. Rientrando mi aspettava già un biglietto d’invito per un’asta di lusso, siglato da Morelli, che mi avrebbe telefonato l’indomani. Cominciai a rendermi conto che, se arrivando a Torino mi fossi affittata una stanza, non avrei mai incontrato né Morelli né nessuno. Tranne Febo, purtroppo. Ma la vita che facevo era quella — inutile rimpiangere il tranquillo disordine di Roma. Queste cose se ne vanno da sé. Molte volte negli anni passati mi ero trovata in un giro simile. C’era quasi da ridere: mi era rimasto Maurizio. Quanto tempo sarebbe rimasto?

Da qualche giorno l’impresa di via Po mi scoraggiava. Me l’ero voluta. Dovevo correre, pensare io a tutto, dar fondo a Torino. Venti anni prima non l’avrei sognato. Da quando ero cosí in gamba? Forse anch’io facevo il teatro come gli sfaccendati di Torino, e tutto sommato era giusto che li avessi nei piedi se lavoravo per loro. Quando mi vengono di queste idee vorrei poter scappare, piantar tutto, ritornare all’atelier.

Su quella storia del mobilio antico anche Becuccio si mise a dir la sua. Sapeva di certi ebanisti, padre e figlio, che prima della guerra lavoravano a Palazzo reale e ci avevano fatto dei restauri delicati. Andammo a cercarli. Stavano in fondo a un cortile in una viuzza, sporca e stretta, ma dall’interno era un palazzo vecchio, c’erano perfino degli alberi e una statua. L’ebanista, un vecchietto, toccandosi gli occhiali sospettoso, si mise a cianciare, cosí all’aperto nel cortile. Quando capí quel che volevamo, mi disse che era un peccato mettere dei mobili belli in un negozio. Bastava della roba moderna, di compensato e di smalto. Gli dissi che se n’era già parlato, ma che volevo vedere qualcosa. Che cosa volevo vedere, mi [p. 337 modifica]disse, se i palazzi erano tutti chiusi? Non volevo vedere i palazzi, dissi, mi bastava un’idea, un’ambientazione. Lui disse che se non volevo vedere era chiaro che non me ne intendevo, e allora tanto valeva che nel negozio ci mettessi la roba solita.

Becuccio gli chiese lui se non aveva in corso qualche lavoro. Il vecchio si voltò alla bottega e gridò nel buio. Qualcuno s’agitava in fondo. — Abbiamo qualcosa? — gridò il vecchio. L’altro grugní. — Non c’è niente, — disse il vecchio toccandosi gli occhiali, — cosa vuole, non si ha piú voglia di lavorare per la gente.

Becuccio rimase male e cominciò a far parole, e dovetti tirarlo via anche lui. L’ebanista s’era ricacciato in bottega e neanche gli rispondeva. Tornammo insieme in via Po, dove già Febo mi aspettava per scegliere le stoffe da mettere ai muri. Dissi a Becuccio ch’era bello far la vita di quel vecchio: sbattere la porta in faccia agli altri, e il lavoro sceglierlo noi.

— Non ne deve fare molto, — disse Becuccio. — La politica gli ha dato alla testa...

Poi con Morelli visitai quella mostra, e c’erano dei pendoli e dei servizi davvero belli. Ogni tanto mi scappava da dire: — Questo andrebbe ma mi ricordavo ch’ero lí soltanto per svago, per dare a Morelli modo di tenermi compagnia. — Non vuol farsi una casa per sé? — mi diceva Morelli.

— Se un giorno una qualche Clelia me la mette su...

Lui si godeva la sua parte, fra quei cristalli e le signore che mi sbirciavano, e con parecchie si salutava. Io pensavo quanti di loro dovevano conoscersi con Momina, con Febo, con Mariella e i pittori. Torino è ben piccola.

Domandai a Morelli se qualcuno di quella crema faceva sul serio. Lui chiese come. — Se hanno dei vizi, — dissi, — se si giocano i patrimoni, se sono carogne come vorrebbero. Finora ho trovato soltanto della gente sporchetta o dei ragazzi...

— Succede, — disse Morelli, — che siamo piú giovani noi dei ragazzi... Non sanno mica.

— Dico gli anziani come lei e come me... Quelli che hanno tempo e mezzi. Se li godono almeno? Io, se non dovessi lavorare, avrei dei vizi terribili. In fondo non mi sono cavata nessuna voglia nella vita...

Morelli, serio, mi disse che un vizio ce l’avevo. — E quale? — Avevo il vizio di lavorare, di non prendere mai una feria. [p. 338 modifica]

— Lei è peggio degli industriali padri di famiglia, — mi disse, ma quelli almeno erano uomini coi baffi e hanno fatto Torino.

— Non ho famiglia e non ho ancora i baffi, — dissi.

Morelli si guardò intorno.

— Una c’è stata che ha fatto sul serio, — dissi, — quella ragazza Mola...

— Lei crede? — disse dubbioso. Poi s’irritò improvvisamente. — Val la pena lavorare notte e giorno per la famiglia. Se avessi io una figlia che mi fa di questi giochi l’avrei già chiusa in un convento... Una volta ci sapevano fare.

— Io credo, — dissi guardandomi in giro, — che le ragazze nei conventi comincino sempre facendo l’amore insieme...

— Ma venivano fuori delle donne di classe, — saltò su Morelli, delle signore, delle vere padrone di casa. Almeno sapevano parlare.

— Mica che sia un grosso guaio, — dissi. — Le ragazze s’innamorano tutte di un’amica piú sveglia... Ma qui a Torino non prendono sul serio neanche queste cose. Sono tristi e hanno la nausea.

— Discutono... — disse Morelli.

E noi che cosa facevamo? Davvero che le sere quando riuscivo a cacciarmi sola in un cine, o il mattino quando mi trattenevo a prendere il caffè dietro una vetrina in via Roma, e nessuno mi conosceva, e facevo progetti immaginando di aver messo insieme chissà che negozio, erano i soli momenti belli di Torino. Il vero vizio, quello che Morelli non aveva detto, era questo piacere di starmene sola. Non sono le ragazze che stanno bene in convento, ma noialtri. Pensavo a quella nonna di Mariella, che a ottant’anni pigliava gusto a veder gente e ascoltare dal letto il baccano degli altri. Pensavo a Carlotta che aveva fatto la vita, e c’era rimasta. Tutto sommato, far la vita non è altro che sopportare una compagnia e portartela a letto anche se non ne hai voglia. Aver dei soldi vuol dire poterti isolare. Ma allora perché gli sfaccendati che hanno soldi, sono sempre in cerca di compagnia e di baccano?

Quand’ero bambina, invidiavo le donne come Momina, Mariella e le altre, le invidiavo e non sapevo chi fossero. Le immaginavo libere, ammirate, padrone del mondo. A pensarci adesso non mi sarei cambiata con nessuna di loro. La loro vita mi pareva una sciocchezza, tanto piú sciocca perché non se ne rendevano conto. Ma potevano far diverso? al loro posto avrei fatto diverso? Rosetta Mola era un’ingenua ma lei le cose le aveva prese sul serio. In [p. 339 modifica]fondo era vero che s’era uccisa senza motivo, non certo per quella stupida storia del primo amore con Momina o qualche altro pasticcio. Voleva stare sola, voleva isolarsi dal baccano; e nel suo ambiente non si può star soli, non si può far da soli se non levandosi di mezzo. Adesso Momina e gli altri se l’erano già ripresa: c’eravamo andati insieme a pigliarla a Montalto. Ripensare a quel giorno mi faceva pena. [p. 340 modifica]





XX.

Rosetta tornò, giorni dopo. Anche stavolta si fermò esitando sulla porta e fu Becuccio a vederla e disse: — Quella non cerca me.

Quel mattino facevamo fotografie da mandare a Roma, e Febo accendeva e spegneva i riflettori delle nicchie ritoccando la posa di una statuina che ci serviva da campione. Scherzò con Rosetta e le disse che a Ivrea era stato sedotto e abbandonato da due donne cattive. Poi parlò di fotografarci noi due davanti alle vetrine per far sapere a Roma che cosa sono le donne di Torino.

— Ci vorrebbe Mariella, — dissi.

Finimmo a parlare della recita, e Rosetta disse che adesso i fondali li preparava la Nene. — È tutto quello che sa fare, — disse Febo.

Chiesi a Rosetta se non dipingeva piú.

— Era uno scherzo, — disse. — Non si può scherzare sempre.

— Queste ragazze di Torino, — disse Febo, — sanno dipingere, recitare, suonare, ballare, far la calza. Ce n’è che non smettono mai.

Rosetta mi guardò malinconica. Dal suo abito mi ricordai che fuori c’era il sole, una bella giornata di marzo.

— Soltanto i mestieri che si fanno per fame, — disse Rosetta, non si smettono. Vorrei dovermi guadagnare la vita facendo la calza.

Febo le disse che non basta la fame per riuscire: il mestiere bisogna saperlo come dei morti di fame e praticarlo come dei signori.

— Non muore di fame chi vuole, — disse Rosetta, con quegli occhi fermi, — e il signore non è sempre chi ha denari.

Becuccio li stava ascoltando, e il fotografo — cravatta nera come Loris — si fregava le mani. [p. 341 modifica]

Dissi che dovevamo sbrigarci. Mentre prendevano le pose, girai con Rosetta sopra e sotto e le mostrai come riusciva il negozio. Piacquero anche a lei le tendine e le stoffe. Discutemmo sull’illuminazione. Mi chiamarono al telefono.

— Me ne vado, — disse Rosetta, — grazie.

— Vediamoci ancora, — dissi.

La sera vidi con altri Momina — gente nuova, possibili clienti futuri — e si parlò di una scappata in automobile, di andare una domenica fino in Riviera. — Diciamolo anche a Rosetta, — disse Momina.

— Figúrati.

Giorni dopo, passarono in macchina per via Po Mariella e Rosetta, e Mariella che guidava, bionda e fresca, mi gridò senza scendere, che venissi a passeggio con loro. — Di mattina lavoro, — dissi.

— Venga a trovarci, — disse lei. — La nonna vuole conoscerla meglio.

Feci un cenno a Rosetta, e ripartirono.

L’indomani Rosetta ricomparve sulla porta, sola.

— Entri, — le dissi, — come sta?

Andammo per i portici chiacchierando e ci fermammo davanti alla vetrina della Bussola.

— Quasi quasi ci starebbe un salottino cosí, — dissi.

— Le interessano i libri? — disse Rosetta animandosi. — Legge molto?

— Durante la guerra. Non si sapeva cosa fare. Ma non ci riesco mica. Ho sempre l’impressione di mettere il naso negli affari degli altri...

Rosetta si diverti e mi guardò.

— ... Mi sembra una cosa indecente. Come aprire le lettere degli altri...

Rosetta invece aveva letto di tutto. Era stata all’università, lo ammise mortificata, quasi si vergognasse.

— Com’è che Momina ha studiato in Svizzera? — dissi.

Momina era figlia di nobili, che l’avevano allevata spendendoci gli ultimi quattrini. Poi s’era sposata con un padrone di tenute in Toscana, e aveva di bello che non si faceva mai chiamare baronessa. Del resto il titolo non le spettava piú. Rosetta conosceva Neri il marito; era stata con lei in Versilia, proprio nell’estate che Neri faceva la sua corte. Una bella estate anche per Rosetta. S’era [p. 342 modifica]divertita a osservare come Momina tormentava Neri, come un topo. Quattro anni fa. Povero Neri, era elegante e stupido.

— Quel che ci vuole, — osservai.

Ma dopo il matrimonio quel Neri s’era vendicato. Dopotutto ancora suo nonno era stato fattore, di quelli che girano a cavallo con gli stivali per la macchia. Neri aveva preteso di stare in campagna, di curare le sue terre, e Momina l’aveva piantato.

— Lei Rosetta somiglia a Neri o a Momina? — le chiesi.

— Come?

— Suo padre è un uomo che lavora, — dissi. — Lei stima suo padre?

— Somiglio a Momina, — disse senza esitare, e sorrise.

E cosí andammo in Riviera. Ci fu di nuovo che con noi venne la Nene. Facevamo due macchine, due Stude Baker magnifiche. Ero seduta tra la Nene e Rosetta, e ci portava un certo barone, giovanotto, un tipo scemo che non capiva lo scherzo ma s’intendeva di quadri. Guidò, tutto il tempo, semivoltato a discorrere con la Nene di messe in scena e di nomi francesi. Momina era avanti, sulla macchina di Mariella, piena di gente che avevo appena conosciuto. Era ancora buio e minacciava pioggia. Ma tutti giuravano che la domenica in Riviera c’è il sole.

Rosetta parlava appena. Di nuovo mi stupí quella Nene, scultrice o pittrice che fosse, labbra grosse e frangetta, e il suo modo sfacciato di ridere come una bambina. Eppure aveva i suoi trent’anni, poco piú giovane di me. Era anche ingenua e impulsiva e, quando Rosetta le chiese come stava Loris e perché non veniva anche lui, si confuse e abbassò la voce come colta in fallo. Strana ragazza — sembrava una lucertola. Probabilmente era davvero in gamba, e un’artista è cosí che dev’essere.

Ma avevo sonno, la notte l’avevamo passata in casa del barone cenando e aspettando le ragazze per partire. M’assopii. Sull’Appennino incontrammo un brutto vento e in mezzo ai boschi ci prese la pioggia. Poi, via via che usciva la luce, la pioggia diradò, fin che corremmo lungo il mare nell’aria tiepida, a sportelli aperti, sotto gli ultimi spruzzi. Qui i giardini erano verdi e già fioriti. Chiesi a Rosetta se quell’anno andava al mare. Mi disse di no, che tornava a Montalto.

La nostra meta era una villa sopra Noli, ma qualcuno disse: — Andiamo a Sanremo. [p. 343 modifica]

— Per me, — disse il barone, — volevo fare un po’ di sdraio.

Mentre discutevano, scendemmo sulla piazzetta di Noli. Momina ci raggiunse. A quell’ora, sotto la prima luce, la piazza era deserta, i caffè chiusi.

— Anche stavolta siamo mattiniere, — mi disse Momina. Rosetta fumava con la borsetta a tracolla, appoggiata alla ringhiera, voltando la schiena al mare.

— Non ho mai visto il mare a quest’ora, — disse la Nene.

— Ci si riesce passando la notte bianca, — disse Momina, — ma non vale la pena. Meglio del mare è quest’arietta che sa di fiori.

Ripartimmo. Il barone l’aveva vinta lui. Prendemmo la montagna, e tra muriccioli e svolte arrischiate arrivammo alla villa ch’era come una grossa serra tra le magnolie. [p. 344 modifica]





XXI.

Camminando nel giardino, Rosetta ci raccontò che l’anno prima voleva farsi monaca. C’eravamo allontanate con lei e Momina nel boschetto, fino a una balaustra di dove si dominava il mare.

— Ma le ragazze come me non le vogliono, — disse.

— Perché? se hai dei soldi, — disse Momina.

Rosetta si mise a ridere piano e disse che le monache devon essere vergini.

Momina disse; — È un matrimonio come un altro. Tutto quello che si chiede a una sposa è che vesta di bianco.

— Quassú è bello, — disse Rosetta. — Ma domani sarà già meno bello. Per conservare del rispetto per il mondo e la gente, bisogna fare a meno di tutto. Il convento risolve.

— E che cosa avresti fatto sola sola? dipinto madonne? — diceva Momina. — Io non saprei come passarci le giornate...

Rosetta alzò le spalle, all’allusione di Momina. Io stessa me ne accorsi appena. Ma già Mariella con altri s’avvicinavano sotto le magnolie, e Momina borbottò: — Basta un giorno per volta. Passiamoci questo...

La giornata era davvero promettente, non fossero state le signore, sorelle e amiche del barone, e i loro uomini, che insistevano per fare baccano e toglievano il fiato ai custodi, due vecchi scocciati, perché aprissero, portassero roba, preparassero la veranda. Mise un po’ d’ordine Momina che propose di assegnarci una camera e lasciarci riposare un’oretta.

Quella villa era uno splendore, piena di mobili massicci e poltrone, ma tutto incamiciato, perfino i lampadari. I palchetti di legno erano ancora incerati. — Sembra il castello medioevale, — [p. 345 modifica]disse Mariella traversando un corridoio. Quando si calmò l’andirivieni nei bagni, m’ero seduta su una poltrona di vimini, e Mariella s’aggiustava i capelli a una specchiera, Momina s’era tolte le scarpe e buttata sul letto, la Nene e Rosetta parlottavano alla finestra spalancata. Pensavo a quei film di ragazze americane che vivono tutte in una camera, e una piú vecchia che la sa lunga fa da balia alle altre. E pensavo che è tutta una finta: l’attrice che fa l’ingenua è la meglio divorziata e pagata. Ridevo tra me, e Momina che fumava disse: — Ci mandassero un bicchierino...

— Non capisco, — cominciò Mariella, — perché donna Paola si vesta cosí da zingara, con gli orecchini...

Parlarono un pezzo degli orecchini e delle donne assenti. A un certo punto sobbalzai sulla poltrona: m’ero di nuovo assopita. Sentii il fresco della stanza e la voce aggressiva della Nene esclamare:

— Sei cattiva, sei cattiva, non ho bisogno di far da madre a nessuno.

— Non ne hai bisogno ma lo fai, — disse Momina.

La Nene, in mezzo alla stanza, gridò con voce stridula: — Gli uomini sono bambini. Noi artisti siamo due volte bambini. Se togli questo che cosa ci resta?

— Che cosa vuoi togliere? — disse Momina. — Non c’è niente da togliere alla vita, è già zero. Ah, — e si rivoltolò sul letto, — mi fate schifo...

Disse Rosetta, dalla finestra: — Se gli vuoi bene, Nene, non curarti di quello che dice Momina. Lo fa per farti arrabbiare...

— Si capisce, — disse Mariella.

— Di chi parlate? — chiesi.

— Di quel genio di Loris, — disse Momina saltando dal letto, di un uomo che per fare il bagno ha bisogno che una donna lo ami... Preferisco Fefé.

Di sotto avevano battuto un gong. — Andiamo, — disse Momina. — Le ragazze in sala.

Consumammo nella veranda la colazione che i custodi erano corsi a cercare in paese. Donna Paola col suo mantello scarlatto da zingara faceva l’ostessa e si scusava che i piatti dovessimo passarceli a mano. Pasteggiammo a chianti e liquori, nei bicchieri da cognac. Mariella cianciò a non piú finire. Verso la fine si dovettero tirare le tendine, tanto sui vetri batteva il sole. [p. 346 modifica]

Non era ancora mezzogiorno. Quando ci alzammo si cercò di far qualcosa, qualcuno disse: — Scendiamo al mare, — qualche altro si perse nel giardino. Avevo alle costole un tale grassoccio che voleva mostrarmi dall’alto le antichità di Noli. Lo seminai con una scusa. Feci una scappata nella camera al primo piano e mi sedetti alla finestra. Fumai guardando le piante.

Dal giardino salivano richiami e voci note; riparlavano di andare a Sanremo. Si spalancò improvvisamente l’uscio; entrò Mariella. — Ah c’è lei, — disse, — mi scusi — . Sulla soglia intravidi il barone, che si ritrasse.

— Devo andarmene? — dissi.

Mariella mi fece un bel sorriso e chiuse l’uscio in faccia all’altro. — Cercavo lei — . Mi venne incontro. — Queste gite hanno di antipatico che c’è sempre qualcuno di troppo, — cianciò. — Volevo dirle, Clelia, aiutiamo la povera Rosetta... Lei sa com’è sensibile, intelligente, eravamo tanto amiche prima... Dobbiamo toglierla ai suoi pensieri morbosi, distrarla...

Aspettavo dove andasse a parare. Vedevo ancora la faccia storta del barone.

— Glielo dica anche lei. So che vi siete vedute... con me non esce volentieri. La convinca a venire alle prove. Non si riesce a tenerle insieme queste ragazze. Com’è difficile metter su qualcosa...

— Forse, — le dissi, — Rosetta è cresciuta. Non vuole piú giocare con la bambola.

— No no, — disse lei, — ci sono dei ripicchi, delle gelosie...

— Non mi pare che l’abbia con la Nene.

— Non è questo. Da quando Momina si è messa contro la recita... anche Momina, che senso... Rosetta non vuole piú saperne, ci abbandona.

— Io credo, — le dissi, — che Rosetta abbia cercato di ammazzarsi perché era stufa di Momina, della recita, di lei, di tutti quanti. Non crede?

Mi guardò, fresca e colpita. Poi si riprese con vivacità. — Lei esagera, — disse, — Rosetta è una ragazza intelligente e sincera...

«Appunto, — volevo rispondere, — appunto», ma bussarono all’uscio. Era Momina.

— Si va a Sanremo, — annunciò. Poi guardandoci con gli occhi piccini disse: — Mi stupisco di voi.

Non arrivammo a Sanremo. La Nene cominciò a sentirsi male, [p. 347 modifica]a dare calci, a rovesciarsi sui cuscini gemendo: — Che cosa terribile. Muoio. Fermate — . Anche la prima macchina fermò. — Niente, niente, — disse il barone, — è il male d’auto. Questa macchina fa questi scherzi.

Stavano male anche una donna dell’altro gruppo e il tipo grassoccio. Li facemmo vomitare sul muretto. La piú tragica era la Nene, con gli occhi cerchiati e le sue parole sconnesse. Mi spiegarono che le grandi macchine americane sono cosí molleggiate e comode che fanno l’effetto del rullio del mare.

C’eravamo fermati su una svolta spaziosa, sotto una grande roccia, davanti al mare. Rosetta guardava la scena, con aria imbronciata.

— Ve la sentite di ripartire? — chiedemmo ai tre. [p. 348 modifica]





XXII.

Non se la sentivano, e allora io e Momina scendemmo sulla spiaggia, tra le piante grasse. Mariella ci gridò di aspettarla.

— Questo è il mare, — disse Momina, appoggiata contro la parete.

— Mariella trova, — le dissi, — che con Rosetta esageri.

— Ti pare che esagero? — disse lei freddamente.

Mariella, gridando «Uúh», arrivò con due o tre uomini. — Lo facciamo questo bagno? — dicevano.

— No, raccogliete i sassolini, — disse Momina, — ma non metteteli in bocca.

Si allontanarono davvero. — Senti, — le dissi, colpita, — ti vedi molto con Febo?

— È presuntuoso villano moccioso e peloso. Non basta? — Rideva. — T’interessi a costui?

— No, — mormorai, — vorrei sapere se ti piacciono soltanto le donne.

— Che cos’ha detto quella stupida?

— Sono io quella stupida. Non riesco a capire perché Rosetta non si sposi. Non può mica far altro. È ancora attaccata a te?

Momina mi scrutò un attimo nel sole.

— A me non piacciono le donne, e a Rosetta nemmeno. Quest’è la verità. Se mi piacessero, sta’ certa, non ci penserei sopra. È un’idea che si è messa Rosetta. È successo tre anni fa, eravamo al mare come adesso... Mi entra in camera e mi trova... Non ero sola. Uno scherzetto come a Ivrea. Lei allora volle far la coraggiosa, ma le è rimasta l’impressione e mi considera... qualcosa... come il suo specchio. Capisci? [p. 349 modifica]

Capivo. La storia era cosí assurda che doveva esser vera. Ma non mi aveva detto tutto, era chiaro.

— E perché non si sposa?

— Cambierebbe qualcosa? — disse Momina. — Di farsi una posizione non ha bisogno. Che cosa sia un uomo, lo sa... E poi in casa la tengono stretta.

Tornò Mariella coi suoi uomini. Di sopra chiamavano. Avevano deciso di rimettersi in macchina e tornare piano piano a Noli. L’idea di non andare a Sanremo non mi dispiacque, ma che cosa avremmo fatto a Noli? Per me, decisi di sedermi in quella piazzetta e far sera cosí.

Avevamo lasciato la Nene sull’altra automobile; ero seduta tra Momina e Rosetta, davanti c’era Mariella col barone. Questi due complottavano, e a un tratto il barone si volta e ci chiede se soffriamo la macchina. Poi partí come il vento.

Passò Noli senza fermarsi, passò Spotorno, entrò a Savona. Questa storia cominciava a seccare. Toccai col gomito Momina, mostrai Mariella che si stringeva al fianco dell’altro e le dissi: — Tu non ti senti mal di stomaco? — quando la gran macchina rallentò, svoltò qua e là, si fermava. Ci dissero: — Andiamo a ballare?

Valeva la pena venire in Riviera. Trovammo un tea-room su una piazza e la gente che passeggiava fece ala alla nostra discesa. Eravamo da sole un numero di varietà.

Una volta dentro, Momina espresse il pensiero di tutti. — Ecco, — disse al barone, — lei si dedichi a Mariella. Oggi non mi sento di ballare.

— Neanch’io, — disse Rosetta.

— Neanch’io.

Era un locale novecento, con le tramezze traforate e le palme. — Noi andiamo a vedere Savona, — dicemmo ai due. — Divertitevi.

Uscimmo per le strade, sollevate. Non c’era gran che da vedere a Savona e di domenica, ma la nuova città fece il suo effetto solito. C’era un gran cielo con qualche nuvola, c’era aria di mare, andavamo cosí alla ventura. In un caffè mangiammo paste, guardando le donne e la gente che guardava noi. Cosí arrivammo fino al porto, dove invece di case c’erano brutti bastimenti neri e rossi.

— È finito, — disse Momina. — Tutto finisce.

Passammo davanti ai bettolini a scantinato, dove friggevano pesce. [p. 350 modifica]

— Ecco, — disse Momina, — il tuo amico Morelli c’inviterebbe a bere un litro. Il male è che non lo sopporta.

— Tu lo sopporti? — disse Rosetta.

— A Roma questo si potrebbe fare, — dissi. — È il bello di Roma.

— Il vino lo sopporto. Non sopporto sempre Morelli, — disse Momina.

Ci appoggiammo al muricciolo che dava sull’acqua e accendemmo una sigaretta.

— Questa vita l’ho fatta, — dissi a Rosetta. — In bettola no, ma in latteria. Torino è piena di ragazze che la fanno.

— Dev’esserci qualcosa di bello, — disse Rosetta. — Quando andavo a scuola, la mattina, passavo sempre davanti a una latteria e d’inverno dai vetri si vedeva la gente che si scaldava le mani sulla tazza. Dev’essere bello starsene cosí sole, mentre fuori fa freddo...

Le dissi che non sempre al mattino le ragazze hanno tempo di scaldarsi le mani. Si butta giú la tazza e si corre all’ufficio maledicendo qualcuno.

Allora Rosetta mi disse: — Secondo lei sono sceme le ragazze che lavorano? Dovrebbero vendersi invece?

Momina che guardava nell’acqua, disse: — Sembra una fogna, non il mare. Ci lavano i piatti?

— È vendersi anche andare all’ufficio, — risposi a Rosetta, — ci sono tanti modi di vendersi. Non so quale sia il piú inutile.

Non sapevo nemmeno perché dicessi queste cose proprio a lei. Di fatto, pensavo tutt’altro.

Rosetta ribattè, toccata: — Lo so che la vita è difficile...

— Oh smettetela, — disse Momina, — di parlare di politica... Muoviamoci.

Camminavamo, adesso, nel centro della strada. Rosetta meditabonda mi gettava occhiate. Un bel momento disse:

— Non deve pensare, Oitana, ch’io disprezzi le prostitute. Si fa di tutto, per vivere... Ma non è piú semplice vivere lavorando?

— È un lavoro anche quello, — dissi, — non creda che si faccia per altro. Dappertutto c’è l’ingranaggio.

— Secondo me le prostitute sono stupide, — disse Momina. Basta la faccia che certe hanno.

— Dipende da chi chiami prostituta, — disse Rosetta. — La faccia che dici ce l’hanno soltanto quelle che non han fatto fortuna. [p. 351 modifica]

— È questione di sapersi difendere, — disse Momina.

Finalmente ritrovammo la Stude Baker sulla piazza e il nostro locale. Momina disse: — Ci fermiamo?

I due ballavano tra le palme abbracciati come sposi. Stemmo un pezzo a guardarli, dal banco. L’alta statura e la testa bionda di Mariella spiccavano. «Eccone una che saprà difendersi», pensavo.

Ritornarono da noi con un sorriso un po’ svanito. Avevano bevuto parecchio. Il barone chiese un ballo a Rosetta. Ballarono. Poi gli dicemmo ch’era meglio tornare. Mariella agitata ci disse che avrebbe voluto visitare Savona con noi. Rosetta disse seria seria che non valeva la pena.

In un attimo fummo a Noli, e non era ancora sera. Il mare cominciava allora a colorarsi. Trovammo gli altri nel caffè della piazzetta, annoiati e rumorosi. Decidemmo di cenare sul posto, e poi viaggiare comodi, senza scosse. [p. 352 modifica]





XXIII.

Il giorno dopo in via Po ebbi una visita della Nene, che volle vedere i salottini e mi disse ch’era stata una sciocca a sentirsi male. Guardò nicchie e specchiere, porcellane e cornici, gironzolando, e m’invitò a una festicciola che volevano dare nello studio di Loris. Chiese perché non arredavo il negozio con qualcosa di moderno. Disse male di Febo. Parlò dei pittori giovani di Torino, con intenzione e ingenuità. Le risposi che eseguivo dei progetti e che in quei giorni avevo molto da fare.

Lo stesso giorno Mariella mi mandò un mazzo di rose bianche e un bigliettino: «Ricordo di una candida gita». Durante la cena di Noli la baronessa ci aveva tutte interrogate se a Savona c’eravamo divertite. Anche Mariella m’invitò a una serata ristretta in casa sua: c’era qualcuno che leggeva delle poesie. Le risposi che avevo da fare.

Morelli s’invitò lui a cena al mio tavolino. Chiese perché non cenavamo di sopra, nella mia camera. Gli risposi che queste cose non le facevo nemmeno con un’amica.

Persino Maurizio si fece vivo con una lunga lettera, dove mi diceva che tutto sommato gli mancavo, che qualcuno a Roma cominciava già a prenderlo in giro sulla sua vedovanza, e per piacere non gli tornassi sposata con un giocatore del Torino e insomma gli dicessi se quell’anno doveva confermare la villa. M’accorsi che non riuscivo piú a vedere le facce di Roma, e sovente nella memoria scambiavo Maurizio con Guido. Ma quello che non confondevo erano i tempi stravaganti di Guido, i suoi bronci e le sue smanie e le mie, e il tranquillo rassegnarsi di Maurizio. Maurizio era furbo, [p. 353 modifica]Maurizio non aveva fretta. Queste cose si ottengono quando ormai si può viverne senza.

Ne parlai con Rosetta quando tornò a trovarmi. Ricomparve in quel solito modo, sulla porta, mentre uscivo. Le dissi ch’ero stata invitata alla festa di Loris. — Ci va? — mi chiese, con un mezzo sorriso.

— La Nene mi vuole, Mariella mi vuole. Da ragazza, quando mangiavo in latteria, questi inviti mi avrebbero fatta ammattire. Invece allora si andava in collina.

Rosetta mi chiese che cosa facevo alla domenica a quei tempi. — Gliel’ho detto. In collina. O a ballare. O al cinema. A far la lotta coi ragazzi.

— In collina, facevate queste cose?

— Poche cose — . La guardai. — Molto meno di quello che si fa in altri ambienti.

— Loris, — mi disse Rosetta, — mi portava qualche volta nei caffè dei bassifondi.

— Dove scorre il sangue, — le dissi. — Ha visto scorrere il sangue?

— Loris giocava al biliardo. C’era sovente il varietà. Donne disgustose...

— Lei ci crede a questi bassifondi?

— Sono cose che si fanno per vedere, — disse Rosetta. — È una vita, è miseria che a noi sfugge.

— Le cose non basta vederle, — le dissi. — Scommetto che da tutta quell’esperienza una cosa sola ha ricavato...

— Quale?

— Ha conosciuto meglio Loris.

Rosetta fece una cosa che non m’aspettavo. Rise. Rise in quel suo modo forzato, ma rise. Disse che aveva ragione la Nene: gli uomini sono bambini, gli artisti due volte bambini. Non c’era voluto gran che a conoscer Loris, molto meno che a liberarsene.

— Io non ci credo a questa storia dei bambini, — le dissi. — Gli uomini non sono bambini. Crescono anche da soli.

Di nuovo Rosetta ebbe un’uscita che non m’aspettavo. — Sporcano, — disse. — Sporcano come i bambini.

— Come, sporcano?

— Quello che toccano. Sporcano noi, sporcano il letto, il lavoro che fanno, le parole che usano... [p. 354 modifica]

Parlava convinta. Non era nemmeno irritata.

— La differenza è tutta qui, — disse, — i bambini non sporcano che se stessi.

— Le donne non sporcano? — dissi.

Mi guardò franca, con quegli occhi ossuti. — So quel che pensa, — balbettò, — non dico questo. Non sono una lesbica. Sono stata ragazza, ecco tutto. Ma l’amore, tutto quanto, è una cosa sudicia.

Allora dissi: — Momina mi ha raccontato di voi due. Di quel giorno al mare che lei Rosetta ha aperto una porta e l’ha trovata in compagnia. È questo che l’ha disgustata, vero?

— Momina, — disse Rosetta arrossendo, — fa molte pazzie. A volte ci ride, ma è d’accordo con me. Dice che non c’è acqua che possa lavare i corpi della gente. È la vita che è sporca. Dice che tutto è sbagliato...

Stavo per chiederle perché dunque viveva, mi trattenni appena. Le dissi che ai tempi ch’ero stata innamorata, per quanto capissi benissimo — queste cose si sanno — ch’eravamo due matti, che il mio uomo era un incapace, che se ne stava in casa a dormire mentr’io correvo per Roma, malgrado tutto questo, non s’impara a bastar da soli se non si è fatta l’esperienza in due. Non c’era niente di sporco, soltanto un’incoscienza — da bestie, se voleva, ma anche da gente inesperta che soltanto cosí possono capire chi sono.

— Sporco può essere tutto, è questione d’intenderci, — dissi, — ma allora anche sognare di notte, anche andare in automobile... Ieri la Nene vomitava.

Rosetta ascoltò con un mezzo sorriso, piú della bocca che degli occhi. Era il sorriso di Momina, quando giudicava qualcuno.

— E passato l’amore, — mi disse tranquilla, come se tutto fosse a posto, — capíto chi siete, che se ne fa di queste cose che ha imparato?

— La vita è lunga, — dissi. — Il mondo non l’hanno fatto gli innamorati. Ogni mattino è un altro giorno.

— Questo lo dice anche Momina. Ma è triste che sia cosí — . Mi guardò come guarda un cane. Non c’eravamo nemmeno fermate a certe vetrine che volevo vedere. Eravamo davanti all’albergo.

— Dunque venga alla festa di Loris, — mi disse. — Mariella vorrà portarci anche me.

Andò che, telefonandomi Momina, le dissi che Mariella aveva ragione: lei con Rosetta esagerava. Ma al telefono non si [p. 355 modifica]dovrebbero mai fare questi discorsi. Sentii la voce di Momina indurirsi. Sentii la smorfia con cui disse:

— Questa storia.

Dovetti spiegarle ch’era soltanto questione dei loro discorsi. Che mi pareva che Rosetta fosse già troppo malcontenta da sé, per ascoltare le sue uscite beffarde o cattive. Che tanto valeva non toccarle la piaga. Parlavo e sentivo che parlare era sciocco. Momina non aveva nemmeno bisogno di atteggiarsi la faccia, faceva un verso con la gola seguendo le mie parole.

Disse alla fine, con freddezza: — Tutto qui?

— Senti, si passa la giornata a mettere il naso negli affari degli altri. Che almeno a qualcosa serva. Ti ho detto la mia.

— E quella stupida Mariella...

— Mariella non c’entra. È un discorso tra noi.

— Non ti ringrazio.

— E chi ti chiede ringraziamenti?

— Capisco.

Poi, come niente fosse, si parlò di quello che avremmo fatto la sera. [p. 356 modifica]





XXIV.

Momina s’interessava di tanto in tanto al negozio e mi chiedeva se ce l’avremmo fatta a inaugurarlo in primavera.

— Sono stufa, — dicevo, — sono scoraggiata. Ormai dipende da Febo.

— Ma tu ci lavori molto.

— Con tante vetrine belle che ci sono già a Torino, — dissi, che cosa vuoi fare?

Una sera presi Becuccio e gli chiesi se aveva una ragazza. Lui scherzò, senza compromettersi. Gli dissi se voleva tenermi compagnia, andare insieme da qualche parte, mi lasciavo condurre. Scherzò un poco, non si fidava a scegliere.

— È inteso, — dissi, — che si fa alla romana.

Mi guardò con gli occhi allegri, gonfiando il respiro. Aveva tutto, giacca a vento, sciarpa, bracciale di cuoio. Si toccò il mento con due dita, dubbioso.

— Stasera, — dissi. — Non domani. Subito.

— Mi faccio la barba, — disse.

— Esco tra mezz’ora.

Ricomparve puntuale. Doveva essere corso chi sa dove a provvedersi di soldi. S’era passato del profumo nei capelli.

Disse: — Mangiamo e poi andiamo al cine.

— Al cine ci vado sola. Stasera voglio girare.

— E allora giriamo.

Mi portò a cena in un’osteria toscana di corso Regina. Mi disse: — È sporco, ma si mangia bene.

Gli dissi: — Becuccio, non truffi. Dov’è che va coi suoi amici?

— Ci andiamo dopo, — disse lui.

Mangiammo e bevemmo, parlando del negozio e di quando [p. 357 modifica]sarebbero venuti da Roma a inaugurarlo. Becuccio non aveva mai visto una sfilata di modelli e mi chiese se c’erano ammessi anche gli uomini. Si lamentò che il suo lavoro finiva sempre con gli infissi e prima dell’ultima mano di biacca. Gli dissi che l’avremmo invitato.

— Tirano su in borgo Dora un altro palazzo, — mi disse. — Il geometra manda me.

Mi raccontò che da due anni che faceva quel lavoro non aveva ancora visto una stanza ben sistemata. L’impresa aveva fretta alla fine. Mi consigliò di starci attenta, negli ultimi giorni.

Mi versava da bere. Dovetti fermargli la mano. Gli chiesi se voleva ubriacarmi. — No no, — rispose, — almeno il vino pago io.

Poi si parlò dei giornalieri che stavano fissando i palchetti. Becuccio rideva. — Chissà l’ebanista di Palazzo reale. Lo metterei a far palchetti, quel monarchico.

A un certo punto schiacciò la sigaretta e disse che sapeva perché stasera era uscito con me.

Lo guardai. — Sí, — disse lui, — quest’è la mancia.

— Che mancia?

— Domenica avremo finito. La mia parte sarà finita. E lei mi fa questo regalo.

Lo guardai. Parlava con buonumore. Rideva dagli occhi, contento di sé.

— Le sembra un regalo?

— Avrei voluto fosse prima, — disse lui. — Ma lei è furba. Ha aspettato alla fine.

Mi sentii caldo alla faccia. — Stia attento che sono ubriaca, dissi. — Non ho niente da perdere.

Lui toccò la bottiglia. — Non ce n’è piú — . Chiamò la donna.

Gli trattenni la mano. — Neanche per sogno. Adesso andiamo dagli amici.

Uscimmo sul viale. Mi chiese se davvero ci tenevo ai suoi amici, se volevo vederlo giocare al biliardo.

Gli dissi: — Si vergogna di me?

Subito mi prese il braccio (c’eravamo incamminati) e disse che tutte le donne sono uguali: «guarderò mentre giochi», dicono, poi non ci stanno, fanno come dal dentista, s’annoiano. — Portarci lei non mi conviene. Non starei piú né con lei né sul biliardo. Non posso mica comandarla... [p. 358 modifica]

— Perché, la tua ragazza la comandi?

Senza pensarci gli davo del tu. Non era la prima volta. Ma fu la prima che mi rispose chiamandomi Clelia.

— A Roma non fanno cosí? — disse. — Lei Clelia non la comanda nessuno?

Allora dissi: — Si decida. Dove andiamo?

Andammo a ballare al Nirvana. Nientemeno. Becuccio voleva far bene le cose. Era un salone a colonnati e un’orchestra di quattro. Mi ricordai che c’ero stata di passaggio, quella notte con Morelli e Momina. «Sarebbe comica incontrarci qualcuno» pensavo. Becuccio, nella sua giacca a vento, mi guidò deciso ai tavolini di fondo. Immaginai per un momento di uscire con lui tutte le sere. Ci saremmo trovati sull’angolo di corso Regina e un bel giorno l’avrei visto arrivare in motocicletta. M’avrebbe detto, tutto fiero: «Tienti bene. Facciamo i novanta». Che uomo sarebbe stato Becuccio?

Ballammo, scherzando sulla sua ragazza. Gli dissi: — Se la trovasse qui che balla col capufficio, che faccia fareste? Chi griderebbe di voi due?

— Dipende dalla scusa che trova, — disse Becuccio, e strizzò l’occhio.

Dentro di me m’ero decisa. Non ero ubriaca ma il malumore, la stanchezza, il dispetto di prima, m’avevano lasciata, ballavo e parlavo contenta, calda dentro. Ci avrei pensato l’indomani alle cose. Quel po’ di musica e la sciarpa di Becuccio stasera bastavano.

— Ti è mai capitato, — gli dissi, — di conoscere ragazze, magari della vita, che lo fanno per rabbia? O anche ragazze che non vogliono saperne, soltanto perché ce l’han su con l’uomo? Ragazze che gli dà noia sentirsi qualcuno nel letto?

È un fatto che parlavo troppo. E facevo i discorsi di Rosetta e dell’altra. Becuccio mi prendeva tra le braccia, mi piegava la schiena, mi camminava quasi addosso. Mi aveva già detto all’orecchio: — Ce ne andiamo?

— Le ragazze hanno tanti capricci, — rispose. — Chi sa dove li trovano. Ma una volta nel letto, ci stanno.

— Sicuro? — gli dissi.

Mi teneva il braccio e tornavamo al tavolino. Mi cinse la vita e strinse a sé con forza.

— No, Becuccio, — dissi, senza guardarlo, — piace anche a me sentirmi sola. [p. 359 modifica]


— Andiamo fuori? — disse lui.

Fuori, nel primo portone cercò di baciarmi. — Buono, — gli dissi, — non voglio fare un torto a nessuno.

— Non facciamolo a noi, — balbettò ridendo. Cercò di nuovo di baciarmi.

Lasciai che facesse. M’inchiodò contro il muro. Sentii l’odore e l’urto vivo della bocca e dei capelli. Non aprii le labbra.

— Sei giovane, — gli dissi sulla spalla, — sei troppo giovane. Io queste cose non le faccio per le strade.

Per un poco camminammo a braccetto, senza sapere dove andassimo. Mi parvero quelle sere di Guido, quando Roma era lontana e non avevo ancora diciott’anni. Anche la notte era la stessa, fine marzo o settembre. Becuccio non era militare, ecco tutto.

Tornava a stringermi la vita. Avevo voglia di baciarlo. Invece dissi: — Tu che cosa t’immagini?

Si fermò e mi fermò. — Che devi venire con me, — disse scuro.

— Ci vengo, — gli dissi. — Ma è un regalo di stanotte. Ricòrdati. [p. 360 modifica]





XXV.

Becuccio era comunista e mi disse che aveva fatto la guerra. Gli avevo chiesto se era stato soldato. — Sono stato in Germania, mi disse.

Allora pensai a Carlotta, se era ancor viva e se mai piú le sarebbe toccato di svegliarsi un mattino come me a una finestra di val Salice davanti a quegli alberi.

— Abbiamo anche il tram, — disse Becuccio.

Scese a pagare, e non facemmo colazione. Il padrone, in mutande e gilè, ci guardò passare senza dir nulla. Io pensavo che le cose importanti succedono sempre dove una non crederebbe. Un alberguccio miserabile, una stanza col catino, lenzuola da entrarci al buio. Fuori Becuccio fumava, nel primo sole.

Rientrai in albergo, sola. Non ero stanca, ero calma e contenta. Becuccio mi aveva capita, non aveva insistito per accompagnarmi. Ero tanto contenta che fui sul punto di dirmi: «Fino a domenica lo vedrò quando vorrò». Ma sapevo che non dovevo far questo; già il gesto di Becuccio di pigliarmi per il mento e guardarmi dentro gli occhi, mi aveva seccata.

In albergo, Mariuccia, che mi portò la colazione, vide il letto intatto e sgranò gli occhi. Pensai che faccia avrebbe fatto se mi avesse veduta un’ora prima. Le dissi che non c’ero per nessuno e che volevo fare il bagno.

Quel mattino telefonai a Febo in via Po. Non c’era. Rispose Becuccio. Mi disse signorina con la voce solita. Lasciai detto di dire certe cose a Febo e fui libera. Cercai Momina al telefono; non c’era. Cercai Mariella: erano andate alla messa per una nobildonna [p. 361 modifica]loro parente, morta da poche settimane. La chiesa la sapevo, era la Crocetta.

Uscii passo passo, sui viali che mettevano le prime foglie in quei giorni, e pensavo ai boschetti di val Salice. Arrivai alla Crocetta che la funzione era finita; c’erano ancora il cartello bianco e nero e i paramenti mortuari sulla facciata della chiesa. Lessi il nome della morta: era stata una terziaria, una mezza monaca. Un gruppo di ragazze e signore cianciavano salendo su una grossa automobile nera. Qualcuno m’aveva detto che l’inferriata che chiudeva quelle colonne in cima ai gradini era stata fatta, coi soldi di un lascito, perché i mendicanti non entrassero sotto il colonnato. Una donna, seduta a un cesto sui gradini, vendeva violette.

Non so perché, pensai di entrare. Dentro la chiesa era freddo, e in fondo un sacrestano spegneva le ultime candele. Mi fermai in piedi, vicino a un pilastro. Tutte le chiese sono uguali. Fiutai odore d’incenso e di fiori guasti. Pensai che anche i preti s’intendevano di arredamento, ma a loro non costava fatica: era sempre lo stesso, la gente ci veniva comunque.

Due donne uscirono dall’ombra. Rosetta e sua madre. Ci salutammo con un cenno; sulla porta toccarono l’acquasantiera e si segnarono. La madre era in pelliccia, col velo nero.

Fuori ci salutammo e Rosetta mi disse di accompagnarle fino a casa, due passi. Parlottammo cosí, del piú e del meno; la madre mi fece i complimenti per il negozio; teneva in mano il libriccino nero. Nonostante la pelliccia aveva un’aria casalinga, e anche parlando si stupiva di tutto, sospirava. Si fermarono davanti al cancello di una villetta coperta d’edera.

— Venga a trovarci, — disse la madre, — la casa è piccola, ma lei scuserà.

Rosetta taceva; poi disse che accompagnava me fino al tram.

La madre disse: — Non tardare. L’affido a lei.

Ci allontanammo sul piccolo viale. M’informai di Momina e Mariella. Chiesi se c’era molta gente.

— Non trova, — disse Rosetta, — che fare nello stesso modo funerali battesimi e nozze è una cosa ingiusta? Capisco sposarsi o anche nascere, c’è chi ci si diverte e vuol parlarne, ma chi muore dovrebbe esser lasciato solo. Perché tormentarlo ancora?

— Qualche morto ci tiene, — le dissi.

— Una volta, almeno i suicidi li seppellivano di nascosto. [p. 362 modifica]

Io non risposi, camminavo. Dissi a un tratto: — Non tormentiamoli anche noi...

Quando ci fermammo sull’angolo dissi: — Rosetta, lei vuole bene a sua madre?

— Suppongo di sí, — brontolò.

— Perché sua madre gliene vuole molto, — dissi. — ... Guardi i fiori su quell’albero... Sembrano fiocchi di tulle bianco.

Quel pomeriggio rividi Becuccio. Era salito su una scala per attaccare un lampadario e parlammo, dall’alto in basso, della lampada.

Rividi Febo e stavamo sfogliando fotografie nel salone, quando mi accorsi che Becuccio era entrato senza rumore. Mi salí al viso un’ondata di sangue e mi tremarono le ginocchia.

— Che c’è? — balbettai.

Ma Becuccio tranquillo disse che sotto mi cercavano. Era Morelli, con certe signore, che venivano a visitare i lavori. Li misi in mano di Febo e scesi a parlare con gli elettricisti. Ormai da un giorno all’altro poteva arrivare Madame e la valanga dell’inaugurazione staccarsi. Becuccio su e giú per la scaletta mi strizzò l’occhio come a dire «Faccio io». Febo, Morelli e le signore se ne andarono presto, invitandomi a un tè. Dissi di no, che restavo.

Restai per provare Becuccio. Nelle sale vuote, qualcuna in penombra, qualcuna accecante, mi aspettavo a ogni passo di vedermelo comparire davanti. Invece lo trovai sulla porta, che s’infilava la giacca.

— Va a casa, Becuccio?

— Ah è qui, — disse lui. — Prende il vermut?

Andammo al caffè di fronte, dov’eravamo entrati il primo giorno. La cassiera mi guardò come allora. Becuccio raccontava che ce l’aveva su con Febo che, dopo aver fatto rifare i palchetti tre volte, parlava ancora di cambiare la posizione dei fili e rompere gli zoccoli. Becuccio disse che di gente come Febo ne aveva conosciuta da soldato: gli ufficiali effettivi. — Saprà il suo mestiere, — disse, — deve saperlo per forza. Anche quelli lo sapevano. Ma non mi piace la gente che butta via il materiale...

Bevendo il vermut, feci un cenno di brindisi, un saluto con gli occhi, e Becuccio corrugò la fronte e sorrise. No non era un ragazzo.

Cosí, quella sera mi trovai con Momina e Rosetta nelle sale dei [p. 363 modifica]pittori, dove avevamo deciso quella gita a Saint-Vincent. Qualcuno esponeva dei quadri, ma non c’era bisogno di guardarli. Ce ne stemmo sedute sotto, noi tre, lasciando che intorno la gente andasse e venisse. Quelle facce mi pareva di conoscerle tutte: erano le stesse degli alberghi, dei salotti, delle sfilate di modelli. A nessuno importava niente dei quadri. Pensai, senza volerlo, che per Rosetta e Momina io dovevo essere un tipo come Becuccio era per me. Anche a me dava noia chi butta via il materiale. Rosetta e Momina s’erano messe a parlare di musica. [p. 364 modifica]





XXVI.

Momina diceva che le mostre, i concerti, il teatro, sono belle cose soltanto perché ci va molta gente. — T’immagini, — diceva, essere sola in un teatro, in una galleria...

— Ma è la gente che dà noia.

— Infatti, — diceva Momina. — Un concerto, una compagnia, un balletto non sempre piacciono. Ci vai soltanto quando hai voglia di vedere e di discorrere. È come fare una visita...

— La musica no, — disse Rosetta. — Davanti alla musica bisogna essere sole. Quando a Torino davano dei concerti possibili...

Io mi chiedevo che cosa avrebbe detto Becuccio. Ma era assurdo anche soltanto pensarlo. Non c’è che essere stati insieme di notte sullo stesso cuscino, per capire che ciascuno è fatto a suo modo e ha la sua strada.

Dissi a Rosetta: — Davvero le piace la musica?

— Non mi piace ma è, — disse lei. — È qualcosa. Forse soltanto sofferenza.

— Dev’essere come dipingere, — disse Momina.

— Oh no, — disse Rosetta, — dipingere è un’ambizione. Invece ascoltando musica tu ti abbandoni...

Dentro di me sorrisi appena. Con tante cose che ci sono al mondo, con tante che tutte e due ne sapevano e avevano, parlavano della musica come se fosse cocaina o la prima sigaretta.

— Io credo, — disse Momina, — che gli artisti non soffrono mica. Fanno star male chi li ascolta, se li prende sul serio.

— Sono gli altri che soffrono e godono, — disse Rosetta. — Sempre gli altri.

— Chi fa il vino non si ubriaca, — dissi. — Volete dir questo? [p. 365 modifica]

— Le puttane non godono mai, — disse Momina. Anche Rosetta sussultò.

— Chi piú puttana della Nene? — continuò Momina. — È intelligente, ha il mestiere sulla punta delle dita, e tutto il temperamento che una scultrice può avere. Perché non fa soltanto questo? E invece no. Deve vestirsi da bambina, innamorarsi, sbronzarsi. Un bel giorno farà anche un figlio. Si è fatta la faccia... Lei crede che gli altri ci credano.

— Sei cattiva, — disse Rosetta.

— Momina ha ragione, — brontolai. — Conta il lavoro non il modo.

— Non so quel che conta, — disse Momina. Ci guardò quasi sorpresa, ingenua. — Ho paura che niente conti. Tutte siamo puttane.

Riportammo Rosetta a casa in automobile e al cancello della villa lei mi disse ancora, impacciata, se l’indomani accettavo di prendere il tè. Lo disse anche a Momina.

Arrivai che c’era già Momina. La madre, in un abito viola di velluto, discorreva con una signora secca che mi accolse scrutandomi dalle calze ai capelli, e cominciò a lamentarsi delle gonne a pieghe larghe, e dirmi che non so chi le avrebbe presto ristrette. In questi casi, io dico sempre che chi non accetta la moda a suo tempo, la porta poi l’anno dopo, quando è passata. Allora Momina s’attaccò lei a litigare e scherzare, e Rosetta mi portò alla finestra e mi disse che avessi pazienza, quella donna era una peste.

Il salone era leggero e arioso, non c’era certo la mano della madre. Era diviso in due parti da un’arcata, di qua le poltrone e i tavolinetti leggeri, di là un lungo tavolo lucido sotto un lampadario e una larga finestra a tre luci. Chiesi a Rosetta se ci abitavano da molto tempo. Mi disse di no, che il suo ricordo piú lontano era la casa di Montalto; lei era nata in borgo San Paolo, vicino alla fabbrica, ma l’appartamento doveva esser adesso distrutto o sinistrato.

— Vorrà vedere il giardino, — disse la madre.

Rosetta disse: — Un’altra volta, non è ancora fiorito.

— Falle vedere i quadri, — disse la madre. La peste aveva smesso di parlare di moda e disse che anche a Torino si facevano belle cose. — Non abbiamo bisogno che veniate da Roma, — disse. — Vero, Rosetta? Sappiamo tagliare e dipingere anche noi.

Dopo il tè se ne andò, doveva ancora far visita. La madre tirò [p. 366 modifica]un sospiro, guardandoci con buonumore. — Anche quella, — disse. — Crede di far bene. Brutta cosa restare vedove.

Andammo fino alla stanza di Rosetta, che intravidi appena, bianca e azzurra, e la finestra in fondo. Nel corridoio Rosetta aprí l’armadio per mostrarmi un certo vestito che, secondo Momina, era stato sbagliato. Nell’armadio, dove si fermò il battente, intravidi un tulle celeste.

Quella casa, in fondo, mi piacque. La madre doveva tenerci, poveretta, quasi quanto alla figliola. Avevano una cameriera, contadinotta ma in nero e grembiulino: la madre non le lasciava far niente, ci serviva lei stessa. Momina s’era tolta una scarpa e fumava assorta, dentro la poltrona.

A una cert’ora arrivò il padre, entrò guardingo con gli occhiali in mano, le palpebre arrossate. Era un uomo color grigio-ferro, tutta la vita ce l’aveva nei baffi — di corpo tozzo, un po’ cascante. Ma in fondo agli occhi somigliava a Rosetta: guardava testardo, con impazienza.

Momina gli tese la mano dalla poltrona, col suo malvagio sorriso. A me balbettò qualcosa inchinandosi, gettò un’occhiata alla moglie. Era un uomo all’antica, si capiva, non un Morelli. Di passaggio toccò la guancia a Rosetta, una carezza, e lei scostò la testa, rapida.

Disse che non voleva disturbarci, ma che gli faceva piacere conoscermi. Ero io che venivo da Roma e che dirigevo questa nuova ditta? Una volta era Torino che apriva le filiali a Roma. — I tempi cambiano, — disse. — S’accorgerà che a Torino non è facile tenersi in piedi. Qui c’è stata la guerra.

Parlava a scatti, affaticato, convinto. La moglie gli portò una tazza. Lui disse ancora:

— Almeno a Roma lavorate?

Gli dissi di sí. Si guardò intorno. — Bisogna vestirvi, — disse. — Avete ragione. Il mondo è fatto per voi.

Tutte in piedi, adesso, lo guardavamo tenere la tazza. La moglie, grossa e paziente nel suo velluto viola, aspettava. Capii che era un vecchio, tollerato, e che soltanto il suo lavoro contava qualcosa per le donne. Capii anche che lui lo sapeva e ci era riconoscente di lasciarlo parlare. [p. 367 modifica]





XXVII.

Rosetta mi disse che non capiva suo padre.

— Io lo capisco, — disse invece Momina. — È di quegli uomini che una volta portavano la barba. Poi di notte una donna gliela taglia e loro passano la vita a redimersi.

— Però ha fatto una Rosetta, — dissi.

— Probabilmente non sapeva come fare a non farla.

Momina rallentò, fermò accanto al portico, e nessuna di noi si mosse.

— Eppure Rosetta gli somiglia, — disse. — Non eri una brava scolara, Rosetta? Scommetto che tuo padre è di quelli che dicono «Se fossi ragazzo, ricomincerei».

Rosetta disse, sulla mia spalla: — Tutti i giovani sono sciocchi.

— E i vecchi, e le vecchie, e i defunti. Tutti sbagliati. Oh Clelia, insegnami il modo di guadagnare quattro soldi e scappare in California. Là dicono che non si muore.

— Tu ci credi? — disse Rosetta.

Vidi Becuccio attraverso la vetrina e gli feci segno. Traversò il portico e si piegò allo sportello. Mentre parlavo con lui, Momina chiedeva a Rosetta perché non andavamo in collina. Becuccio mi disse che quelle casse non erano ancora arrivate. — Hai tempo a fare un giro, — disse Momina.

Ripartimmo. Vedevo la faccia di Rosetta nello specchietto retrovisore. Se ne stava muta, imbronciata, testarda. Certe volte pensavo che fosse giovane giovane, una bambina, di quelle che gli si dice «Di’ grazie» e loro non vogliono saperne. A pensarci, era terribile averla cosí con noi e fare con lei questi discorsi, terribile ma anche ridicolo, buffo. Cercai di ricordarmi come fossi io a vent’anni, a [p. 368 modifica]diciotto — com’ero nei giorni prima di mettermi con Guido. Com’ero prima, quando la mamma mi diceva di non credere a niente e a nessuno. Poveretta, che cosa ci aveva guadagnato? Avrei voluto sentire i consigli che padre e madre davano a quest’unica figlia, cosí matta e cosí sola.

Momina mi strusciò col gomito, prendendo la salita di Sassi. Allora capii che la vera mamma, la sorella maggiore, la sorella esigente e cattiva, di Rosetta era costei, questa Momina che tirava le pietre e nemmeno nascondeva la mano — che, come me con Becuccio, non aveva piú niente da perdere.

— Rosetta, — le dissi, — lei non ha delle amiche oltre Momina?

— Cos’è un’amica? — disse lei. — Nemmeno Momina è mia amica.

Momina, assorta nelle curve, non disse nulla. Mi venne in mente che tutti gli anni qualcuno si rompeva il collo sulla strada di Superga. Andavamo forte, sotto gli alberi alti. Quando la salita si raddolcí, cominciammo a vedere dall’alto le colline, la valle, la pianura di Torino. Non ero mai stata a Superga. Non sapevo che fosse cosí alto. Certe sere, dai ponti di Po, la si vedeva nera e ingioiellata di una corona di luci, una collana gettata per storto sulle spalle di una bella signora. Ma adesso era mattino, era fresco e c’era un sole d’aprile che riempiva tutto il cielo.

Momina disse: — Non ce la faccio piú — . Venne a fermarsi contro un mucchio di ghiaia. Il radiatore fumava. Allora scendemmo e guardammo le colline.

— È bello quassú, — disse Rosetta.

— Il mondo è bello, — disse Momina, venendoci dietro, — se non ci fossimo noi.

— Noi sono gli altri, — dissi guardando Rosetta. — Basta far a meno degli altri, tenerli a distanza, e allora anche vivere diventa una cosa possibile.

— È possibile qui, — disse Rosetta, — per un momento, per il tempo di una corsa. Ma guardi Torino. È spaventoso. Bisogna vivere con tutta quella gente.

— Non devi mica tenerteli in casa, — le disse Momina. — I denari servono a qualcosa.

C’era una siepe lungo la strada, e un’inferriata; piú in là un boschetto e una grande cisterna di cemento, una piscina, piena di [p. 369 modifica]acqua terrosa e di foglie. Sembrava abbandonata; c’era ancora la scaletta di ferro per scenderci.

— Di chi è questa villa? — disse Momina. — In che stato.

— Ecco, — dissi, — restaurare questo cantuccio e invitarci chi piace a me. La sera scendere a Torino in macchina e, avendo voglia, vedere qualcuno. Cosí vivrei se fossi in voi. L’avessi avuta da ragazza.

— Lei può farlo, — disse Rosetta. — Piú di noialtre. Forse a lei piacerebbe.

— Non si fanno queste cose, — le dissi. — Basta averle in mente. Per riempire la giornata bisogna muoversi. Non sono piú cosí giovane da stare volentieri in campagna.

Momina disse: — Visto che niente vale niente, bisognerebbe avere tutto.

— Se ti mancasse la pagnotta, — dissi, — chiederesti di meno.

— Ma ce l’ho, — disse Momina gridando. — Ce l’ho, la pagnotta. Che cosa posso farci se ce l’ho?

Rosetta disse che anche i frati nei conventi rinunciano a tutto ma non alla pagnotta.

— Siamo tutti cosí, — dissi. — Prima mangiare poi si prega.

Momina portò la macchina su una curva che dominava Torino, la scoperchiammo e ci sedemmo dentro a fumare. C’era nel sole caldo odor d’erba e di cuoio.

— Via, — disse Momina, — andiamo a prendere l’aperitivo.

Quel pomeriggio un telegramma mi annunciò che l’indomani arrivavano da Roma. La valanga cominciava. Naturalmente Febo era andato per i fatti suoi e al telefono non rispose. Mi buttai sotto, con Becuccio, trovammo due decoratori, era già buio che ancora martellavamo, provavamo luci, staccavamo tendine. Arrivarono le casse; feci e rifeci una vetrina, senza scarpe nei piedi, come una commessa. Alle otto Mariella telefonò, per ricordarmi la festa nello studio di Loris. La mandai al diavolo e tornai a drappeggiare stoffe, furibonda perché tanto sapevo ch’era un lavoro inutile, fatto per mostra; l’indomani Madame l’avrebbe rifatto. L’agenzia che doveva mandarmi le commesse telefonò che soltanto lunedí mattina poteva disporre. Anche questo era tempo sprecato, perché le assunzioni toccavano a Madame, che le voleva sottomano già fatte, e poi cambiava di testa sua. Becuccio docile correva, telefonava, spaccava casse, senza perdere la calma. Un bel momento (i decoratori [p. 370 modifica]se n’erano già andati) mi buttai su una cassa, e lo guardai disperata. Lui disse: — Ho finito da un’ora. Oggi è sabato.

— Vigliacco, — gli dissi. — Anche tu. Vattene.

— Andiamo a mangiare un boccone? — mi disse.

Scossi la testa, guardandomi intorno. Allora accese una sigaretta, adagio, e venne a mettermela in bocca. Spaccando le casse, s’era ferito a una mano. Gli dissi di andare a disinfettarsi.

Tornò con un pacco di arance e del pane. Mangiammo seduti sulle casse e mangiando guardavamo intorno e facemmo il bilancio. Tutto il possibile era fatto, mancava soltanto un’occhiata di Febo ai salottini e la pulizia materiale.

Becuccio disse: — Abbiamo tempo perfino a fare una scappata in val Salice.

Lo guardai seria, poi feci una smorfia, poi gli dissi che queste cose non riescono due volte. Lui mi venne vicino e mi prese il mento. Ci guardammo cosí, qualche secondo. Mi lasciò andare e si staccò.

Allora dissi: — C’è una festa da un pittore. Ci vanno quelle ragazze. Vuoi venirci anche tu?

Mi guardò fisso un momento, con un’aria incuriosita. Scosse il capo.

— No, padrona, — disse. — Non arrivo piú in là dei ceti medi. Non serve.

Mi promise che l’indomani avrebbe cercato Febo e me l’avrebbe mandato in albergo. Mi accompagnò fino al portone di Loris, e se ne andò senza insistere. [p. 371 modifica]





XXVIII.

Fortuna che Becuccio non era salito. Li trovai che avevano addobbato di nero un grosso scarabocchio su un catafalco e acceso intorno quattro candele. Parlavano di Parigi, e naturalmente Momina diceva la sua. Chiesi che cosa succedeva. La Nene, vestita di velluto rosso, mi disse disinvolta che Loris celebrava la morte del suo secondo periodo e che avrebbe fatto un discorso polemico. Ma il vocio era forte, e Loris rintanato sul letto ruminava qualcosa per conto suo, fumando con gli occhi chiusi. C’era molto fumo e diverse facce che non conoscevo. C’era il vecchio pittore ch’era venuto con noi a Saint Vincent, c’era la piccola signora in raso dagli occhi libidinosi, c’era quel Fefé del veglione, c’era Mariella, bionda e vociante. Non vidi subito Rosetta; poi la trovai che fumava nel vano della finestra, un piccolino mezzo gobbo le stava davanti, e lei carezzava un gattino che si teneva sul braccio.

— Come va? — le dissi. — È suo?

— È venuto dai tetti, — mi disse. — Nessuno l’aveva invitato.

Lo studio era abbastanza in ordine; su un tavolo vicino al lavandino c’erano piatti di antipasti e di dolci, bottiglie, qualche bicchiere. Tutti avevano già in giro, per terra o tra le mani, un bicchiere. Pensai che quel giorno la Nene doveva aver lavorato quasi quanto me, ma che per lei tutto finiva con la notte.

Le voci e i discorsi che scoppiavano erano già di gente tocca. Io mi tenni in disparte, non salutai nemmeno tutti, entrando; trovai da sedermi e da bere, e poggiai la testa contro il muro. Su tutte salí la voce di Mariella che parlava di un teatro di Parigi e di una ballerina negra che non era la Baker.

— Mangiate, mangiate, — esclamava la Nene, preoccupata. [p. 372 modifica]

Il giovanotto del veglione venne ad accendermi la sigaretta. Mi guardava con gli occhietti.

— E quel suo cavaliere? — mi disse.

— Non sono un cavallo, — risposi.

Sghignazzò come allora. Si cacciò le mani in tasca, piantandosi davanti alla mia sedia. — Troppe donne qui, — mi disse. — Vorrei che ci fosse lei sola.

— No no, — gli dissi, — Lei ha bisogno di veder gente. S’impara sempre dalla gente.

— M’inviti nel suo atelier. Tutti ne parlano.

— Si figuri. Lei è già un cliente.

Ma era scemo, non seppe continuare. Ghignò e mi chiese se mi piacevano i gatti. Gli dissi che preferivo i liquori. Andò a versarmi un bicchierino, fece il gesto di baciarlo e me lo tese. — Lo beva, lo beva, se ci tiene, — gli dissi. Finí che lo bevve.

Io ascoltavo il discorso che il mezzo gobbo faceva con Rosetta. Era un ragazzo vecchio, dalla faccia rugosa. Parlava dei negri del Tombolo. Le diceva: — Erano sempre ubriachi di liquori e di droghe. Di notte facevano orge e si tiravano coltellate. Quando una ragazza era morta, la sotterravano nella pineta e ci appendevano alla croce le mutandine e il reggiseno. Giravano nudi, — diceva. — Erano primitivi autentici.

Rosetta lasciava il gatto e mi guardò di sotto in su.

— Succedevano scene da pazzi, — diceva l’altro. — gli americani facevano battute ma non riuscivano a snidarli. Vivevano in capanne di foglie. Dopo nessuna guerra sono mai successe cose simili.

Fefé disse la sua a bocca piena. — Peccato che sia finita, — disse. — Sarebbe stata una bella villeggiatura.

Il mezzo gobbo lo guardò seccato.

— Si scandalizza? — gli disse Rosetta. — Hanno fatto qualcosa di diverso da noi? Erano gente di coraggio, piú di noi.

— Capisco i negri, — disse allora Fefé, — ma non capisco le donne. Vivere cosí nei boschi...

— Morivano come le mosche, — disse il gobbo. — Anche gli uomini morivano.

— Sono stati ammazzati, — disse Rosetta. — Col freddo, con la fame, a fucilate. Perché questo?

— Perché non questo? — disse il gobbo ghignando. — Rubavano. Si distruggevano tra loro. Si riempivano di droga. [p. 373 modifica]

Il gatto sfuggí dal braccio di Rosetta. Lei si piegò per riacchiapparlo e disse: — Le stesse cose si fanno a Torino. Dov’è il male maggiore?

Dal letto strillavano. Qualcuno aveva acceso un bicchierino di liquore e gridava «Spegnete la luce». Nell’urlio delle ragazze spiccò la voce di Mariella. Qualcuna — mi parve Momina — spense davvero la luce. Segui un istante di silenzio confuso.

Cercai subito Rosetta nell’ombra. Mi parve di tornare a quella notte nella mia stanza, quando lei aveva spento. Ma già tutti dicevano: «Quant’è bello. Lascia cosí». Le quattro candele sul catafalco e la fiammella azzurrina che qualcuno aveva posato a terra, davano l’impressione di trovarci dentro una grotta. Allora gridarono «Loris. Parla Loris», ma Loris non si muoveva dal letto, e la Nene andò a scuoterlo e litigarono. Io vedevo le due ombre agitarsi sulla volta, sentivo Loris bestemmiare. Pare che non fossero venuti molti dei pittori invitati e lui diceva villanamente che non era il caso di fare un discorso a noialtri. Il bello è che tutti lo presero in parola e si riformarono i gruppetti, e qualcuno si sedette per terra. Ricominciarono a bere.

Mariella mi passò accanto e mi chiese se mi divertivo. Mi disse di guardare il catafalco — quanto faceva teatro, quant’era surrealista — e riattaccò con la sua recita. Fortuna che la Nene venne a cercarla quasi subito perché facesse girare un piatto anche lei.

Rosetta beveva molto, era scura. Adesso stava seduta in un gruppo dove c’era anche Momina, ai piedi del letto di Loris, e raccontavano storielle, tacevano, ridacchiavano. Nei riflessi delle candele io cercavo di non incontrare gli occhi della Nene; glieli avevo visti gonfi, sentivo la crisi, il suo dispetto salire perché la festa andava avanti fiacca. Non le restava che sbronzarsi, e tra poco l’avrebbe fatto; ma aveva ancora una speranza che arrivasse qualcuno a ridare vita.

Qualcuno parlava di andarcene, di sederci col fiasco sui gradini del Monumento all’artigliere. — Andiamo in barca, — disse un’altra. — Andiamo a donne, — disse la voce fessa di un ragazzo.

Queste cose fanno ridere. Rise anche Loris sul letto, con la sua pipa.

— E noi, — disse una voce di donna, — andremo a maschi.

Eravamo imbruttiti e sfasati. O forse era l’effetto di quel quadro di Loris, di cui nessuno s’occupava. Cominciò il vecchio pittore [p. 374 modifica]dai baffi cinesi. — A Marsiglia, — disse, — le belle signore vanno al porto nelle case di piacere e pagano per farsi nascondere dietro una tenda.

Io pensavo che avrei dovuto andare a dormire e che domani era una grossa giornata. Momina disse: — Pagare perché? Fanno loro un favore alle case.

Loris, Fefé, il mezzo gobbo e gli altri, tutti gridarono ch’era bello far pagare le donne. La Nenè entrò nel nostro crocchio. Ormai facevamo un solo cerchio, compreso il gatto sulle ginocchia di Momina. Qualcuno mi palpava il fianco. Gli dissi di smetterla.

— Sentite — disse un ragazzo nuovo, che non conoscevo, — ripassando il Po si arriva in via Calandra. Lo sappiamo, — guardò me e Momina con aria insolente, — che una signora non ci passa volentieri. Ebbene, andiamoci insieme. Beninteso, all’osteria. Dai vetri si vede il va e vieni. Ci state tutti? [p. 375 modifica]





XXIX.

La Nene ci supplicò di aspettare se venisse ancora qualcuno, di mangiare, di cantare tutti insieme. Disse a Loris di non essere un porco. Voleva almeno che bevessimo, che aspettassimo mezzanotte.

— È mezzanotte, — le dissero. — Non vedi ch’è già buio?

— Poi torniamo, — le disse Mariella.

— Portiamo il gatto? — disse un altro.

Per uscire, qualcuno accese la luce e tutti avevano facce stravolte. Persi di vista Rosetta e Momina; mi toccò scendere col gobbo e con Fefé. Giú dalla scala era un baccano; la voce di Loris rimbombava. Io pensavo di andarmene ma Fefé mi diceva sciocchezze e non vedevo piú le altre sul viale. Insomma li seguii nell’osteria di via Calandra.

Non è una viuzza e ricorda un poco via Margotta. L’automobile di Momina era già ferma davanti alla bettola, e dentro la bettola era una confusione; la gente al banco ci guardava ostile. Va bene che noialtre potevamo anche essere ragazze delle case dirimpetto, ma a quell’ora e tutte insieme? in giro coi clienti? Queste cose io le immaginai, ma i ragazzi — lo stesso Loris — le dicevano forte. Mi resi conto ch’era tutta una burla che divertiva i ragazzi e che noialtre c’eravamo prestate da sceme. Non capivo Momina cascarci cosí. Ma Momina e Rosetta s’erano già sedute ai tavolini di latta arrugginita e facemmo circolo, si sedette Mariella, si sedette il pittore, si sedette la Nene. Via via che di noi ne entravano, diventava piú difficile parlarci e capire perché fossimo là. Il padrone fece scostare due ometti coi baffi, che bevevano nell’angolo, e ci ammassò tutti quanti vicino alle cassette di legno dei ligustri, sull’entrata.

Già prima, entrando nella via — c’erano pochi lampioni e [p. 376 modifica]finestre, questo sí — , avevamo visto una bancarella e l’uomo in bianco che vendeva torrone e castagnaccio. Poi gruppetti di soldati, di ragazzi che scantonavano vociando in un portone, e davanti al portone Fefé aveva dato un colpetto di tosse. Era largo, chiuso da una vetrata, semibuio, e risentii l’odor di piscio, di acetilene e di fritto che da bambina avevo sentito la sera sotto casa mia.

Nella bettola la Nene già si lagnava che dal suo posto non vedeva la strada. Nessuno di noi vedeva la strada: c’erano perfino le tendine ai vetri. Per osservare quel movimento e gustarlo bisognava stare in piedi al banco e di là sporgersi, guardare dalla porta, insomma muoversi. Il mezzo gobbo e il ragazzo elegante che ci avevano portate nella bettola, se la risero insieme e dicevano con Loris che una buona inchiesta sulla vita può farla soltanto una donna che abbia il coraggio di esercitare. Mariella stava sulle spine. Rosetta taceva un po’ ubriaca, col gomito sul tavolo.

Il padrone volle sapere che cosa bevevamo. Il locale era basso, rivestito di legno, sapeva di vino e di segatura bagnata. A parte la nostra baraonda e i discorsi scemi dei ragazzi, di Loris, era una solita osteria di gente tranquilla. C’era perfino una ragazza dietro il banco, e un soldato le parlava sbirciando noialtri. Da un momento all’altro avrebbe potuto entrare Becuccio.

Invece di rispondere al padrone, i nostri vociavano. Io devo dire che mi vergognavo. Cercavo di cogliere gli occhi di Momina o di Rosetta, di fargli cenno che venissero via. Ma Momina gridava qualcosa, animata, seccata contro Loris. Rosetta non rispondeva alle mie occhiate. La Nene era scomparsa.

Discussero, discussero, volevano il marsala all’uovo, dicevano che in questi casi si prende il marsala all’uovo. La piccolina vestita di raso rideva piú dei ragazzi, li eccitava, chiedeva dov’era la Nene e se aveva traversato la strada. Fosse stato possibile, sarebbe entrata lei coi ragazzi nel portone dirimpetto. Lo disse. Gettò perfino qualche occhiata al soldato.

Io mi aspettavo quel che poi successe. Tornò la Nene. Venne del vino — vino nero, del fusto — qualcuna di noi prese la grappa, prese l’anice, prese la china. Cominciò Loris a dire: — Padrona (alla Nene). Padrona, ci faccia vedere le ragazze. Queste che abbiamo sono porche da poco.

— Che ne sa, — disse Momina tra i denti.

Ridendo e gridando, cominciarono a dire che bisognava [p. 377 modifica]provarci, fare il confronto, dare un punteggio. Allora cominciò una discussione su chi di noi sarebbe stata la miglior prostituta; per doti d’animo e di corpo, disse il gobbetto. Venne discussa anche Mariella, che finí per infervorarsi e pigliare sul serio il punteggio. Quasi quasi litigò con Momina. Ma il vecchio pittore disse che tutte eravamo meritorie, ch’era questione di momento e di gusti, e il criterio doveva essere un altro, la tariffa, il locale dove avremmo potuto lavorare.

Qualcuno cercò di nominare tabarini e palcoscenici. — No no, — disse il gobbo, — qui si parla di vere marchette — . Andarono avanti per un pezzo. Alla fine erano rossi in faccia piú i ragazzi che Mariella. A Rosetta non trovarono un posto. — Crocerossina, — conclusero. — Ingenua per combattenti.

Ma non si fermarono qui. — Ci avete messi sul gusto, — cominciavano a dire. Adesso sulle spine ci stava Fefé. Già qualcuno era andato fin sulla porta e gettavano occhiate sceme da noi alla strada. Si alzò Momina e andò anche lei sulla porta. Li sentii ridere e rimbeccarsi. — Ecco ecco, — dicevano. — Entra un vecchietto. Entra una comitiva.

— Rosetta, — le chiesi freddamente, — lei si diverte proprio tanto?

Rosetta aveva gli occhi piú che mai infossati, e mi guardò con un sorriso vago. La Nene che si dibatteva a zampate col vicino, l’urtò. Rosetta ripiantò i gomiti sul tavolo e disse: — Domani è un’altra giornata, non le pare?

Tornò Momina dalla porta. — Quei fessi, — diceva, — quegli idioti. Ci sono andati.

Erano andati Loris, il gobbo e un altro. Lo dissero alla Nene. La Nene alzò le spalle, vuotò il bicchiere e tirò fuori una matita. Scrisse «porco» sul tavolino. Ci guardò sfacciata, supplichevole, sbronza.

Stavolta al gabinetto l’accompagnò Mariella, e al pittore che sorrideva bonario e a Fefé io dissi che pagassero il conto. Poi con Momina e Rosetta salimmo sulla macchina e ce ne andammo. Scesi quasi subito, a Porta Nuova. [p. 378 modifica]





XXX.

L’indomani Becuccio mi portò Febo in via Po. Fu una domenica vuota, inutile, perché passammo la mattina a ritoccare, a spegnere e accendere lampade, a fumare sigarette seduti in poltrona. Madame non era arrivata. La solita storia. Invitai Febo e Becuccio a colazione in albergo, per potermene stare zitta e riposare. Si attaccarono a parlare di politica e Febo diceva che in Russia non c’è libertà. Di far che cosa? gli chiese Becuccio. Per esempio, diceva Febo, di mettere su un negozio come il nostro, di arredarlo come piaceva a noi.

Becuccio gli chiese per quanta gente era fatto il nostro negozio. Febo disse che non importava la gente perché tanto il buon gusto ce l’abbiamo in pochi. Becuccio gli chiese se noi due, che avevamo diretto i lavori, eravamo stati liberi di fare di nostra testa. Febo rispose che in Italia era ancora possibile a un artista di far di sua testa perché i padroni che pagavano dovevano tener conto dei gusti del pubblico.

— Il pubblico vuol dire la gente, — gli rispose Becuccio, — e la gente non importa perché il buon gusto ce l’abbiamo in pochi. Chi decide, insomma?

— Decide il piú furbo, — disse Febo.

Becuccio disse che lo sapeva benissimo ma che questo era il male. Fu l’ultima volta che parlai con lui. Restò un momento dopo che Febo se ne andò, e mi chiese se tornavo a Roma presto. Gli dissi, se passava da Roma, di farsi vivo. Non mi chiese l’indirizzo di Roma. Sorrise, mi tese la mano (non portava piú il bracciale) e se ne andò.

Stetti sola tutto il giorno; passeggiai dalle mie parti in via della [p. 379 modifica]Basilica. Adesso la piazzetta, i portoni, le bettole mi spaventavano meno. Porta Palazzo si chiamava piazza della Repubblica. Per le viuzze vuote, nei cortili, vidi bambine che giocavano. Verso sera si mise a piovigginare, una pioggia fresca che sapeva d’erba, e arrivai fino in piazza Statuto, sotto i portici. Entrai in quel cinema.

Madame arrivò di notte in automobile, col marito e tutti quanti. Fanno sempre cosí. Mi svegliarono al telefono, io credevo fosse Morelli, buttarono in aria l’albergo, mi toccò rivestirmi e prendere con loro il caffè, sentire la storia di un temporale sugli Appennini. Tornai a letto ch’era l’alba; ero contenta perché ormai non toccava piú a me comandare.

Stando cosí nello stesso albergo, a distanza di un piano, non ebbi piú un momento di pace. A tavola, in via Po, in automobile, ero sempre con qualcuno. L’arredamento non dispiacque a Madame; trovò da dire sulla scala che non aveva le guide, e a un certo punto parlò di trasportare il negozio in via Roma. Poi partí per Parigi con due disegnatori e lasciò detto a me e al marito di preparare l’apertura per Pasqua. Passai le giornate telefonando e vedendo indossatrici, studiando programmi, facendo da segretaria e da padrona di casa. Rispuntò Morelli, spuntarono certe signore che chiedevano sconti, favori, impieghi per figliocce e conoscenze. A una serata nell’albergo rividi Momina e Mariella.

Poi Madame ritornò da Parigi, con qualche modello e con Febo. Quest’accidenti c’era andato di sua testa e l’aveva incantata, l’aveva convinta a metter su una compagnia di riviste per presentare i modelli. Cominciarono a vedersi in albergo e in via Po musicisti e impresari; non mi pareva piú Torino; fortuna che bastava cominciare una cosa perché l’indomani si pensasse già ad altro, e allora smisi di occuparmene e passavo le giornate in atelier.

Un giorno dissi: — Chi sa Rosetta — e telefonai a Momina. Vengo da te, — mi rispose, — non so cosa dirmi. Quella stupida si è uccisa un’altra volta.

Aspettai col cuore in gola la macchina verde. Quando la vidi al marciapiede, uscii dal negozio e Momina sbattè lo sportello, traversò il portico, mi disse: — Che fretta.

Era elegante, aveva un basco con la piuma. Salí con me in un salottino.

— È successo che manca da casa da ieri. L’ho cercata mezz’ora fa al telefono e la cameriera mi ha detto che è in gita con me. [p. 380 modifica]

Non c’era errore. Né Mariella né la Nene l’avevano vista. Momina non aveva il coraggio di telefonare alla madre. — Speravo ancora che fosse con te, — balbettò con una smorfia.

Le dissi che la colpa era sua; che, se anche Rosetta non si ammazzava, la colpa era sua. Le dissi non so che cosa. Mi pareva di aver ragione e di potermi vendicare. La insolentii come se fosse mia sorella. Momina guardava il tappeto e non cercava di difendersi. — Mi secca, — disse, — che credono che fosse con me.

Telefonammo alla madre. Non era in casa. Allora in macchina facemmo il giro dei negozi e delle chiese dove poteva esser andata. Tornammo alla villa, di dove volevo telefonare al padre. Ma non ce ne fu bisogno. Mentre scendevo dalla macchina la vidi avvicinarsi, grossa e nera, sotto gli alberi del piccolo viale.

Per tutto quel giorno, in compagnia dei due vecchi che urlavano, telefonammo e aspettammo e corremmo alla porta. A me pareva di esser stata sorda e cieca, mi tornavano in mente le parole, le smorfie, gli sguardi di Rosetta, e sapevo di averlo saputo, sempre saputo, e non averci fatto caso. Ma poi dicevo «Si poteva fermarla?» e dicevo «Magari è scappata come te con Becuccio» e rivedevo le smorfie, le parole, gli sguardi.

Poi cominciò a venire gente. Tutti dicevano: — La trovano. È questione di tempo — . Venne Mariella, venne sua madre; conoscenti e parenti; venne uno della questura. Nel salone arioso, sotto il grande lampadario, sembrava un ricevimento, e si chiedevano come può darsi che chi come Rosetta ha tanto bisogno di vivere, voglia morire. Qualcuno diceva che il suicidio andrebbe proibito.

Momina discorreva con tutti, tagliente e cortese. Non mancò qualcuna che mi parlò del mio lavoro e s’informò dell’apertura del negozio. Altri negli angoli cominciavano a dir la loro sulla storia di Rosetta. Io non potevo piú restare. Madame mi aspettava.

Tutta la sera mi rimasero in mente gli occhi stravolti della madre, la faccia istupidita e feroce del padre, e non riuscivo a non pensare che somigliava a Rosetta. Momina, che doveva telefonarmi, non si faceva viva. Ero in seduta coi disegnatori e con Febo. Mi alzai e andai io al telefono.

La cameriera mi disse piangente che la signorina era stata trovata. Era morta. In una camera d’affitto di via Napione. Venne Mariella al telefono. Mi disse con voce rotta che non c’erano dubbi. Momina e gli altri erano andati a riconoscerla. Lei no, non poteva, [p. 381 modifica]sarebbe impazzita. La portavano a casa. S’era di nuovo avvelenata.

A mezzanotte seppi il resto della storia. Passò Momina in albergo con l’automobile e mi disse che Rosetta era già a casa, distesa sul letto. Non pareva nemmeno morta. Soltanto un gonfiore alle labbra, come fosse imbronciata. Il curioso era stata l’idea di affittare uno studio da pittore, farci portare una poltrona, nient’altro, e morire cosí davanti alla finestra che guardava Superga. Un gatto l’aveva tradita — era nella stanza con lei, e il giorno dopo, miagolando e graffiando la porta, s’era fatto aprire.