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XXIV.
Volli parlare con Oreste. Non che lui mi sfuggisse, ma aveva un’aria tra sarcastica e offesa che scoraggiava. Lo fermai sulla scala e gli chiesi di farmi vedere il fucile.
— A caccia con te, — gli dissi, — potremo venire?
Fucile e carniere li avevano buttati su un divano nella stanza del biliardo.
Presi nel sacco una cartuccia rossa, e gli dissi: — È con una di queste che vuoi uccidere Poli?
Me la tolse di mano e borbottò: — Che c’entra?
Allora gli chiesi se mi lasciava parlare. A bassa voce (gli altri stavano in veranda) gli dissi che adesso che con Poli ci davamo tutti del tu, non potevamo non trattarlo come un amico. Gli pareva di trattarlo da amico? Quindici giorni prima, se Poli si fosse messo intorno a Giacinta, che pure non aveva sposato nessuno, che cosa sarebbe successo? Almeno sapessero non farsene accorgere. Un bel momento anche Poli, per quanto stufo, per quanto matto, per quanto incosciente, non avrebbe piú potuto chiuder gli occhi. Non era meglio che ce ne andassimo subito? tornarcene a casa, conservare un buon ricordo? Dove sperava d’arrivare?
Oreste mi ascoltò rosso in faccia e fu piú volte per interrompermi. Ma quando smisi di parlare, sorrideva un sorriso testardo e tacque guardandomi di sotto in su.
— Non è la stessa cosa, — balbettò in fine. — Non rubo niente io. E neanche vogliamo nasconderci. Anche lei è d’accordo.
— Si capisce che lei è d’accordo. È una donna. Ma come andrete a finire, lo sai?
Mi guardò un’altra volta, con una smorfia contratta. — È piú di un anno che si sono lasciati, — disse. — Lei non voleva piú ve-
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