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XXX.

L’alba ci trovò tutti quanti nella sala, a due, a tre, isolati, buttati qua e là. Cilli e un altro dormivano. Chi fissava le finestre, chi parlottava. Pieretto e Dodo centellinavano grappa.

Eravamo tornati alla spicciolata, dalla macchia, dai boschi, dal ciglione. La Pinotta, che andai a svegliare bussando alla porticina, ci bolliva il caffè.

I visi terrei nell’alba, si fecero lividi, poi rosa, e la luce elettrica impallidiva. Quando la spegnemmo ci guardammo intorno, sgomenti. Le donne furono le prime a rianimarsi.

Ripartirono a giorno chiaro, sulla ghiaia umida che quasi non scricchiolò. Il vecchio Rocco li guardò partire, presso la vasca dove immergeva un tubo.

— Torneremo, — vociavano. — Sull’autostrada si fa presto.

— Verremo a Milano, — gridò Gabriella dal ciglione.

Poli era già rientrato. Bighellonammo sulla ghiaia guardandoci intorno. Da un ramo basso di pino pendeva una sciarpa a scacchi. Urtai col piede un bicchiere sulla ghiaia, intatto. Adesso, nel mattino, alla luce consueta, non osavo cogliere gli occhi di Gabriella. Anche Oreste taceva, con le mani dietro la schiena.

— Gente stupida, — disse Pieretto. — Milanesi.

Gabriella sorrise straccamente. — Sei banale. Forse dicono lo stesso di noi.

— Colpa degli uomini, — disse Pieretto. — L’uomo si conosce dalle donne che sopporta.

Disse Oreste: — Tu non ne sopporti.

— Sentite, — disse Gabriella, — decidetelo tra voi. Me ne vado al restauro. Pace.


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