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III.

Di giorno sudavamo su certi esami; specie Oreste che studiava medicina. Io e Pieretto preparavamo legge e anzi avevamo rimandato a ottobre lo sforzo piú grosso: si sa che legge s’improvvisa e non comporta laboratorio. Invece Oreste dava dentro e non sempre usciva con noi la sera. Ma nel primo pomeriggio sapevamo dove trovarlo: lui che la casa l’aveva in campagna, a Torino affittava una stanza e mangiava in trattoria.

L’indomani di quella notte passai a cercarlo. Lo trovai in trattoria che rosicchiava una mela, col gomito sulla borsa, appoggiato di schiena alla parete. Mi chiese, nel caldo, se avevo già visto Pieretto.

Riparlammo, facendoci vento, di un progetto che avevamo quell’anno. Andare a far campagna nel paese d’Oreste noi tre; la sua cascina era spaziosa, ci saremmo divertiti. Ma l’idea di Pieretto e mia era di buttarci il sacco in spalla e andarci a piedi. Oreste disse ch’era inutile: di campagna e di caldo ne avremmo visto anche troppo una volta arrivati.

— Cosa dicevi di Pieretto?

— Crederai mica, — disse Oreste, — che stanotte sia andato a dormire?

— Magari studia.

— Facile, — disse Oreste. — Con quell’altro e la sua macchina. Non hai visto come vanno d’accordo?

Allora parlammo della notte passata, di Poli, di tutta quella stranezza. Oreste disse che non c’era da stupirsi. Lui con Poli si dava del tu, benché il padre fosse un uomo straricco, un commendatore di Milano che aveva quella tenuta enorme e non ci veniva


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