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In quei primi giorni avevo ancora in mente che Gabriella mi piacesse, che non ci fosse nessun male a starle vicino. Soli, con Oreste e con lei, potevamo discorrere senza che l’ombra di Poli ci mettesse a disagio. Non ci venivano in mente né lui né Rosalba, e se cadeva qualche accenno a quei giorni di Torino Gabriella era la prima a sorriderne. Ma il piú del tempo parlavamo poco: Oreste al solito taceva, io del tutto non mi fidavo, sentivo in lei come un distacco, un giocare superfluo; anche quando rideva battendo le mani. Forse Pieretto le poteva tener testa, ma anche Pieretto andava cauto. In fondo, a me piaceva piú che altro pensarci, pensare che vivevamo sul Greppo e anche lei ci viveva, che respirava come noi l’odore della macchia. La cosa piú bella era quando scendevamo alla grotta o alle vigne — mangiare la frutta selvatica, buttarci sull’erba, cuocerci al sole. C’era sempre una costa, un cantuccio, un groviglio di piante, che non avevo ancora visto, toccato, assorbito. C’era quel vago odor d’agosto, di salmastro terrestre, piú forte che altrove. C’era il piacere di pensarci di notte, sotto la grande luna che diradava le stelle, e sentire ai nostri piedi, da ogni parte, la collina segreta che viveva la sua vita.
Oreste ci nominò gli animali del Greppo. C’erano gazze, ghiandaie, scoiattoli, e c’era qualche ghiro. C’eran lepri e fagiani. Per me, già i grilli e le cicale mi cantavano giorno e notte nel sangue, davano voce all’estate, vivevano. Certe volte il loro frastuono era tale che mi faceva rabbrividire — doveva giungere alle serpi, alle radici sotterra. Mi chiedevo se i padroni del Greppo, non tanto Poli e Gabriella che non erano niente, ma l’antenato cacciatore e i guardiani di un tempo avevano amato questa terra, questo monte selvaggio, cosí come a me pareva di amarlo. Certo, meglio di noi l’avevano posseduto.
Una cosa la presenza di Gabriella mi aiutò a capire. Gliene parlai dentro di me, come a volte discutevo a voce bassa con Pieretto. Quell’abbandono, quella solitudine del Greppo, era un simbolo della vita sbagliata di lei e di Poli. Non facevano nulla per la loro collina; la collina non faceva nulla per loro. Lo spreco selvaggio di tanta terra e tanta vita non poteva dar frutto che non fosse inquietudine e futilità. Ripensavo alle vigne di Mombello, al volto brusco del padre di Oreste. Per amare una terra bisogna lavorarla e sudarla.
Eravamo tornati il giorno dopo a quel chiosco, e qui l’idea di
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