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— E chi sapeva ch’era ancora al mondo? Serve giusto per farci una gita.
S’era voltato alla porta, con quei gesti da uccello. Si strinse la giacchetta sui fianchi e partí.
— Elegante e sincero, — borbottai a Pieretto.
Pieretto scosse il capo e guardò il tavolo e le coppie. — Sono tutti sinceri, — disse convinto. — Mangiano, bevono e si vanno addosso. Che cosa pretendi? Che t’insegnino come si fa?
— Dov’è Oreste? — gli chiesi.
— Se fossi dei loro, tu faresti altrettanto...
Buttai giu un altro liquore e me ne andai.
Fu bello uscire nella notte e fermarmi sul ciglione. La musica e il baccano attutiti alle mie spalle, m’isolarono davanti al vuoto della campagna. Pareva di galleggiare fra le stelle.
Quando rientrai, presi Gabriella in disparte. — Oreste è fuori che aspetta, — le dissi.
— Se quello è pazzo...
— Non so chi di voi sia piú pazzo, — dissi. — Me, nessuno mi aspetta.
Allora rise e scappò fuori.
Di tanto in tanto si formava un crocchio, e Pieretto perorava, rideva, solleticava le donne. Nessuno aveva ancora proposto di uscire in massa sotto i pini. Il grammofono instancabile cantava. In fondo, era facile mescolarsi a quella gente. Né le donne né Dodo volevan altro che godere. Bastava godere con loro. Il mattino era ancora lontano.
I piú assidui a ballare erano Poli e quella magra dagli anelli. Venne un momento (Gabriella era uscita da non so quanto) che il grammofono tacque. Poli e la magra si fermarono abbracciati, stringendosi. Gli altri facevano crocchio intorno a Cilli che, inginocchiato sul tappeto, si prosternava uggiolando davanti a un ritrattino di Poli puntellato per terra. Pieretto assisteva, non ancora soddisfatto.
A un tratto Cilli cominciò le litanie. Mara, l’amica bionda di Dodo, si asciugò gli occhi che piangevano e supplicò di smetterla. Gli altri acclamavano Cilli. Poli s’accostò barcollando e rideva anche lui.
Ma Pieretto disse qualcosa. Disse che un dio che si rispetti porta
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