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X.

Ci andammo l’indomani. Era un corso d’acqua nel bel mezzo della conca che divideva il nostro poggio da un altopiano accidentato, e si scendeva dai vigneti, fra campi di meliga fino a uno spacco scosceso, pieno di gaggie e ontani. Là dentro, un filo d’acqua formava stagni successivi e uno ce n’era in fondo a un pozzo, da cui non si vedeva che il cielo e il ciglione di rovi. Nelle ore bruciate ci batteva il sole a perpendicolo.

— Che paese, — diceva Pieretto, — per mettersi nudi bisogna entrare sottoterra.

Perché il loro gioco era questo. Partivano da casa sul mezzogiorno, e poi passavano laggiú un’ora o due, nudi come le bisce, a bagnarsi e voltolarsi nel sole dentro la terra screpolata. Lo scopo era arrostirsi anche l’inguine e le natiche, cancellare l’infamia, annerir tutto. Poi risalivano a pranzo. Il giorno del mio arrivo venivano appunto di là.

Adesso capivo il parlare e l’agitazione delle donne. In casa non si sapeva della trovata di Pieretto, ma sia pure tra maschi, sia pure in mutandine, un bagno in mezzo alle melighe colpiva le fantasie.

Quel pomeriggio scopersi altre cose. Il primo giorno che si arriva in un luogo è difficile dormirci, se anche tutti vanno a fare la siesta. Mentre la casa s’assopiva e dappertutto nelle stanze brusivano mosche, discesi la scala di pietra e passai in cucina, donde veniva un tonfo sordo come di culla, e un parlottare. Ci trovai una delle sorelline e la mamma di Oreste, che a maniche rimboccate impastava con vigore sul tavolo aperto. Una vecchia, a una tinozza, lavava dei piatti. Mi sorrisero e dissero che preparavano


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