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feci sulla porta. Non c’era nessuno. Allora m’inoltrai su per la scala, pronto a sorridere casualmente. Le luci accese dappertutto davano un senso di solitudine. Nessuno, neanche di sopra. Allora entrai nella mia stanza, mi chiusi alle spalle la porta, accesi e spensi. Non c’era nessuno. Mi sedetti a fumare davanti alla finestra nel buio. Sentivo grida, voci vaghe, brusii, da sotto i pini. Pensavo al Greppo non piú vergine.
Un trepestio dal corridoio mi riscosse. Uscii e vidi la gonna celeste che svoltava per scendere. La raggiunsi a mezza scala.
Scendemmo insieme e Gabriella mi fece soltanto una smorfia. Le dissi: — Stanca? — Alzò le spalle. Non le chiesi di Dodo.
Uscii anch’io sotto i pini. Sentii strilli femminili e la risata raschiante di Pieretto. — Si divertono, — dissi.
Lasciandosi cadere sui gradini, Gabriella mi prese la mano e con forza mi tirò giú. — Stai qui un momento, — mi disse, con un tono di congiura.
— Se arriva Oreste, — borbottai.
— Ti dispiace? — sorrise. — Vuoi bere?
— Senti, — le dissi. — Cos’hai fatto con Oreste?
Non mi rispose e teneva sempre la mia mano. Sentivo il suo fiato e sentivo il profumo. Posai la guancia sulla sua e la baciai.
Mi scostò. Non disse nulla e mi scostò. Non le avevo toccato la bocca. Non mi aveva risposto. Adesso il cuore mi batteva, lo sentiva anche lei.
— Stupido, — disse freddamente. — Hai visto? Ho fatto questo con Oreste.
Ero avvilito e disperato. L’ascoltai a testa bassa.
— Voi siete ragazzi, — mi disse, — anche Oreste, anche quell’altro. Che cosa volete? Siamo amici, e poi? Finisce qui. Quest’inverno tornate a Torino. Anche Oreste deve tornare. Devi dirglielo. Oreste ha una ragazza, se la sposi. Io non c’entro.
Tacque. Dopo un po’, borbottai: — Sei gelosa?
— Oh smettetela. Ci manca questa.
— Allora è Poli che è geloso...
— Non dire sciocchezze. Devi soltanto dire a Oreste che non posso disporre di me. Glielo dici?
— Cos’hai? piangi?
La sua voce era tesa. — Sí, digli che piango. Deve capire che Poli è malato, voglio soltanto che guarisca.
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