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XIX.

Cosí anche Oreste rimase a vivere sul Greppo. Scappava a volte in bicicletta e poi tornava. La collina sembrava cuocere al sole d’agosto; caprifoglio e mentastro le facevano intorno una parete invisibile, ed era bello aggirarcisi e, giunti sul punto di sbucarne fuori, nel sottostante bosco di càrpini, tornare indietro nella macchia, come un insetto o un uccello. Pareva d’averci le zampe invischiate, in quel profumo e in quel sole. Al pomeriggio scendemmo in gruppo, i primi giorni, per le coste ripide, fino alle viti soffocate d’erba; e una volta aggirammo tutta la collina, giungendo tra i rovi a un piccolo chiosco nero, per le cui crepe si vedeva il cielo. Ma né di siepi né di viottolo d’accesso c’era piú traccia; il versante era tutto sodaglia, per quanto un tempo fosse stato giardino, e la baracca un padiglione. Oreste e Poli la chiamavano la pagoda cinese e ricordavano quand’era ancora vestita di gelsomini. Adesso, accostandoci, sentimmo fra le ortiche uno strepito di topi o ramarri — la collina se l’era mangiata. Ma il contrasto non metteva tristezza, la macchia appariva tanto piú vergine e selvatica. Le nostre voci tra i cespugli non bastavano a violarla. Quell’idea che nei boschi il gran sole d’estate sappia di morte, era vera. Qui nessuno rompeva la terra per cavarne qualcosa, nessuno ci viveva: un tempo avevano provato e poi smesso.

Pieretto disse a Gabriella: — Non capisco perché voi due non ci passiate l’inverno in questo chiosco. Mangereste radici. Trovereste la pace dei sensi... D’estate la campagna è disgustosa, è un’orgia sessuale di polpe e di succhi. Soltanto l’inverno è la stagione dell’anima...

— Che ti piglia? — disse Oreste.


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