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XVII.

All’imbrunire Oreste se ne partí seccato in biroccio, e fu notte sul Greppo. Riuscii a ritrovarmi solo, sotto i pini, in attesa dell’ora della cena. Pieretto e Poli discorrevano accanto alla vasca. Poli che tutto il giorno aveva girato col viso gonfio e affaticato, parlava sommesso — mi pareva quella notte in collina, la notte degli urli d’Oreste. Sentivo di là dalla siepe gli scatti di Pieretto, le sue uscite perentorie. Poli si lamentava, parlava di sé, del suo corpo. — Quando ho capito che dovevo guarire, che dovevo rifarmi come un bambino... Certe cose non si sanno mai bene. Morire non mi ha fatto paura. È difficile vivere... Sono grato a quella poveretta che me l’ha insegnato...

Parlava adagio, infervorato, con quella voce bassa e chiara.

— ... In fondo a noi c’è una gran pace, una gioia... Tutto di noi nasce da qui. Ho capito che il male, la morte... non vengono da noi, non siamo noi che li facciamo... Io Rosalba la perdono, mi ha voluto aiutare... Adesso tutto è piú facile, anche Gabriella...

Pieretto l’aveva interrotto con un ringhio. Gli disse: — Storie — credo in faccia. Le due voci si urtarono un istante, e vinse quella di Pieretto.

— Faccia tosta, — diceva. — Con me non attacca. Né Rosalba ha voluto aiutarti, né tu hai diritto di compiangerla. Eravate due porci... Lasciala stare l’innocenza.

Poli parlava a voce bassa. — ... Era tutto deciso. Non siamo noi che ci diamo la morte...

Le voci si allontanarono sotto la luna. Fiutai l’odore dei pini, nell’aria ancora tiepida. Sapeva quasi di marino, pungeva. Tutto quel giorno avevamo vagabondato nelle macchie, scendendo a


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